Cerca nel blog

sabato 26 gennaio 2013

Ombre - 163

Rosanna Scopelliti, una donna di 31 anni molto composta, figlia del giudice di Cassazione Antonino, ucciso ventidue anni fa su ordine di Riina, si candida alle elezioni nelle liste del Pdl – l’unico partito che le ha consentito la candidatura. Subito su Facebook e Twitter sono fioccate le denigrazioni: “olgettina”, pagata, venduta, etc. C’è una Centrale dell’Odio?

È frastornante il doppio passo della giustizia: miriadi di indagini a carico dei berlusconiani nell’ultimo mese, e non un passo sul più grave scandalo bancario della Repubblica. Di malpractice  e corruzione, e mancata Vigilanza. Su reati cioè macroscopici. Siena ha aperto un’indagine cinque anni dopo la sopravvalutazione di Antonveneta, e poi non ha fatto un passo.
L’impenetrabilità continua dell’ex Pci in materia di conti occulti, attestata da Di Pietro vent’anni fa per Greganti? Gestiti peraltro poi a mani scoperte da Valerio Occhetto e Raoul Veltroni.

Lorenzo Bencistà Falorni, che era macellaio a Greve in Chianti, ha inventato un dispositivo per mantenere al vino le sue caratteristiche fino a tre settimane dopo lo stappo della bottiglia. La soluzione attesa per chi ama il vino buono e per chi lo vende – l’uso delle bottiglie buone” nei ristoranti si è moltiplicato.
La storia di Falorni viene raccontata da “Libération”, a Parigi. I giornali italiani la riraccontano da “Libération”. Il “dispositivo” di Falorni è un’azienda da 54 addetti, in attività da sette anni, con cinquemila clienti in 70 paesi.

Il Pd chiede e subito ottiene dal Tar il rifacimento delle Comunali a Catanzaro. Bersani passa una giornata in città per sostenere il candidato Pd. La Procura fa presiedere le sezioni elettorali ai giudici. Il candidato  contestato rivince, con più voti di prima. Sembra uno sberleffo di Nanni Moreti, “facciamoci del male”, e invece è vero (ma non se ne parla….).

Due pagine del “Corriere della sera” domenica per un Monti Gigante. Della Montagna?
Tutto quanto sembra glorificarlo gli si può addebitare. La sudditanza verso Merkel. La slealtà verso Napolitano. Le mancate riforme, eccetto quella, già pronta, delle pensioni - con f.de b. che gli dice: “Nessuno, dopo Mussolini, ha avuto tanti poteri come lei”. La candidatura anti-Ambrosoli in Lombardia. Il “rinnovamento” della politica con Casini e Fini.
Il titolo della promo è “Dobbiamo togliere l’Italia dalle mani degli incapaci”.

Abbiamo la recessione con l’euro ai massimi, a 1,34 sul dollaro.
Quando ci sarà un minimo di onestà intellettuale questa risposta europea alla crisi finanziaria internazionale, di cui ora il governo si fa scudo, sarà placidamente definita belluina, più che stupida: malvagia. Indurre la recessione per dirsi virtuosi.

Ritratto-saggio nostalgico di Ferruccio de Bortoli l’altro sabato dell’Avvocato Agnelli a dieci anni dalla morte. Ma Ferruccio trascura di dire che, quando l’Avvocato succedette a Valletta, e “aveva 45 anni”, nel 1966, la Fiat era la quarta al mondo, dietro le tre Usa, e quando la lasciò era un catorcio.
Forse per non dire male di Romiti (Mediobanca, “Milano”), che accompagnò l’Avvocato nella (triste) avventura?

Trentuno avvisi di garanzia a Firenze, con perquisizioni, per altrettanti personaggi influenti della Italferr, tutti legati alla politica, tutti democratici delle parte ex Pci. Ma “Repubblica” e “Corriere della sera”, pur non negando la gravità dell’inchiesta giudiziaria, tacciono le appartenenze politiche.
Magari l’inchiesta è sbagliata.

Il poeta è un entomologo

Un titolo infine veritiero, su quella che fu la materia del Novecento, la letteratura della memroia. Del poeta psicologo che fa della verità povera la sua mitologia. “Oraziano”: un racconto sobrio, la vita dei poeti più spesso è banale. Onesto: per esempio sulla “contaminazione tra scuola e famiglia”, che passa per democratica ed è frustrante e censoria, “unificando” (uniformando) le esperienze del bambino e dell’adolescente. Semplice: quando per esempio spiega “la capacità della forma di elevare il banale al sublime” (Fulvio Ferrari nella nota conclusiva, in aggiunta a quella del traduttore Tiozzo), leggendo a scuola Orazio.
A sessant’anni (oggi ne ha 92), il Nobel 2011 si guarda indietro , “la mia vita” , senza pose: “Le prime esperienze restano per la maggior parte irraggiungibili… ricordi di ricordi, ricostruzioni” – con un inavvertito esempio, quando ricorda della storia a scuola i tentativi della Svezia di colonizzare in Africa la Costa d’Oro, oggi Ghana, ma la confonde con Kenya e “Tanganjika”. Con la passione entomologica di un Jünger, altro cercatore di verità, più avventuroso, di quel secolo.
Tomas Traströmer, I ricordi mi guardano, Iperborea, pp. 87 € 10

venerdì 25 gennaio 2013

Problemi di base - 131

spock

Molto si vive e si scrive a futura memoria, di chi?

Solo di chi è morto si può dire che è vivo?

Non c’è altra esistenza che la memoria?

E com’è che il futuro è il passato?

Tutti ci liberano, il mercato dai monopoli, il totalitarismo dalla politica, e che altro ci resta?

Monti si pente dell’Imu, delle tasse, della sudditanza alla Merkel, all’Epifania del redditometro decretato a Natale, e chiede la leadership del Pdl rifiutata un mese fa: di che mafia è il pentito il professore?

La vita è dura, la politica allegra, perché non dovrebbe avere fortuna?

Che faceva Dio prima di rivelarsi?

spock@antiit.eu

Sul poeta la croce dell’infelicità

“Sono felice di vivere in modo esemplare e semplice:\ come il sole, come un pendolo, come il calendario”. C’è tutto in questo esordio: la mini antologia di Paolo Galvagni sbalza una Cvetaeva attiva, sempre ape regina, amante di ogni segno di vita. Ciò che si direbbe – è – sprecarsi. Senza progetto, né misura. Assorbiva come una spugna, dispensava senza riserve, e senza accumulo: “Il poeta da lontano conduce la parola.\ La parola conduce il poeta lontano”. A volte stanca: “Forse la vittoria migliore\ sul tempo e sulla gravità è\ passare senza lasciare tracce,\ passare senza lasciare un’ombra”. Il destino del poeta, anche “felice”, e di portare per conto dell’umanità il peso (la croce) dell’infelicità.
Marina Cvetaeva, Il poeta e altre poesie, Via del Vento, pp. 32 € 4

