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sabato 26 aprile 2008

Secondi pensieri (11)

zeulig

Dio – Parla, ma non risponde.

È in ogni luogo ma non all’inferno. È più furbo?

È la cosa più incredibile.
Nella cabala – che gli dà nomi di cento consonanti, da pronunciarsi per infiniti strati di senso – e nel mondo.

Se è in collera con qualcuno, soprattutto deve avercela con i suoi devoti. Non gli uomini di fede ma i preti e i sacrestani.

È il cruccio – persecuzione indelebile – dei liberi pensatori. Il diavolo ha sbagliato: solo l’indifferenza elimina Dio, la vita non vita.

È maldestro, se la sua perfezione si estende alla creazione: tutto ciò che ha creato, dal firmamento all’anima, è meno che perfetto, inutile (a ogni fine), eccessivo, distorto (da ogni possibile fine). Dunque, o l’idea della perfezione comprende la natura e l’uomo quali sono, imperfetti. O Dio è imperfetto come loro, un creatore maldestro.

Non è necessariamente dalla parte dei vincenti, certo. Ma è sempre vincente: non sarebbe Dio se fosse sconfitto.

È paradossale, è vero: una realtà che è una forma del linguaggio.

Se non c’era prima, nasce dai limiti della ragione.
È per questo che è eterno, fintanto che c’è la ragione.
La ragione, arrivata ai suoi limiti, si estende con la fede.

È il nulla, cioè il tutto. In senso cabalistico ma non solo: tutto si annulla (si completa) all’origine della vita.

Quello ebraico è fortemente esoterico, anzi magico.
Il Dio unico non è tutto, importante è come si connota.

Don Giovanni – Deve la fortuna al nome: don Juan, don Giovanni, suona bene. Altri ce n’erano stati prima, il fiammingo Tenquelin, il tedesco, senza fortuna.

È come Casanova un fenomeno della vecchiaia: ci s’innamora di ogni bellezza a vista, anche effimera.
Non per nostalgia, don Giovanni e Casanova no sono personaggi della memoria. Sono autobiografici, è diverso, oggettivano il desiderio. Il catalogo è un tentativo di ricostruire – dare un senso a – le sensazioni del presente. Che restano non indagate, malgrado l’universalità e la persistenza del personaggio.
Sono probabilmente il segno di una vita che – trascorso l tempo, semplificate le pulsioni, rischiarato
L’orizzonte – s’intravede alle origini, nei fondamentali. Non della giovinezza ma della vita – la fascinazione esercitano anche persone adulte. Della vita che non può che essere filtrata in positivo, malgrado il pessimismo della storia, la disperazione della ragione, gli atti inconcludenti o nocivi o violenti, nell’attesa di un esito che si allontana o si rinvia.

Felicità – È non essere felici – non esserne gravati.
Se c’è un luogo della felicità è nell’aria, imprendibile.

Filosofia – Per metà è un equivoco linguistico. Kant stabilisce che ogni conoscenza è anzitutto apriori, la ereditiamo, la sentiamo, la fiutiamo. Mentre in parallelo, forte della scienza di Newton che egli stima vera e certa, continua a domandarsi: “Come possiamo sapere?” In inglese e in tedesco la conoscenza è anche sapere, knowledge e wissen, conoscere non solo con certezza, a proprio giudizio, ma anche cose vere. Da qui equivoci a non finire.

Fortuna – È come la Formula Uno, va pilotata.

Guerra - È l’archetipo della storia, la manipolazione della realtà. Semplice e terribile: è bastata finora la decisione di un uomo, un principe, un dittatore, per scatenare la forza incontrollabile della violenza.
La forza manipolatrice della storia è anche nella gestione serena degli arsenali, tecnocratica, anzi scientifica. Tanto più oggi che essi sono soprattutto atomici, di potenziale distruttivo incontrollabile.

Lingua – È su di essa che si determinano i caratteri nazionali (della comunicazione, della letteratura, della politica, della storia) – o viceversa? Si può legare alla lingua il formalismo dello spagnolo, la noncuranza dell’italiano, le complicazioni del tedesco, la solennità del francese, anche nell’intimità, l’adattabilità dell’inglese.

È strada aperta, dove si può vagare tra n direzioni, e anche innovare. Ma è dominata dalla mentalità che è materia di geni. I geni possono scartare, ma in grande misura sono trasmessi, si determinano per accumulo.

Metafora – È ricca perchè crea significati. Introdotta dal “come”, sembra un riconoscimento, la chiusura della porta. È invece il gesto mattutino dell’apertura.
Sia pure nel senso di Benjamin, delle analogie che non s’inventano ma si scoprono (ma non è vero: i nessi sono scoperti, l’accidentale, sono creazioni, come nei sogni, così disarticolati nella loro evidenza stringente).

Stupidità – Quella suprema è l’aver capito tutto.

La sua forza è invincibile, non c’è difesa possibile.
È scudo stellare, dall’amore, dal disinganno, dalla vita. È la vera follia, intesa come asocialità.

Viaggio – Lo spostamento fisico, ammesso che ci sia, è solo propedeutico a una chiusura: uno sguardo nuovo gettato su se stessi, anche sulla quotidianità – l’altro, certo, siamo noi.

zeulig@gmail.com

Il mondo com'è (8)

astolfo

Buonismo – “Non è possibile che il nostro cuore si espanda in tenerezza per ogni uomo, né che sprofondi nella malinconia davanti a ogni miserie estranea; se fosse così l’uomo virtuoso, con tutta la sua benevolenza e fondendo senza posa in lacrime, come Eraclito, non sarebbe niente di più che un ozioso dal cuore tenero”. Non è tenero Kant, “Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime”, sez.II: “La seconda forma del sentimento di bontà che, per essere bella e amabile, non costituisce per questo una virtù vera, è il compiacimento, la voglia di riuscire graditi agli altri per l’affabilità, l’assenso ai loro desideri, e la conformazione della propria condotta al loro carattere. Questo fondamento di un’attraente socievolezza è bello, e l’elasticità di cuore attesta una buona natura. Ma non è per niente una virtù, al punto che, se principi più elevati non vengono a porre limiti a questa disposizione o a temperarla, tutti i visi possono trovarsi la loro origine”.

Femminismo – Non ha fatto i conti con la separatezza – insomma con la diversità, la peculiarità, la qualità - che è sempre un asset nei tre quarti dell’umanità.
C’è da fare una distinzione tra diritti e separatezza. L’islam è fortemente deficitario sui diritti, le sue donne lo sanno, gli uomini e i regimi ne restringono anzi ulteriormente gli spazi, dai talebani alla civile borghesia turca, in cui la donna può essere sommersa, oltre che da un abito nero a taglio intero, con una fessura millimetrica agli occhi, dai maschi della famiglia, marito, padre, suocero, fratelli, cognati. Ma questo islam fortemente deficitario sui diritti lo sa, lo sanno le donne e lo sanno gli uomini, e si salva grazie alla separatezza.
Non c’è senso di colpa nell’islam, e tuttavia la privazione dei diritti delle donne è qualcosa che molto gli si avvicina, perché è un cammino a ritroso che l’islam contemporaneo ha intrapreso su situazioni storiche già molto aperte, col divorzio, il lavoro, le autonomie individuali. Ma la separatezza è ancora ricercata e preferita dalle stesse donne, è la forza di questa sudditanza.
Non solo nell’islam, bisogna dire, la separatezza è il modo d’essere e l’ambizione dell’altra metà del cielo in più della metà del mondo. In tutto il mondo si può dire, eccetto l’Europa centro-occidentale, l’America del Nord, e l’Africa che la lunga colonizzazione ha europeizzato. Lo scià di Persia fallì la modernizzazione quando impose alle donne la parità in società, fino alla stretta di mano. In Giappone e in India maschile e femminile sono due universi paralleli, con due linguaggi diversi. Un’impressione analoga – certo da verificare, ma ben visibile – dà il mondo femminile in Cina, nelle tre Cine, comprese Taiwan e Singapore.
Troppo radicale è stato l’abbandono degli studi sul matriarcato e il patriarcato. Proprio quando gli strumenti si affinavano rispetto ai grossolani sistemi storici di un tempo.

