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sabato 23 novembre 2019

Letture - 403

letterautore


Dante – Non conosceva i Greci: al suo tempo non c’era un’idea dela classicità greca, se non attraverso i latini. “Omero”, nota Ernest Robert Curtius, “Le letteratura europea e il Medio Evo latino”, 1948, “l’illustre progenitore, era poco più che un nome nel Medio Evo. L’Antichità medievale è l’Antichità latina”.
Curtius spiega anche l’origine del “viaggio”. Che non è il viaggio di Maometto, naturalmente. “Ma il nome doveva essere fatto”, nella “bella scola” del limbo: “Senza Omero non ci sarebbe stata l’“Eneide”: senza la discesa di Odisseo nell’Ade niente viaggio virgiliano nell’altro mondo; senza quest’ultimo niente “Divina Commedia””. Quello che Dante sapeva della classicità greca, poco o molto, era attraverso il filtro degli autori romani, e attraverso le traduzioni medievali, inaccurate, adattate o falsificate, e allegorizzate.

L’appartenenza di Dante ai Fedeli d’Amore è “dimostrata” da Gabriele Rossetti ne “La Beatrice di Dante”, che La Vita Felice ripropone, analisi dei messaggi esoterici della “Divina Commedia”. Apprezzata da molti, e in particolare da Pascoli. 
Rossetti aveva avviato l’esilio londinese approntando nel 1826-7 un “Commento analitico alla Divina Commedia” - sarà pubblicato, in sei volumi, nel 1877, ventitré anni dopo la morte. I Fedeli d’Amore erano una setta segreta per una riforma radicale della Chiesa, con l’abbandono del potere temporale e il ritorno alla spiritualità – insorgenza ricorrente nella storia della chiesa.
Poeta in carica al San Carlo negli anni napoleonici, autore di alcuni libretti d’opera, nonché conservatore del museo archeologico di Napoli,  fu in esilio a partire dal 1820. Dapprima a Malta, nel 1824 a Londra. Professore di lingua e letteratura italiana al King’s College.

Falsi – Perché non ci sarebbe lo scrittore di falsi, come c’erano i falsificatori in pittura? Tommaso Debenedetti, nipote di Giacomo, il più famoso italianista del Novecento, figlio di Antonio, lo scrittore, ci ha provato, e ci è riuscito. Nella sua bio wikipedia, in inglese, Tommaso Debenedetti si dice anche insegnante a Roma, insegnante di scuola. Ora cinquantenne, ha fabbricato una decina di anni fa interviste con Gorbaciov, il Dalai Lama, Benedetto XVI, e con scrittori in voga, Philip Roth, Grisham, Vargas Llosa (che lo ricorda nel suo ultimo libro, “Note sulla morte della cultura”, dicendolo “un eroe della civiltà dello spettacolo”), Saramago, Yehoshua. Pubblicate da giornali anche importanti, della catena Riffeser.
Ha pure aperto falsi account twitter di personaggi famosi, per diffondere bufale e cattiverie, riprese da giornali anche importanti. “Guardian”, “New York Times”. Su wikipedia spiega che lo ha fatto “per mostrare quanto è facile ingannare la stampa nell’età dei social media.
Tommaso Debenedetti si è esercitato di fatto in pastiches,  imitazioni, genere nel quale Proust, che molto se ne dilettò, eccelleva.

I falsi in letteratura e nelle storie sono diffusi, dai Vangeli a Ossian, con gli artifici ricorrenti dei documenti ritrovati (Manzoni, la Donazione di Costantino...), e dei viaggi-scoperte (da Erodoto in poi), ma sono creazioni, artifici narrativi. Non opere falsate, plagi.

Gimpel - È il Giufà ebraico. No propriamente, c’è già uno Djha nel’ebraismo sefardita: è il Giufà dell’ebraismo askenazita. Completa la figura del “Candido” delle grandi tribù mediterranee: Gimpel va aggiunto ai repertori già compilati, da studiosi e curiosi, del carattere nelle varie lingue e nazioni mediterranee, il personaggio sciocco e intelligente: accanto al Giufà nordafricano, al Karayozi greco, al Karaguz dei turchi jonici, Nasreddin Hoca nell’originale sufi, in quello che si ritiene l’originale,Guha in Egitto, Djoha nell’ebraismo sefardita, Djuha nel Maghreb, Giucà a Trapani, Giucca in Toscana. Giufà è la moneta comune in quanto personaggio ubiquo in ogni angolo del Mediterraneo. Con nomi anche simili, oltre che con aneddoti comuni. Il prototipo è uno Giuha. Che diventa Djeha in Algeria e in Marocco, Goha in Egitto, Jodja (Nasreddine Hodja) in Turchia, Giufà in Sicilia e Calabria, anche Iugale, Giaffah in Sardegna, Gihane a Malta, Giucca in Toscana, Giucà in Albania.
Gimpel è quello yiddisch dei racconti di Singer – con cui Isaac Bashevis Singer, ebreo polacco da quasi vent’anni immigrato negli Usa, esordì nel 1953 a 51 anni in inglese (tradotto da Saul Bellow), su una grande rivista americana, la “Partisan Review”, col famoso incipit: “Sono Gimpel l’idiota. Non che io mi senta un idiota. Anzi. Ma è così che mi chiama la gente”.

Holodomor   O la “morte per fame”: è una “celebrazione” al rovescio, con un luogo, oggi, il 23 novembre,  dell’identità ucraina, che i governi di Kiev tentato d’imporre in funzione antirussa. E s’intende un genocidio degli ucraini in massa, nel 1932-33, come effetto della carestia seguita alla nazionalizzazione delle terre. Si ridiscute, in chiave nazionalista ucraina antirussa, l’ipotesi che la grande carestia sofferta in Ucraina, il paese del grano, per effetto della collettivizzazione forzata nel 1933, non sia stata voluta da Stalin, per punire gli ucraini, che nella guerra  civile avevano parteggiato più spesso per i Bianchi.
In questo senso si era pronunciato a fine 1933 il poeta Mandel’stam, pur convinto bolscevico, in un “Epigramma di Stalin” subito famoso: Stalin “il montanaro del Cremlino”, “le cui tozze dita come vermi sono grasse” – da qui la persecuzione, che cinque ani dopo portò il poeta alla morte in un gulag presso Vladivostok.

Opinione pubblica – “Qualcosa di più forte della verità, l’opinione pubblica”, R. Polanski.   

Pinocchio – Conosciuto in tutto il mondo eccetto che in Russia? Dove non è stato tradotto ma adattato, negli anni 1930, da Alekej Nikolaevič Tolstoj, lo scrittore sovietico lontano parente dell’autore di “Guerra e pace”. Chiamato Burattino, è l’esatto opposto di Pinocchio: un ragazzino “positivo”, in lotta contro il padrone del teatro dei burattini, Carabas Barabas – la storia finisce con l’esproprio del teatro da parte dei burattini di legno.
Sul Pinocchio vero, in compenso, è corsa a lungo sulla rete in Russia dal 2003-2004, e tuttora circola, la favola che un gruppo di archeologi americani, di Boston, scavando a San Miniato al Monte la tomba di un certo Pinocchio Sanchez, vicino alla cripta di Carlo Collodi, hanno rinvenuto i resti di un Pinocchio: una gamba e il naso di legno di un nano – protesi che avevano sostituito gli arti perduti dal nano in guerra al fronte.