Tarantolati

Si dice Banca d’Italia per non dire Tarantola. Nome augusto, si capisce che i giornali ne abbiano timore. Giuseppe Tarantola è il giudice che a Milano gestisce i processi – le corti giudicanti. Anna Maria ha gestito la Vigilanza Banca d’Italia che ha fatto fuori Fazio e la stessa Banca d’Italia. E ora, nella posizione di presidente della Rai, è la vestale romana di Monti, del Partito-che-non-c’è.
Ad Anna Maria Tarantola risalgono i controlli carenti sul Monte dei Paschi di Siena. Sia sull’acquisto “incauto” di Antonveneta e prezzo fuori mercato. Sia sulle obbligazioni remunerate al 10 per cento. Nel 2008, a crisi bancaria già  in pieno. Sia sui derivati accesi per pagare quel 10 per cento.
Era tutto preordinato? Una trappola per la banca fuori dal coro? Per i suoi referenti politici? Certo che no: serviva ad abbattere la Banca d’Italia, quel poco che ne resta dopo l’offensiva del 2005.  

giovedì 24 gennaio 2013

Lo scandalo è Antonveneta – il Partito-che-non-c’è

Il vero scandalo nell’affare Mps è Antonveneta. Quello con cui erano stati eliminati Fazio e al Banca d’Italia. Le perdite sui tre derivati, o quattro, di cui si fa la pietra dello scandalo, possono assommare al più a mezzo miliardo, ammesso che vadano contabilizzate ora: niente che la banca non potesse spesare. È l’acquisto di Antonveneta che ha immiserito il patrimonio, al punto da rendere necessaria una quasi impossibile ricapitalizzazione.
Su questo sfondo, lo scandalo succedaneo dei derivati, l’attacco è al Pd e a Bersani, per conto del  Partito-che-non-c’è, ora in campagna per Monti. Lo scandalo è anche l’occasione per Milano di annientare l’ultimo presidio bancario non controllato direttamente, dal “blocco ambrosiano”, milanese e confessionale.
L’offensiva è straordinariamente coordinata, per:
1) tempestività, a un mese dalle elezioni, dopo che Monti aveva bloccato il caso a suo tempo con un voto di fiducia;
2) modalità: pretestando non lo scandalo vero ma uno sul quale nessuna responsabilità penale sarà accertabile, come da canovaccio ormai canonico della giustizia; fra qualche anno;
3) finalità: la messa in mora del Pd, che addivenga a miti consigli;
4) pervasività: lo schieramento compatto dei media, senza una smagliatura. 

Antonveneta 2 – il Risiko

Nel 2004 Abn Amro, colosso bancario olandese, voleva comprare Antonveneta, la banca del Triveneto. Il governatore della Banca d’Italia Fazio organizzò una controfferta. Come in tutti gli altri assestamenti bancari. Ma la Procura di Milano, che non c’entrava nulla, lo bloccò, lo triturò col grande spasso delle intercettazioni, liquidò lui e la Banca d’Italia, e lo farà anche condannare, naturalmente nella fida Milano, in primo grado. Un massacro.
Antonveneta passò a Abn Amro. Che dopo pochi mesi, nell’estate del 2007, fu inghiottita da Royal Bank of Scotland, Fortis e Santander. I tre acquirenti si divisero il gruppo: Antonveneta, con la controllata Interbanca, andarono al Santander, 6 miliardi a valore di libro. Tempo un mese, e il Santander riuscì a vendere Antonvenerta al Monte dei Paschi per 9 miliardi: l’8 ottobre ne perfezionò l’acquisto, l’8 novembre 2007 la vendita era perfezionata - più Interbanca, ex Antonveneta, a GE Financial per 1 miliardo ulteriore.

Antonveneta 3 – la vendetta di Milano

Per affondare Fazio, e con lui anche la Banca d’Italia, tutta Milano si mosse all’unisono, Procura, Consob e giornali. Con la spinta, per una volta scoperta, di Bazoli.
Fazio fece nell’occasione quello che aveva sempre fatto. È toccato a lui privatizzare e risanare le bacate banche pubbliche italiane, le tre Bin, i banchi meridionali, e le Casse di risparmio. E lo ha fatto, senza mai un’aporia, benché gli interessi fossero enormi. Non una tangente, un favoritismo. Nella stessa operazione Antonveneta è stato condannato senza nemmeno il dubbio di un comportamento turpe: solo per eccesso di potere. Che è la verità – anche se non è una colpa di Fazio. La Banca d’Italia si era opposta alla pretesa di Bazoli di prendersi le Generali, e Bazoli gliela fece pagare.
Già Milano era stata disturbata dalla pretesa della Banca d’Italia d’“intromettersi” negli acquisti e incorporazioni di banche, e quindi la reazione fu immediata e concorde, come al solito: schiacciante, la Procura in testa.

Antonveneta 4 – il conto alla Banca d’Italia

Milano fece della vicenda Antonveneta, la grande occasione per annientare l’ultimo residuo d’indipendenza di fronte allo strapotere di Bazoli e soci: la Banca d’Italia. Fu un’offensiva ben più massiccia e cinica di quella di Andreotti il 24 marzo 1979 contro Baffi e Sarcinelli – Andreotti non fece condannare nessuno, e Sarcinelli a settembre gli scodinzolava dietro alla fiera del Mediterraneo a Bari. Con uno schieramento straordinario anche allora dei media imponete, totalitario.
Procedette la Procura di Milano, sebbene non c’entrasse nulla, nella persona dei Procuratori Eugenio Fusco e Giulia Perrotti. Che spolverarono il vieto delitto di aggiotaggio. Per il quale a Milano, dove i patrimoni, come diceva Cuccia, “entrano da una porta e spariscono dall’altra”, non è mai stato condannato nessuno. E pochi sono stati indagati, svogliatamente, malgrado le tante denunce.

Antonveneta 5 - i Grandi Fratelli

Antonveneta è passata come un pacchetto postale di mano in cinque anni attraverso banche che non ne sapevano nulla. Dando ragione nei fatti a Fazio: la banca non è una merceria. La banca del territorio, di uno dei poli produttivi più importanti dell’Italia. Mentre i cosiddetti giganti fallivano: Abn Amro, la preda, e i predatori Rbs e Fortis
Il Santander del Gran Maestro Botìn invece no. Benché la Spagna, e il Santander per essa, navighi su una palude immobiliare. Il Santander sempre si dice che stia per fare il botto ma sempre si salva. In Italia Botìn e il Santander furono promossi in grande da Cuccia. Rappresentati da Ettore Gotti Tedeschi. 
Gotti Tedeschi è stato da ultimo il banchiere dello Ior, la banca vaticana, cacciato un anno e mezzo fa da papa Ratzinger. Nella sua casa di Piacenza successivamente sono stati trovati dai Carabinieri di Roma – Gotti Tedeschi non è mai stato indagato a Milano, competente - 47 faldoni di affari speciali.
Prima dello Ior, Gotti Tedeschi era stato in affari, già allora per conto di Botìn, con Gianmaria Roveraro, il banchiere assassinato da ignoti nel 2006, e con Giuseppe Garofano. Sia Roveraro che Garofano si dicevano membri dell’Opus Dei. Come Botìn – anche Gotti Tedeschi? Che può non voler dire niente, semplicemente che lavoravano d’intesa, per la comune fede. Ma non in caso di malaffare.

