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sabato 29 aprile 2023

Ombre - 665

La guerra più sanguinosa dell’ultimo anno”, può titolare l “Economist”, ”non è stata in Ucraina, è stata in Etiopia, contro la regione secessionista del Tigré (Macallè): il mediatore della tregua, l’ex capo di Stato nigeriano Obasanjo, ha calcolato 600 mila morti. A capo dell’Etiopia c’è un premio Nobel per la pace, Abiy Ahmed Alì. Che Meloni ha appena incontrato, tra larghi sorrisi e promesse di cooperazione. L’Africa è ancora un continente sconosciuto.
 
Alì non è ahmarà ma oromo – era il capo dell’Organizzazione democratica del Popolo Oromo. Nell’Oromia è attivo un Fronte di Liberazione Oromo, che ai è unito nel 2021 al Fronte del Tigrè contro il governo centrale, con altre centinaia di migliaia di vittime.
I conflitti regionali (etnici) in Etiopia sono all’origine anche di milioni di profughi.  
 
Paolo Mieli elogia Schlein sul “Corriere della sera”: “La nuova segreteria si mostra assai abile nel rintuzzare la maggioranza, producendo ogni giorno polemiche nuove di zecca. Talvolta anche due o tre in un’unica giornata… A volte si ha quasi l’impressione che quelle «gaffe» governative siano intenzionali, parole gettate lì da navigati rappresentanti della maggioranza nella certezza che qualcuno abboccherà e ne seguirà un battibecco.” Cioè, è un gioco delle parti, ma Schlein si presta al gioco di Meloni?
 
Continua l’elogio di Mieli: Nel decennio scorso, la destra, pur travagliata da un’infinità di disavventure, fu in grado di mantenere un proprio impianto di struttura…L’attuale sinistra invece appare destrutturata come mai lo è stata nella sua lunga storia”. Cioè?
Un Mieli però esemplare dello stato attuale del Pd.
 
Reduce dalla Liberazione a Milano, Schlein va in copertina su “Vogue Italia”, nella sua prima intervista, indossandone la linea informale, la linea d’abbigliamento, e spiega che ha una consulente per queste cose, Enrica Chiccio, “un’esperta di armocronia”, di armonizzazione dei colori. E pensare, che scegliere come vestirsi, anche i colori, era un divertimento e una carta da visita. Schlein va in maschera?
 
Pronta “la Repubblica” intervista a sua volta Chiccio – “la Repubblica” al traino di “Vogue Italia”: “L’armocromia è nata per la attrici americane. Ely come le dive di Hollywood. Le mie tariffe? Da 140 a 300 euro l’ora. Sono pagata, lei non ha tempo e ha bisogno d’aiuto”.
 
Meloni porta alla ribalta per il 25 aprile la centenaria Paola Del Din, staffetta partigiana nel 1944 della brigata Osoppo, scampata all’eccidio di Porzûs – che dice: “E il comunismo cos’è? Una dittatura anche quella”.  Scorrendone la biografia si legge che disse “una porcheria” la ricostruzione dell’eccidio fatta dal governo Berlusconi nel 2010, in un provvedimento che elevava la malga a “bene d’interesse culturale”. Wikipedia offre le due (prolisse, interminabili, contorte) motivazioni, di prima e dopo la critica di Del Din: entrambe cavano dai pasticci i comunisti, che organizzarono ed eseguirono, con accanimento, la strage. L’antifascismo è un modo per non fare la storia? 
 
Di Maio, esempio fulgido della democrazia: da bibitaro al San Paolo-Maradona di Napoli e ignorante è diventato vice-presidente del consiglio, poi ministro degli Esteri, ora Alto Rappresentante della Ue nel Golfo, tra i ricconi del mondo. Ma uno non sa se congratularsi.
 
Le sale straboccanti (almeno quella di Moretti a Roma) per il “Sol dell’avvenire”. Il 25 aprile festeggiato contro il governo. Anche se il ministro della Cultura lo dichiara “ricorrenza altamente simbolica”. Come avvenne anni fa, quando fu impedito a Moratti padre di festeggiare, anche se lui la Resistenza l’aveva fata veramente, sul campo. Il settarismo non è morto – ha sempre meno voti, è forte solo nei media.
Moretti, si ricorderà, celebrava la nuova politica con Di Pietro – bel film ne potrebbe ricavare, suoi suoi girotondi.
 
Roberto Volpi, lo statistico, calcola su “La Lettura” un tasso di omicidi nel triennio (1919-1921) pari a 0,5 l’anno per 100 mila abitanti, “ovvero cinque per milione di abitanti”. Troppi naturalmente. Ma l’Unione Europea ha segnato nel triennio 0,9 omicidi l’anno per centomila abitanti, 9 a milione di abitanti: praticamente il doppio.
 
Anche i femminicidi sono troppi, ma pochi in Italia rispetto al resto d’Europa. In Europa nei tre anni si sono avuti 6,6 omicidi di donne per milione di donne, in Italia 3,8, poco più della metà – la metà, tenuto contro che il tasso italiano alleggerisce in qualche misura la media europea.

Galiani protofemminista

Si ha nozione dell’abate Galiani ilare e spiritoso, nelle lettere, gli scritti e la conversazione, a Parigi come a Napoli. Tanto quanto era disgraziato nel fisico – o saggio nelle quesioni di economia.  Ma in questa silloge non diverte quasi in nessun aneddoto. Lo spirito non va esibito.
Il napoletanistta Altamura, però aggiunge alla sua silloge delle spiritosaggini un saggio breve, anzi brevissimo, in forma di lettera da Napoli a Maname d’Épinay a Parigi nel 1771, sulla parità dei sessi, “Croquis d’un diaogue sur les femmes”, abbozzo di un dialogo sulle donne, che è un gioiello, di humour e finezza: l’anticipazione di un paio di secoli di molto femminista. La raccolta è per lo più di aneddoti “grassi”, boccacceschi – donne furbe e mariti cornuti, la solita solfa. Ma la realtà era già un’altra.  
Antonio Altamura, 
Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani

venerdì 28 aprile 2023

Secondi pensieri - 513

zeulig


Castità – Ritorna con la queer theory o i queer studies. Come una forma di sessualità non prevaricatrice. Come ipotesi, più che come verità, è studiata dalla slavista americana (afroamericana) Jennifer Wilson, che alla Penn State University ha avviato un progetto che che intitola “Chastity and the Political Imagination in 19th Century Russian Fiction” – già autrice di una ricerca “Radical Chastity: The Politics of Abstinence in Late 19th Century Russian Literature”, e di un saggio “(Drag)ging Tolstoy Into Queer Theory: On the Cross-Dressing Motif in War and Peace”. Nella letteratura russa dell’Ottocento Wilson ha rilevato una serie di pratiche ascetiche come pratica politica, di attivisti radicali in opposizione alla società borghese. Contro la pratica borghese del matrimonio e contro il corteggiamento, pratica basata sull’ineguaglianza di genere. Piuttosto che al’amore libero, altra pratica borghese, questa opposizione ssarebbe sfociata nella pr atica dela castità, “una forma autonoma di sessualità che non apriva spazi di sfruttamento o di sentimenti proprietari”.
 