Rivoluzione francese – Lasciò i Carbonari, e un po’ di massoneria, ma fu risentita  si comportò come orza d’occupazione e rapina: i soldati di Napoleone e dei suoi ufficiali todos caballeros – tutti generali e duchi, come poi nell’Italia dei telefoni bianchi, quando le mantenute erano contesse – erano abilitati al bottino, i nobilastri loro comandanti pure, e la “Rivoluzione” stessa si portava a casa tutto il trasportabile, e anche di più. Alla mostra romana di Canova si espone distrattamente una delle cose che si tacciono, a proposito dell’incarico che Canova ebbe, caduto Napoleone, di negoziare a Parigi, con le sue amicizie, qualche restituzione. Una litografia, una scena riprodotta quindi in molti esemplari, offerta al Consiglio rivoluzionario il 21 Floreale del’anno V della Repubblica da due privati cittadini (due funzionari addetti ai trafugamenti?), è intitolata dagli stessi: “Terzo convoglio di Statue e Monumenti” da Roma “per il Museo nazionale di Parigi”. Vi sono rappresentati quattordici carri stipati al massimo, grazie a legature robuste, trainati da cinque e sei pariglie di buoi.

Russia – Si direbbe che con la libertà ha perduto il genio. La Russia degli zar e quella sovietica abbondavano di poeti, fino a Brodskij e Evtushenko, musicisti, sia compositori che esecutori, narratori, anche non emigrati, compreso qualche pittore, poi più niente. 

Stupro per omonimia – Emanuelle Seigner, nell’ultimo film di Polanski, “L’ufficiale e la spia” (“J’accuse” il titolo originale, come quello del pamphlet di Zola contro gli accusatori di Dreyfus – il film racconta il caso), premio della giuria a Venezia, amante dell’eroe, il capitano Picquart dei servizi segreti, si chiama nel ruolo Pauline Monnier. Pronta all’uscita del film l’ex modella e attrice Valentine Monnier, oggi 63 anni, si è ricordata che nel  1975 Polanski l’ha stuprata.

Veganismo – Si può dire anticipato di un secolo da Michelet, “Il mare”, al cap. VIII del libro II, a proposito degli aliotidi, “meravigliosa conchiglia”, e di altri crostacei: “Poveri erbivori, della più sobria alimentazione – refutazione vivente di quelli che credono oggi  la bellezza figlia della morte, del sangue, dell’assassinio, di una brutale accumulazione di sostanza”.

letterautore@antiit.eu

La bellezza in copia

Il legame tra Canova e Roma, sua ispirazione e suo palcoscenico, in “170 opere e prestigiosi prestiti fra importanti musei e collezioni italiane e straniere”, come dice il catalogo. Di cui tre marmi – due in prestito dall’Ermitage, la “Danzatrice con le mani sui fianchi”, che chiude la mostra, e una testa.
Una mostra di gessi e disegni, didascalica. Con ambientazioni originarie, specie per i posteriori, che Canova curava, con visibilità a tutto tondo, oppure a mezzo di specchi. E illuminazione notturna, quella che Canova prediligeva quando aveva clienti nell’atelier di via delle Colonnette, angolo col Babuino – far muovere le sue curve, fidiesche, alla luce ondeggiante delle candele.
Lo stesso effetto raggiunge Mimmo Jodice, che molto fotografò i marmi di Canova. Trenta dei suoi studi sono esposti alla mostra.
Una installazione introduce, ideata da Magister, realizzata in collaborazione cobn Robotor, che vede protagonista un robot. Invisibile, ma che si sa ha lavorato 270 ore alla realiaazione su marmo, marmo di Carrara, scelto secondo le regole canoniche e canoviane, di una copia di “Amore e Psiche giacente”. “Amore e Psiche”, la favola di Apuleio, l’amore adolescenziale, ha a lungo appassionato Canova, e questa è la formulazione più ambiziosa e meglio risolta.La copia in marmo è stata fatta sul gesso preparatorio, oggi al Louvre.
Una installazione importante. Perché apre nuove strade all’industria della copia. E conferma che la copia, per quanto perfetta, è sempre deludente – come i gessi. Non è solo questione di patina, la “mano dell’artista” esiste, per quanto invisibile, o indefinibile.
Canova fu incaricato dal papa Pio VII, alla Restaurazione, di recuperare qualcosa dell’ingente bottino di opere d’arte appropriato dai francesi, e in parte ci riuscì. Era stato tiepido nei confronti dell’occupazione francese di Roma, anche se intervenne mentre era al culmine del successo come giovane Grande Scultore, e novello Fidia. E fece statue di napoleonidi, oltre la famosa Paolina – chw qui non c’è, nemmeno in gesso. Compresa una in cui ingigantiva lo stesso Napoleone, che all’imperatore non piacque e la fece relegare in cantina (una copia è visibile a palazzo Bonaparte, dove visse cioè i suoi ultimi anni Letizia Ramorino, la mamma, recentemente riaperto al pubblico, a piazza Venezia angolo via del Corso).  
Canova. Eterna bellezza, Museo di Roma, palazzo Braschi

venerdì 22 novembre 2019

L’amore più caro della vita

Un giorno di novembre che a Roma può essere tiepido e dorato, Franceschino incontrò Maria all’angolo con la casa della Fornarina, una bellezza esotica e familiare. Per la pienezza delle carni e la maturità del gesto, sotto l’occhio sbarazzino nel colorito biondiccio.
Franceschino, che trascorrendo vita precaria emergeva da terre umide e buie, assaporava il tepore delle pietre e l’aroma degli amori impregnati nei muri e nei cespi di rose, e ne ebbe il cuore traboccante. 
Fu questo stesso eccesso a prendere lei. Spiegò a lui, per quel poco che parlava invece di colmarlo con lo sguardo, che qualcosa d’impossibile incombeva. Che lui non considerava, come se sapesse. E più spesso lei lo evitava. Prendeva strada attraverso i giardini, o su per la collina, a ore antelucane o imprevedibili, e forse per corridoi oscuri dentro il palazzo dei carabinieri, gallerie che portavano all’antica accademia, camminamenti nella prigione. Ma lui paziente aspettava all’angolo della porta Settimiana, e ne era premiato.
Era un gioco di destini, la cui attesa si riempiva, a ore, a giorni, di sbocchi di vitalità. Anche dopo, per un tempo, che egli alla porta ebbe incontrato invece i suoi cacciatori sotto irriconoscibili sembianze, che lo avevano perduto e non se lo fecero scappare, trasportandolo su e giù per celle senza porte e senza suoni in ceppi. Fino a quando non ne perderà la memoria. Benché si viva, sembra, anche in carcere, ogni sensazione essendo un ricordo.

La borghesia si squaglia senza Marx

Ironico e paradossale, ma non del tutto. Eagleton è un critico letterario, ma è gramsciano, e quindi ha un occhio per tutto. Spaziando da Wittgenstien, di cui ha scritto il film per Derek Jarman, al “Marxismo senza marxismo”, di Derrida e altri. Qui la prende alla larga: “Si può capire che il sistema capitalista è in difficoltà se la gente comincia a parlare del capitalismo”. E scrive tera terra, che tuti possano seguirlo.
Il “sistema” nom funziona. È il 2011, e gli effetti della crisi del 2007, negletta ma grave e gravissima, fanno dubitare del “sistema”. Già il “Times” un paio d’anni prima, il giornale conservatore, intitolava: “È tornato!” Non è successo. Ma incombe: niente è stato risolto della crisi – e nemmeno aggiustato, a credere agli scontri protezionistici in atto.
Eagleton non sa o non vuole vedere dove e come Marx avrà ragione. Si limita a confutare “dieci delle più conosciute  critiche di Marx”, nel passato, nell’Otto-Novecento. Ma sgomberando il campo dai falsi marxismi, apre una porta: qualcosa dovrà pur succedere, di “marxiano”, la borghesia dovrà pure svegliarsi, prima di perire. Vale quanto spiega sorridendo al cap.1: “Non è che abbiamo scoperto con sgomento che Marx era a libro paga del capitalismo. Lo abbiamo sempre saputo. Senza le filande Engels a Manchester Marx non  sarebbe sopravvissuto”. Fisicamente, intende Eagleton. Ma di più è probabile: che ne sarebbe stato della borghesia, nel secolo e mezzo passato, senza Marx? Non esisteva prima, e nessuno l’ha illustrata così tanto e con tanta competenza. Senza Marx, oggi lo vediamo tutti, la borghesia si squaglia – si agita, ma come un gregge imbufalito, caricando a testa bassa.
Eagleton è, da letterato, uno studioso della “ideologia”: termine, portata e concetto. Dovremo dire:  perché Eagleton aveva ragione? La traduzione è forse l’ultima pubblicazione delle gloriose edizioni Armando, a lungo benemerite della pedagogia e all’improvviso scomparse - con la pedagogia?
Terry Eagleton, Perché Marx aveva ragione, Armando, pp. 240 € 19

giovedì 21 novembre 2019

Ombre - 488

La Banca d’Italia segnala che del nuovo Meccanismo europeo di Stabilità non potrà beneficiare l’Italia, anche se lo finanzia, con ben 14 miliardi. Poi dice che no, la non-applicazione non è automatica. Che è la stessa cosa: l’Italia dovrebbe tagliare il valore dei suoi bot del 50-60 per cento… - il fallimento delle banche, che ne sono le sottoscrittrici.
Questa non è l’Europa, è la Banca d’Italia. Quando lo stampo è dem(ocristiano).