Antonveneta 6 – tutta la finanza a Milano

Con Mps-Antonveneta sotto scacco Milano si prende tutta la banca. Nell’operazione Antonveneta del 2004, Milano temeva la costituzione di un polo bancario autonomo indipendente. Attorno a Unipol e alla Popolare di Lodi. Cioè attorno al polo finanziario emiliano-toscano della Lega delle Cooperative, e attorno alle Popolari. Alla chiusura della crisi Mps avrà il controllo bancario di tutte le regioni produttive, Triveneto e Toscana comprese.
Analoga siinta centripeta Milano sta esercitando da tempo sulle assicurazioni. È ancora sub iudice il passaggio di Fonsai a Unipol. E l’autonomia di Generali. Dove non basta la presenza condizionante di Mediobanca. Il milanesissimo Greco ha preannunziato una radicale “operazione pulizia”, con l’obiettivo non dissimulato di giungere a un assetto definitivamente ambrosiano del gruppo triestino. 

Antonveneta 7 - l’annientamento di Banca d’Italia

Grilli accusa, Passera si chiama fuori, essendosi tenuto fuori dal Partito-che-non-c’è : il bersaglio è ancora la Banca d’Italia. Ma con un senso forte di già visto, e come un falso scopo. Visco e Saccomanni, che si difendono dicendo “Mps ci ha nascosto le carte”, sono un riflesso povero di quello che era la Banca d’Italia. Si erano fatti candidare da Bersani a futuri ministri, e quindi devono mettere le mani avanti. Ma nessuno più li teme, né li tiene da conto.
Avrebbero dovuto nel’occasione mettere sotto accusa la Vigilanza di Anna Maria Tarantola, ora presidente della Rai. Ma Tarantola è, insieme col fratello Giuseppe, il giudice attorno a cui ruota il Tribunale di Milano, al centro del Partito-che-non-c’è, e la Banca d’Italia non osa.
Con Tarantola sarebbe dovuto venire sotto accusa anche la gestione Draghi della Banca d’Italia. Specie nell’acquisto abnorme di Antonveneta dal Santander. Ma la Banca d’Italia è come se non ci fosse più.

Antonveneta 8 - il Pd ostaggio delle Procure

Perché Mps abbia dato a Santander una plusvalenza di oltre 3 miliardi in tre mesi è ancora da accertare. Per giunta quando già il risiko bancario cominciava a scricchiolare. Che si sia trattato di un errore non è plausibile. Ma su questo, che potrebbe configurare un delitto, naturalmente non si indaga. I fatti una certa giustizia preferisce trasformare in minacce. Per governi dove il Pd, se ne deve essere parte, non possa agire in autonomia politica.
Dall’attacco a Fazio allo scandalo Mps la giustizia politica è palese, anche nei suoi veri mandanti e intendimenti. Tanto da rasentare qui la beffa: il Pd è ostaggio e non protagonista del sistema delle Procure di cui scioccamente si fa baluardo dopo la dissoluzione del Pci – si parla del Pd ex Pci. Non ha mai “controllato” i capi delle Procure, i Borrelli, né i capi del Tribunale, i Tarantola. E quelli che controlla, i Messineo, i Pipitone, i Caselli, gli vengono serialmente azzoppati.

Antonveneta 9 - la colpa è dei fratelli Berlusconi

La tempesta è perfetta come sempre a Milano, e prevede, dopo Fazio e la Banca d’Italia, anche la sua dose per Berlusconi. Sempre alla maniera obliqua del partito dei giudici: con Berlusconi è imputato il fratello Paolo, al quale eventualmente addebitare la responsabilità penale.
I due sono imputati – la condanna è attesa una settimana dopo le elezioni – di avere ascoltato una telefonata intercettata di Fassino, allora a capo dei Pd-Ds (“Abbiamo una banca”, la Unipol-Antonveneta). Un’intercettazione non divulgabile, che ai due è stata portata da un personaggio a loro sconosciuto. Subito pronto, a tempo, dovuto, ad accusarli.

L’amore da grandi

La nobile Julie, divorziata due volte, “vecchia” di quarantaquattro anni, “anzi di quarantacinque”. Col pimento dell’aneddotica personale della scrittrice, il lascia-e-prendi, alla stessa età, col secondo marito, de Jouvenel. Col fiuto dell’estetista, quale provò a essere dopo il divorzio. E compreso il rapporto “incestuoso” col figlio di lui – doppiato, nelle parti scabrose, da un coetaneo esterno alla famiglia. Ben più sessuato, con la sua immoralità, anche se senza passaggi pruriginosi (con la amante giovane Julie fa il punto a croce, di quella in età le basta saperne la presenza), delle “Sfumature” che hanno tenuto banco ultimamente.
È l’altro tema di Colette, l’amore. Di “Giulie che non si apprezzavano, non diventavano sottili, buone, feroci, stoiche, che a causa dell’amore, di un leale appetito dell’amore, di ciò che genera di castità facile, di commercio carnale...” Ma dialogato meglio di Edith Stiwell, nella sottile perfidia, e delle migliori dame britanniche. – Colette si diverte, nel 1941, nella Parigi tedesca: l’occupazione fu anch’essa divertente? Trincerandosi acuta, lasciva, ammiccante nel Palais-Royal. Dove lascia intendere d’essersi avventurata “per caso, innocentemente”, come la famosa predecessora simbolo di purezza e innocenza, la Virginia, nomen omen, di Bernardin de Saint-Pierre. Pretendendo di abitarne un cubicolo al modo di quelle donne di natura variegata ma di professione unica di cui Restif de la Bretonne fece il censimento – ce n’erano 2.200 nel 1790, quelle che firmarono una petizione all’Assemblea Nazionale della rivoluzione. La (buona) letteratura deve un po’ lasciare intendere. 
Colette, Julie de Carneilhan

mercoledì 23 gennaio 2013

Letture - 125

letterautore

Amore – Breton rifiuta il ripudio, ne “L’amour fou”, una volta che è stato “scelto” l’amore. Di cui dà una definizione mirabile: “L’amore reciproco, come lo vedo io, è un dispositivo di specchi che mi rinviano, sotto i mille angoli che può prendere per me l’ignoto, l’immagine fedele di quella che amo, sempre più sorprendente di divinazione del mio proprio desiderio e più dorata di vita”. Ma si è sposato tre volte.

Baudelaire – Saba lo fa omosessuale represso (Scorciatoie”, p. 150). Non lui personalmente, in genere,  ricordando che i decadenti “inneggiavano volentieri agli istinti, alla divina libertà degli istinti primitivi, ma poi si è saputo che erano, “in gran parte, passivi”.
Se non che Saba è parte in causa, anche se non inneggia agli istinti primitivi. Per posa forse – o forse perché lo avrebbe voluto.

Donna-oggetto – È borghese. Storicamente e concettualmente. Proprio nel momento in cui il romanticismo libera le passioni e le aspettative, il diritto subordina la donna. Se è moglie o figlia. La condanna e la isola se non lo è – a meno di scelte virginali.