Illecito dello Stato – Secondo Kelsen, non ci può essere un illecito dello Stato, “sarebbe come il peccato di Dio”. E invece lo Stato è, può essere, criminogeno. Per le bombe degli anni Settanta, per esempio, per non averle punite, se non per averle messe. Per l’uso parziale della giustizia, a scopi politici o economici. In Sicilia e in tutte le zone di mafia, che prospera alla luce del sole e lo Stato non persegue. Per la precarietà: cinquecentomila domande di assunzioni sono presentate da lavoratori stranieri, in regola, con un padrone cioè che ne ha bisogno, il governo ne consentirà solo cinquantamila

Iraq – La percezione di quanto avviene in Iraq, e il vantaggio propagandistico dei terroristi, si basano sul malinteso che si tratti di un jihad, una guerra religiosa contro gli infedeli, cioè contro gli Usa, mentre invece è una lotta tra fazioni per prendere il potere dopo Saddam. Di esse gli americani e gli altri occidentali sono, sì, il nemico, ma nell’ottica delle fazioni con cui stanno. La guerra è tribale, per questo ferocissima. Di cui gli occidentali sono il nemico culturale e non religioso, volendo essi imporre la detribalizzazione della vita politica, attraverso le cariche elettive e la rappresentanza. Un equivoco, e anche semplice: ma è qui la forza della grande leva della storia, nella manipolazione semplice della realtà. Dove tutte le fazioni concordano è nell’evitare la democrazia.
Il carattere religioso è nella guerra civile tra sunniti e sciiti. Di cui è impalpabile la percezione, ma rocciosa la durezza. Al Zawahiri (Al Qaeda) pone al centro dei suoi proclami la guerra agli sciiti prima ancora che ai “crociati”. L’Iran, il paese degli sciiti, ha sempre contestato la grande emprise dei sunniti sulla storia, l’11 Settembre, alimentando la copiosa letteratura che “dimostra” il bombardamento degli Usa un autogolpe degli americani e Al Qaeda una creazione della Cia, con filmati, registrazioni, assegni, false identità eccetera - altrettanto convincente dei “Protocolli di Sion”, di cui fa un calco.

Linguistica - È una scienza che tutti sanno, anche gli analfabeti: la verità delle parole, anche non dette. E della frase, e del contesto.
La linguistica di Riina e Provenzano, che, benché rozzi, sanno navigare nelle sottigliezze della politica nazionale, è affascinante – ma forse è la linguistica che non ha nulla di straordinario, solo l’ambizione.

Popolare (letteratura) – Non se ne parla più, della letteratura del popolo. Perché non ha una “sua” letteratura, ma la letteratura adatta secondo moduli popolari, la cantata, la nenia, la filastrocca. Non c’è una storia d’Italia scritta da un lavoratore. Non ci sono romanzi di lavoratori. I vari archivi popolari o della memoria, ora anche online, sono vasti depositi inutili, di roba inerte; Mass Observation, la memoria collettiva di lettere, opinioni, diari, creata dall'antropologo Tom Harrisson in Gran Bretagna negli anni 1940, o i bogliecci inconsultabili e illeggibili ammassati da Saverio Tutino a Sansepolcro.
E tuttavia una letteratura popolare c’è. Daffini e Ballistreri sono poetesse e lavoratrici, e la poesia estraggono dalla loro condizione sociale. O c’è letteratura popolare solo orale, del canto, nel senso di Vico e Rousseau?

astolfo@gmail.com

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (16)

Giuseppe Leuzzi

Se Bossi è il nuovo Garibaldi
C’è una vena libertaria nel leghismo di Bossi. Non per ridere, o per gusto del paradosso, c’è nel razzismo originario, nel rifiuto dell’immigrato, specie se terrone. In più di un senso questo rifiuto è liberatorio per il Sud – lo sarebbe. Se:
1)Elimina la retorica
2)Blocca l’emigrazione – che è sempre un arricchimento indebito per l’area di destinazione
3)Esibisce l’avidità di Milano
4)Mostra che il problema del Sud è anche il Nord
5)Lascia i terroni soli, finalmente obbligati a sbrogliarsela.

Il leghismo è insipido
L’asserita specificità culturale del leghismo coincide con la scomparsa del vernacolo, presente diffusamente in tutta la vicenda della Repubblica, e probabilmente nell’Italia anteriore, nel teatro, le canzoni, la comicità, le parlate radiotelevisive. Niente più stornelli romani o romanze napoletane, e neppure “Belle Madunine”, niente più comici napoletani, romani, siciliani - solo ora, dopo quindici anni, riemergono Verdone e i siculi Ficarra e Picone. Ma neppure “Belle Madunine”, né cori alpini alpini. L’ortodossia leghista limita il vernacolo alla sola parlata radio-televisiva, non per nulla ha voluto mezza Rai a Milano. E questa limita, sia alla Rai che a Mediaset, al birignao lombardo - lo impongono anche alle figlie romanissime del “telegiornale delle figlie” a Canale 5. Al lombardo propriamente detto associando l’apulo-lombardo di Abatantuono e Banfi.
Il leghismo è l’imposizione di Milano, dell’insicurezza, superficialità, l’arroganza milanese sul brio italiano, la normalizzazione dell’insipidità: l’esito è la scomparsa dell’Italia. Si capisce che Gadda ne fuggisse, e lo stesso milanesisissimo Arbasino.

Sudismi\sadismi. Santo Versace, 63 anni, si candida alle elezioni in Calabria. Non si sarebbe saputo se non ne avesse parlato il “Times”. Il giornale inglese gli ha dedicato una pagina, e i grandi giornali italiani hanno ripreso la “notizia”. Incapacità? Stupidità? Ma questi stessi giornali sono stati abilissimi a imbrillantare qualsiasi personaggino si presentasse alle elezioni, sia pure di cartavelina, le fiche di Veltroni, gli operai anonimi di Bertinotti, i fascistelli di Fini, per pagine e per giorni. Sanno le tecniche del gossip. E quante pagine e perfino supplementi su Calearo, modestissimo fasciocomunista di Padova. Non c’è fantasia invece per il titolare della maggiore casa di mode italiana perché si candida in Calabria, da calabrese (“ho passato qui i primi trent’anni della mia vita”).