Il fallimento delle banche naturalmente è impensabile – nonché delle famiglie detentrici di bot. Dà la pelle d’oca la Banca d’Italia che ne tratta con nonchalance
Conte sì, può darsi che non sappia quello che dice – ne dice tante, in ogni momento del giorno. Ma la Banca d’Italia? Non si rende conto che il semplice prospettare l’abbattimento del debito lo abbatte?

Gli ayatollah fanno sparare sui dimostranti con centinaia di morti. Da una settimana almeno. Ma la cosa non fa notizia.
Non fa notizia neanche che siano dei religiosi a fare sparare. Poi si dice che uno ha paura dell’islam. Religione che evidentemente si fa riverire dai media.

Va Renzi da Vespa e, in solitario, per una buona mezzora, conciona contro la burocrazia che blocca tutto. Ritardi in effetti straordinari, costosi, delittuosi. Ma lui ha governato per tre anni, e ha diretto per quattro o cinque il maggiore, allora, partito politico. La burocrazia non è il governo, le leggi?

Attacca esplicito il papa, il silenzio del papa, il cardinale di Hong Kong, Joseph Zen, con Santevecchi sul “Corriere della sera”. Non è un caso, si sa che il papa non è ben visto tra i cardinali. Ma dice una cosa che nessuno, nessun vaticanista, nessun gossipparo, ha detto: che il papa ha invitato a giugno i preti cinesi a sottomettersi alla Chiesa Patriottica del partito Comunista Cinese. Si parla tanto di notizie false, ma le omissioni?

Un’azienda napoletana di confezioni che lavora à façon per i marchi milanesi del lusso si scopre che era piena di dipendenti in nero. Grandi articoli, grandi spazi in tv, ma non il nome dell’imprenditore. “L’azienda è sempre stata affidabile” non è la difesa dei grandi marchi milanesi, ma dei giornali. Perché, si sappia, “le aziende dell’alta moda richiedono situazioni trasparenti e  lavoratori «in chiaro», preferibilmente italiani – per questo tanti si rivolgono agli opifici napoletani che non impiegano manodopera cinese” – Anna Paola Merone, “Corriere della sera”. Una garanzia.

Si nominano dappertutto commissari. Per prevenir e la corruzione (Mosé) o per risanare aziende fallite, Alitalia, Ilva, Monte dei Paschi…. Supermanager con superstipendi. Che mandano Venezia sott’acqua. E cacciano le imprese siderurgiche da Taranto. Questi sono proprio da ricordare: Francesco Ardito, Antonio Lupo e Antonio Cattaneo, tre avvocati, di cui i primi due di paese, Fasano e Grottaglie.     

Il patriarca di Venezia Moraglia ci tiene a far sapere a “la Repubblica” nei giorni dell’allagamento: “In questi giorni dormo poco, scendo nella basilica e prego per i veneziani non per i monumenti”. Non poteva pregare per gli uni e per gli altri?

Conte fermo: “Non permetteremo che spengano i forni, andremo in tribunale e sarà battaglia durissima”. Ma l’Afo2, l’altoforno  centrale, chiude a metà dicembre, spento dai giudici di Taranto. Andrà in tribunale contro i giudici? Un avvocato pasticcione.

La Procura di Taranto che programmava da tempo, facendone il preannuncio a ripetizione, di spegnere l’altoforno centrale di Taranto, ora vuole ar gabbio i Mittal che chiudono la fabbrica per “sabotaggio dell’economia”. Questa però non è male: se è un reato, quanti giudici ar gabbio?

Grandi spazi su “7” a una dirigente di Cambridge Analytica pentita. Proprio quella che spiava e indirizzava gli elettori. Pentita nel senso che, dopo aver fatto carriera con la pubblicità subliminale, ora punta al best-seller col racconto delle sue malefatte.

La manager pentita di Analytica spiega: Basta spostare l’1-2 per cento del voto”. Un calcolo semplice, ovvio a uno studioso, anche piccolo: bastano spostamenti minimi per fare le maggioranze. Specie nei sistemi maggioritari. Ma non in Italia, dove si cambia legge elettorale a ogni tornata alla ricerca di quella perfetta – a Roma si giunse in un “poll day”, a votare con cinque sistemi differenti, per la Camera, il Senato, la Regione, il Sindaco, la circoscrizione (poi dice che gli elettori non vanno a votare). 

Fabio Mussi a Stella, su “7”: “Io so che il Pd nasce nel 2007 con 12 milioni di voti e in dieci ani è sceso a 6 milioni”, Lo sa solo lui?

Ancora Mussi: “Da una parte la scienza che fa passi avanti enormi e dall’altra rigurgiti di medioevo. Trump, Bolsonaro, Duterte, Orbàn, Salvini… Una dimensione tribale della politica, Il nazionalismo il razzismo, l’antisemitismo…. Una scienza avanzatissima e un medioevo politico”.

Erdogan fa riarrestare lo scrittore Altan dopo una settimana di libertà vigilata, per “pericolo di fuga”. L’ha fatto arrestare e tenere in prigione tre anni perché accusandolo di “propaganda subliminale” per un colpo di Stato – perché è andato in televisione con la nomea di suo oppositore. L’Alto Rappresentante della Ue, Federica Mogherini, fa un appunto procedurale: “Mancano motivi credibili” per il riarresto. Erdogan, che ha più prigionieri politici della Cina e dell’Iran, benché la Turchia abbia una popolazione inferiore, trattato con i guanti. Quale sarà il motivo?

Napoli al bar

Le imprese del Napoli, la squadra di calcio. Rivissute al bar.
Maurizio De Giovanni, Il resto della settimana, Bur, pp. 303 € 12
P.S. – Tante recensioni, nessuna che lo dica - di uno scrittore rinomato di gialli?
P.S. 2 - Certo, leggerlo in questa stagione del Napoli non è colpa di De Giovanni.

mercoledì 20 novembre 2019

Problemi di base attuali - 523

spock


Non ci sono leader politiche di sinistra, solo di destra: il femminismo è di destra?

Piove troppo, o troppo poco – poiché gli elefanti muoiono di sete?

Dunque, questo Mosè: non solo è egiziano, ma non salva nemmeno dalle acque?


Le sardine bolognesi sono i nemici di Salvini o i suoi angeli – per portare al voto i salviniani indecisi?

Perché non ci sono giudici idrologi, come ce ne sono di siderurgici: non vogliono bagnarsi?

E di ecologisti – perché la giustizia fa tanto male all’ambiente?