Nell’ultima pubblicistica femminista, sia di destra che di sinistra, poniamo Michela Murgia e Michela Marzano, la minorazione femminile è occidentale, anzi cristiana, e quasi vaticana.  Con più determinazione “a destra”, in ambito cristiano: “Maria di Nazareth”, scrive Michela Murgia in “Ave Mary”, “è la persona che ha subito il torto più grande nel dipanarsi di questa colossale struttura di dominio. È stata strumentalmente trasformata in icona della più passiva docilità, in muta testimonial del silenzio-assenso”.

La donna oggetto non è occidentale, non viene dal mondo antico. È introdotta in Occidente dalle invasioni tribali, di orde nelle quali l’unica funzione femminile era di procreare figli maschi (Bachofen). Al tempo in cui il cristianesimo, verso il quale le orde fatalmente confluivano, si regolava sull’antisessualità paolina e dei monaci, i padri della chiesa, e conseguentemente sull’antifemminilità.
L’esclusione si è poi generalizzata in Occidente col feudalesimo e il maggiorascato. In parallelo con vecchie-nuove forme di egualizzazione, seppure marginali, nelle aristocrazie urbane, nell’intellettualità. Diventa totale (occidentale) con le forme borghesi della società, specie nel Sei-Ottocento. Le Preziose, a metà del Seicento a Parigi, evocano un matrimonio in cui Venere e Cupido trionfano liberando la donna dalla mera procreazione. Ma nello stesso tempo Montaigne così registra la realtà: “Un buon matrimonio, se ce n’è, rifiuta la compagnia, e il condizionamento dell’amore”. E si arriva alla “prostituzione legale” che inferociva Stendhal, i tanti contratti balzacchiani che hanno a oggetto la donna-merce. Anticipati dallo stesso Balzac nel 1929, nella  “Fisiologia del matrimonio”: “La donna è una proprietà che si acquisisce per contratto; una proprietà mobiliare perché il possesso è titolo; e non è a parlare propriamente che un annesso dell’uomo”.

Internet - Il blog ha reso tutti scrittori. You Tube tutti registi. Di pezzi brevi. Che può essere un’arte facile. O anche difficile: bisogna fare bene con poco. Comunque non andare oltre la superficie: l’accenno, la smorfia. È per questo una forma di godimento-creazione poco soddisfacente, di brevissima tenuta, che necessita di più. Come una droga, leggera ma di effetto minimo e sempre più ridotto.
È il romanzo fai da te: autore, editore, direttore, distributore, critico, e pubblico. Meglio ancora per il film, su You Tube e altrove: produttore, regista, distributore, e attore, in azione e non più soltanto nelle fotine lusinghiere. Di documentari, di scenografie complete e anche di telenovelas. La rete è un universo privato, interminato, interminabile, il solipsismo fatto schermo-immagine.

Moltiplica le scritture. Moltiplica, materializza, diffonde i fantasmi. E li tiene in custodia, più accessibili di qualsiasi biblioteca, senza spostamenti, senza attese né lasciapassare.

È un linguaggio. Breve, genere feuilleton da una parte. O adolescenziale dall’altra. Con storie brevi, frammentate, mai “definitive” (circoscritte, parabolari). E accensioni, umori.
Si dev’essere brevi in rete, e non seriosi. Si può cazzeggiare, come fa il 99 virgola nove per cento dei navigatori, o pondere giudizi profondi e massime fulminanti come vuole twitter, il linguaggio del momento. Non si può scrivere il fondo di giornale, il pastone, la cronaca di parte: la rete, nella sua scarsa malleabilità grafica, ha pochi o nessuno dei trucchi del giornalismo. Inoltre, è una parola momentanea, dà forte il senso della fragilità-temporaneità. Non della scrittura, poiché al contrario porta tutti all’ambizione di scrivere, li rafforza. Della condizione esistenziale.

Ma richiama irresistibilmente Pessoa. L’epoca dell’Inespressione e del Vuoto (Vacuo) di Pessoa, anteriore a Heidegger, coevo dello spirito Excelsior del Comm. Cav. Grand’Uff. F.T.Marinetti, della sua sensibilità da music man, lo spirito di Fine Secolo (Ottocento) di cui non ci liberiamo, di Vuoto-Infinito, Vuoto-Dio, Esistenza fantasma, di Labirinti, Vertigini e Doppi che non sono Altri, pretendendo all’immortalità senza crearla, senza cioè fatica, applicazione oscura. È l’epoca dello Spirito, paracletiana? Ma quanto terra terra, anzi no, superficiale.

Sherlock Holmes – “Storie povere”, “frasi ingegnose ma non troppo”, “soluzioni deboli”, gli trova Borges. E prolisso, si può aggiungere, specie nei romanzi. E tuttavia si legge sempre, con interesse.

Sogni – Colette ha insistente, dettagliata, nella “Gatta”  il “vestibolo dei sogni”. È il dormiveglia prima del risveglio. Al centro della narrazione, è ”l’istante incalcolabile riservato al paesaggio nero, animato da occhi convessi, da pesci a naso greco, da lune e da bazze… L’istmo stretto tra l’incubo e il sogno voluttuoso”.

Stupidità – Antonio Pascale (sul “Corriere della sera” di mercoledì 16 gennaio ) la lega a stupore. Senza più. Deriva l’equivalenza da un commento del “Financial Times”, sezione “Management”, che usa i due termini indifferentemente (mentre non usano stupore per stupidità gli autori del saggio di cui il giornale inglese riferisce, “A Stupidity-Based Theory of Organizations”, di Mats Alvesson e André Spicer, pubblicato a novembre dal “Journal of Management Studies”). Ma forse è proprio così. Il Devoto lega “stupido” a “stupire”, che dice “variante, con –s iniziale, di una radice che significa dapprima «battere», ed è attestata, senza –s, nelle aree greca, slava, indiana”.

Tasso – Non solo Dante, anche il Tasso ha una “tradizione” tedesca. “Il Tasso”, afferma madame de Staël in “De l’Allemagne”, “è anche un poeta tedesco”. Perché “l’impossibilità di cavarsela nelle circostanze abituali della vita ordinaria che Goethe attribuisce al Tasso è un tratto della vita meditativa e chiusa degli scrittori del Nord”.

letterautore@antiit.eu

D’Arrigo, prima che l’“Orca” lo fagocitasse

D’Arrigo ventenne ha scrittura e tematiche già definite. Poi stravolte, nella lunga macerazione del “capolavoro”, qui perfino calligrafico. Pulito, preciso, seppure con una sintassi avventurosa – compreso il flusso poi bernhardtiano, in un paio di mezze pagine. “A Taormina con la nonna” l’ultimo dei quattro pezzi della piccola raccolta, è da antologia. Licantropo è già nel racconto del titolo - seppure appesantito da un comico tradizionale – “la «mostruosa» metamorfosi animale e linguistica dell’«Horcynus Orca»”, può dire nella postfazione, un gioiellino di suo, Siriana Sgavicchia. Incarnando “l’ebbrezza lunare e dionisiaca del desiderio e insieme il suo lato perturbante, destinato a precipitare nell’abisso della colpa e dell’autodistruzione”.
D’Arrigo è definitivamente più che “Horcynus Orca”, l’ambizione di una vita che lo ha fagocitato. Parte ancora dolente di un Novecento che si tarda a rivedere, soprattutto il secondo, benché tante censure politiche sano cadute – forse non nell’accademia?
Stefano D’Arrigo, Il licantropo, Via del Vento, pp. 32 € 4