Sadismi\sadismi. Sul “Corriere della sera” del 5 aprile, alla rubrica “Calendario”, lo storico Paolo Macry , sotto il titolo “Autostrada delle Due Sicilie”, scrive: “Il 4 ottobre 1964, giorno di San Francesco, Aldo Moro inaugurò l' Autostrada del Sole. In appena otto anni erano stati aperti 755 chilometri di viadotti temerari, gallerie ciclopiche, ingegneria da record. Nel frattempo iniziava un'altra storia, quella della Salerno-Reggio Calabria. Qui, racconta Leandra D’Antone (“Senza pedaggio”, Donzelli), le procedure furono bizantine, gli appalti opachi, la 'ndrangheta fece grandi affari. E il tracciato seguì la logica dei politici locali. Pur di passare per Cosenza, venne scelto un percorso tortuoso, tutto salite e discese, relegato tra montagne senz' anima viva, lontano dai centri e dai porti della costa tirrenica. Oggi l' Autostrada del Regno delle Due Sicilie è ostruita da lavori di ammodernamento che, per dotare quei 443 chilometri di una corsia d' emergenza, impiegheranno nel migliore dei casi quindici anni. In compenso, come recita il titolo beffardo della D’Antone, non si paga. Un esempio di astuzia meridionale contrapposta all’etica del capitalismo, direbbe il sociologo Franco Cassano”.
No, la Salerno-Reggio fu costruita in otto anni. Non si paga perché non è un’autostrada. Poteva arrivare a Cosenza da Paola, ci arrivava prima, ma avrebbe deturpato una costa che è ancora molto bella, malgrado le seconde case napoletane (grazie all’“autostrada” gratuita..). Il tracciato interno serviva il salernitano profondo, mezza Basilicata e la provincia di Cosenza. Un’area, specie il cosentino, che in trent’anni si è modernizzata, arricchita e s’illustra aggraziata come l’Umbria o la Toscana. Forse la spiegazione dell’inconsulto “Calendario” è che Macry è napoletano? Napoli sempre ha odiato il resto del Sud.
Ma, poi, non si parla mai delle altre opere pubbliche da scandalo. Per restare alla viabilità, anzi alla osannata Autostrada del Sole, non si parla mai della Firenze-Bologna, per esempio, nata male, e che strozza l’Italia, non solo i (pochi) siciliani e calabresi che utilizzano la Salerno-Reggio. Né della Variante di valico, l’autostrada alternativa sullo stesso tracciato, che non supera un’ottantina di chilometri, è in cantiere dal 1997, e non se ne sa nulla – giusto che costa già tre miliardi in eccesso sul preventivo. O del passante di Bologna, più necessario della Variante di valico ma di cui non si è fatto nemmeno il progetto. O di quanto è costato e come è stato realizzato il passante di Mestre.

La giustizia è potere
Il giudice Boccassini ha rifiutato la Procura di Verona perché non è assortita della Dda, la procura distrettuale antimafia. Forse che senza la Dda non potrebbe perseguire la mafia? No, il Procuratore uscente Papalia ha ben meritato, oltre che per avere liberato il generale Dozier e bloccato la deriva terroristica della Lega, senza lasciare alcun delitto impunito (ai Ris), per aver estirpato ogni traffico di droga e altre appendici mafiose dalla città. La quale forse non è tanto mafiosa da meritarsi una Dda. Ilde Boccassini non vuole Verona perché semplicemente non le dà abbastanza lustro, oggi visibilità: non ha giornali.
L’antimafia è questo, quello che Sciascia paventava vent’anni fa. La vicenda conferma pure che non c’è alcuno spirito di servizio, né quindi di verità, nella giustizia, solo un fatto di potere. Il Csm non ha sanzionato Boccassini per il rifiuto, le troverà una Procura con l’antimafia. L’antimafia serve al magistrato inquirente perché ha più mezzi e meno vincoli. Non per prendere i ladri, gli estortori, gli incendiari, gli spacciatori, che sono delinquenti contro la proprietà, materia familiare e comunque privata. Per quello comunque basterebbero i carabinieri, non c’è bisogno della Dda. Questa serve per controllare il resto della società, alcuni politici, alcuni imprenditori, alcuni giornalisti, alcune società di calcio, alcune veline.

C’è una semantica perfino scientifica delle trappole, peraltro evidenti, del pentitismo – del pentimento che non è ravvedimento di cuore ma caccia ai benefici: “Chi fornisce cento dettagli, e al centounesimo dice di non essere più così sicuro, automaticamente convalida in modo suggestivo gli altri cento dettagli falsi. Qui comincia la raffinatezza dei segnali di bugia”. Harald Weinrich, “La lingua bugiarda”, 99. Senza riscontri, senza cioè un’opera di polizia, le confessioni dei pentiti sono un esercizio retorico. Tali peraltro sono intesi, in quanto materia di indiscrezioni, articoli, commenti, talk show, libri, film, e perfino libri di storia. E allora è importante percepire i “segnali di bugia”. Non c’è una barriera netta tra la lingua vera e la lingua bugiarda, quando si prescinde dal fatto: si può perfino dire il falso dicendo tutte cose vere. La chiave è percepire i “segnali di bugia”.
Bisognerà mandare i procuratori della Repubblica a scuola di linguistica? Non è necessario, la linguistica è una scienza che tutti sanno, anche gli analfabeti.

La linguistica è una scienza che tutti sanno, anche gli analfabeti: la verità delle parole, anche non dette. E della frase, e del contesto. La linguistica di Riina e Provenzano, che, benché rozzi, sanno navigare nelle sottigliezze della politica nazionale, è affascinante – ma forse è la linguistica che non ha nulla di straordinario, solo l’ambizione.

Il futuuwa, in Mahfuz, “Il nostro quartiere”, è l’uomo d’onore. Per modi, filosofia e tratti somatici, comuni a Nord Africa, Turchia, Sicilia Calabria, Corsica. Ha inciso la dominazione araba? Ma in Calabria e in Corsica? Hanno inciso le dominazioni saracene, di cui non si fa la storia? Ma erano circoscritte, sporadiche, predatorie, e si registrano anche in Liguria, nel Lazio, nel Cilento, nel Salento. È un retaggio greco, filtrato attraverso gli arabi, come la filosofia e la scienza? Ma la Grecia ne è indenne. Potrebbe essere un retaggio della tarda grecità bizantina, che è poco greca, se non per la lingua, e molto asiatica, del Vicino Oriente. Ma i bizantini soprattutto sono imbelli. È l’Italia, un paese come l’Egitto senza Stato.

venerdì 25 aprile 2008

Tra regno di Borgogna e sinistra degli speculatori

Non tutto è stato detto sul voto. Non per inavvertenza. Ma le cose taciute non sono meno importanti.

Bossi sposta Berlusconi al centro
Il ritorno del leghismo nella forma virulenta, razzista e localista, imporrebbe una riedizione della saggia politica di ricomposizione portata avanti dal presidente Ciampi. E porterà Berlusconi in prima fila sul fronte della pacificazione. Nessun presidente del consiglio potrà avallare le farneticazioni sull’ordine pubblico (ronde, espulsioni di massa, chiusura delle frontiere, localizzazione delle competenze). Né ovviamente un federalismo secessionista, neppure nella forma spagnola delle aree riservate. Su molte aree anzi bisognerà tornare a riferimenti nazionali: l’energia in primo luogo, poi i trasporti (le infrastrutture di trasporto: ferroviarie per le aree urbane, e viarie) e la sanità. Berlusconi potrebbe cominciare a recuperare la protesta semplicemente spiegando come i problemi di Milano e il mancato adeguamento delle infrastrutture nascono dal rigiso e parcelizzato localismo.
Bossi si era assunto questo ruolo, di controllo della protesta. Ma il voto sembra ora condizionarlo in senso oltranzista. Berlusconi dovrà supplire. Avrà abbondanza di strumenti per allentare la paura, che è l’esito di tutte le incertezze e non di una fobia razzista (la stessa violenza degli sradicati-immigrati che si vuole punire è, per così dire, nella norma, “fisiologica”): di politica economica (i prezzi soprattutto, i salari, il fisco), giudiziaria (processi rapidi e pene certe), e di rilancio delle aree metropolitane, consortili, cogestibili, per l'adeguamento delle infrastrutture.