Ma Taranto, va tenuto aperto o va chiuso?

spock@antiit.eu

Non è saggio Moravia nei saggi

Un libro sfortunato, giustamente. Una raccolta di “saggi” letterari, qualcuno monografico (lungo), Machiavelli, Manzoni, Hemingway, ma tutti nervosi: perentori, liquidatori – semplicisti. Lo sapeva pure Moravia: dopo la prima edizione, 1964, che qui si ripropone, non apprezzata da nessuno, la ridusse nelle successive a un terzo, dodici invece che trentatré “saggi”, senza spiegazioni. Ma scarsamente ristampata, benché Moravia per tutto il secondo Novecento sia stato l’autore più venduto.
Oppure, si può dire, una raccolta tutta sua, del vero Moravia. Procede nei saggi a passi militari, destr-sinistr, marsc. Tranciante: conseguente, definitivo. Molto chiaro, molto semplice: un capoverso concatenato al precedente. Logico, assennato – infastidito che la “critica” bisogna farla, tanto, assume, è evidente. Scrittore di mente naturalmente critica, e quindi ordinato. Va per concatenazioni, una casella aprendo la successiva senza possibilità di errore o deviazione – non di dubbio. Si direbbe come un bulldozer. Naturalmente intelligente, molto – è scrittore critico anche nella narrazione. 
I temi sono quelli dell’arco temporale dei “saggi”, 1941-1963. Poco o niente dicono del contesto dei primi anni. Se non indirettamente, col Machiavelli, una sintesi o estratto di esercitazioni su Machiavelli e il “machiavellismo”, che da soli avrebbero dovuto comporre un volume, già nel 1949, secondo un progetto poi abbandonato. Gli altri, anni 1950, suonano giaculatorie, oggi, della questione “comunista” (guerra fredda, Occidente, sovietismo, ideologia, propaganda): Moravia, che sarà nel 1984 eurodeputato per il Pci (“indipendente nelle liste del Pci”, cioè con i voti del Pci), era in quegli anni fieramente atlantico, benché non trinariciuto e già “compagno di strada”. Queste terminologie dicono tutto, anche dei suoi saggi: sono reperti interessanti perché quel passato oggi si trascura, anzi si elimina.  
L’editore, che ne ha acquisito di recente i diritti, giustamente lo ripropone, Moravia non si ristampava più da quasi vent’anni – curiosamente, ne ripropone più l’opera saggistica, di viaggi, curiosità, impressioni, che quella narrativa. Un’ottima edizione, corredata da una corposa nota ai testi. Simone Casini, che cura la raccolta, onesto presenta la riedizione del Moravia saggista letterario, “pur così lontano dal nostro tempo per mille ragioni”, per consentirne la messa a fuoco. In effetti Moravia, anche come narratore, resta un po’ un enigma. Benché sia stato il dominus della scena letteraria, non solo romana, del secondo Novecento.
Sono questi saggi letterari come tutto in Moravia, uomo socievole e con l’ambizione di raccontare la società, ma solitario nella formazione in gioventù e poi sempre, autodidatta, autosufficiente. Quindi brusco. Impermeabile anche al contatto quotidiano, con Morante, Pasolini, Maraini. Poco studioso e in definitiva anche poco curioso. I saggi letterari più famosi, su Manzoni, su Hemingway, sono i meno interessanti - nonché non condivisibili. Il suo corpo a corpo con Manzoni, una sfida tra Grandi Romanzieri, meritò di presentare “I promessi sposi” nei prestigiosi Millenni Einaudi (perché sviluppava le annotazioni di Gramsci in carcere... - erano i tempi, del conformismo) ma oggi fa sorridere – sotto i colpi di maglio di Gadda, ma non solo.
Alberto Moravia, L’uomo come fine Bompiani, pp. 464 € 16

martedì 19 novembre 2019

La Repubblica presidenziale

Ex-Ilva, Finanziaria, Mes, fobrillszioni tra i parti di maggioranza, non c’è problema politico che Mattarella non governi. Napolitano faceva i governi. Mattarella fa i governi e li governa, minutamente. Sull’ex Ilva parla con i sindacati convocati al Quirinale; con i Mittal, via ambasciata; e chissà sui giudici intromettenti, le vie del Signore son infinite. E ha indicato la soluzione – ristrutturazione radicale dell’acciaieria.
Abbiamo la repubblica presidenziale senza bisogno di riforma costituzionale. E senza sottoporre il presidente a una campagna elettorale, defatigante.
Si capisce che Renzi si sia smarcato dal Pd di Zingaretti, dell’ex Pci: vuole essere decisivo nella elezione del presidente fra tredici mesi. Lo dice anche, nell’intervista oggi al “Corriere della sera”. Ma si fa finta di niente.
Non è una presidenza autoritaria - come non lo era quella di Napolitano. Il presidente della Repubblica cresce perché il Parlamento è inesistente, dopo lo squagliamento dei partiti. Avevamo una repubblica partitocratica, per il male  per il bene. Non abbiamo niente, dacché gli italiani eleggono parlamentari venuti dal nulla.

Il mondo com'è (387)

astolfo


Curdi – Hanno una storia ma non un paese. La nazionalità curda che l’Europa vittoriosa non riconobbe al dislocamento dell’impero ottomano, nei trattati di pace di Versailles, dividendo l’impero fra varie tribù arabe e turchi, era l’unica nella regione al tempo dell’invasione turca, e quella che sempre tenne testa ai turchi. Iraniani e semiti al momento della conquista araba, hanno mantenuto la loro diversità, ma in tribalismo meta politico. Con una lingua di ceppo indo-europeo, di religione oggi islamica sunnita.
Dentro l’impero ottomano, così come dentro l’impero persiano, avevano mantenuto sempre uno statuto di autonomia. In un primo momento, alla fine della Grande Guerra, a Sèvres nel 1920, uno Stato curdo fu previsto. Ma Istanbul manovrò contro il trattato e tre anni più tardi, col trattato di Losanna, ottenne la cancellazione dello Stato curdo, di cui si appropriava gran parte del territorio. I Curdi venivano suddivisi fra quattro Stati: la Persia, la Siria, l’Iraq e la Turchia. Si ribellarono, perdettero, e con la sconfitta perdettero anche le autonomie.
Erano curdi i sultani quando tra islam e cristianesimo si confrontarono con le prime crociate. Che erano pacifiche, soprattutto di scambi diplomatici, visite, inviti, idee, trattative. Era curdo il sultano dell’Egitto Malik- el Kamil, che incontro, a capo della Sesta Crociata ne 1228-9, che fu pacifica, e a lui cedette tutto il cedibile, con Gerusalemme. Federico II, l’imperatore del Sacro Romano-Impero  cresciuto a Palermo, che parlava fluente l’arabo e con difficoltà il tedesco, era stato preceduto due anni prima da san Francesco, che anche lui era approdato a Acri, oggi in Israele, e aveva incontrato Kamil - El Kamil era nipote di Solimano il Magnifico.  
Il “feroce Saladino”, che conquistò Gerusalemme e Antiochia e le difese contro la terza Crociata, di Riccardo Cuor di Leone, fu sultano curdo dell’Egitto, della Siria e dello Heggiaz, l’attuale Arabia Saudita, con i luoghi sacri islamici. Il “feroce Saladino” delle figurine era detto in realtà il Legislatore, e rimasto nella storia, anche nel Limbo di Dante, come sovrano saggio e generoso.