Filosofia - “Vista dall’interno la caverna è meno oscura di quello che i filosofi pensano”, nota Mauro Bonazzi della caverna di Platone, dell’ambizione della filosofia di uscire dall’oscurità: “È rumorosa certo, ed imperfetta, ma forse anche colorata, e di sicuro meno noiosa di quel pieno luminoso e tutto uguale” là fuori. Soprattutto più conoscibile, senza speciale illuminazione. Specie per la filosofia politica – la notazione di Bonazzi è riferita a Hannah Arendt, che alla fine confessa di non potersi dire filosofia perché non aveva preveduto il nazismo. Ma il nazismo non era da prevedere, solo da leggere.
 
Imperialismo – Il conto del dare e avere è sempre in perdita. Anche nella formula “spese pubbliche, utile privato”. È un esercizio di potenza, non economica. O allora: cosa è economico, redditizio? Ma non, allora, in chiave ragioneristica, di dare e avere, seppure in un arco di lungo e lunghissimo periodo. Non di contabilità da quadrare di conti numerici, misurabili in cifre. In questa chiave è un investimento. A  rischio e non a termine, per quanto lungo. È l’economia del principato, dell’investimento a perdere, per un utile politico – politicamente economico, cioè durevolmente, a temine “storico”.
L’imperialismo ribalta il concetto economico, l’economia dell’economia. A  meno che non si trasformi – elevi – a economia suntuaria, di spreco.
 
Populismo – È inteso reazionario, o controrivoluzionario. Ma fu teoria e opera di apostoli della rivoluzione, Mazzini per primo e più a lungo – finché non debordò nel messianismo: “Dio e popolo” a lungo è stato incitazione di libertà e alla libertà. Fu opera anche, commossa, di Michelet.
Mazzini poi deriverà alla causa della Gran Madre Latina, del popolo che reincarna la grandezza di Roma, che sarà fatta propria da Mussolini – ne costituirà anzi il solo verbo costante, la sola ideologia immutabile e di maggior richiamo. Ma ci arrivava nel mezzo di una corrente di moda, se non di pensiero, ai primati nazionali, da Gioberti a Bismarck – dagli Stati (nazionali) ai primati. Mazzini non si può biasimare, non commise alcun atto imperialista o di esclusione – se un rimprovero gli si fa nella storia è di essere rimasto sempre fedele a quello degli inizi, un politico senza duttilità politica . Da credente e apostolo, del popolo e per il popolo. Pur con tutta l’ambiguità che ciò comportava – che Bakunin gli faceva rilevare alla sua tarda età: del nazionalismo cioè: “Per Mazzini il popolo è una parola astratta che identifica tutti gli abitanti dell’Italia, siano essi nobili o  plebei, vittime o carnefici; e questo preteso popolo deve sacrificarsi per fare dell’Italia una potenza di prim’ordine in Europa e per conquistare la propria sovranità, cioè non avere più re che lo comandi!”. Per uno scopo quindi di libertà. Quanto al primato, è pur vero che esso ha valore, prende valore, oggi, nel mondo unipolare, in termini di brand, nel commercio cioè, come un marchio - rientra nelle tecniche di marketing.
 
Ha acquisito in Europa e negli anni Stati Uniti nel Duemila nuovo spazio per un evidente sbracamento del progressismo, in favore del mercato, delle banche, della finanza. Che non hanno prodotto più ricchezza, come garantivano, non in Europa, nei mercati industrializzati in genere, e li hanno soggiogati e interessi rapaci. E ingovernabili. Uno slittamento evidente in paesi come l’Italia, senza forza contrattuale propria, dove le forze progressiste hanno quasi fatto a gara per distinguersi  nell’acquiescenza alle pratiche più viete del mercato – non solo in termini sociali, anche produttivistici, di creazione e difesa della ricchezza (della ricchezza nazionale non di quella dei ricchi e potenti). In questo quadro si può dire il populismo sociale, o socialmente impegnato. E progressista di fatto.

Religione – Vico la intende (giustifica) come coscienza dell’umanità e origine della civiltà.
È guardare fuori e in alto per capire (vivere) dentro e in basso.
 
È “soprannaturale perché è fuori della natura”, è l’argomento di Galiani nell’“Abbozzo di un dialogo sulle donne”: “La natura non ce ne dà alcun istinto; non appartiene a nessuna classe di animali; la dobbiamo esclusivamente all’educazione; ed è ben la sola che distingua l’uomo dalla bestia: la religione costituisce la nostra caratteristica. Invece di dire: «L’uomo è un animale ragionevole», bisogna dire: «L’uomo è un animale religioso». Tutti gli animali sono ragionevoli, solo l’uomo è religioso. La morale, la giustizia, il sentimento sono un istinto, la fede in un essere sopranaturale non lo è affatto”.
E ancora: “L’idea della religione” è “credere all’esistenza di uno o più esseri che non sono percepiti da nessun senso, che sono invisibili, impalpabili e così via…. Ciò che distingue l’uomo dalla bestia è un effetto della religione: società, politica, governo, lusso, ineguaglianza delle condizioni, belle arti, etc., tutto noi dobbiamo a questa caratteristica della nostra specie.
 
Storia – Puškin, che amava narrare e poetare di personaggi e eventi storici, aveva una partita aperta con la storiografia francese dominante del suo tempo, o della storia come fato, il destino delle nazioni. Criticando Guizot, scrive: “Non si dica: non poteva essere altrimenti. Se questo fosse vero allora lo storico sarebbe un astronomo, e gli eventi della vita dell’umanità si predirebbero in calendari come le eclissi di sole”.
 
Vero-falso – Ritorna la querelle, sull’onda dell’intelligenza artificiale. Che però si ripropone come alla sua età della pietra – come già con le fake news, che poi sono propaganda o disinfornacija, e con i social “liberi tutti”, twitter e meta-instagram. Ferraris propone di non fasciarsi la testa: il vero d’invenzione è sempre esistito in letteratura – e nel mito, perché no, testi sacri compresi. E suggerisce di enucleare il “finto” dalla dicotomia vero-falso: molto si fa per leggerezza, per divertimento o provocazione (p.es. le fake news, che sono sempre grimaldello di qualcosa.
 
Cosa s’intende per vero e cosa per falso? Vera è madame Bovary, dice Ferraris: “Non è falso che madame Bovary fosse una moglie infelice”. Ma non è tutto: Emma Bovary è moglie infelice ma anche stordita e\o stupida.
Il vero è multiplo. O anche: il vero non è tutto – non esaurisce la verità.