Il voto del regno di Borgogna
Il leghismo, dentro e fuori la Lega, è il primo partito della Lombardia e le Venezie, ben oltre il 50 per cento. Dell’area cioè più ricca dell’Italia. Che configura con la Germania meridionale con la quale è in simbiosi produttiva, la Baviera e la Svevia, l’area probabilmente più ricca del mondo – una sorta di riedizione del regno transalpino di Borgogna, includendo l’area dell’omonimo vino in Svizzera e Francia. È anche l’area che più condiziona demograficamente il voto nazionale. Da sola la Lombardia pesa per il 16 per cento. Mentre l’ex quadrilatero rosso, Emilia, Toscana, Marche e Umbria, pesa per poco di più, il 17. La Lombardia con le Venezie pesano per il 26 per cento, un quarto del voto nazionale. La cosiddetta Padania, comprese cioè le province piemontesi e emiliane finitime al Lombardo-Veneto, per un terzo, il 30-33 per cento
Il voto leghista è sicuramente di protesta: di popolazioni che non sono ricche per le miniere e il petrolio, erano anzi povere fino a non molto tempo fa (dalle Venezie si emigrava fino a cinquant’anni fa) e hanno costruito il loro benessere con l’applicazione e la prudenza. E da un paio d'anni sono sotto pressione. Il “raiume” postelettorale devia il senso del voto sulla sicurezza (la pusillanimità dei ricchi), ma l’insoddisfazione riguarda le condizioni di vita e di produzione. Chiunque ci viaggi, anche solo per diporto, lo constata.
Le aziende si chiudono negli ultimi due anni a diecine di migliaia in Lombardia e nel Veneto. Per effetto della globalizzazione, impietosa. E dello Stato tiranno. Gli operosi assessori delle province venete e lombarde che ne hanno guidato la modernizzazione lo constatano a ogni ora del giorno: lo Stato è afflittivo, per fisco, burocrazia, ritardi, e per gli innumerevoli adempimenti, che non contrastano ma alimentano la corruzione. I trasporti sono intasati e ingovernabili. Le politiche economiche in sede Ue, monetarie e di cambio, sono rigide e punitive.

Assessori esperti di localismo feroce
Il leghismo, dentro e fuori la Lega, ha un ceto politico professionale. Senza nani né ballerine, né intellettuali compoiacenti. Che sa come funziona, e perché non funziona, l'amministrazione. Ma cosituzionalmente localistico. Il limite, già noto in Lombardia per il caso fortemente negativo di Milano, dell'area metropolitana milanese, si è esteso col boom al Veneto e al Friuli. Nulla di paragonabile, nell'area metropolitana di Milano, con la trete di trasporti parigina o londinese, o dell'asse Francoforte-Magonza, della regione di Stoccarda, dell'area amburghese. Ma nemmeno una metroplitana fino a Linate. Per non dire di Malpensa. Dove per portare il gas la Snam ha dovuto lottare con una serie di sindaci e comuni che hanno fatto a gare a sollevare inciampi. Lo stesso per l'autostrada, e per la metropolitana - che non c'è.
L'arrivo in forze a Montecitorio di questi amministarori leghisti, dentro e fuori la Lega, potrebbe dare loro una visione d'insieme. O comunque porre una soluzione settentrionale alla questione settentrionale, che è essenzialmente l'eccesso di autonomia.

Ancora un plebiscito al Sud
Il dato comincia a emergere: metà del Sud ha votato Milano. Ma emerge in chiave antimeridionale: Fini e Berlusconi sono l’ultimo approdo dell’assistenzialismo – della “lobby del Sud” secondo il “Corriere della sera”. Ora, può darsi che venti milioni di italiani siano stupidi, dal Garigliano in giù, e poveri, vivano ancora di elemosina. Ma alcune cose che si sanno dicono altro. Berlusconi non è Bossi, ma la sua Milano è per il Sud la stessa: la promessa - l’illusione - di liberare la vita quotidiana dall’incertezza e dalla sudditanza, politica, economica, giudiziaria, mediatica. Dalla morte per asfissia. A Napoli in tutta evidenza ma non solo. Il partito Democratico è stato calato da Roma, e molti ex democristiani se ne sono risentiti, in Puglia, Calabria e Sicilia. L’antimafia, che è naturalmente “democratica”, opera come camicia di forza politica, mentre la mafia prospera, nei vari comitati antimafia inclusi: il malgoverno dell’apparato repressivo, giudiziario .

Se la novità è trattare col sindacato
La grande novità all’insediamento di Emma Marcegaglia a capo della Confindustria è “negoziare col sindacato”. È il segno della vetustà dell’organizzazione degli imprenditori, che si è consumata anch’essa negli anni montezemoliani dalla guerra sterile – benpensantistica - a Berlsuconi. Del suo scollamento rispetto ai problemi reali, prezzi, salari, caro euro, caro Stato, e la strozzatura delle infrastrutture. Una Confindustria appesa peraltro alle mediocri ambizioni politiche dei suoi presidenti sul modello dell’aborrito Berlusconi, e alle balordaggini di Calearo e Colaninno jr. Una struttura burocratica tra le tante, ma la cui assenza pesa e peserà. Non c’è altro mediatore delle esigenze e della prospettive della produzione: nessun altro rilevatore e nessun altro indicatore.

La democrazia degli speculatori
Adesso che si può dire, non si figura più traditori: Calearo, il “grande industriale veneto” di Veltroni, produceva campanelli di biciclette, ora antenne per auto, Matteo Colaninno è solo il figlio di suo padre, capostipite della dalemiana “razza padana”, che ha caricato Telecom di 40 miliardi di debiti e il fisco di Visco di un miliardo e mezzo non pagato dalla sua Bell lussemburghese. Ma sono gli ultimi di una serie, gli imprenditori che patrocinano il partito Democratico sono i maggiori speculatori della Repubblica. Bazoli, il patron di una buona metà della banca italiana, che fu il maggior collocatore di titoli Parmalat fasulli con la sua Nextra -anche se né Bondi né la Procura di Milano ne perseguono la responsabilità oggettiva. E non solo Bazoli, tutti i maggiori banchieri, Profumo, Mussari, Modiano, sono schierati col Pd, qualcuno anche con la moglie. De Benedetti , scalatore della Fiat, dell’Ambrosiano, della Sgb, “un terzo del Belgio”, Scalfari annunciò trionfante, della Sme, della Olivetti due o tre volte, e dei soldi di molti investitori con CdbWebTech. Urbano Cairo, che l’ipercollocamento, il titolo è arrivato a 60 euro, se lo è preso in forma di superdividendo. Il Moratti dell’Inter, che per l’ipercollocamento della Saras in Borsa è finito sotto inchiesta – ma per caso, è vero: sarà assolto. E c’è chi, dopo dieci anni, ancora non s’è ripreso da Tiscali a cento euro, un titolo che forse ne vale uno: non sono pochi, e farebbero volentieri la festa a Renato Soru, che il giocattolo Tiscali ha creato, e ora fa il populista governatore della Sardegna che tassa i ricchi. Storicamente, la sinistra ha sempre avuto un debole per i grandi speculatori, Parvus, Stavisky, Maxwell, Soros. È gente evidentemente che dà lustro. Ma i voti? L’etica politica? La politica? Confondono i democratici presentandosi come l’opinione pubblica, compiacenti padroni dei grandi giornali.