Populismo – Quello in corso, che gestisce l’Occidente se non la globalizzazione tutta, con l’India, e in parte anche con la Cina sotto la pax del Pcc, è una destra contro la destra: una destra dal basso contro la destra dall’alto, degli “Interessi” e dei “Burosauri”, il braccio istituzionale degli “Interessi”. Serpeggiante dopo la caduta del sovietismo, dilagante per moto proprio, senza un disegno di uomini o partiti, dopo la Grande Crisi del 2007, derubricata a crisetta dalle destre liberali che non hanno saputo-voluto prevenire la crisi e l’hanno curata a spese di “tutti” – delle masse, del popolo, di tutti quelli che ora si rivoltano sotto la maschera populista.
La lettura corrente è di un populismo insorto in reazione ai fallimenti della sinistra politica. No, è in reazione al fallimento della destra tradizionale, liberale - anche della sinistra, p. es. negli Usa e in Italia, ma in quanto liberista, asservita passivamente alle cosiddette ragioni del mercato.
Si può dire che i guasti generati dalla destra economica hanno generato questa destra politica. Populista, cioè indifferenziata, rivoltosa, per non avere appigli precisi. Confusa per lo più - e anche inconcludente – ovunque è al governo, in Ungheria, in Polonia, in Brasile, negli stessi Stati Uniti. Qualche successo ha solo in India. Ma confusa per il motivo che è alla sua origine: che non può o non sa attaccare i fondamenti liberistici che ne hanno favorito la diffusione, e quindi si anima e si alimenta per falsi scopi: l’immigrazione, l’Europa, l’islam – falsi nemici.
Usa assimilarlo al fascismo, ma giusto per la propaganda - una propaganda sterile, rituale. Il fascismo era militarizzato e predicava e esercitava la violenza incontrastata. I populisti vanno alle elezioni – e se ne fanno anche fregare (in Francia costantemente, ormai da un quarto di secolo, dalle presidenziali 1995, col doppio turno). Oppure si agitano senza disegno né obiettivi, per protesta – come, sempre in Francia, i gilets jaunes da un anno.

Resta termine onnicomprensivo, applicabile a molte esperienze e a indirizzi politici tra i più diversi, nazionalistici e eversivi. Anche rivoluzionari, da intendersi “di sinistra. Questo di destra è un’ assoluta novità - di destra contro la destra classica. O per una destra “classica”? Contro il liberismo illimitato, e il burocratismo suo vassallo. In Italia e in Gran Bretagna è così, con chiarezza: i voti di Salvini e quelli di Farage sono i voti di Berlusconi e dei Conservatori – la Lega, che ha un’esperienza ormai storica, più che trentennale, di suo viaggiava sul 4 per cento dei suffragi. Lo stesso si può dire in Francia, dove il lepenismo raccoglie molti e centristi e ex gollisti – oltre al voto delle “cinture” operaie.
Con l’Inghilterra e l’Italia confluiscono probabilmente nello stesso modello ribellistico, contro interessi del proprio schieramento, i conservatori in India e negli Stati Uniti. Col passaggio dei molti del partito indiano del Congresso al Partito Popolare Indiano di Modi, e della base del partito Repubblicano americano verso l’“estremista” Trump, una sorta di Vendicatore, outspoken, cioè franco, e decisionista.

Uno spostamento simile si può vedere contemporaneamente a sinistra negli Usa. Verso Bernie Sanders nelle campagna presidenziale del 2016, e oggi ancora per Sanders e per Elizabeth Warren, ultrasettantenni ma ultraradicali. Sanders ha fatto campagna nel 2016, sicuro vincitore se le primarie fossero state bi-partisan, sulla corruzione della politica, la corruzione legale, sotto l’ombrello della “Citizen Unite”, la decisione della Corte Suprema nel 2010 che ha liberalizzato il finanziamento della politica, asservendola ai grandi interessi – e intendeva Hillary Clinton, che poi sarà la candidata Democratica.
Sanders raccoglieva su questo terreno i frutti di una campagna lanciata da un Partito Progressista un secolo prima, fin dal 1912, un  partito che si voleva di lotta alla corruzione politica. E si faceva forte nel 2015-2016 dei movimenti spontanei tipo Occupy Wall Street, contro i soprusi della comunità finanziaria e gli sgravi fiscali dell’amministrazione Democratica a favore dei ricchi. Mentre Trump a desta raccoglieva l’eredità dei Tea Party, e la Marcia dei Contribuenti su Washington del settembre 2009, contro la fiscalità eccessiva.
Erano “progressisti” negli anni 1920 due Repubblicani poi eminenti, Fiorello La Guardia, e il senatore del Wisconsin La Follette. La Follette, candidato presidenziale sfortunato, fu precursore e animatore delle migliori novità del New Deal degli anni 1930, intitolati a F.D.Roosevelt: l’abolizione del lavoro infantile, la Tennessee Valley Authority, Cassa del mezzogiorno americana, la legge sindacale (Wagner Labour Relations), e la Consob Usa, la Securities Exchange Commission, al controllo della Borsa.  

Sarà negli Usa populista radicale di sinistra, antimilitarista e anticapitalista, Henry Wallace, un ex repubblicano che arriverà alla vice-presidenza col partito Democratico, vice di F.D.Roosevelt nel 1941. Per questo motivo il partito Democratico ne bloccò la successione a F.D.Roosevelt al voto successivo, affiancando al presidente malato Harry Truman – che sarà il presidente di Hiroshima, e Nagasaki. Al voto del 1948 Wallace si candidò da solo, rifondando il partito Progressista.
Curiosamente, gli scritti di Wallace di apprezzamento del New Deal venivano valorizzati dalla stampa fascista, per dimostrare che il corporativismo era come l’interventismo democratico negli Stati Uniti. Wallace inoltre, benché antimilitarista, fu l’uomo dell’esecutivo che presiedette il Progetto Manhattan, per la realizzazione della bomba atomica – Roosevelt lo delegò e non partecipò mai alle riunioni – col ministro della Difesa Stimson e il generale Marshall, capo di Stato Maggiore.

Dei gilets jaunes, protesta ora confusa, è palese l’ascendenza storica, quasi una tradizione, fino al “sanculottismo” della rivoluzione, o ai “senzaterra”, e ai gueux, i pezzenti della rivoluzione olandese – ai Masanielli, ai Cola di Rienzo. Singolare è peraltro l’innesco, di cui non si parla. Che così questo sito 
sintetizzava:
Hanno “visto”, all’origine, il bluff ecologico. Degli “accordi di Parigi”, sottoscritti tranquillamente dai maggiori inquinatori al mondo, colpevoli di due terzi abbondanti dell’inquinamento atmosferico, Cina, India e altre potenze asiatiche, senza poi darsi cura di ridurre le emissioni nocive. Un’indifferenza che Macron ha preteso di finanziare, cavaliere bianco dell’ambiente. Con una tassa ecologica sui carburanti di 25 centesimi al litro. Un’enormità, anche se il fine si dichiara nobile: ridurre i consumi e favorire il passaggio ai veicoli ibridi o già elettrici. Di fatto una snobberia, se non un finanziamento ai fabbricanti di auto ibride, e una sorta di finanziamento indiretto ai grandi inquinatori, all’ombra della grandeur degli Accordi di Parigi. Un’imposta anche “ingiusta”, come sono tutte le imposte indirette su consumi di base. Che pesano sui meno abbienti.  Per un obiettivo palesemente irrealizzabile e di fatto subdolo. Per ridurre i consumi di  carburanti finanziando l’elettricità e le fonti rinnovabili. Come se queste non fossero fonte di inquinamento. Ma in realtà, si sa, per finanziare le rendite di chi (in teoria) produce energia da fonti non fossili. Una snobberia in quanto intesa alla gloria di Macron, portabandiera e leader degli Accodi di Parigi, naturalmente “storici””.   