 

zeulig@antiit.eu

Per un rientro soft dall’inflazione

Le banche cenTrali haNno trascurato e forse attivato l’inflazione?  Con i tassi zero o negativi, con  quantitative easing a  catena, il riacquisto di titoli di Stato, la liquidità illimitata – il “whatever it takes” di Draghi? Sì, ma non potevano fare altro, negli Stati Uniti dopo la crisi bancaria del 2007, in Europa dopo la crisi del debito del 2011-2012. Tassi zero e credito a gogò hanno ubriacato la politica, i governi, i parlamenti, in una sorta di “licenza di spesa senza redini”, e di “qualcosa per ognuno”.
Dovevano le banche centrali ammonire contro questi eccessi? Il quantitative easing è stato quasi doveroso anche a fronte della pandemia, che nessuno poteva prevedere. E poi c’è stata la guerra della Russia, anch’essa non prevedibile, che ha disorganizzato il mercato internazionale delle merci, specie delle materie prime.
La reazione all’insorgenza dell’inflazione è però pericolosa, se rallenta troppo le economie. Mettendo a rischio le politiche dei redditi – il rischio è di avviare una ricorsa salari-prezzi. L’ex governatore della Banca Centrale Indiana è per un rientro soft dell’inflazione - dovuta a due emergenze, oltre anche alla politica monetaria permissiva. Per una politica di austerità solo per questo aspetto: rientrare dagli eccessi politici, dal deficit spending attraverso il quantitative easing.
Raghuram Rajan, For central bankers less is more, “Imf F&D Finnce and Development”, marzo 2023, free online

giovedì 27 aprile 2023

Il mondo com'è (460)

astolfo

Bolla – Assunse il significato che ha nella terminologia finanziaria  nel 1718-1720, nella breve e vistosa speculazione che culminò in una Bolla del Mississippi. La moltiplicazione fittizia di valore di titoli azionari e di titoli di Stato del cosiddetto sistema Law. Dal nome dell’economista scozzese John Law, apologeta della carta moneta, la moneta fiduciaria del tempo.
Entrato in contatto col duca d’Orléans, il fratello di Luigi XIV divenuto reggente alla morte del Re Sole per conto del successore Luigi XV in minore età, Law ne fu nominato Controllore Generale delle Finanze di Francia. Creò subito, nel 1816, la Banque Générale, una sorta di banca centrale, istituzione allora nuovissima, col potere di emettere carta moneta. E nel 1717 una Compagnie d’Occident, aperta agli investitori parigini - poi (1719) Compagnie des Indes. Inizialmente dotata della privativa della valorizzazione della valle del Mississippi – tabacco e schiavitù - e successivamente di tutto il commercio coloniale francese.
La aspettative moltiplicarono il valore delle quote in poche settimane per 36, da 500 a 18 mila lire tornese. E moltiplicarono anche le emissioni: 625 mila azioni furono emesse in poche settimane. Law alimentava la speculazione perché puntava a ripagare l’enorme debito pubblico accumulato da Luigi XIV. Fuse anche la Banque Générale con la Compagnie des Indes, mettendola quindi al servizio della speculazione. E avviò l’emissione di obbligazioni pubbliche, i billets d’État, che anch’esse moltiplicarono in pochi giorni le quotazioni.
La carta moneta stampata senza limiti alimentava la bolla. Ma di pari passo con la stampa crebbe l’inflazione. I billets d’État e la carta moneta cominciarono a perdere quota. Il ribasso si accentuò alla scoperta che i profitti della Compagnie des Indes non c’erano – non nella misura fantasticata. E il ribasso fece rapidamente valanga. La “bolla” scoppiò a dicembre 1720, Law lasciò prontamente Parigi, il debito pubblico sarà pagato con le tasse.
 
Caterina I – Zarina di Russia alla morte del marito Pietro il Grande, era una contadina di famiglia polacca, nata (1684) e  cresciuta in Lituania, Marta Elena Skowrońskaja, figlia di un Samuelis Skowroński, contadino. Era stata sposata nel 1701, a 17 anni, a un dragone svedese, trombettista del reggimento, di stanza in Lituania in una delle tante guerre russo-svedesi. Era in corso la Grande Guerra del Nord, per l’egemonia nel Baltico (marzo 1700- settembre 1721) dell’alleanza Russia-Danimarca-Polonia-Sassonia contro Carlo XII di Svezia. Che in un primo momento, il 20 novembre 1700, sconfisse l’alleanza, alla battaglia di Narva.
Il trombettista presto scomparve, e Marta Elena Skowrońskaja si impiegò come domestica da un pastore tedesco, Ernst Glück, a Marienburg. Durò poco: il pastore fu arruolato contro la Russia ai primi del 1792, Marienburg cadde in mano russa, Marta fu catturata dai russi, e adibita alla lavanderia del reggimento che l’aveva prigioniera.
Non aveva vent’anni e aveva un bel corpo: fu quindi mandata a servizio dal principe Menshikov. Alexander Danilovich Menshikov, mercante di bassa estrazione diventato intimo di Pietro il Grande, che l’aveva nobilitato col titolo di principe per avere ammassato una enorme fortuna, in gran parte con la corruzione, ma esemplare della classe borghese, industriosa, che lo zar voleva impiantare in Russia. Menshikov se ne fece l’amante. Per poco: nel 1703 lo zar, in visita dal neo-principe, si prese Marta per sé - ai diciannove anni, quindi. Due anni dopo la fece convertire alla chiesa ortodossa, con un nuovo nome, Ekaterina Alekseevna Mikhailova. Successivamente la relazione volle consacrata con matrimonio solenne, il 9 febbraio del 1712, quando Caterina aveva 28 anni, nella cattedrale sant’Isacco da poco completata a San Pietroburgo (ma un matrimonio sarebbe stato celebrato in segreto, in una data imprecisata tra il 23 ottobre e l’1 dicembre 1707).
Nei ventidue anni di vita con lo zar Pietro, che morì nel 1725, gli diede dodici figli. Ne sopravvissero solo due, Anna ed Elisabetta, future zarine – la prima nata nel 1708, la seconda nel 1709. Nel 1724 ebbe il titolo di zarina, e fu associata alla gestione dell’impero. L’anno dopo, alla morte improvvisa di Pietro I, senza l’indicazione di un successore, si fece proclamare dalla Guardia Imperiale imperatrice regnante. Con l’aiuto i Menshikov, il suo vecchio amante, e col sostegno, dal 1726, di un consiglio privato di sei membri da lei nominato - ma sempre controllato da Menshikov. Per due anni, fino alla morte nel 1727. A Caterina si attribuisce la capacità di calmare Pietro il Grande nelle sue frequenti collere, oltre che di assisterlo in più crisi epilettiche.
 