La borghesia buona e quella cattiva
Perdura la denuncia classista dei borghesi contro la borghesia. Non è una novità, è così dai tempi di Marx, che era un grande borghese. Un tempo la critica era quella dei grandi borghesi contro i piccolo borghesi. Ora è quella della borghesia bella-e-buona contro la cattiva, all’incirca Berlusconi, con i suoi avvocati. Belli-e-buoni che però in nulla differiscono dai cattivi se non per l’empatia dei giudici, preventiva, un’assicurazione. Non ci sono più rimproveri da muovere a Berlusconi o Ligresti rispetto a De Benedetti o Tronchetti Provera. Anzi semmai il contrario: i cattivi non hanno mai fregato nessun azionista, i belli-e-buoni ne hanno fregato centinaia di migliaia, forse milioni, per cifre iperboliche.
Quella dei ricchi d’Italia contro Berlusconi si presenta come una reazione estetica, degli uomini di denaro racés contro un arricchito. Fanfarone, baüscia, barzellettiere, ladro di pubbliche frequenze. E bisogna purtroppo prenderne le difese: Berlusconi è solo un milanese. Che ha costruito case che ha saputo vendere, e ha saputo far “lavura’” le frequenze che altri invece dissipavano. Per il resto non è dissimile dai suoi colleghi. I Moratti sono cresciuti con l’Agip - i Moratti che dicono “stronzo!” all’arbitro, per qualche secondo in più di recupero, o in meno. I montezemoli non hanno mai lavorato e non si sa che sappiano fare. Tronchetti Provera ha spolpato Telecom di cinque anni di dividendi, lasciandola comatosa. Il bisnonno Agnelli evitò per superne influenze la galera per bancarotta. Del predatore De Benedetti, del gruppo di “Repubblica” incluso, la memoria è recente. Mentre Berlusconi è nato borghese anche lui. Ha le ville ma non ha gli yacht. Ha cinque figli in carriera, ma è meglio che averli disperati. Dice le barzellette ma non si porta le ragazze in casa. Il centro che il Pd vuole conquistare è quella che si diceva la borghesia. Ma sulla questione della buona borghesia non ci si raccapezza.

B&b e impuniti
Si crede a quello che si è. Si congratulavano per la sconfitta nel loft del Pd Veltroni, Bettini, Zingaretti, Morassut, lo stato maggiore, molto romano, del Partito. Solo la Finocchiaro non partecipava, guardando fisso fuori dalla finestra – e D’Alema, cospicuo per l’assenza. Mentre Bersani diceva le barzellette (pure lui?). Marini e Parisi non credevano ai loro occhi. Franceschini rimuginava ribaltoni. Rosy Bindi una vacanza, per la prima volta, all’estero.
La questione morale è tutta qui, nella superiorità incarnata dei belli-e-buoni, impunita si direbbe a Roma, autocertificata, che perde elezioni dopo elezioni, e si consola: “Quel porco!” Corazzata della superiore lucentezza del metallo che re Mida era condannato a lucidare. Basta leggere i loro giornali – che sono i nostri, purtroppo: gratificanti, incensatori, e pregiatori del mondo candido di chi si fa scudo dell’Olocausto e del Mozambico, delle pene del mondo. Escludendo ogni colpa, naturalmente. Solo imprecando contro il mondo ostile, i b&b si piacciono piagnoni. Luciano Canfora, che pure è ottimo scrittore, dice che bisogna contentarsi, gli onesti sono pochi, perché lo diceva il Medio Evo, “Qualis rex, talis grex”, quindi porci anche gli elettori, e già Demostene nelle “Filippiche”: “Invidiare chi si lascia corrompere, ridere se lo riconosce apertamente, assolvere chi è colto in flagranza di reato, odiare chi vorrebbe metterlo sotto processo” - Demostene che, come Canfora ben sa, non disdegnava lui stesso di “filippizzare”. E dunque è più buono, democratico - e intelligente – avere i banchieri al gazebo e non i bancari…
La buona coscienza peraltro vuol’essere, malgrado Demostene e i proverbi medievali, pure fraudolenta e bugiarda. Dopo il loft una lunga serie di bugie ha rimesso in corsa per il Campidoglio, allo scontato ballottaggio, lo spento Alemanno - uno che al faccia faccia di “Ballarò” s’è dimenticato il pezzo forte, i quattromila miliardi del governo Berlusconi a Rutelli per il Giubileo, che il sindaco non riuscì a spendere, restituendone la metà. L'incredibile denuncia "democratica" su Internet che documenta come lo stupro con ferimento di una ragazza del Lesotho sia stato opera di Alemanno: con avvocati missini (peraltro ex comunisti), salvatori aenniani, il bisogno di soldi dello stupratore, e la complicità della stuprata, dei medici, e dell'ospedale che la curano. Le chiusure dei campi di rom indesiderabili. Che non ci sono state. Le centinaia di espulsioni di stranieri indesiderabili. Che sono, forse, diecine. La regolamentazione del commercio abusivo. Che ovviamente non c’è stata, e non ci può essere. Il presidio delle stazioni metro e ferroviarie suburbane. Che non c’è mai stato, chiunque lo sa. L’invito pressante ai dipendenti del presidente del Porto di Civitavecchia, l’onorevole Pd Ciani, a onorare il comizio di Zingaretti, candidato Pd alla Provincia: “La massima partecipazione… Anche in divisa…Saranno rilevate le presenze di ognuno”. E la spiegazione: “I soci hanno scelto, senza imposizioni, di partecipare alla manifestazione, mettendo a disposizione proprio personale, anche in divisa, di cui sono state rilevate le presenze, al fine di retribuire il lavoro svolto”. Il "lavoro" di scaricare Zingaretti? La sinistra non è bugiarda.

