Cerca nel blog

sabato 19 marzo 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (279)

Giuseppe Leuzzi

Uno vede Salvini – è impossibile non vederlo, è dappertutto – e si dice: ma come è possibile? Che male abbiamo fatto?
E Milano, possibile che non abbia nulla di meglio? Ma forse no, sarà un uomo dello schermo: Milano schiera Salvini per punirci senza scampo.

Molto urta Milano la decisione degli eredi Agnelli di lasciare il “Corriere della sera”, rivendicando: “Per tre volte in quarant’anni abbiamo messo ingenti capitai per salvarne l’attività e l’autonomia”. Tutto vero. Ma a Milano non se ne danno caso, gli Agnelli li considerano intrusi.

Non si gioca nemmeno al pallone, al Sud, senza il patrocinio del Nord. Ci vuole in tv, sul canale 8 Mtv, un uomo del Nord per dare la voglia di correre ai ragazzotti della Martirano Lombardo, terza divisione. L’uomo della Provvidenza è Vialli, che si presenta così: “Dove cazzo mi avete portato, non prende nemmeno il cellulare”.

I lombardo-veneti a Martirano
Martirano è, malgrado l’attributo, in Calabria, in provincia di Catanzaro - si incontra molta Lombardia da Napoli in giù e fino in Sicilia: venivano nei secoli per lavorare la pietra e nei lavori edili. A Martirano si lasciò morire Enrico (VII) Hohenstaufen, lanciandosi da un dirupo, massiccio com’era, dopo avere combattuto una vita il padre Federico II nel nome della libertà, alleato della Lega Lombarda, dei principi tedeschi e di ogni altro ribelle - un padre che aveva una ventina di figli, da tredici madre diverse, di cui sei anonime. Enrico lo Sciancato, anche gli epiteti hanno una ragione, per distinguerlo da Enrico lo Zoppo, che fu imperatore e santo.
A Martirano soggiornò Giacomo Casanova, all’età di diciotto anni, alla corte del vescovo, in cerca di lavoro. E ricambiò il suo anfitrione, che si faceva felice alla sua sola vista, col trovare cattivo anche l’olio, di cui quelle contrade sono e erano specialiste.
Ma è da dire che il racconto di Casanova, fanciullo ebete fino ai nove anni, è messo in dubbio dalla filologia veneta recenziore – Casanova in Calabria? absit! La quale invece, “Impressioni di un gentiluomo veneto vissuto a Martirano nella prima metà del Cinquecento”, registra  lamenti di un Gabriele Gerbi, alla veneziana Zerbi, che a metà secolo scriveva a Paolo Manuzio lamentando dieci anni di vita “in quel deserto di Martorano”. Ma che ci faceva in quei dieci migliori anni della sua vita? Era un avvocaticchio, aveva un posto al seguito dello zio vescovo. Che poi seguì a Nocera Pagani. 
I veneti scendono ancora in Calabria, sempre lamentandosi. Vanno più  a Nord, a Rocca Imperiale, ma pur esso luogo federiciano – hohenstaufeniano, se si vuole. Vengono da Padova e da Treviso, sono nell’immobiliare, comprano vecchie case, per lo più abbandonate, le intonacano, e le rivendono a tre e quattro volte il costo.  

Il ritorno – nostos
Il nostos è sempre problematico, già in Omero, e qualche volta insostenibile. La nostalgia evapora presto di fronte alle diversità incoercibili, acquisite, maturate, inevitabili. Naturalmente in qualche modo abiette, che superano ogni buon proponimento. Non ci sono ritorni felici. È un fatto meridionale ma anche settentrionale. I milanesi di Roma, gli scrittori, le ragazze in cerca di fortuna, e i leghisti – anche i leghisti, che hanno prosperato dicendo male di Roma, dei ristoranti, degli alberghi, dei caffè - non ritornano a Milano.
Questo sarebbe un altro aspetto, da indagare: non ci sono tanti romani in tutta la Lombardia e in tutto il Veneto quanti sono i lombardi e i veneti a Roma. Con la scusa della politica – peraltro disprezzata -  ma non è vero: tutto il business dei restauri dei quartieri popolari (fatiscenti), Trastevere, Ghetto, Testaccio, Monti, ruota attorno ai ricchi lombardo-veneti, che vogliono avere il pied-à-terre a Roma. Anche i napoletani, scrittori e non, preferiscono Roma, ma questo è un altro discorso – loro non la disprezzano (come potrebbero?)
Specie dei letterati questo è curioso. Gli editori, infatti, si trovano a Milano. Milanesi anche i giornali che li sfamavano fino a un paio di decenni fa, il “Corriere della sera”” e “Il Giorno”.