astolfo@antiit.eu

La bellezza delle donne, opera maschile

Già segnalatosi per un’epistola a Claudio Tolomei “In lode delle donne”, da Roma a Roma attorno al febbraio 1525, un catalogo  di donne illustri, dalla Grecia e da Roma ai tempi moderni, questo dialogo-trattato, che resterà il più noto degli scritti del Firenzuola, esce dedicato il 18 gennaio 1541 alle “nobili e belle donne pratesi”. Che oggi fa ridere, non solo a Firenze. Ma non solo per la dedica – a Prato, bene o male, dove morirà due anni dopo, di cinquant’anni, Michelangelo Gerolamo Giovannini da Firenzuola, risiedeva.
Fa sorridere una fama acquisita da un monaco vallombrosano, abate a Roma di Santa Prassede, con la filosofia della bellezza femminile. Sia “posta in rapporto alla funzione sessuale” (Eugenio Garin) sia in “scaltrite discussioni filosofiche”. Essendo diventato umanista, a suol avviso, per l’influsso di varie “gentildonne”, come le chiama, Costanza Amaretta, Caterina Cybo et al., che immortala qui e là – ma era nipote, per parte di madre, dell’umanista Braccesi. Dispensato dai voti – non dai benefici ecclesiastici – vivrà, lamenta, “una lunga infermità di anni undici” (sifilide).
La sintesi del suo discorso la farà, senza nominarlo (senza saperlo?), Diderot in uno dei racconti di “Jacques il fatalista”, quello di “Madame de La Pommeraye”: “La testa di una vergine di Raffaello sul corpo della sua Galatea; e poi la dolcezza della voce”. Un trattato con la bellezza della patina. Illusoria – certo, quanto maschilismo! e poi c’è un dialogo sulla bellezza degli uomini, scritto da una donna? dov'è luguaglianza?
Recuperato da Guido Davico Bonino, una lettura di fantascienza - la bellezza delle donne è topos maschile, d’antan. Una testimonianza, anche, del privilegio degli intellettuali, quando ne avevano uno. Che non dovevano affannarsi, solo trovare modi per non annoiarsi, a letto, oppure no. Uno stilista, perduto dietro il bello scrivere. Lo spiega lui stesso nella dedica, “Il Firenzuola\ Fiorentino\ Alle nobili e belle donne pratesi\ Felicità”, richiamandosi a Cicerone e Orazio. Con in più la voglia, nelle parole di un suo lontano studioso, Adriano Seroni,  di violare “coscientemente le regole grammaticali, per raggiungere quegli effetti di lingua viva e parlata che gli stavano particolarmente a cuore”. Che lo fanno scadere nel vernacolo, e bisogna superare per goderne l’impertinenza – oggi. Allora l’impertinenza era nel corredo del filosofico dialogo con disegnetti, di curve e spigoli.
Agnolo Firenzuola, Dialogo della bellezza delle donne, intitolato Celso, Genesi Editrice, pp. 140 € 12  

lunedì 18 novembre 2019

La più grande fabbrica di fake news

I Mittal padre e figlio vanno da Conte lunedì scorso. Poi no, ci vanno martedì. Ma nessuno li ha avvertiti.
I commissari governativi denunciano ArcelorMittal: non sta ai patti.
Le Procure di Milano e di Taranto aprono inchieste su ArcelorMittal. Minacciose: i Mittal si sono venduti le scorte, si sono presi i soldi del risanamento senza fare risanamento, comprano gli impianti per chiuderli, fanno false comunicazioni sociali, fanno bancarotta fraudolenta.
Il governo può benissimo nazionalizzare l’ex Ilva di Taranto.
Taranto può fare a meno del siderurgico. Si fa al suo posto una fabbrica non inquinante. Con un centro tecnologico. E il turismo, con le cozze.
Come no. Basta vedere Bagnoli a trent’anni dalla chiusura.
Si vuole Taranto la più grande fabbrica d’Europa, ma allora anche di bufale. Ogni neo statista ha sulla città e sull’impianto una ricetta, quello che prima gli viene in mente, tanto per dire una cosa, in armonia con la neo politica. Non hanno colpa, gli italiani li hanno votati. Ma l’informazione, questo il punto, si limita a fare a questa corte della stupidità da cassa di risonanza, giornalisti e opinionisti, economisti o tuttologi.
Nessuno che spieghi i Mittal, lasciando intendere che siano due indianacci di m...., accasciati nelle anticamere del Grande Statista Conte, non i più grandi siderurgici del mondo. Che non comprano per chiudere. Che il mercato dell’acciaio è in sovrapproduzione. Che il governo ha aperto ai Mittal il diritto di recesso introducendo la colpa per i danni pregressi, ex Italsider-Iri e ex Riva. Che Taranto con ArcelorMittal perdeva 600 milioni l’anno, senza perderà 1 miliardo. Che chiude l’impianto una manager che aveva dimezzato le Acciaierie di Terni cinque anni fa, nominata amministratore delegato a Taranto appena ieri, il 15 ottobre, perché consulente dei 5 Stelle al ministero dell’Economia. Nessuno che senta i metalmeccanici, che sanno di che si tratta. O la stessa manager cesariana.
Nessuno che rida, seppure amaro. Di Conte che parla da operaio tra gli operai, come se fossero imbecilli. Del presidente della regione Puglia Emiliano, un ex giudice che pensava di fare il capo del partito Democratico, e non sa dov’è Taranto. Dei grillini, che pensano sia bene chiudere le industrie, al Sud. Dei tonitruanti “commissari”, che sono avvocati di paese, di Fasano e Grottaglie, nominati da una ministra di paese, tanto per la gratifica. O della Procura di Taranto: programmava da tempo, con preannunci a ripetizione, di spegnere l’altoforno centrale di Taranto, e ora vuole carcerati i Mittal per “sabotaggio dell’economia”, senza senso del ridicolo. Di Milano che invece impone di non chiudere l’impianto.     

Secondi pensieri - 401

zeulig


Imperi –Si dividono in spontanei e preordinati, programmati? Possono essere spontanei? Lo inferisce Heidegger dalla sua contestazione della storia, in chiave assolutoria: “Vi sono regni che durano per millenni perché il loro sussistere continua a perpetuarsi”. L’impero dei faraoni? Altri invece, condannabili, sono costruiti: “Un altro conto è se vengono consapevolmente pianificate dominazioni per millenni e la garanzia del loro sussistere viene riposta nella volontà, la quale si propone come fine essenziale la durata più lunga possibile di un ordinamento più grande possibile, formato da masse più vaste possibili”. Questo è “l’essenza metafisica nascosta dell’età moderna da tre secoli”: l’impero della tecnica – da Nietzsche, secondo Heidegger, abominato.

L’argomento, elaborato ne 1940, quando il Reich di Hitler era vittorioso, potrebbe portarsi a discolpa di Heidegger nella questione del nazismo, suo e della sua filosofia: si potrebbe dire l’impero “ordinato” un’allusione alla sua Germania, di Hitler?

Populismo – Concetto politicamente ambiguo, dovendolo situare tra “destra” e “sinistra”, ma di forte spessore e costante ricorrenza. Ambiguo perché applicabile a esperienze e indirizzi politici più diversi. Potenzialmente disgregativo quindi delle categorie correnti di classificazione politica, tra destra e sinistra.
Le molte classificazioni che si operano non lo spiegano perché si muovono nell’ambito della dicotomia invalsa nell’Otto-Novecento. Che già allora non inquadrava correttamente lo spettro politico, delle opinioni. C’erano elementi di destra nel populismo di sinistra a fine Ottocento, in Russia e negli Stati Uniti, e si ha difficoltà a inquadrare il fascismo e lo stesso nazismo come reazioni capitalistiche. Dove si colloca il “sanculottismo”, fino ai gilets jaunes odierni? O, oggi, il turbocapitalismo, del più volgare “arricchitevi”, a dirigenza comunista in Cina. Mentre è probabilmente di sinistra il moderato ma progressivo Modi in India.
Il populismo corrente in Europa, contro i guasti del liberismo, si colloca con difficoltà a destra – una destra anti-destra? Una polarità più rispondente alla realtà, comprensiva quindi dello stesso populismo, sarebbe tra uguaglianza e privilegio, legge e sopraffazione, interesse pubblico (comune, popolare) e interesse privato – al limite tra lavoro (applicazione, impegno) e proprietà.