Cementato nel Prg il vicinato Veltroni-Casini

Il Piano Regolatore Generale unisce Veltroni a Casini, via Caltagirone. E divide Casini dai suoi elettori romani negli ultimi giorni della campagna per il Campidoglio, che hanno deciso di fare campagna per Alemanno. Il leader della Dc Pino Pizza ha il dente avvelenato con Casini, e non lesina le accuse dal suo rifugio pubblico alla Campana, il ristorante romano. È sempre stato sul versante di sinistra del centro, spiega, e due anni fa portò a Prodi duecentomila voti, quelli necessari per vincere. Non potendosi mettere con Veltroni alle elezioni del 13 aprile, ha tentato l’apparentamento con Casini. Che però l’ha respinto - Berlusconi invece gli consentiva di gareggiare col suo simbolo. E gli ha scatenato contro Amato - “il professionista a contratto”, Pizza è incontenibile - con la tragicomica esclusione dalle liste. Veltroni a sua volta, messo sotto torchio da Caltagirone con le campagne sul degrado di Roma, avrebbe tentato il recupero rifacendo il Prg sugli interessi dell’imprenditore. E così ha agganciato Casini, che dell'imprenditore romano è il genero.
Le liti tra ex possono essere suicide. La verità è che Casini è tentato da Vetroni anche senza il suocero. È pure vero che le modifiche tentate all’ultimo minuto dal sindaco Veltroni prima di dimettersi erano a favore di Caltagirone. Lo hanno denunciato apertamente altri immobiliaristi romani che si sentivano per questo defraudati, Lamaro e i Toti. Ma è vero infine che Veltroni, malgrado le estenuanti sedute notturne imposte al consiglio, non è riuscito a far passare le tre delibere che stavano a cuore a Caltagirone. Da qui l’equidistanza che l’imprenditore dichiara tra Rutelli e Alemanno per il Campidoglio – anche se i suoi giornali sono, sub limine come Casini, pro Rutelli. E allora dov’è la verità? Caltagirone è, con Goffredo Bettini, l’inventore e il gestore del “modello Roma”, o degli affari per tutti. Quello a cui tiene è salvare il modello. Anche nel caso che vinca Alemanno, non si sa mai.
Salvarlo come imprenditore naturalmente, che non si occupa di politica.

Il socialismo degli speculatori.II

“La Fed domenica ha assicurato l’intero magazzino mutui di Bear Stearns. Si tratta di capitalismo responsabile, non della fine del capitalismo come qualcuno vorrebbe interpretarla”, rassicurava Francesco Giavazzi sul “Corriere della sera” il 20 marzo. La critica era nientemeno al “Sole 24 Ore”, il quale invece correttamente sosteneva: “La liberalizzazione estrema, che è stata il credo degli ultimi vent’anni, ha fallito nel momento della verità” (Marco Onado). Le banche non fanno speculazione, non dovrebbero. E sono un bene pubblico, seppure gestito da privati a fini privati di lucro. In qualche modo vanno protette, ci sono per questo fondi di assicurazione e garanzia. Ma prima di Bear Stearns c’era stata la nazionalizzazione della Northern Rock, in Gran Bretagna, solo per la parte fallimentare, le parti buone restando agli azionisti. Come dire: "Arricchitevi!". Col plauso delle vestali della dirittura morale, “Economist” e “Financial Times”.
Quando Tremonti ha criticato il “nientismo” dei governatori centrali, e per essi di Draghi, la pretesa di sottovalutare l’origine e la portata della crisi, il “Financial Times” pronto ha bollato l’ex ministro di statalismo. Ma questa volta nessuno l’ha seguito. Anche perché ci sono, rispetto al primo “socialismo dei banchieri” di un mese fa, le nuove cifre di quanto esso costerà. Il conto delle perdite sarà di 120 e non di 80 miliardi di dollari, calcola il Fmi. L’Ubs è seriamente a rischio, con altre perdite, nel primo trimestre 2008, per dodici miliardi di euro. Altre banche europee hanno dovuto far affiorare perdite consistenti nel primo trimestre 2008: Rbs 5,8 miliardi di euro, Deutsche Bank 2,5, Hvb-Unicredit 0,7. Il Congresso Usa sta discutendo come il Tesoro possa garantire 300 miliardi di dollari di nuovi muti. Per la rinegoziazione dei mutui di famiglie in difficoltà, naturalmente. Ma anche per garantire il business mutui alle banche, il pagamento dei vecchi e l’accensione dei nuovi. La richiesta di nuovi mutui è in calo negli Usa del 14-15 per cento, 50 mila persone hanno già perduto il posto in questo da giugno del 2007.

giovedì 24 aprile 2008

La bugia, senza ironia, nell'età dell'ipocrisia

La verità è a pagina 83: “All’ironia ormai appartiene il segnale d’ironia”. Per l’appiattimento dell’espressione. Lo stesso per la bugia, nell’appiattimento dell’etica – siamo tutti incolpevoli, ancorché assassini. Si è astuti oggi per non essere astuti, anzi per pretendere candore. Questo libro di quarant’anni fa è dunque inutile, per essere onesto vecchia maniera, in cui la verità corrisponde all’asserzione. Per giungere all’ovvia conclusione che l’inganno non è nella lingua, ma nell’uso che se ne fa. L’ironia – la bugia simpatica, spiritosa, acuta – non è capita né tollerata: “Esistono diversi tipi di segnali d’ironia. Ci può essere la strizzatine d’occhio, lo schiarirsi la voce, un tono enfatico, una particolare intonazione, un insieme di espressioni ampollose, metafore audaci, frasi lunghissime, ripetizioni, oppure – nei testi stampati – l’uso del corsivo e delle virgolette”.
Il volumetto ha due sottotitoli. “In difesa dell’innocenza delle parole” è meritevole. L’altro, quello della copertina, “Possono le parole nascondere i pensieri?”, pone a risguardo gli avvitamenti della linguistica – “quali” pensieri, le parole ne dicono tanti? Domina l’infinita rincorsa definitoria delle scienze del trivio, per cui quando si è arrivati si è al punto di partenza – una partita che fosse tutta nel pre-riscaldamento. A p. 28 “il contesto definisce. Fissa cioè il significato”. Ma il contrario è più vero. Non solo nel caso di un’oratoria o retorica, sia essa scritta o verbale, che fa il contesto: il significato delle parole, la sfumatura, fissa il contesto. O la posizione della parola nella frase, o la grafica: se è tra parentesi, tra virgolette, anticipata, posticipata. O nella parola parlata il tono, il tempo, la velocità di pronuncia, la pronuncia corretta, oppure deformata, o magari solo esageratamente corretta. Si sa da Wittgenstein che la lingua è travestimento del pensiero. Col noto corteggio di “traduttore traditore” e “le parole tradiscono il pensiero”. Il pensiero che esiste solo in parole... Il pensiero senza la lingua è debole e incerto, si fa definitivo, si dice per dire, quando è messo in parole. Parlando, più ancora che pensando, mettiamo in moto il più complesso sistema d’equazioni, oscurando ogni altro gioco scientifico, in termini di ipotesi, verifiche, falsificazioni, all’istante.
Per il lettore un’altra conclusione è ovvia, dei limiti della semantica, o linguistica testuale, analoghi a quelli dell’antropologia strutturale, di dire come nella lingua tutto sia collegato: la parola è pensiero e atto, imprendibile, prima del vocabolario, con e senza contesto, lo scarto è la sua regola e non un residuo. Si può scendere anche alla dissociazione, all’oggettivismo di Musil e dell’École du regard, ma il risultato non cambia, non semanticamente, è quell’occhio asettico la novità (verità) della cosa, la retorica. “Perfino un cane”, Weinrich fa dire a Musil, “è già difficile da immaginare, perché è solo un accenno a vari cani e qualità canine”. Ma Musil lo fa dire all’“Uomo senza qualità”, senza immaginazione, per il quale è solo vero che non c’è l’idea di un cane senza un cane, e non viceversa. Per il bambino fino ai 18-24 mesi il cane è un “bau”, e ha altre “qualità canine”, la coda, le orecchie, il pelo, le quattro zampe, ma è già un cane, e non altro. E cosa sono le lingue? Sono davvero così diverse, e intraducibili, se sono sistemi di segni?
La linguistica ha con le parole lo stesso rapporto che la metafisica con l'essere nell'obiezione di Hobbes a Cartesio: con il "cogito" uno di se stesso dovrebbe dire non "io passeggio" ma "io sono una passeggiata"... La linguistica è uno strumento, questo sì, se non si erge a scienza, un contributo alla ricerca, che necessariamente è inconclusiva. Come la stessa definizione, il concetto, il contesto. Tutti paradigmi che, peraltro, non differiscono per la nazionalità. Dice Weinrich, p. 43, che febbre non è fever, e non è fièvre, e invece lo è. “Come concetti sono identici”, dice Weinrich. Ma non ci sono residui.
Si può concordare che in questi quarant’anni la ricerca della verità delle parole non ha fatto molta strada. Anzi nessuna, come già nei precedenti duemila anni. Mille e cinquecento per l’esattezza, il problema essendo all’origine etico e di speciale preoccupazione per gli esegeti cristiani, a partire da sant’Agostino. È questione di verità (santità) e non di conoscenza. Anche di santità laica: la più nota verità, la “Prava”, non ne conteneva per nessuno, nemmeno per Stalin che la dettava. E a volte è vero il falso, come nel paradosso di Epimenide cretese. Cos’è linguisticamente la verità delle parole? Il vocabolario? L’etimologia (soldi e pastorizia, sesso e soldi, etc.?)? Né il Battaglia né il Devoto recuperano tutte le variazioni delle parole, che sono infinite.
Weinrich tiene conto nella postfazione, tra i filosofi politici, di Hannah Arendt. Ma non di Koyré, lo studioso di Galileo e del razionalismo, il cui “Epimenide il bugiardo” era peraltro anteriore di un ventennio, e resta il classico della menzogna, insorpassato anche storicamente, che però non si ripubblica. La verità è che il libro è superfluo perché bisogna essere bugiardi sempre, senza ironia, nell’età dell’ipocrisia. Che può essere velata (nel salotti di Vespa, Lerner) oppure greve (Santoro), ma sempre si pretende politicamente corretta. L’ipocrisia è connaturata alla borghesia, si sarebbe detto un tempo. Oggi, che è vero, non siamo nell’epoca del mercato? della globalizzazione? dell’arricchitevi?, non si può dire. Non si può dire a sinistra, mentre a destra ridono e irridono. Non si può dire in Europa, mentre in America, e in Cina, si spanciano. La bugia, che non è materia di linguistica, può essere sicuro criterio di geopolitica.
Harald Weinrich, La lingua bugiarda, Il Mulino, pp.128, € 9