martedì 22 gennaio 2013

L’Europa è fuori dell’Europa

L’idea non è di ora, è di novant’anni fa: deve necessariamente accadere qualcosa di nuovo. E dunque diremo Husserl contemporaneo, o l’Europa attardata? È dell’Europa che si parla, “L’idea di Europa” del padre della fenomenologia è come uscirne fuori, dalla crisi dell’Europa. Husserl se la cava: filosofia (critica) è rinnovamento, non c’è Europa senza filosofia, non c’è Europa senza rinnovamento.
La raccolta è l’avvio di una ossessiva riflessione, postbellica, che si concluderà nel 1935 con la conferenza viennese “La crisi dell’umanità europea e la filosofia” - tre anni prima della morte, da tre anni fuori dall’università per essere di famiglia ebraica, benché patriota, padre di tre volontari della grande guerra, uno morto, uno ferito grave, Elli infermiera al fronte. E confluirà nel postumo “La crisi delle scienze europee”. Della fenomenologia intesa come “filosofia della libertà” (Lévinas). Quando l’Europa Husserl vedrà fuori dell’Europa, negli Usa, e in Africa e in Asia nelle ex colonie.
Questa è l’Europa del 1922, dopo la “fine della civiltà”, con la Grande Guerra e la sconfitta della Germania. La guerra che lo stesso Husserl ancora nel 1917, dopo le battaglie-carneficine di trincea, proponeva insegnando Fichte come “il destino grande e severo, al di là di ogni immaginazione, della nostra nazione tedesca”. La sconfitta avrà effetti traumatici duraturi, su Husserl come su tutta la Germania, in parte in digeriti. Due anni dopo la sconfitta Husserl vedeva nella guerra “indicibile miseria, non solo morale e religiosa, ma anche filosofica” – religiosa? morale? non tedesca? E contestava a Spengler il “tramonto”: “Una fatalità, un destino che ci sovrasta? Sarebbe un destino fatale soltanto se lo accettassimo passivamente”. Qui, sollecitato dalla rivista giapponese “Kaizo”, mette a punto e reitera in cinque saggi il progetto di una filosofia come responsabilità. Lo stesso metodo dice non “esercizio preambolare” ma “responsabilità di sé”. Di cui “l’idea europea” è “manifestazione esemplare”, e solo essa.
È Nietzsche (“Al di là del bene e del male”) rovesciato, cinquant’anni dopo e proprio nel momento peggiore dell’Europa: il continente come “penisoletta avanzata dell’Asia”, che “vorrebbe rappresentare a tutti i costi, rispetto all’Asia, il «progresso degli uomini»”. La filosofia, nata in Grecia, è l’entelechìa propria dell’umanità”. L’Europa è sprofondata, nella guerra e dopo, nella crisi della sua stessa cultura, ma “deve necessariamente accadere qualcosa di nuovo”.  Husserl vorrebbe una scienza dell’uomo - della conoscenza, della filosofia - analoga alla matematica per la natura. Ma contro una visione naturalistica della politica, cioè burocratica.
Oggi, facendo ancora un altro balzo oltre il fascismo, sarebbe pro o contro questa Ue, per molti aspetti la scomparsa della “sua” Europa?
Husserl, L’idea di Europa

Secondi pensieri - 131

zeulig

Confessione – È la storia? “Essere soggetto significa eo ipso avere una storia”, insegna Husserl nell’ “Ideale di umanità di Fichte”, le lezioni del 1917, e non intende un affare di letto. “Scrivere la storia dell’Io” è “scrivere la storia della necessaria teleologia in cui il mondo, in quanto fenomeno, viene a progressiva creazione”.

Corpo – “L’anima , senza il corpo, gioca”. È un verso di Addison, che lo dice derivato da Petronio, dal “Satyricon”. Addison intende nel sogno, che nel sogno l’uomo liberamente gioca - in Petronio non si direbbe, Petronio è tutto per la carne.
Era il tema del Festival dei Matti a Venezia a novembre. Ma l’evento è stato annullato.

Dio – Potrebbe stare per odio, come un refuso. Odio puro è il Dio di compassione dell’ebraismo, il cristianesimo, l’islam, il Dio di cui si parla. Odio reciproco, e delle sette islamiche, cristiane, ebraiche, che senza sosta si combattono, e anzi si formano per rigenerare la lotta.

Ci dev’essere, dice Lutero, perché l’uomo ha bisogno di qualcuno di cui fidarsi. Ma se non c’è? “L’uomo fu creato perché ci fosse un inizio”, dice sant’Agostino al capitolo 20 delle “Confessioni”. E se non comincia nulla? Non ci sono teologi santi.

Su Dio non si può contare, poiché ha abbandonato Gesù: se c’è, è una presenza assente. Ma vale sempre la proposta di Tacito: meglio (“è più santo e reverente”) credere all’esistenza di Dio che discettarne. E poi basta poterla raccontare, un incipit è già tutto, come sapeva Platone: “L’inizio è anch’esso un dio che, finché resta con noi, salva tutto”.

Il Dio cristiano vuole fede assoluta, essendo il meno comprensibile di tutti: l’Incarnazione, la Passione e morte, la Resurrezione sono mitologie ardue. Per non dire della Trinità.

G.B.Shaw ha un “God is in the making”. E c’è stata l’apocatastasi, il ritorno a Dio. Un Dio temporale.

Sogni - I sogni sono desideri, anche contro l’evidenza – i segni di sogni, o i sogni di segni, è refuso irresistibile. Ora, desiderio è legato agli astri, sidera in latino. Roba fredda, da strateghi di capacità combinatoria, Giulio Cesare, Alessandro Magno, o i due assieme, l’astuzia e la grazia. Ma solo nella lingua italiana, è vero. In territorio germanico è diverso: è Benedikt Franz Xaver von Baader, il maggior esponente del romanticismo cattolico tedesco, che per primo interpreta i sogni come “verità superiori”. Cui Johann Wilhelm Ritter, fisico-fisiologo a Jena, scriverà: “Credo di aver fatto una scoperta importante, quella della coscienza passiva, dell’involontario. Ciascuno di noi porta in sé il suo sonnambulo, di cui è egli stesso il magnetizzatore”. E il medico mesmerista Karl Gustav Carus: “La chiave per conoscere l’essenza della vita psicologica cosciente sta nella regione dell’incosciente”.
Ma già Jean Paul ipotizzava che i sogni racchiudono i segreti dell’anima, e sono la sede degli istinti. Mentre E.T.A.Hoffmann vedeva nelle esperienze dell’infanzia la materia prima dei sogni. Freud voleva essere un mago, il dottor Clitandro, medico dell’anima di Molière, e questo lo rende simpatico, rifare la Smorfia.

StoriaNon è democratica: il passato, la dignità (forza) del passato. Prima – subito – vengono le relazioni di potere: il posto, la raccomandazione, la dipendenza. Che si può dire anche così: l’obbligazione sociale, la rete.