Il populismo viene presentato di destra in quanto è – in Europa – sovranista, e in genere – Usa – nazionalista. Nazionalista in senso stretto, non un nazionalismo che sa contemperare gli interessi nazionali in contesti – e a ritorni – più vasti: si accontenta dei benefici dell’autarchia. Ma, anche in questo quadro più ampio, è sostanzialmente una delusione del liberalismo, dei benefici del liberalismo e del suo corollario la globalizzazione, l’apertura al mondo. Non senza ragione, se si guarda al modo asimmetrico di funzionare dell’Unione Europea, e alle distorsioni della concorrenza cinese, tra furti di know-how  e dumping, sociale (costo del lavoro) e fiscale (grandi patrimoni).

Progresso – Non è finito con le due guerre mondiali, con Hitler, con la Shoah, finisce con l’ambiente? Il millenarismo ecologico sembra al contrario la sua più radicale affermazione: il rifacimento della natura, a seguire al disfacimento. A opera dell’uomo, l’uno e l’altro.

Si dice un’ideologia. Del secolo XIXmo, dell’Ottocento. Ma resisteva, e sta durando. Non nasce col positivismo e la socialdemocrazie, queste se ne fanno forti, ma preesiste, e sopravvive. Dell’Ottocento è caratteristico e qualificante il contrario, il malthusianesimo, in collegamento col darwinismo. E tuttavia, se c’è un secolo del Progresso, è proprio l’Ottocento. Lo stesso si può dire oggi, dell’ambientalismo da fine del mondo. Che si traduce in catastrofismo – l’ecologia include la necessità della distruzione, la complementarietà fra riproduttori e distruttori. Ma anche in un produttivismo non selettivo, al modo del vecchio progressismo secondo Ottocento, di Michelet, Hugo, Zola – la sinistra francese, che aborriva Malthus, e quindi Darwin, più malthusiano dello stesso Malthus, non tenendo conto per le specie viventi della possibilità umana di moltiplicare le risorse nutritive. Sul biologismo di Pouchet, “L’Hétérogénie, ou traité de la generation sponatanée”: i “rifiuti organici” assicurano la continuità vitale. In cui la distruzione è necessaria all’ecologia, ne è il fulcro: non ci sono rifiuti, non devono esserci, vanno riciclati: rifiuti, resti, gli stessi morti nella catena alimentare vegetale e animale, gli stessi escrementi nella concimazione, tutto ciò che il vivente espelle vi ritorna e lo rialimenta.

Del catastrofismo progressista immanente all’ecologia fa la summa Michelet al § 1, “Fecondità”, della parte seconda de “Il mare”: “Bisogna che la natura inventi un supremo divoratore,  mangiatore ammirevole e produttore povero, di digestione immensa e di generazione avara. Mostro caritatevole e terribile che interrompe questo flusso invincibile di fecondità rinascente con un grande sforzo di assorbimento, che ingurgita ogni specie indifferentemente, i morti, i vivi,, che dico?, tutto ciò che incontra”. Lo squalo per esempio, “il bel mangiatore della natura,  mangiatore patentato: lo squalo… viviparo, elabora dentro di se il giovane squalo, suo erede feudale, che nasce terribile e tutto armato”.
“I profeti, come si vede, conservano, nei riguardi dello squalo, tutta la loro serenità, e molta indulgenza. Questa favola  ha una moralità socialdemocratica, e come un profumo di attualità. Tuttavia, il profeta non è un opportunista: non appartiene al momento, né alla storia come si potrebbe credere, e nemmeno alla Natura – appartiene al Progresso”.

Storia – “È come occuparsi di un vecchio parente povero che per decenza non si può completamente lasciar morire”, J.Burckhardt, frammenti postumi,.

Suicidio – Un impulso controverso, anche nelle modalità e gli effetti. Vercors, per il lancio delle sue “21 recettes pratiques de mort violente précédées d’un Petit Manuel du Parfait Suicidé”, ingoiò un veleno, s’impiccò a un albero lanciandosi nel vuoto sopra la Dordogna e si sparò alla tempia, ma il salto deviò il colpo, la pallottola tagliò la corda, e il suicidando cadde nel fiume, da cui fu tratto in salvo da un pescatore di trote, dopo aver vomitato nell’impatto il veleno. 
La bella e gentile Karoline von Günderode si pugnalò prima di buttarsi al fiume, subito dopo essersi scritto l’epitaffio, a venticinque anni, per un torto d’amore subito.
Lo scrittore argentino Fracisco Lopez Merino si uccise davanti allo specchio, nella cantina del Jockey Club a La Plata.
Si suicidavano i soldati giapponesi nell’ultima guerra piuttosto che arrendersi – meglio un giapponese morto che uno vivo?

Dan Brown ha l’agathusia, il “sacrificio altruistico”, sacrificarsi per il bene altrui. Il suicida per l’assicurazione alla famiglia, e perfino il caso dell’assassino seriale che si toglie la vita per non compiere altri delitti. Più generosi, in questo senso, quelli della distopia “La fuga di Logan”, dove tutti si suicidano  per non aggravare il mondo della sovrappopolazione, all’entrata nel ventunesimo anno – ma una  giovinezza spensierata col senso della fine imminente, nel film “L’età dell’eliminazione”, era innalzata a trent’anni, per attrarre al cinema i giovani, che allora ci andavano?

“Ci si uccide per impotenza”, dice Kafka a Janouch, per “un atto di egoismo spinto all’assurdo”, ma è assurdo il Kafka di Janouch.
Scrivendo a Brod invece, al solito minuzioso e argomentativo, Kafka disse unica conclusione sensata della sua vita “non il suicidio, ma il pensiero del suicidio”. Che non vuole dire nulla – una debolezza? - ma per lui sì: era quanto bastava per darsi dell’incapace: “Tu che non riesci a fare nulla, vuoi fare proprio questo?”.

Gli stoici lo legano alla vita felice.


zeulig@antiit.com

Quando l’Italia era all’avanguardia sul personal computer

È la storia di quando Olivetti, che con Adriano aveva sviluppato i computer e si apprestava a varare per prima i personal, il grande business di fine secolo, morto Adriano fu consigliata da Cuccia di salvare Underwood, fallimentare ditta americana di macchine da scrivere, e cedere la divisione informatica alla General Electric. Attraverso i verbali delle riunioni in Mediobanca sulla crisi finanziaria di Ivrea.
Esemplare di come Mediobanca – che pubblica i verbali - ha affossato nella gestione Cuccia, invece che salvato, buona parte dell’industria italiana. Col sospetto che a tirare le fila sia stata la Cia del temibile Allen Dulles, animatore in guerra di una certa Resistenza. In precedenza Cuccia aveva contrastato l’Eni di Mattei. Poi verrà la tragicommedia della chimica - questa sicuramente senza la Cia.
Giampietro Morreale (a cura di), Mediobanca e la crisi Olivetti, pp. 232, sip 

domenica 17 novembre 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (409)

Giuseppe Leuzzi


Svimez censisce due milioni di emigrati dal Sud nel Millennio. Sono più di tutti gli immigrati da cui l’Italia si sente invasa.

A un controllo dei Carabinieri nella napoletana Moreno confezioni sono risultati impiegati 78 dipendenti, tutti italiani, di Napoli e dintorni, “di cui solo ventuno assunti regolarmente. Gli altri 57 lavoravano senza contratto per 9 ore al giorno per una paga quotidiana di 20 euro” – “Corriere della sera” . Non sembra vero. Ma è vero che tutti erano anche in disoccupazione o in reddito di cittadinanza.

La Banca d’Italia calcola che un quarto della produzione (“valore aggiunto”) si è perduto al Sud nei soli dieci anni dopo la crisi del 2007 – qualcosa in più quindi nel 2018 e 2019? è probabile. Non si investe più al Sud da un dodicennio, o comunque si investe molto meno di quanto si disinveste, dei fallimenti e gli abbandoni.

“Il più grande imprenditore di Roma è il Tribunale”, è la sintesi di Salvatore Giuffrida su “la Repubblica”, “gestisce 500 imprese”. Quelle sequestrate ai clan di mafia. Però: “Gestisce 500 imprese e il 90 per cento è in attivo”. Le mafie sanno investire.