Delfino, o l'asino in Aspromonte

Molti scrittori, e molti libri, ingombrano le librerie nell’imperscrutabile logica editoriale che non presentano nessun interesse di mercato. Tante delle opere tradotte, per esempio. Mentre restano ai margini, non stampati o non distribuiti, autori e opere di sicura godibilità. Anche di sottigliezza letteraria, per stile, taglio, tematiche. Che in questo caso rimanda, asino per asino, senza rimetterci a Luciano - Samosata non è remota, in linea d'aria, dai luoghi del narratore. Delfino, che a lungo è stato giornalista, e qui recupera alcuni dei suoi “pezzi”, è in realtà proprio ciò che s’intende un narratore. Di situazioni e personaggi più spesso marginali e minimi, che si scolpiscono però alla lettura. Le sue cronache sono rappresentazioni, messe su con abilità, con grazia, in pochi tratti. Per esempio nello spassosissimo “Il cane Bobby”, un medaglione di Domenico Zappone, sodale e maestro dell’autore, nel trentennale della morte. Tutti i racconti-cronache di questa raccolta sono calabresi – Delfino è calabrese, dell’Aspromonte, legato ai temi e agli eventi di quella che chiama “la Montagna” – e riflettono quindi la particolare forma espressiva locale del paradosso, più spesso nella forma dell’understatement, che alla lettura risaltano quale forma aggiornatissima di leggerezza. Ma l'aneddoto è sempre sorprendente alla Buzzati, anche il più banale o scontato. Con un taglio più rapido, quasi un'istantanea, e quindi più sapido. Un altro rimando è d'obbligo, a Garcia Marquez - anch'egli a lungo giornalista. Alla capacità cioè di mitizzare i fatti, i miseri eventi quotidiani. Se il mito è la realtà profonda degli eventi. E di giocare su un passato che è presente, una tradizione che è vita, ancorché non moderna. Ma sempre con la cifra dell'autore, il rovesciamento, lo scarto. Ironico, sarcastico perfino, e sempre sofferto. A volte lo scarto è solo semantico, appena accennato, costruito su un gioco di parole, come in “Fottuti baroni”, o “Gli occhiali di Pavese”. Più spesso emerge in contrappunto ai luoghi comuni e alla retorica delle buone intenzioni, specie sul terreno disperante della criminalità. Di cui “Il suonatore di violino” è un terribile pezzo d’antologia. La materia spesso è oscura, ma “Il raglio dell’asino” è un libro divertente, incoraggiante. 
Antonio Delfino, Il raglio dell’asino, Nuove Edizioni Barbaro di Caterina Di Pietro, pp.156, €13

Grande scrittore, clandestino in Italia

C’è l’attacco sincrono del terrorista duro e puro. Anche se dal mare e non dal cielo, e contro Israele e non contro gli Usa. E c’è il detonatore nascosto nelle scarpe di una donna, nel tacco. C’è anche, alla fine, la sorpresa della sorpresa che fa il successo da un decennio del giallo d’azione, il tradimento del tradimento, eccetera. E rende giustizia a questo scrittore eccezionale, per conoscenza degli ambienti (conosceva perfino gli intrighi di Milano) e capacità di fabulazione, la cui lettura il politicamente corretto ci aveva limitato a suo tempo a “Topkapi”, per il film. Uno scrittore a lungo semiclandestino. Non per altro, l’uomo era ben orientato, ma per non essere un compagnuccio della parrocchietta.
Eric Ambler, Il levantino, Adelphi, pp.250, €12,50

Vargas si diverte, il lettore meno

Il ritornello è semplice, nel delirio della vendetta: “Victor, malasorte, il domani è alle porte”. Ma come parlare, si chiede in “L’uomo dai cerchi blu” il commissario Adamsberg, “a ragione e diritto” (à tort et à travers”). Nella stessa opera enunciando un’ancora inesistente “metafisica del reale”.
A opera dello “spalatore di nuvole” Jean-Baptiste Adamsberg (Venusberg?). Che è san Giovanni Battista della Montagna di Adamo. Tante delle stelle che si vedono sul tavolo-acquario della protagonista sono morte da tempo: il vice di Adamsberg non ha idea di “dove si fermi l’universo, e soprattutto in che consista”.
“L’uomo dai cerchi azzurri” è il primo romanzo di Adamsberg. “Fred Vargas”vi inaugura la ricetta di due parti d’irreale, di metafisico nel senso di De Chirico, e una di degrado urbano alla Simenon, di gente senza destino – il delitto dei miti, la persecuzione del caso, l’ira dei buoni, il male ovunque. Ma è più brava in letteratura, nel metatesto, che nel plot. Lento, anche macchinoso e inerte, se uno non ama le storie di testa – la gioiosa ricercatrice di medievistica e zooarcheologia che si comincia a intravedere in foto per i cinquant’anni non avrà scelto lo pseudonimo Fred per freddo?
Fred Vargas, L’uomo dai cerchi azzurri, Einaudi, pp.238, €15,5.