Può pure essere la montagna di polvere dell’altrimenti ignoto Augustine Birrell. La sua epopea, Croce l’insegna, è più vicina alla tragedia che all’idillio. E la fa solo chi distingue il bene dal male, come Defoe premette a Jonathan Wild. La storia di Herder, l’educa-zione divina del genere umano, che è anche la salvezza di sant’Agostino, si rovescia in educazione umana di Dio. Una leva archimedica, secondo lo storico Garin: una visione liberatrice attraverso la dimostrata vanità dell’accadere e d’ogni azione mondana. La storia vera è profana, il tempo che s’affaccia sullo spazio, che sono i corpi ed è l’infinito. L’ibrido dun-que è doppio. Come si sciolgono le incompatibilità? Era nel progetto di Cristo introdurre una dimensione profana nel tempo sacro, intemporale? O c’è, fin dal Genesi e, neppure surrettizia, nella dottrina cristiana, una curvatura dell’intemporale nel senso della storia - la memoria, l’esame? Il nostro tempo, il tempo storico, non si concilia con l’eternità, questo è un fatto. È lo stesso mistero di Cristo, che è nato ed è morto ma è Dio.

“Madre della verità” è però la storia già in Don Chisciotte. Il Novecento è secolo ripetitivo, seppure lungo. Da Baudelaire in poi volendosi una reazione alla regina Vittoria, epoca imperiale ma defunta di busti e mutandoni – le rivoluzioni hanno fasi passatiste, determinate al passato. Hitler e Stalin hanno spazzato via tutto ma il secolo ancora non se n’accorge. L’Europa: non sa cosa sono gli Usa, l’Asia, l’Africa, i veleni, i miliardi di persone, e fantascienza dice il mondo, una cosa che non c’è e non è possibile, ed è cieca, forse per essere vecchia.

È anche una furbata. Heine dice “lo storiografo, il profeta retrospettivo”. La storia come scienza della ricostruzione del passato, su fondamenta profetiche.

Verità – Il cinico se ne astiene, il sofista se ne fa sacerdote, laico (cinico). Ma è l’ordine del discorso – di ogni atto o evento. Compreso l’atto selettivo dello sbirro o giudice, del testimone (visione), dell’autore (suoni, sogni,  teatri).

Classico è il più ricco, proletario chi fa molti figli, idiota il proprietario, si spiega nelle “Notti Attiche”, in casa di Cornelio Frontone. La storia, consistendo di parole, è a volte illusoria, ma i fatti no. L’incertezza è parziale, si sanno pure le cose che non si sanno. L’opposto della menzogna è sempre la verità, un po’, e la menzogna stessa - verum factum, verum fictum non è un refuso: la verità è all’origine finzione e invenzione, e senza non ha argomenti.

Nella teologia Lutero smarrì Dio. Ma l’impossibilità per noi di sapere le cose come sono in se stesse non è solo della teologia, Kant lo spiega della filosofia.

zeulig@antiit.eu


La giustizia democratica punita a Catanzaro

Non è servita la presenza di Bersani in città. Non è servito il commissariamento del Comune a poche settimane dal voto. Non è servito il sostegno del Tar allo sconfitto Scalzo del partito Democratico. Catanzaro ha rivotato Abramo del Pdl, con uno scarto maggiore che a maggio. Abramo ha avuto i suoi voti di maggio, Scalzo ne ha avuti di meno. Dopo il voto di maggio Scalzo aveva “ipotizzato” voti di scambio e situazioni “poco chiare”, e tanto era bastato al Tar per invalidare l’elezione di Abramo. Ma gli elettori di Scalzo non gli hanno creduto, certo non tutti. 
L’aneddoto è marginale (forse per questo i giornali non ne parlano?), il fatto no: non c’è una partita politica leale, tra i partiti in gara per le politiche tra un mese, c’è una giustizia politica. Che in questa fase è impegnata contro Berlusconi. Da parte dei giudici di sinistra e dei tanti Procuratori Capo di Fini. Si riaprono vecchi dossier. Se ne inventano di nuovi. Alcuni si dimenticano – sono finite le indagini a carico degli uomini di Casini, in Sicilia e nel Lazio, e di Fini. Alla giustizia in genere basta un reato per infliggere una condanna, qui si affastellano indagini senza mai una vera condanna, dei dossier.
La giustizia politica è in Italia “normale”. Dapprima fu a carico della sinistra. La inventò Fanfani col caso Montesi, per smontare le ultime posizioni dossettiane nella Dc. Andreotti ne fece strumento feroce, per una dozzina d’anni, contro i socialisti e contro Moro – da ultimo contro Baffi e Sarcinelli, cioè contro la Banca d’Italia (a favore di Sindona…). E tale è rimasta, passando negli anni 1980 a sinistra con l’ex Pci, che la premia con avanzamenti, cattedre e posti da parlamentare, dapprima contro i socialisti  poi contro Berlusconi.
È una “giustizia” che non paga politicamente – Andreotti non costituisce un precedente, era anche lui vittima dei giudici. È un motivo di campagna elettorale offerto a Berlusconi. Le ultime vittorie della sinistra, quelle di Prodi, di Pisapia, si sono avute segnalatamente senza “ferri”. C’è però da chiedersi dove sarebbe la sinistra senza i giudici, e questo è il vero problema - perché la destra è tanto forte se la sinistra è inattaccabile.

lunedì 21 gennaio 2013

L’infanzia cubista di Marina

Un racconto “cubista”: nel “Racconto di mia madre” Cvetaeva sposta in continuazione il punto di osservazione, dall’uno all’altro dei tre personaggi, l’autrice e la sorella Anastasija bambine, la madre. Nel genere memoria familiare, o interno fiammingo delle piccole cose, e insieme gotico, di orchi e miracoli. Pasticciando Puškin, la Tatjana dell’“Oneghin”.
Segue un’altra memoria familiare, delle due sorelline col fidanzatino, lo stesso per tutt’e due. Un personaggio preciso ma indistinto, che si suppone inventato, un “fidanzato d’acqua”, e alla fine invece c’è, c’era. Una metafora quasi filosofica, dell’essere-non essere.
Su Cvetaeva si riverbera la fine drammatica, il suicidio nell’infamia politica e l’inedia. Mentre fu  persona e scrittrice di umori, vivacemente gai. Antonio Castronovo, che cura la mini-edizione, la fa bastian contrario – toscanismo in disuso, uno dei tanti insensati, ma significante: “Il suo principio di vita poetico diventa la negazione”. Si direbbe anticonformista ma non lo era: Marina è scrittrice solidamente borghese. Ma fu zarista a Mosca, tra i rivoluzionari, e rivoluzionaria a Parigi tra gli emigrati. Senza metafore.
Marina Cvetaeva, Il racconto di mia madre, Via del Vento, pp. 33 € 4

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (159)

Giuseppe Leuzzi

Siamo il Sud di un “Nord che non c’è”, del titolo che si danno gli scrittori del Nord? Sarebbe una spiegazione.

Il regno meridionale è Misspellheim nella mitologia nordica, il luogo del mispelling, la cattiva compitazione. Un refuso.

Monti si pente dell’Imu, delle tasse, della sudditanza alla Merkel, e all’Epifania del redditometro decretato a Natale: di che mafia è il pentito il professore?

Nel racconto “Singolare avventura di Francesco Maria” Vitaliano Brancati ha “il cielo azzurro dell’estremo Sud nel quale le rondini scorrono come una veloce scrittura”.