DonetskLa città al centro della guerra russo-ucraina è di origini recenti. Fondata come Hughesiovka, la città di Hughes, dall’industriale gallese John Hugues. Un accenno  indiretto è rimasto nel film “L’ombra di Stalin”, 2019, di Agnieszka Holland, sull’esperienza del giornalista gallese Gareth Jones, che per primo scoprì e denunciò nel 1933 l’Holodomor, la carestia provocata da Stalin in Ucraina, imponendo l’ammasso del grano e degli altri cereali per l’esportazione, per finanziare con la valuta il suo piano quinquennale industriale. Jones si reca in Ucraina per cercare il luogo, di cui ha un foto, dove la madre, Annie Gwenn Jones, aveva lavorato nella prima guerra mondiale, come istitutrice dei figli di Arthur Hugues. Figlio di John. Oggi (prima della guerra) città da poco meno di un milione di abitanti, fu creata come colonia mineraria e industriale nel 1869 da Hughes padre. Ebbe statuto di città cinquant’anni più tardi, nel 1917. Successivamente ribattezzata Stalin, nel 1924, poi Stalino, 1929-1961. Fu distrutta completamente già una prima volta durante l’occupazione tedesca. Ricostruita nel dopoguerra, prese tardi, anche dopo la destalinizzazione, la nuova denominazione, dal fiume Donec che l’attraversa.
 
Adam Gannibal – Originario del lago Ciad, la sponda oggi Camerun, fu il bisnonno materno di Alexander Puškin, che ne ereditò alcuni tratti somatici, quasi da mulatto, il colorito scuro e i capelli neri crespi. La famiglia Puškin era di antica nobiltà. Ma il bisnonno materno era africano: un bambino rapito  a otto anni e venduto come schiavo a Costantinopoli, dove l’ambasciatore russo Raguzinsky, un mercante serbo, lo acquistò,  per poi farne dono allo zar Pietro il Grande. Il quale ne apprezzò la vivacità di spirito, se ne fece padrino, ne curò l’istruzione ( a 22 anni lo mandò a Parigi), lo sposò in una famiglia di bojardi, e lo portò con sé nelle spedizioni militari, promuovendolo presto al grado di generale.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato, ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte. La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II, suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del capitano”.  Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del capitano”.
 
Guerre russe – La Russia è stata sempre in guerra, dal Cinquecento a oggi. Nelle due guerre mondiali naturalmente, e contro Napoleone nel 1812. Nel dopoguerra in Ungheria (1956), Cecoslovacchia (1968) e Afghanistan (1979-1989), come impero sovietico, oltre alle tante ingerenze armate in Polonia e a Berlino. E in Cecenia e Georgia la Russia post-sovietica, prima che in Ucraina.
Numerose e interminabili le guerre russo-svedesi: 1554-1557, 1558-1583 (nel quadro della Prima guerra del Nord, contro lituani e svedesi), 1610-1618 (Guerra d’Ingria), 1656-1658 (nel quadro della Seconda guerra del Nord, o conflitto polacco-svedese), 1700-1721 (la Grande Guerra del Nord, con la vittoria decisiva su Carlo XII di Svezia nella battaglia di Poltava, 1709, che consacrò Pietro il Grande negli equilibri europei), 1741-1743, 1788-1790. Ripresa nel contesto delle guerre napoleoniche, come guerra di Finlandia: la Svezia, sconfitta nel 1808-1809, cedeva alla Russia la Finlandia.
Contro la Finlandia indipendente da fine 1917, dopo la rivoluzione d’ottobre a Mosca, la Russia mosse guerra nei tre mesi invernali 1939-1940,  strappando alla fine alcuni territori, come la Carelia - il 10 per cento della superficie finlandese.
La lunga serie di guerre (anti)napoleoniche, in alleanza con la Prussia e l’Austria-Ungheria.
Contro la Polonia: 1654-1667, 1792, 1794 (insurrezione polacca).
Le quattro guerre contro la Persia: 1722-23, 1796, 1804-13, 1826-1828. Intervallate da guerre contro i khanati del Caucaso, detti anche khanati persiani e khanati azeri, o khanati iraniani, più o meno sotto sovranità persiana, negli odierni Azerbaigian, Armenia, Georgia e Daghestan. 
Le guerre russo-kazane di metà Cinquecento – fra le tante guerre contro i khanati, i domini tartari disseminati nella Russia occidentale.

La guerra di Crimea, 1856, per il controllo dei Luoghi Santi a Gerusalemme, disputato alla Francia.
La lunga serie di guerre russo-turche – Mosca si vuole la Terza Roma, dopo Roma e Bisanzio-Costantinopoli: otto guerra tra il 1568 e il 1829 (senza contare, nei primi anni 1820, il sostegno
Alla indipendenza greca, nella comune ortodossia religiosa: 1568-1570, 1676-1681, 1686-1700, 1710-1711,  1735-1739, 1768-1774, 1806-1812, 1828-1829.
Contro il Giappone, 1904-1905 – la prima sconfitta di una potenza europea per mano asiatica.

astolfo@antiit.eu

Il Sud vince, ma non si capisce bene

Il bosco verticale, il design della “pienezza del vuoto”, l’evento, l’affare a Milano. Tutto futuro e gelido. E l’improntitudine, la cialtroneria, il vecchio padre, la vecchia madre, tra Bitonto e Bari. Il gelo e il calore, naturalmente – la scommessa è vinta d’anticipo su chi vincerà.
La solita pochade tra vecchio e nuovo, tra città e campagna, tra Nord e Sud. Non incommestibile in tempi in cui la famglia è ogni male – è il rifacimento di un film digrande successo in Francia, “Ti ripresento i tuoi”, si vede che anche in Francia c’è nostalgia della famiglia, di fratelli, cognati e nipoti. Con un argomento in più nel fim di Carteni: la varietà – diversità - linguistica. Peccato che col sonoro indistinto se ne abbia una sensazione vaga - le batturte di spirito, se ci sono, non si afferrano.
Alla fine un polpettone, troppa farsa e insieme non abbastanza, troppi cliché. Uno sceneggiato (oggi “serie”), modesto.
Umberto Carteni, Quasi orfano, Sky Cinema