Aridatece i buoni borghesi
In due saggi curiosamente interpolati nella ricerca antropologica “De sanguine”, Lombardi Satriani propone un bellissimo programma della “cultura signorile del Sud dell’Italia” – in realtà della Calabria - “indagata attraverso alcuni corpora, e precisamente la facciata dei palazzi, i quadri degli antenati, le parole funebri (elogi, lapidi, testamenti)”. Cosa che poi non fa. Eccetto che per la “casa signorile”, alla quale dedica un diffuso capitolo, “Stanze della memoria”. Al centro della casa c’è ovunque la biblioteca, ovunque molto ampia e curata, spesso con edizioni rare, e perfino incunaboli – oltre che epigrafi, monete, reperti archeologici. Con enciclopedie, riviste e raccolte di giornali. Il cui uso è testimoniato da annotazioni in corpore e da considerazioni documentate, in opuscoli, lettere e anche opere conchiuse. Di una cultura vigile. Alcune case erano anche famose, Lombardi Satriani ne elenca una ventina. Si stava meglio quando si stava peggio.

…e le processioni
Dismessa come rito pagano al Sud, e anzi mafioso, come del resto tutto al Sud, specie dai sacerdoti, per i quali è una corvée, la processione viene riabilitata a Roma e in atre città, e inventata dove non c’è, dalle parrocchie come una forma di socializzazione. Come lo scoutismo e l’oratorio. E anche di occupazione degli spazi esterni, di proiezione del sacro fuori della chiesa.
Ha tuttora, come l’ha sempre avuta, la funzione di occupazione dello spazio, territoriale e sociale. Di comunicazione e immedesimazione. Specie nei conglomerati urbani, forzosamente compositi e meticci. Una funzione che è propria anche della piazza, ma nella processione si dà unitarietà, per un minimo di credenze condivise e di buoni proponimenti.
E succede che, sia la fede dappertutto in regresso, come vogliono tutti i censimenti, anche parrocchiali, la processione invece raccoglie vasto seguito. Non una cerimonia particolare, la tipica processione, con luminarie, banda, salmodie e inni, nasali, dietro le Madonne o i santi locali, e fuochi d’artificio finali. Poi dice che il Sud è perseguitato. Da se stesso?

Il meridionale non ama i meridionali
Armando Saitta, di Sant’Angelo di Brolo, “non amava i meridionali”. Professore di Storia moderna alla Normale di Pisa, costrinse nel 1966 Marcella Marmo a lasciare la Normale dopo il primo anno solo perché era napoletana. Marmo ama la la storia ed aveva la stoffa di storica: si è poi laureata a Napoli con Galasso, ed è professore di Storia contemporanea. È anche indiziata per essere “Elena Ferante”, la scrittrice che scala tutte le classifiche, ma questo non è importante.
Marmo aveva già dimostrato chi era: era entrata alla Normale dopo una selezione dura, allora si ammettevano una diecina di matricole per disciplina l’anno. Ma non concorse per il secondo anno, preferì andarsene. Sant’Angelo di Brolo è un piccolo paese vicino  Messina.
Saitta è famoso – era – per i suoi manuali di storia ai licei. Portato alla Normale da Palermo, dove allora insegnava, da Giovanni Gentile, fu dopo la guerra paracomunista. Continuò a non amare i meridionali anche a Roma, dove si trasferì l’anno dopo aver silurato Marcella Marmo.