Si rammemora il Regno, sottinteso un mondo d’elezione, ma i siciliani non sanno nemmeno dov’è Napoli. Nessun siciliano è mai andato a Napoli, nessun napoletano a Palermo o Catania. Le province pugliesi commerciavano liberamente con l’Illiria, con Venezia cioè, e con la Turchia.

Sindrome avvocatesca, levantina, su Taranto
Era Taranto una cosa seria. Una cosa cioè, che al Sud è rara: un grande stabilimento siderurgico, il più grande, pare, d’Europa, che rifornisce mezza industria italiana e esporta molto, impiega novemila tecnici e operai, e pone problemi acuti di inquinamento. Si penserebbe: riduciamo l’inquinamento, eliminiamolo se possibile, e continuiamo a produrre, magari di più. E invece no. Una giudice di Taranto e una ministra di Lecce non vogliono l’acciaieria, e ci sono riuscite: la giudice ha imposto la chiusura dell’altoforno centrale dell’impianto, la ministra ha imposto il carcere ai gestori in quanto inquinatori. Non ai gestori dell’impianto quando inquinava, pubblici (dell’Italsider-Iri) e privati (la famiglia Riva), ma agli attuali, quelli trovati con una lunga e faticosa ricerca, dopo il fallimento dei Riva, che nel contratto di affitto dell’impianto col governo si sono impegnati invece al disinquinamento, con tappe fissate.
I gestori minacciati dal carcere se ne vanno, sicuri del loro buon diritto – nessuno è responsabile di colpe non sue – e la sindrome avvocatesca, levantina, del Sud si scatena. I tre commissari governativi di sorveglianza sull’acciaieria accusano la gestione di nefandezze di ogni tipo. La denunciano a Taranto e a Milano – anche a Milano perché la Procura vi è gestita stabilmente da napoletani. Francesco Ardito, di Fasano, e Antonio Lupo, di Grottaglie, eletti al prestigioso incarico  dalla ministra leccese, col concorso di un avvocato milanese, Antonio Cattaneo, cercano di guadagnarsi il cachet con le denunce. E gli investimenti, inclusi per la salute dei lavoratori e di Taranto? I mercati? La competitività? L’occupazione, nello stabilimento e in tutta la regione?
La ministra leccese, che ha nominato i compaesani per chiudere l’acciaieria, il suo partito l’ha messa fuori dal governo, il movimento 5 Stelle. Ma il partito, benché creato e gestito da un comico genovese, è essenzialmente napoletano e meridionale – pugliese, siciliano. Le chiacchiere, quindi, si sprecano. Facciamo questo, facciamo quello, chiudiamo l’impianto, lo nazionalizziamo, lo trasformiamo in un centro turistico, facciamo di Taranto una nuova Venezia, prepensioniamo tutti i tarantini. Eccetto l’unica soluzione buona, anche giuridicamente – gli avvocati pugliesi perderanno tutte le cause, non si condanna nessuno per colpe non sue: lasciar lavorare l’impianto secondo i contratti sottoscritti.
Ma c’è ancora un ma: la politica non centra. È 5 Stelle anche l’amministratore delegato dell’impianto, Lucia Morselli. Quella che ne ha deciso la chiusura, a fronte del carcere. E lei non fa chiacchiere. Lei è di  Modena, e lavora a Milano..
Bisogna essere razzisti a volte, perché no. Fa bene l’Italia a non fidarsi, il Sud può essere molto serio, e molto fragile: opportunista, traditore, sciocco. E cosa non farebbe per uno stipendio da commissario governativo. Commissario a qualsiasi cosa, anche a un’acciaieria. Anche se ci vuole una laurea in legge.

Il Sud di Nietzsche, o la pienezza di sé
Da tempo in sospetto e anzi vituperato, il Sud aveva in Nietzsche un portabandiera convinto,  e costante. Per una triplice ragione di amore, scrisse da ultimo in “Al di là del bene e del male”, nella parte ottava, “Popoli e patrie”, al § 255 (in polemica contro “la musica tedesca”): “Come una grande scuola per la guarigione, nell’ambito spirituale e in quello sensuale, come una illimitata pienezza e trasfigurazione solare, che si espande su un’esistenza autonoma e piena di fede in sé”.
Subito prima, a proposito della Francia faro di civiltà nel secondo Ottocento, specie in confronto con la Germania, ne attribuiva la preminenza – in aggiunta alla “facoltà di provare passioni artistiche”, e alla “antica, molteplice cultura moralista” – alla “sintesi quasi riuscita di Nord e di Sud”: “Il loro temperamento, periodicamente propenso e contrario al Sud, nel quale a tratti trabocca il sangue ligure e provenzale, li difende dall’orribile grigiore nordico e dall’anemia e fantomaticità concettuale prive di solarità”. Bizet spiegando di apprezzare perché “ha visto una nuova bellezza e una nuova seduzione , ha scoperto un brandello di Sud della musica”.

Il silenzio di Napoli
Cazzullo ripropone sul “Corriere della sera” la terribile nottata di Italia-Argentina a Napoli, semifinale del Mondiale 90. Ripropone cioè la questione: per chi tifò Napoli. Essendoci stati, in tribuna stampa, per lavoro, si può la verità: Napoli non tifò Italia.
Fu una partita noiosa – rispetto a quelle a cui l’Italia 90 aveva abituato, tutte spumeggianti. Una notte non afosa, benché fosse il 3 di luglio, ma nervosa. L’Argentina rissosa più del suo solito. Compreso Maradona, che di solito non litigava. E l’Italia impaurita. Forse per motivi tecnici, o di tattica. Sicuramente per motivi ambientali. Per il silenzio, cui l’Italia all’Olimpico non era abituata.
Il silenzio era minaccioso. Il catino del san Paolo appariva buio più che illuminato – era sicuramente illuminato, ma nulla confronto dell’Olimpico, dei colori, della festa. In tribuna stampa le due ore furono di disagio, fin dall’ingresso, prima delle squadre: le postazioni erano già occupate, da una o due persone, giornalisti locali o presunti, che non si scusarono e dialogavano solo fra di loro, in dialetto forzosamente stretto, una sorta di linguaggio cifrato, benché ad alta voce, molte le donne, molte grasse.
La partita fu vissuta da cronista anche con questa stretta non amichevole ai fianchi e alle spalle – mai avuto tanto fiato sul collo e contatti corporei sgraditi, neanche da ragazzi sulle gradinate in curva. Qualcuno dei cronisti abituali azzardò che gli ingressi in tribuna stampa erano stati venduti. Ma se fosse stato vero sarebbe stato meglio, sconfortava la prepotenza.
Restava anche viva l’impressione di una sorta di “protezione” per la squadra di Maradona, da Argentina-Camerun che un mese prima aveva inaugurato il Mondiale. Nel bellissimo catino del “Meazza” di Milano, vivacissimo, coloratissimo, l’arbitro fece di tutto per far pareggiare Maradona, con due espulsioni e sei minuti di recupero alla fine, un extra-time allora impensato.
Il disagio c’era, prima, durante e dopo. L’Italia perse il Mondiale che aveva già praticamente vinto - comunque da finale – e niente. Silenzio.  
L’evento si può registrare negli annali, di una Napoli muta invece che rumorosa. Si tentò anche, tra cronisti, di giustificare la città, di apprezzarne l’affetto verso Maradona, che alla sua squadra e al calcio italiano  aveva dato tantissimo, di dedizione e anche buone azioni. Ma senza convinzione.
È stata forse quella che Napoli è, una città che si vergogna di se stessa. Che sa che non può essere quello che è, lo sa da molto tempo, già prima dell’unità a leggere i suoi scrittori (De Santis eccetera), ma non sa cambiare.


leuzzi@antiit.eu