mercoledì 26 aprile 2023

La scoperta dell’Africa - geniale

Detto “Piano Mattei” per non dire “Piano Africa” per un sospetto di politicamente scorretto, quello su cui marcia il governo Meloni, con cinque visite importanti in cinque mesi, Algeria, Tunisia,  Libia, Etiopia (e India), è un piano facile facile. Geniale. 
Meloni ha cominciato dove l’Eni ha tratto molti profitti e ha molte relazioni, il Nord Africa. Ma punta fuori, in realtà, degli orizzonti e degli interessi del gruppo petrolifero fondato da Mattei. Punta all’Africa. Fa la famosa “scoperta dell’Africa, la quale era stata scoperta prima di Gesù Cristo”. Ma è poi rimasta ignota all’Europa, che pure ne aveva fatto una seconda casa, di comodo, per quattro o cinque secoli. Un’idea semplice, e sicuramente vincente. L’Africa è piena di risorse naturali, ma senza capitali e senza know how. Ha una demografia esplosiva, da alcuni decenni, per la migliorata sanità, in cerca di di un posto al sole in  Europa comunque, a qualsiasi prezzo – ma di cui, in realtà, l’Europa ha bisogno. È vittima di sfruttamento, economico e politico, oggi come sempre. È trascurata, anzi abbandonata, dal cosiddetto Occidente. È sola con la Cina, che però non sente propria, non sente vicina – il colonialismo ha lasciato un imprinting. Dappertutto Meloni ha aperto speranze, accolta come si è visto con gratitudine, anche se non portava nulla, solo un po’ d’attenzione.   
L’Italia per anni, per decenni, ha lavorato a Bruxelles per una politica mediterranea, e per una politica africana. Poi, negli anni 1990, con l’avvento dell’economicismo (monetarismo) nordeuropeo, ha cessato pure di insistere. Meloni ha aperto una miniera spalancata. Senza bisogno di passare per Bruxelles – dove ancora non hanno capito.
Immettere l’Africa in scena è semplicemente nell’ordine delle cose. Che non ci pensi l’Europa è comprensibile, perché è un’Europa centro-orientale, continentale. Ma non è detto: il piano Mattei sarà il capitale di Meloni per i suoi conservatori europei, e per il futuro asse con i Popolari a Strasburgo dopo il voto del 2024? Non è da escludere, e fa il piano Mattei ancora più geniale.
Che in Italia non ci abbia pensato la sinistra, come sembrerebbe ovvio (la cooperazione, gli aiuti, lo sviluppo), al governo per dieci anni, è incomprensibile - se per sinistra s’intende qualcosa di più che non il giubilo di stelle e stelline, capitane e non, e di parole d’ordine corrette.

È difficile dirsi fascisti

Non c’è un’ortodossia fascista. Un’organizzazione, una tessera, una sezione, riunioni periodiche, una vigilanza e una ortodossia, con radiazioni e scomuniche - nella migliore delle ipotesi, p. es. l’espulsione di “quelli del ‘Manifesto’”, le cistke sovietiche, cui anche il buon Pajetta sovrintese, potevano essere letali. C’era la tessera negli anni del fascismo, ma era un obbligo di polizia, e quasi una tassa.
Si moltiplicano attorno al 25 aprile le accuse di fascismo, le privative di antifascismo, le lezioni totalitarie di democrazia. Ma, poi, fascista è un epiteto, si dà a chiunque anche fuori della politica. Questo fa anche sì che uno che è fascista di fatto – nazionalista, razzista, violento – possa dirsi costituzionalmente democratico: se tutti siamo fascisti nessuno lo è. Ma non è questo il punto. È che una non buona – anzi cattiva – politica si è retta, e evidentemente ancora si regge, sull’antifascismo. Cioè, ha bisogno del fascismo. Che nel 2023, dopo quasi ottant’anni dalla cacciata di Mussolini, è un’esagerazione e anche un’incongruenza. Dov’è il razzismo? Nei buu delle “curve” allo stadio? Sono le “curve” (i popolari) fasciste? Quella della Roma si vuole comunista.
Ci sono dei fascisti, certo. Dichiarati. Ma allora: si è fascisti perché ci si dichiara fascisti. Contro la Costituzione. Contro la Resistenza all’occupazione tedesca. Contro il Parlamento. Contro anche il Sud – ma quanta Resistenza non è (diventata) leghista?
Se c’è una costituzione che da tutti è osservata e da nessuno contestata, elezioni periodiche, anche troppo, e mai discusse, un governo eletto dal Parlamento e dal Parlamento dipendente, anche troppo, dov’è il fascismo? I naufragi? Quanti naufragi con Napolitano o Minniti all’Interno – il naufragio non si provoca, avviene quando il soccorso è impossibile o ritardato, nessuna guardia costiera sta lì col binocolo a vedere gli africani affogare.
C’è speculazione. Non da oggi, Cutro non è una novità. Ma è giornalistica. Di un giornalismo che non sa come altro vendersi, se non c’è scandalo. E di una politica che sopravvive solo su questi giornali.

Rinascere a trent’anni

’Tutti amavano Jeanne. Che non amava, e non ama, nessuno. L’amavano a scuola, in Portogallo. Una francese a Lisbona. Troppo bella. Determinata. Quasi “donna dell’anno” in Francia, a trtent’anni o poco più. E invece fallita. Progettualmente - una macchina che (non) raccoglie la plastica nei mari profondi - ed economicamente.
Indebitata e sensa risorse, col bancomat del fratello fisioterapista, torna a Lisbona. Dalla madre che vi aveva eletto residenza. Finché, solitaria, trascurata anche dai figli, non si era buttata giù dal ponte. Torna per fare liquidità, vendendo la casa. E ci trova un ex compagno di scuola. Altrettanto folle e solo. Il “cuore di pietra”  si scioglie.
Un fait divers, un evento qualsiasi, che cambia una vita, le vite. Un racconto di formazione in età adulta – “non è mai troppo tardi”. In forma di féerie, sullo sfondo di una Lisbona pastello, raccontata da fantasmini guizzanti.   
Céline Devaux,
Tutti amano Jeanne, Sky Cinema

martedì 25 aprile 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (523)

Giuseppe Leuzzi


Tre allenatori delle quattro squadre che si contendono la Champions League sono italiani. Tutt’e tre sono emiliani: Ancelotti di Reggio, Pioli di Parma, Inzaghi di Piacenza. È un caso, certo. Eppure, un fondo tribale c’è: la capacità di gestire venti-trenta atleti – l’empatia di oggi.
 
Gianni Infantino, calabrese di Seminara, capo della Fifa, progetta un calcio sempre più caro – che solo i molto ricchi possono giocare. Un Mondiale e periodicità ravvicinata, ogni due anni, per club, in aggiunta a quello quadriennale per Nazioni, e un campionato annuale mondiale per club, una specie di Superlega. Competizioni che solo organici di quaranta-cinquanta atleti possono permettersi. È l’ingordigia che viene dalla fame?
 
“Il pubblico migliore è quello del Nord”, Checco Zalone confida a Cazzullo sul “Corriere della sera”, “perché è un coacervo, c’è di tutto. È pieno di terroni civilizzati”.
 
I “terroni civilizzati” di Checco Zalone sarebbero i baresi (o i salentini?):  “A Bologna ci sono più salentini che a Lecce; e i salentini per noi di Bari sono i veri terroni”. C’è sempre un Nord, non solo nelle bussole.
 