leuzzi@antit.eu

Il mito del sangue sembrava comico

Al suo Urvolk – il popolo tedesco, “primordiale”, “puro” – il privilegio Fichte connette alle “condizioni di razza e di origine, che un Rosenberg oggi non esiterebbe a chiamare ebraiche… o cattoliche”. Famoso e un po’ famigerato, l’excursus di Evola nel razzismo germanico è una presa di distanza, al limite dell’irrisione. Benché ne scrivesse nel 1937, quando l’Italia stessa accedeva all’antisemitismo. I miti sono una cosa seria, ammoniva subito: veri o falsi, sono un’idea guida, difficile da smantellare. Ma sono funzionali, a una concezione o formazione politica, a uno Stato, a interessi vari. E capovolgibili: “Si deve riconoscere che questi spunti razzisti si capovolgono in idee completamente opposte”. 
La trattazione è difficile da maneggiare dopo l’Olocausto. Ma è di lettura opportuna oggi, nella paura dominante della misgenation, dell’invasione che l’Europa teme dall’Asia e dall’Africa. E non è solforosa, come si vuole quanto si riferisce a Evola: è su un indirizzo da studioso e non da politico – “il nostro proposito, una pura esposizione oggettiva” – che licenzia l’impresa commissionatagli dall’editore Hoepli. Commissionata a un autore che aveva più volte criticato il razzismo hitleriano: “Il «mito» del nuovo nazionalismo tedesco”, 1930; “La mistica del sangue nel nuovo nazionalismo tedesco”, 1931; “Osservazioni critiche sul «razzismo» nazionalsocialista”, 1933; “La concezione «antiromano-razzista» del diritto”, 1934; “Superamento del razzismo” e “Paradossi dei tempi: paganesimo razzista = illuminismo liberale”, 1935; “L’equivoco del «nuovo paganesimo»”, 1936. Punteggiandolo, sia pure solo per spirito di polemica, derisoriamente – questo “Mito” è un saggio del migliore radicalismo italiano, da “Lacerba” a Salvemini, e infine a Pasolini, ma di prima mano, di chi sa di che tratta. Di Hitler, nel capitolo conclusivo, mette in rilievo il proposito di suscitare nel popolo tedesco, come dice lui, “fondato sull’unità del sangue”, un “sicuro istinto di mandria”. La peggiore ingiuria per uno che fa professione, chiudendo il suo excursus, “di una spiritualità intransigentemente antimoderna, aristocratica, imperiale e «romana»”.
Simbolo oscuramente scelto
Evola spregia il razzismo, ma ne conosce la forza. La razza è un mito non nel senso che sia una finzione. È un’idea e un progetto, che trae la sua forza persuasiva da elementi non razionali. “Quello del sangue, della razza, e più specificamente del sangue nordico e della razza aria”, Evola dice “il simbolo oscuramente scelto” dalla Germania di Hitler. E si accinge alla disamina del fenomeno premettendone i limiti: si contesti pure un mito razionalmente, freddamente, scientificamente, non se ne “raggiungerà mai il nucleo più profondo, ossia l’intima necessità, il fatto di sentimento che dà sostegno e forza al mito stesso” – il mito è “un centro di cristallizzazione”, aggiunge stendhaliano.
Il mito risale a Herder, al suo “spirito dei popoli” come manifestazione divina. Alla scuola anglo-tedesca Georgia-Augusta di Gottinga, specializzata nell’arianesimo. E a Fichte: al suo popolo tedesco come Urvolk,  popolo “primordiale” che ha saputo conservarsi “puro”, senza adattamenti – a differenza dei Franchi, tedeschi “impuri”, e altre tribù teutoniche. Con due codicilli: solo la lingua tedesca e la filosofia tedesca sono “originarie”, solo il cristianesimo tedesco è cristiano. E un’avvertenza: “Il popolo metafisicamente predestinato ha il diritto morale di realizzare il suo destino con tutti i mezzi dell’astuzia e della forza”. Il tutto mescolato, come è d’uso in Germania ancora ai giorni nostri, con la professione di “umanità totale”: lo “Stato organico” Fichte vuole fondato “sull’uguaglianza di ogni essere che abbia sembiante umano”.