È “calabrese” a un certo punto il sig.Trupìa, l’affarista (ladro, corruttore, violento) di “Benessere Borghesia”, il “Sillabario” di Parise che fu poi scartato dalla raccolta. Sembra il personaggio di Albanese, “Cetto La Qualunque”, anche se il comico non sembra saperlo. Si vede che lo stereotipo ha qualche fondamento..
Ma è una connotazione, tutta negativa, con un curioso effetto di sollevo: un truffatore non è un trucido killer.

L’odio-di-sé
Camilla Cederna, “Il lato debole”, p. 63, ha il canone della gita a Napoli: “Una settimana a Napoli e dintorni in questo principio d’inverno che pare primavera è ancora una meraviglia”. E giù cinquanta righe di eventi e fatti assurdi. Il cliché  è: Napoli è bellissima ma corrotta. Dai Borboni, dai lazzaroni, dai casertani. Da chi e da che in centocinquant’anni altrove si sarebbe rimediato, ma a Napoli non  perché Napoli è anche fatalista.
Nulla di eccezionale, non fosse che il canone e Cederna piacciono alla napoletanità.
Notare i “dintorni”. A Capri o Positano è infatti un altro mondo, non fatalista e, forse, non corrotto. Non è più Napoli? No, è sfuggito alla napoletanità. Anche Ischia ci aveva tentato. Ma Napoli è più vicina.

Autobio
Uno dei due paesi è di zangrei – ha questa cattiva fama. Che abitavano in effetti, e abitano tuttora, uno dei suoi quartieri. Pastori con le cioce, così si raffiguravano nelle foto e in qualche quadro. Venuti dalla parte più interna della Montagna, nel largo displuvio dell’Aspromonte verso lo Ionio, da Natile, Careri, San Luca - sui luoghi d’origine, benché presunti, riverberando immagini di primitività. Zangreo era uno dei nomi di Dioniso, dio dell’ebbrezza, del canto, della danza, non antipatico.

Eravamo greci senza saperlo. Finché un ventina d’anni fa il maestro Costantino Scutellà non diede il compito ai bambini di ascoltare dalle nonne e le zie parole di uso comune non italianizzanti e di trascriverle – le parole cioè non di un italiano quale è in uso ora nelle famiglie, dopo la televisione. Ne venne fuori un dialetto non italiano di oltre duemila parole, una seconda lingua non fosse per gli ausiliari. Il maestro Scutellà lo fece repertoriare ai bambini in ordine alfabetico, con accanto l’equivalente italiano. In forma di piccolo dizionario, che batté a macchina, ciclostilò e rilegò, corredando ogni termine della probabile derivazione linguistica. La maggior parte delle parole in suo un paio di generazione fa erano greche. Anche i nomi di famiglia più ricorrenti, Romeo, Foti, Papalia, Macrì, Tripodi, Laganà, Marino, Surace, Calabrò, eccetera.
Non che abbia cambiato molto, il senso della storia è lento a penetrare, i suoi spiriti vitali..

Mario ci vuole zingari, gli zingari dei greci, dei saraceni della costa, inguattati nei monti, per qualche motivo latitanti, in una vita più faticosa e difficile.

Si parla molto – si parlava molto, quando si parlava – col silenzio. In famiglia e fuori. Anche tra amici nelle interminabili passeggiate, in paese e per i campi. In casa con le madri, pazienti, senza musonerie. In casa e fuori con i padri, distanti. Silenzi pieni di significato.
Il silenzio, nella conversazione muta, può essere la parola più pregnante – la forma più complessa e articolata di comunicazione. Barthes, in “Dove lei non è”, il lungo lutto in morte della madre, ricorda un haikù di Bashô, “Restammo seduti per un lungo momento nel più estremo silenzio”, e si consola: “Trovo d’un tratto una specie di pace, dolce, felice, come se il mio lutto si calmasse, si sublimasse, si riconciliasse, si approfondisse senza annullarsi – come se «io mi ritrovassi»”. Subito prima ha detto, della madre morta: “Poche parole tra di noi, io restavo silenzioso (frase di La Bruyère citata da Proust) ma mi ricordo del più minuto suo gusto, dei suoi giudizi”. È una maniera muta, identificativa, di significare (estrinsecare) gli affetti, duratura.
E poi, ancora Barthes della madre: “Condividere i valori del quotidiano silenzioso (gestire la cucina, la pulizia, gli abiti, l’estetica e come il passato degli oggetti), era la mia maniera (silenziosa) di conversare con lei”. Si può comunicare meglio (di più, più intensamente) non “dicendo” le cose, tesoro, ti amo, etc., magari per abitudine, ma identificandosi. Trasponendosi nell’altro, per un riconoscimento spontaneo, immediato, nelle cose, nei gesti, nei gesti rattenuti. Questa comunicazione “naturale”, non ostensiva, non posata, senza preoccuparsi di sembrare, buoni, pii, santi, bravi, Barthes chiama “Santità” – il modo d’essere naturale, non inarticolato, vissuto.
I parsi, adoratori di Zoroastro (lo Zarathustra di Nietzsche), hanno la loro comunità più numerosa, duecentomila fedeli, compresa la famiglia Tata, a Mumbay. Morti, si fanno consumare nelle “torri del silenzio”, allineate in fila dentro un parco cinto da mura.

È difficile spiegare, a chi non l’ha subita, la violenza. È tema vile, che la prolissa sociologia della mafia forse per questo ignora. Violenza è, per i felici più, un corpo che salta sotto i colpi di un cannoncino a ripetizione, o a pompa, o una Magnum da tre chili azionata a due mani, o un loffio figuro che azionando nell’ombra un telecomando provoca un’esplosione fantasmagorica – un telefilm.
L’assassinio è una soluzione: una fine. La violenza invece è umiliazione: un processo. Tutto il suo rituale vi è convogliato, a fomentare: l’incertezza che segue alla minaccia, la misura delle proprie deboli forze, la solidarietà inevitabilmente inutile e anche falsa, obbligata, quella imbelle degli amici, quella dubitosa dei Carabinieri, quella ostile dei giudici, fino alla prudente mediazione (resa) finale.
Si spiega il successo popolare dei politicanti antimafia, gli unici di successo da un paio di generazioni – un tempo il rappresentante del popolo era uno che ci sapeva fare con le leggi e lo Stato (in Calabria Antoniozzi, Vincelli, Mancini, Misasi), ora basta dichiararsi antimafia. Per una speranza dura a morire. E si capisce che occasione sarebbe, sarebbe stata, una vera politica antimafia, su che potenziale di mobilitazione potrebbe, avrebbe potuto, contare. Tanto più è grave l’appropriazione faziosa (cioè: mafiosa) dell’antimafia a fini personali e di gruppo, e perfino per vendetta. È l’ultima umiliazione, cioè la più profonda, venendo dall’unica possibilità di riscatto: significa l’isolamento. E non si può essere eroi per se stessi. 