La donna del Sud
“Il Sole 24 Ore” dedica il pranzo domenicale di Paolo Bricco con un’ospite a Antonella Sciarrone Alibrandi. Docente di diritto dell’economia alla Cattolica, direttrice dell’Osservatorio sul debito privato, membro del consiglio Asif, l’Autorità finanziaria del Vaticano, ora nomina dal papa sottosegretario alla Cultura. Il nome Sciarrone suona familiare. E in effetti lo è: “Lei è una figlia di Milano”, esordisce Bricco sul giornale milanese: “Di una Milano fatta, insieme, dalla gente del Nord e dalla gente del Sud”. Lei spiega: “Mio padre Vincenzo era di Messina. Mia madre Enrica, che oggi ha 93 anni, è nata a Reggio Calabria”. Il padre ha fatto il biennio di Ingegneria a Messina, che aveva solo il biennio, e la laurea al Politecnico di Torino. La mamma “era figlia di un ferroviere e di una casalinga”. Normale, nel 1930. Anche che il nonno ferroviere fosse socialista (i ferrovieri erano socialisti) – e lo sia rimasto poi a vita, della corrente di Riccardo Lombardi.
Ma la madre aveva una particolarità, si vede che ha spiegato alla figlia. “La sua era una famiglia particolare. Tre figlie femmine nell’Italia e nel Sud di allora. Mia nonna Maria Teresa”, la casalinga moglie del ferroviere, “volle che tutt’e tre studiassero: mia mamma e sua sorella Annunziata si laurearono in Chimica, la terza sorella Maria in Fisica”. Ottimo, si direbbe, Chimica allora a Messina era governata da Arnaldo Liberti, che era professore severo, oltre che scienziato - arrivati a Liberti, molti abbandonavano, o cambiavano università. Sciarrone Alibrandi la vede da un altro punto: “Una cosa due volte rara: ragazze non destinate a studi umanistici o al matrimonio, ma spinte ad approfondire le materie scientifiche che amavano e a farsi la propria strada”. E invece no, non era rara.
Sciarrone Alibrandi prosegue: “Nel pieno del boom economico, mia madre e Annunziata presero casa  a Milano a Città Studi e iniziarono a lavorare”. Presero casa senza l’aiuto dei genitori?
 
Il Sud fu tradito
La colpa è di Garibaldi. La prima – e forse anche più corretta – impostazione della “questione meridionale” è di Bakunin. Di un articolo che il rivoluzionario scrisse nel 1868, intitolandolo “La situation” (ma anche “La valanga”), ora in “Viaggio in Italia”, pp. 120-121: “Nel 1860 Garibaldi arriva fra le popolazioni del Mezzogiorno, abbrutite dal più infame servaggio, immiserite dai più ingiusti privilegi sociali, abbandonate al fanatismo religioso dai piani chimerici dei suoi despoti.  Dinnanzi all’eroe, le armate ripiegarono e il vecchio trono dei Borboni prima vacillò e infine crollò al suolo. Fu allora che intraprese una marcia trionfale da Marsala a Napoi fra le masse attonite che si affollavano sul suo cammino, mentre egli con le sembianze del Cristo le catturava con il suo sguardo affascinante e le abbeverava con parole di redenzione e di vita. La parola libertà non mancava, così come non mancavano quelle che promettevano il future benessere, più  volte ribadite da lui e dai suoi. E i poveri schiavi presero a gridare a squarciagola  una formula per essi incomprensibile: «Italia unita». Più tardi, corsero fiduciosi a deporre il loro sì nelle urne dei plebisciti, atto dal quale si aspettavano la fine della loro miseria. Ma, lungi dal cessare, questa si fece ancora più intollerabile, e 9 milioni di cittadini non solo videro frustrate le loro aspettative, ma capirono di essere stati ingannati con fallaci promesse…. L’azione garibaldina finì con i plebisciti di ottobre che diedero alla dinastia sabauda il mandato di compiere quell’Italia una e indivisibile su cui avrebbe esercitato il suo dominio e la sua oppressione. Cosa che fu subito ben compresa dalla maggior  parte dei prodi ufficiali di Garibaldi, i quali passarono repentinamente nelle fila dell’esercito regio”.
Di Garibaldi Bakunin era stato e restava ammiratore. Era la prima persona che aveva voluto incontrare all’arrivo in Italia a gennaio del 1864, dopo l’evasione dal confino in Siberia – già cinquantenne, arruffato, sdentato, ma ancora gigantesco, e con una moglie giovane. Era stato tre giorni a Caprera, aveva avuto con Garibaldi lunghe conversazioni, e nelle stessa raccolta “Viaggio in Italia” dà in breve uno spaccato variegato, e per ogni aspetto attendibile, del piccolo mondo dell’isola – scorre come in un film, tra fisionomie, abbigliamenti, abitudini, tempi rallentati, e opinioni poche, una fauna su cui campeggia  “maestoso, imponente, con un sorriso dolce sulle labbra, il solo a essere lindo, il solo a essere bianco in mezzo a quella folla bruna e forse un tantino sudicia, Garibaldi, con la sua espressione profondamente malinconica”.
 
Il Sud è diventato violento
Il Sud, un tempo mite, ha il record degli assassinii in Italia, nei dati statistici elaborati da Roberto Volpi su “La Lettura” – pur in un contesto nazionale molto meno violento che nel resto d’Europa. Ai primi quattro posti di questa classifica della violenza vengono Calabria, Puglia, Sardegna e Sicilia. Con un tasso di omicidi per 100 mila abitanti nel quinquennio 2016-2020 rispettivamente di 0,96 (un assassinio ogni 100 mila abitanti, venti l’anno), 0,80, 0,78 e 0,55.
Notevole che la temibilissima mafiosissima Sicilia sia quasi la metà della Calabria. Che la Campania, dove Napoli violenta tiene banco nelle cronache, venga all’undicesimo posto, alla pari col Lazio e col  Trentino, un gradino sotto la tranquillissima Umbria. Che il Molise, all’ultimo posto, con uno 0,07 per centomila abitanti che non ha rilievo statistico (un omicidio occasionale) si raffronti con uno 0.45 nel finitimo Abruzzo.
Della Calabria “La Lettura” non rileva il vezzo o vizio antico di detenere armi, denunciate e non.  
 
Aspromonte
Condivide il nome con la Provenza, da cui probabilmente lo ha mutuato – nella “Chanson d’Aspremont” che i Normanni commissionarono per illustrarsi nella “Crociata dei Re”, la terza, attorno al 1190. E anche qualche nobilastro tra gli avi dei Sade. Ma non ne ha la grazia. Cioè ce l’ha, ma non ne beneficia.
Uno sviluppo analogo fu prospettato al principe di Monaco Alberto qualche anno fa – un affare come quello dell’Aga Khan in Sardegna negli anni 1960. Alberto è venuto a vedere, e se n’è andato.
 
La gente è senz’altro diversa - somiglia alla Provenza quale è diventata oggi (la Provenza ha cambiato radicalmente genos quarant’anni fa, con l’abbandono delle campagne ai nordafricani): un melting pot.  Nome inglese, quasi grazioso, per nascondere congregazioni eterogenee. Nell’Aspromonte saraceni inselvatichiti, ebrei convertiti, papas insabbiati di quando la messa era ortodossa – Papalia è il cognomen probabilmente più diffuse sui costoni della Montagna - e albanesi, epiroti, slavi del Sud. Divisi perchè sospettosi – o viceversa.
 