Viene poi Gobineau, che indagando la decadenza degli imperi e le civiltà, la imputa alla “degenerazione etnica”. Di cui è veicolo l’uguaglianza – il conte era conseguente, a differenza di Fichte.  “La storia sorge solo dal contatto con le razze bianche”, stabilì famosamente.  Dopo Gobineau dilaga l’antropologia, orecchiata (Chamberlain) e accademica – anche da parte di studiosi ebrei. Una lunga sfilza di nomi e di teorie che Evola diligente elenca e illustra, con un sottile effetto ironico – oggi certo, ma probabilmente anche ieri, per varie sottolineature interpolate qua e là.  Di più estendendosi sulle complesse architetture di Hans F.P.Günther, Hermann Wirth, e di F. Ludwig Clauss, tra i loro tipi e sottotipi, le ricostruzioni della preistoria, e gli spassosissimi – non fossero stati innestati sul razzismo – “caratteri” delle “tipologie” razziali, completi di figurazione fotografica. Per concludere, con lo studiosissimo Günther, che “la maggior parte dei tedeschi non solo non derivano da genitori di razza magari diversa ma pura, ma sono il risultato di elementi già misti”. E col ridicolo di Rosenberg, che priva gli ebrei anche della religione….
La religione nordica
Opera dotta, seppure breve, e complessa: molti garbugli e tracciati Evola spiega. E in poche – relativamente – pagine un immenso dettagliato sciocchezzaio mette in chiaro. Presentato come tale, per note fugaci ma sensibili, agli snodi. È inutile menarla, conclude a proposito dell’antisemitismo, su cui tutta la ricerca razziale, un secolo e mezzo di voluminose classificazioni, poi converge, la questione è etico-sociale. Cioè: fuori gli ebrei, che fanno troppi affari e si prendono i posti migliori. La questione è, aggiunge Evola, quella che Dühring, e il critico di Dühring Marx, hanno impostato nel 19843-1844. Con citazioni da far rabbrividire. Ma con umoristica nota conclusiva: “Non si può sempre spiegare il predominare degli Ebrei nelle professioni intellettuali con i loro raggiri e la loro astuzia”. Esilarante anche a tratti. Con la “religione nordica” di Rosenberg, Hauer, von Reventlow,  Bergmann. O quella laica dello stimato Water Darrè, “Contadinato quale Fonte di Vita della Razza Nordica”
Devastante da ultimo, in gergo calcistico, nell’attacco al capitolo “Razzismo e  antisemitismo”. Tutto il mito della razza – l’antropologia, la preistoria, la storia, la psicologia e la psicosociologia – è inteso a fondare l’antisemitismo, e non si vede come: “Come da questo composto etnico”, il popolo ebraico, “abbia potuto sorgere un sentimento così vivo di solidarietà e di fedeltà al sangue, conservatosi anche nelle situazioni meno propizie, e tale da far pensare che il popolo ebraico praticamente sia stato fra i più «razzisti» della storia, questo è un mistero su cui gli autori antisemiti gettano poca luce”. Un antisemitismo della razza ma anche della religione. Della religione ebraica “è vero che già un ebreo, lo Spinoza, aveva accusata una certa corpulenza, crudezza e sensualità”, ma su questo metro, conclude subito Evola, non c’è religione che si salvi. 
La scienza razzista è di nessun fondamento, se non lo sciovinismo. Ma densa, densissima di argomentazioni, anche se false e molto spesso bislacche. Di disinvoltura pari alla presunzione. L’Umanesimo e il Rinascimento sono in genere disprezzati. Ma a volte (Chamberlain, Woltmann) annessi, germanizzati. Chamberlain arianizza anche Gesù, “dolicocefalo biondo”. Evola procede incredulo, essendo un germanizzante, di formazione e di scelta. Specie considerando, come notava già Chamberlain trionfalistico, che il mito tedesco della razza “in nessuna forma si conserva in modo così eloquente  come nell’avversione istintiva contro Roma”. E finisce per montare una Biblioteca della Stupidità. Anche da imperialista romano-centrico, opposto all’impero germano-centrico. Ma è la stessa scienza della razza che si presenta incontinente nella sua sintesi.
Julius Evola, Il mito del sangue, Ar, pp. 160 € 18
free online