Il "raiume" dell'informazione

Le Camere si sono già riunite, e sono nell’impasse sulla nomina dei presidenti. Berlusconi anzi ha già fatto il governo, è andato dal presidente della Repubblica a presentargli i ministri. Anzi, di più, ha già governato e i risultati non sono buoni. La Ue dice no all'Alitalia, Berlusconi dice no alla Ue - l'Italia entrerò in guerra? Bruxelles contesta pure il bilancio del governo. Mentre il Fmi preannuncia una missione d'indagine - fra sei mesi. Poi ci sarebbe la Pirelli Bicocca, la fabbrica di Cofferati, che si vota delegati di base di destra, ma di questo non si parla.
A dieci giorni dalle elezioni le carte sono talmente imbrogliate che, se uno non sta attento, pensa di essere alla fine della legislatura e di dover votare di nuovo. Se uno cioè non si libera dei venticinque giornali radio della Rai, ripetitivi, ad alzo zero, e sui dodici o tredici telegiornali, sempre della Rai. Non si sa invece, non si riesce a sapere, chi ha vinto le elezioni e come, perché. Cosa quindi dovrà fare il governo, che dobbiamo attenderci, e come e perché chi non ha votato Berlusconi è così nettamente fuori dal mainstream dell’Italia.
Su Berlusconi la fabbrica Rai è instancabile. Ha messo le ronde armate, ha chiuso le frontiere, ha espulso i rumeni, ha venduto la Roma a Soros e l’Alitalia a un suo amico, ha liberato i mafiosi, li ha decretati eroi, sta riscrivendo i libri di storia. L’ufficio politico del Tg 1 è talmente inventivo, diciassette veltroniani e otto casiniani, che lo stesso direttore Riotta ha problemi a tenere loro dietro. Infettando i grandi giornali, di cui la Rai da tempo fa l’agenda. Con un’evidente egemonia. Una sorta, benché sappia di francesismo, di malefico “raiume” dell’informazione.

Con Berlusconi Mosca nella Wto

La Russia non ha più interesse ad aspettare fuori della Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, dove gli Stati Uniti di Bush l’hanno relegata – uno dei pochissimi paesi che ne è fuori. L’appartenenza alla Wto comporta degli obblighi liberoscambistici. Ma Putin, ora che ha rimesso le mani sulle banche e le grandi industrie delle materie prime depredate dai boiardi della desovietizzazione, non li teme più. E anzi cerca attivamente una parità di trattamento: l’ingresso nella Wto facilita anche gli investimenti russi all’estero, le esportazioni di manufatti, le lavorazioni per conto. Il governo Berlusconi dovrebbe agevolare la trattativa, sulla quale a Bruxelles permane la generale incomprensibile riserva sulla Russia di Putin, per assecondare la confusa riserva della cancelliera tedesca Merkel se non l’aggressività di Bush.
La Wto subito è stato uno degli argomenti dell’urgente visita dello stesso Putin a Berlusconi subito dopo le elezioni. Dove si è parlato poco o nulla di Aeroflot e Alitalia. Anche se il presidente russo si è riconosciuto in debito con l’Italia. L’integrazione fra Gazprom e Eni prosegue con beneficio del colosso russo, che si appresta a entrare col gruppo italiano in aree dove questo ha da tempo un’influenza: subito in Libia, domani forse in Venezuela e in Qatar. Più vaga la possibilità di un rientro della Russia con l’Eni anche in Centro Asia, a partire dal Kazakistan, dalla messa in opera del giacimento di Kashagan. Ma la semplice ipotesi colma già le ambizioni oggi di Gazprom e del Cremlino.
Il fatto è, noto alla diplomazia italiana, e sicuramente agli atti di quella del Cremlino, che non si può fare a meno della Russia volendo operare nel'immenso serbatoio di risorse che è il Centro Asia. Dove molte repubbliche di tipo "sovietico" sono sorte dall'Unione Sovietica, che talvolta fanno dell'antirussimo l'unica ragione d'essere dei monocrati. Ma non c'è altra possibilità, volendo operare in quelle immense aree, in una ottica di sviluppo, che portare i capataz locali alla ragione, e cioè alla collaborazione con la Russia. Senza la quale non hanno sbocchi. Queste cose l'Italia le sa anche per essersi ingolfata con l'Onu, e cioè con gli Usa, nella guerra in Afghanistan, che non si può vincere, e anzi si sta perdendo, senza la sponda sovietica - l'unica sponda contro il terrorismo islamico, qaedista e talebano, è il Pakistan, ed è infido.

La Russia è il miglior mercato

La Russia è il sesto mercato estero dell’Italia. E quello dove l’interscambio più cresce da quasi un decennio, dopo la svalutazione del rublo, in media di oltre il 20 cento l’anno. Per effetto del caro petrolio naturalmente, che per l’Italia si riflette sul gas, di cui la Russia è la maggiore fornitrice. Ma anche per la crescita delle esportazioni, a ritmi vicini al 30 per cento l’anno. A opera del comparto macchine utensili, e abbigliamento-casa.
Nel 2007 la Russia è stata il sesto partner commerciale dell’Italia, dopo la Germania, in ordine, la Francia, la Spagna, gli Usa e la Cina, alla pari con la Gran Bretagna. Le esportazioni sono cresciute nell’anno del 25,6 per cento, le importazioni di un più normale 5,6 per cento, malgrado il caro petrolio. A gennaio sono cresciute del 29,6 per cento, rispetto alla crescita media pur considerevole di tutte le esportazioni, dell’11,4 per cento. Gli scambi dovrebbero accrescersi ancora di più con l’inevitabile ingresso della Russia nella Wto, l’organizzazione mondiale del commercio.

Az come la Sme: ora lo spezzatino e i giudici

Il caso Alitalia ripete quello della Sme, la holding alimentare. Una vendita maldestra, oggi come allora. Da parte dello stesso soggetto, Romano Prodi. Una vendita in perdita: per Alitalia come per la Sme il compratore aveva garantita una dote. Contro le due operazioni uno stesso personaggio, Berlusconi, monta una cordata. La quale non c’è, oggi come allora: ci sono imprenditori che si dichiarano disponibili per l’amore della patria, ma non cacciano un soldo. Oggi come allora la vendita e le cordate hanno favorite facili speculazioni di Borsa. Nel nome dell’italianità dell’azienda: anche Sme doveva diventare un campione nazionale, sull'esempio del gruppo Kraft o Danone - la stessa ideologia poi usata per gonfiare all’inverosimile di debiti Parmalat.
Su questi presupposti gli sviluppi dovrebbero essere la parcellizzazione di Alitalia (lo spezzatino), e un’infinita storia giudiziaria. La Sme fu parcellizzata con beneficio dei compratori - è questo il senso e il fine delle cordate. Chi comprò rivendette a caro prezzo, tra essi in particolare un certo Lamiranda, di cui si sa solo che era amico di Prodi, Unilever, di cui Prodi era consulente, e Cagnotti, per l’arbitraggio della Banca di Roma di Geronzi. La lunga storia giudiziaria ha avuto a protagonista Berlusconi. Senza aver mai sfiorato la vendita di Prodi, a trattativa privata e a premio, a Carlo De Benedetti, su cui pure molto si è scritto. Né gli evidenti casi di aggiotaggio, anch’essi documentati, in Borsa e sui giornali.