Il comico fiorentino Panariello da Fazio racconta l’aneddoto della vacca che in Calabria per una buona mezz’ora gli impediva il passaggio con la macchina. Si confonde un po’ sulla geografia: dice di aver preso la superstrada (“l’autostrada”) Lamezia-Catanzaro (“là dove si restringe, dovevo andare a San Luca” – Panariello a San Luca?), che a un certo punto si interrompe, come tutti i cantieri italiani, e allora si avvia per “una stradina”, che è invece l’ottima statale 280 dei Due Mari. E infine, insomma, l’aneddoto non gli viene bene, per dire che si era sperduto dice, “beh, ragazzi, ero sull’Aspromonte” – che dista un bel po’ da Lamezia, e anche da Catanzaro. Come dire in un labirinto, in un inferno. 
 
Vive ancora come Pasolini lo classificava indirettamente sessant’anni fa, là dove parla - fa parlare Orson Welles ne “La ricotta”, 1963 - dei “borghi abbandonati degli Appennini e le Prealpi”. I borghi non sono più abbandonati, anzi tornano a essere abitati, ma è come se l’Aspromonte lo fosse. È abitato, ma nella disattenzione, nell’indifferenza. Il sogno non c’è, quello prospettato al principe di Monaco e quello del Parco Naturale - non c’è più. E quindi non ci si pensa.
 
Molti borghi però sono cambiati dal tempo di Pasolini, nelle Prealpi specialmente. E anche nell’Appennino, fra Toscana ed Emilia, e nel Monferrato pre-appenninico. In meglio: si curano, si vitalizzano. S’imbelliscono. Fanno fruttare la socialità, per un sorriso se non per un beneficio economico.
Le Langhe già abbandonate, tenute in vita da spose dell’Aspromonte, si sono fatte un giardino, ricco oltre che bello.  

leuzzi@antiit.eu

L’occhio cambia il mondo

La realtà è diversa senza la vista? Sicuramente sì, la percezione muta la realtà. Un cieco che all’improvviso vedesse avrebbe bisogno di tempo per adeguare le sue conoscenze - le sue percezioni: nella cecità il mondo era per lui diverso, quello acquisito dal tatto, dai suoni.  
Un saggio scientifico ma alla portata di tutti. Basato sull’esperienza comune.
In questo saggio sulla vista, 1749, Diderot introduce il suo concetto di provvidenza, che approfondirà successivamente in “L’interpretazione della natura” – come catena di eventi.
A cura di Silvia Parigi, l’autrice di “Magia e scienza nell’età moderna”.  Con l’originale a fronte.
Denis Diderot, Lettera sui ciechi per l’utilità dei vedenti, Ndf, pp. 161 € 15

lunedì 24 aprile 2023

Mai a sinistra

Ha meravigliato l’inconsistenza di Schlein alla prima uscita pubblica, in conferenza stampa. Ma non ha background politico, se non di essere donna, giovane e lesbica, una fra le tante, e non può inventarselo.
È un’improntitudine che viene da lontano. Dalla sinistra storica dopo Cavour, e dai radicali storici – ma anche di quelli di Pannella. Mentre del partito Comunista, che ha occupato la politica nel dopoguerra, deve sempre farsi l’anamnesi storica, ancora dopo trenta e più anni, se non ha irretito la sinistra nell’obbedienza sovietica, invece di liberarla. Al meglio burocratico: Berlinguer chiedeva l’occupazione della Fiat nel 1980, Cofferati portava a Roma nel Duemila tre milioni di persone, a carico della Cgil, per candidarsi a capo dell’ex Pci, Lama impegnava un referendum per l’inflazione, Veltroni contro la tv commerciale (“non interrompere un’emozione”). Cattivo sempre e micidiale contro ogni altra idea della sinistra. Compresa la Liberazione.
L’Italia è l’unico paese industriale che non ha avuto un governo di sinistra. In centosettant’anni ormai di storia. L’apertura a sinistra degli anni 1960, il centro-sinistra con il partito Socialista, con la coda anni 1980, Pertini-Craxi, è stato specialmente ferace, rinnovando l’Italia: diritto civile e di famiglia, divorzio, aborto, statuto dei lavoratori, sistema sanitario nazionale, programmazione dell’economia, programmazione del territorio, abbattimento dell’inflazione post-crisi 1973 del petrolio, una serie di leggi che ha cambiato l’Italia.  Ma questo non fa storia – non quella perlomeno degli storici.

L’Italia è nata male

“In questo periodo l’Italia si trova in una condizione triste e pericolosa. Tutti sono spaventati dalle funeste certezze dell’oggi e dalle ancor a più temibili incertezze del domani”. Oggi nel 1866. Ma è solo la prima di endemiche “condizioni tristi e pericolose”.
I clericali sono “una classe permanente”. Una sorta di casta, ma continuamente rinnovata: “Questa casta ha una storia e tradizioni tutte italiane, e perfino un patriottismo tutto suo”. La borghesia è “la consorteria”, un comitato d’affari. “Lo Stato italiano è disastroso e disastrato”, nel 1871: “Si mantiene a stento solo schiacciando il paese sotto le imposte e quel tanto di ricchezza che rimane a quest’ultimo serve per foraggiare la consorteria”. Le guerre del 1859 non sono d’indipendenza ma “dinastiche”. “In tutte le statistiche del felice Regno d’Italia due dati spiccano con una semplicità e un’eloquenza strordinarie: Popolazione, circa 25 milioni; Contribuenti delle imposte: circa 2 milioni”. Il Sud fiducioso è stato tradito, da Garibaldi – grandezza e debolezza di Garibaldi. In brevi note molte verità sono scoperte. Caprera in un paio di pagine è la sceneggiatura di un film di ore – un film verità.
Bakunin passa in Italia, che gira e mobilita, tre anni, dal 1864 al 867. Ci giunge “dopo una fuga rocambolesca dalla Siberia”, dov’era confinato. E dopo la fuga si converte presto e si dedica al socialismo rivoluzionario. Ha cinquant’anni. Non ha più denti. Appena entrato in Italia rende omaggio a Garibaldi, a Caprera, per tre giorni. Poi visita Firenze. Rimarrà prevalentemente a Napoli. Dove diviserà di tornare a vivere poco prima della morte nel 1876 - vivrà a Napoli la vedova, con le figlie, le quali faranno parte consistente dell’alta borghesia e degli studi accademici in città.
Lorenzo Pezzica, l’archivista dell’anarchia, che ha recuperato gli articoli e le lettere sull’Italia e li presenta, propone Bakunin come “filosofo politico, storico, osservatore e interprete della realtà”. Filosofo no, non sembra, non qui. Ma capiva quello che vedeva, in Italia per lo meno. Fin dal primo articolo, del 1866, che individua il malessere dell’Italia risorgimentale, in particolare del Mezzogiorno. L’unità monarchica è come un tappo messo alle attese, dall’impegno dei giovani carbonari del 1830 alla rivoluzione del 1848, popolare e repubblicana, cioè rivoluzionaria. Sulla spinta di Mazzini – di un Mazzini lontano da quello che Bakunin aveva conosciuto a Londra, messianico. Il disegno unitario è diventato politico e diplomatico, di furberie e disegni di conquista. La scelta delle lettere documenta la debolezza, anzi l’evanescenza, della sinistra democratica (mazziniana, garibaldina) subito dopo l’unità.
Prose piane, che non infiammano. E ripetitive. Ma veridiche - purtroppo trascurate dalla storiografia. Con un affascinante paratesto. Bakunin arriva in Italia, e al socialismo, che ha cinquant’anni. E non ha più denti. Inseguito dalla nomea di spia, diffusa a Parigi dall’ambasciatore russo per screditarlo – quante smentite non dovrà promuovere, la più risentita di George Sand. Gigantesco, “un mastodonte” per Herzen, “un manso” per Marx. Che gli fece una guerra costante, fino a infangarlo, anche lui, come “spia del panslavismo”, dello zar di Russia.- Marx di cui Bakunin aveva tradotto il primo libro del “Capitale”, come sempre entusiasta. La “fuga rocambolesca” dalla Siberia era in realtà la decisione di tornare all’attività politica, sul solco ora, a 48 anni, del socialismo rivoluzionario – al confino era protetto dalla famiglia influente. E l’Italia era un po’ nel suo destino: il padre aveva studiato a Padova, e poi aveva lavorato presso i consolati russi a Firenze, Napoli e Torino.
Michail Bakunin, Viaggio in Italia, eléuthera, pp. 172 € 16  