venerdì 18 marzo 2016

Problemi di base - 269

spock

Che di più immortale dell’attimo? Non si può nemmeno cancellare.

E l’oscuro, non è eterno?

È la verità un cammino fuori dall’oscurità?

O non è l’oscurità un cammino, che ogni tanto s’illumina?

Il tutto, di che?

Il tutto?

Tacere è un bene o un male? (può essere un bene)

E parlare?

spock@antiit.eu

Il padre di Barbapapà

“Bisogna che l’uomo si diverta a immagine del suo Creatore. Dio si diverte ferocemente dacché è Dio”. Il poeta liberando come esploratore. Non necessariamente della verità – a furia, certo, di ossimori: “Con una vera menzogna – mi se ne dia una ! – solleverò il mondo”. E lo solleva. Non senza certezza: “Sempre qualche buon Dio detronizza un altro Dio”. Ma l’opera del primo patafisica Jarry è di distruzione, prima che di esplorazione dell’ignoto. Difficile da recepire – e da tradurre, anche se qui con ottimi risultati da Angelo Mainardi, l’ex direttore dei programmi culturali di radio Rai.
Alcune visite si fanno: alla serva, alla grande horizontale, alla cuginetta, alla Grande Signora. Altre sono temute, alla fidanzata borghese – “non toccatemi,!” – e alla “Vecchia Signora” Berthe de Courrière, che tutti i giovani poeti vorrebbe. Altre sono fisiche e metafisiche, col Medico, con la Musa (con la Musa si parla in rima), con la Paura. Anche machiste, al limite della misoginia – non se ne salva una. In un modo già femminilizzato a fine Ottocento, di fidanzate, prostitute, mantenute, lolite, egerie. Una è immaginaria-immaginaria: di deflorazione della vergine in grande contesto storico, tra Marco Polo, Gengis Khan e il Vecchio della Montagna – cioè della storia. Una non poteva mancare da Madame Ubu, l’equivoca maîtresse, dove fa capolino Barbapulce, il primo della famiglia.
Ma più che altro la raccolta è un “racconto della letteratura”. Per questo Jarry ci teneva, benché la compilazione non sia delle più brillanti, al punto che, sconsigliato e rifiutato da Rachilde, l’egeria della sua casa editrice, il Mercure de France, la fece stampare e promuovere da un editore porno, nel 1998, in contemporanea col “Dr Faustroll”. Jarry letteralmente si bruciava i ponti, occupando a ritmo frenetico la sua breve vita creativa, i tredici anni di scrittura a partire dei venti. Ma niente licenza nelle visite, e purtroppo poco da ridere. Un libro di citazioni, reminiscenze, parodie, che va letto con molte note.
La fantasia eccedente è peraltro di grande fertilità. Nel tratto e nei soggetti. Specie la Vecchia Signora, la compagna di Rémy de Gourmont, variamente riproposta, che già Gourmont aveva caricaturato: la donna che vive degli artisti. Fino al dubbio se un terremoto non sia benefico. Anche a costo di scuotere il firmamento - già “il silenzio è un fracasso orribile. Sono le stelle che cadono”.
Presente in sordina nella produzione ubuesca, la raccolta è anche un modello. Uno dei diletti del lettore sarà di riconoscervi, fra i tanti altri, le tracce dei futuri fratelli De Chirico – il propriamente detto e il fratello Savinio. E di Marinetti il futuro futurista, col quale Jarry corrisponderà nel 1905.
Alfred Jarry, L’amore in visita, Kami, remainders, pp. 109 € 6

giovedì 17 marzo 2016

Letture - 250

letterautore

Calvino - Nelle sue favole Sciascia dice – “Fine del carabiniere a cavallo” – che “non c’è la morale della favola” ma c’è “la favola della morale”. Cioè? Era Cavino uno scherzosone? È una stroncatura, amichevolmente ironica - amabilità tra letterati? A volte il re-censore dorme.