leuzzi@antiit.eu

domenica 20 gennaio 2013

Il mondo com'è (124)

astolfo

AbusivismoIl blocco degli sfratti che periodicamente si rinnova per aiutare gli incapienti – ma tutti siamo incapienti di fronte al padrone di casa, sia pure l’Iacp – è riequilibrato dal flusso immigratorio clandestino. È inutile andare in commissariato a denunciare il subaffitto doppiamente abusivo - a immigrati clandestini: la polizia non è qui per proteggere la proprietà. A 400 euro al letto, al mese, la paghetta del “rumeno”, ce n’è per tutti. E il ragionamento è democratico: ci sono certamente più affittuari in bisogno, e subaffittuari, che funzionari dello Iacp e proprietari di case, per quanto piccoli e con figliolanza.
Nel 2007 la Cassazione ha statuito che in caso di necessità occupare un casa popolare non è reato.
Corruzione – È del potere. Era ecclesiastica quando l’Italia era governata dai preti. È stata dei ricchi, massoni e potenti nell’Italia umbertina e fascista. È diventata democratica col boom.
L’affluency è concetto economico ma anche sociale: l’insorgenza delle masse. Di acculturazione lenta. Di avidità risorgente, inesausta. Sulla base di due paralogismi: la “giustizia sociale” (non lavorare, lavorare poco, lavorare male), il “bisogno” (raccomandazione, abusivismo – teorizzato dagli architetti democratici ancora trent’anni fa, in mostra a Castel Sant’Angelo).

Immigrati - Il Capitano di Koepnick è una delle storie più popolari di Germania. Il calzolaio di Tilsit che non poteva avere il permesso di risiedere a Berlino perché non aveva un lavoro fisso, e non poteva avere un lavoro perché non aveva il permesso di soggiorno. Finché non si fa lui stesso legge, comprandosi una uniforme di capitano da un rigattiere. È la legge Bossi-Fini.

Informazione – Due vendette private (concorrenti? donne) contro l’avvocato Carlo Malinconico, postate sulla rete, diventano atti d’accusa del “Corriere della sera”, con grave scorno dell’onesto avvocato. Che protesta, può farlo, ma il danno è irreparabile. L’informazione del millennio nasce fortemente bacata.
Una rimessa laterale negata alla Roma, la squadra di calcio, scatena saghe interminabili, di lustri, decenni, secoli, tra i tifosi e i giornali di Roma. Un gol valido negato alla Lazio, l’altra squadra di calcio, in una partita che può decidere lo scudetto, non viene nemmeno menzionato. Ci sono due Rome, o due giornalismi?

Internet – Ballard dice (“Fine millennio”, p.271, e 273 segg.) che la realtà virtuale smantella ogni barriera con l’illusione, i sogni. No, è un altro sogno, anche triviale. La realtà virtuale è giocata sulla teatralità, cioè sull’inganno, anche se non aggressivo: la  seduzione, la oneupmanship, la mezogna deliberata.
Che Google, il motore di ricerca, induca la perdita della memoria, che è esercizio? È un effetto collaterale da studiare – un nuovo filone terapeutico.
È la piazza della democrazia, e per questo tutto rinvia alle faq, ai forum e alle chat. Tra chi non sa e chi, si presume, sa. Ma non del tutto. Come un maestro perverso che si prendesse gioco dei babini, invece di insegnargli a compitare..
Idem per i “tecnici”, che si formano “smanettando”. Smanettare è il verbo. Ma a tutto c’è una soluzione precisa, e una sola, Che sa chi ha creato il software, chi lo produce, chi lo vende.

Pubblicità - Murdoch e la stampa europea in declino si ergono a difensori della libertà d’opinione contro Google. Che invece la libertà di espressione garantisce gratuita per tutti. Dov’è il discrimine? È una gara per la pubblicità, la libertà non c’entra. Murdoch e De Benedetti non sono campioni della libertà di espressione. Assaltano il mercato pubblicitario, prima inesistente, che con Google ha improvvisamente popolato la Rete, con cifre a molti zero l’anno. Murdoch vuole un mercato “editorialmente responsabile”, ma in realtà ristretto: plafonato agli editori – e magari con tranches di mercato garantite, minime certo.
Lo stesso che era accaduto in Italia col “mobiliere Aiazzone” di Bersluconi: la pubblicità televisiva aperta a tutti, che rapidamente decuplicò il mercato negli anni 1980, da 6-800 miliardi l’anno a 8-10 mila. Da qui l’altra “lotta di libertà”, la caccia a Berlusconi.

La pubblicità fa casuale, non mirata, è inutile. Quella di Google è dispersiva e perfino insensata. Ma ha il vantaggio di non costare nulla: la ricchezza di questa pubblicità è tutta nell’occupazione gratuita dell’etere, vendere spazi che sono di nessuno. È lo stesso vantaggio della tv, moltiplicato, grazie a una piattaforma linguistica allargata (anglicizzante), sebbene non a un pubblico generalista. Per essere redditizia deve non avere costi: l’occupazione dello spazio procede quindi per automatismi, regolabili ma non affinabili.

Sessualità –  Sala strapiena, al festival della Scienza a Roma, al Parco della musica, con file al botteghino che non trovano posto nemmeno in piedi. Tema del festival è Felicità. Questa sera , in particolare, “Sesso e felicità”. Ragazze dell’organizzazione, e ragazzi, promettono su bei cartelli: “Regalo abbracci”.
Sarà finito il gap tecnico-scientifico dell’Italia. Ma la sessualità è una scienza. Come la felicità?

Sessualità portentosa del dottor Freud, con la protesi del sigaro, attivo e passivo. Il dottor Fliess, mentore e amico, se l’allungava col naso, maschile di forma, femminile per il fatto che gli sanguinava.
Uomo fascinoso, Freud, se le donne volentieri si spogliavano. Ma gli uomini, tutti ricchioni?
In sogno si trova sempre a cavallo. Che è, spiega il discepolo Groddeck, la donna. In uno è la cognata. In un altro sogna di possedere, che verbo, le tre damigelle delle tre figliole, all together, in carne, materne, vezzose. S’è risparmiato le sorelle, che erano sei. Ma si è messo in mezzo all’amore e ai sogni, che sono la vita di ognuno. I preti onesti promettono l’aldilà, a condizione di rinunciare all’amore e ai sogni, e questo li rende paria, Freud invece è un arciprete. E vuole essere un santo, taumaturgo dell’orgasmo.

Anche scrivere è attività sessuale? La penna è maschio, femmina la carta, l’inchiostro il seme…
È per questo che non c’è la scrittura delle donne?
Con un dubbio: se scrivere a macchina è andare su e giù per un corpo senza concludere, è dunque non scrivere?
Essere inondati dal sesso, chi l’avrebbe detto, di quanti umori è pieno il mondo. Se pure un papa ferrigno come Pio XII s’è adeguato, mandando in cielo la Madonna - anche se la donna esiste, dove esiste, in Occidente, perché i preti scoprirono la Madonna. “Lei non sa, cara signora, che vecchi e giovani amano il nome Hans perché rima con Schwanz, coda, e perché Hans è Giovanni Battista, che chiaramente raffigura il membro maschile, col battesimo e l’esecuzione capitale?” Grottesco Groddeck, giusto autore della celebrata teoria: “Dopo l’adolescenza gli uomini incominciano a instupidire”.

astolfo@antiit.eu