domenica 23 aprile 2023

Ombre - 664

Il presidente della Federazione calcio Gravina che, come un imperatore romano, grazia “in via eccezionale e straordinaria” Lukaku, un uomo per sé indistinto, messo lì da Galliani e Lotito, è conferma che la giustizia sportiva è una sentina di poteri loffi.
 
“La segreteria del Pd in trasferta” ha una pagina su “la Repubblica”. Da Roma a Riano Flaminio, che è a Roma: “I componenti del vertice in pulmino a Riano cantando «Bella ciao»
. Per inaugurare un monumento a Giacomo Matteotti. Fatto costruire da un sindaco Pd, che governa insieme con Fratelli d’Italia – peraltro precisando: La mia matrice è post-comunista.

 
Gli Stati Uniti sono nuovamente “una fabbrica”, spiega Rampini sul “Corriere della sera”. Come dire: sono tornati la fabbrica del mondo. No, non lo sono più, da molti decenni – da prima di Reagan. È questa è la verità della globalizzazione, e il suo grande merito. Che ha “liberato” il vecchio Terzo mondo, i tre quarti del pianeta, ammettendolo alla produzione e alla ricchezza. È questa la vera rivoluzione del Novecento, altro che il bolscevismo.
 
Ma. C’è un ma: l’1 per cento più ricco del mondo duplica e triplica ogni pochi anni la sua quota di ricchezza sula ricchezza mondiale. È il grande “buco” dell’ideologia di Thatcher e Reagan che ci governa: che il mercato produce più ricchezza. Si, evidentemente, ma a favore di chi? Nei paesi già industrializzati – ma anche in quelli “nuovi”, tipo Cina, o India. In America vanno in crisi le banche dei ricchi, First Republic dopo Silicon Valley Bank.
 
Dunque, dopo le sanzioni alla Russia, giuste, perché ha fatto la guerra, dobbiamo tagliare i ponti con la Cina? Ci sarà un perché. Forse perché la Cina non ammette che facciamo di Taiwan un’altra Ucraina, con i missili Nato alla frontiera. Intanto gli Stati Uniti, da cui arriva la richiesta tassativa (si vede dai tanti siti “amerikani” in lingua) hanno gravi problemi con la Cina: gran parte della loro inflazione è causata dai problemi dei porti del Pacifico a movimentare i miliardi di container in arrivo dalla Cina, con sovraprezzi di stallìe e controstallìe.
 
“la Repubblica”: “Messaggio a Pechino: le navi militari italiane in rotta per il Pacifico”.  Xi starà tremando.
 
“Le navi” italiane in rotta verso la Cina per ora sono il Morosini. Un pattugliatore.
Ma tra un anno ci sarà anche una portaerei, la Cavour. Che “navigherà fino al Giappone”. Ma il Giappone è più lontano di Pechino? 
 
“Queste missioni”, spiega Mastrolilli, “oltre al valore strategico, ne hanno anche uno industriale, per mostrare ai vari Paesi i prodotti italiani che potrebbero comprare”. Vendere navi militari alla Cina? Al Giappone?
È che anche la Marina vuole la sua porzione di “missioni militari”, con indennità operative (gratifica e doppio stipendio) – come gli Alpini un tempo nelle pianure paludose del Mozambico.
 
Il presidente della Camera Fontana, che chiama gli allievi del liceo Bachelet in visita col ch duro? Bàkelet ci può stare – nessuno conosce più il francese. E poi il presidente è leghista, veneto – quindi austriaco. Ma uno che si proclama cattolicissimo e non sa di un (quasi) martire cattolico? E un presidente della Camera che non ha un minimo di curiosità per questo nome per lui strano di una scolaresca? E i funzionari che gli hanno preparato la funzione? Una volta i funzionari delle Camere erano colti, molto, e perbene (“distinti”).


Si lamentano i cronisti politici già entusiasti che Elly Schlein alla prima conferenza stampa abbia parlato molto per non dire nulla. Va veloce in effetti, come Napoleone – il quale diceva “l’intendance suivra”, poi arrivano i cannoni e le salmerie. Lo disse, pare, arrivando in Russia.


Il G7 equipara agli e-fuel i biocarburanti. Che invece Bruxelles esclude dalla transizione verde. Perché? Perché nel G7 contano Stati Uniti e Giappone, e l’Italia, che sostiene i biocarburanti, non ha avuto problemi a farli accettare. Bruxelles invece si limita a chiedere a Berlino - che non vuole concorrenti nella transizione. E questa è tutta l’Europa.

L’intelligenza di Roma

Per i Natali di Roma un documentario franco-americano (con l’apporto di due sole specialiste italiane, e di uno tedesco – che non si fa doppiare, vuole parlare putroppo in italiano) sul senso politico del monumento naturalmente, ma soprattutto sulla sua ingegneria. Anonima, ma per questo tanto più ammirabile. Un’opera colossale realizzata in dodici anni, con tecniche di costruzione quasi tutte innovative, per i pesi eccezionali e i volumi del monumento, e un uso dei materiali  praticamente ineguagliato, per acume e riuscita.
Si celebra la grandezza di Roma sempre sotto il profilo della potenza. Non dell’intelligenza, che invece la qualificò. Dovette necessariamente averne in abbondanza, politica, economica e culturale, per un impero lungo quasi sette secoli - contando i secoli della Repubblica, che era ben imperialista. Sui campi di battaglia Roma spesso buscava – senza contare le legioni e i comandanti infidi.  
Laure Leibovitz,
Colosseo – Il gioiello di Roma, Sky Arte