Classico - Nessuna memoria, commento critico, ermeneutica distruggerà ciò che è certificato dalle generazioni che si susseguono, nota Ruben Darìo in viaggio per l’Italia, tra le rovine: l’italiano cresce in piazza fra ninfe e fontane d’artista. Da qui il classico, che non è storia ma criterio di misura.
Il culto dei classici va con la critica, solo coi morti il critico è libero - gli esegeti con la Bibbia.

Colori-sapori – Si ritrovano ancora nelle mostre d’arte i linguaggi allusivi, residui del mallarmeismo,.per cui le sculture, le pitture, i disegni, le forme, i colori vengono trascritti con linguaggi di altre pertinenze (la flora, la fauna, l’industria delle vernici), e di altri sensi che la vista. Gli stesi che usano da qualche temo per i sapori: vini, alimenti, cucina. Gli chef, in genere gente di mano e d’azione, e gli assaggiatori si celebrano e si nascondono col linguaggio dei richiami. In genere oggi alla natura: la vegetazione, le stagioni, le temperature.

Ebraismo – Come “demone della decadenza umana” è, prima di Heidegger, di Wagner. La Germania ferma sta.

Goethe – Gadda fa di Goethe, in nota alla “Adalgisa”, l’antesignano del “meccanismo profondo (darwiniano, n.d.r.) della evoluzione biologica”. È errato, ma corrisponde a Goethe.

Italia – È per Stendhal, convintamente, ripetutamente, a ogni lettera, a ogni scritto, terra di energia e di passioni. Che retrospettivamente sembra una falsa impressione, ma in quegli anni, e ancora dopo, aveva ben consistenza: la passione politica, rivoluzionaria per lo più, il peso riconosciuto alla letteratura, la musica, l’arte, il Risorgimento nazionale. Un modo di essere che si  può dire inalterato ancora per un secolo dopo Stendhal. La scomparsa dell’Italia è recente. Opera degli italiani, ma in quanto vittime del mito del Nord – che in altri tempi si sarebbe detto nebbioso, e anche confuso.  

Franco Buffoni la trova divisa anche nella critica d’arte. A ragione. La beffa nel 1987 dei “Modì” a Livorno, a opera dei tre ragazzi Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Ghelarducci, fu alla città superrossa, che aveva organizzato la mostra Modigliani tutta nel partito, come una cosa del Pci. Era del partito Comunista Vera Durbé, curatrice della mostra, che si fece finanziare  subito dal comune il dragaggio del canale cove i Modì furono tempestivamente recuperati, ma palesemente falsi. Difesa contro ogni evidenza da Argan e Brandi, del Pci, contro Federico Zeri, che invece denunciava la burla.

Italia tedesca – Non solo Dante, tutti gli italiani illustri furono tedeschi un secolo fa, secondo “I Germani in Italia”, di Ludwig Woltmann – autore anche di un “I Germani in Francia”. Woltmann (1871-1907) fu nella sua breve vita antropologo stimato e prolifico. Sulla premessa che, per tutti i popoli, “il loro valore di civiltà dipende dalla quantità di razza bionda che essi contengono”, annesse alla Germania il Mediterraneo: i biondi Eraclidi, fondatori di Sparta, Roma (cominciò a decadere con la penuria di uomini biondi: la tesi del protogermanista Tacito - che però Woltmann non si annett, uno dei pochi), e il Rinascimento. Nomi germanici sono Dante Alighieri (Aigler), Boccaccio (Buchatz), Leonardo da Vinci (Winke), Buonarroti (Bahnrodt), Tasso (Dasse) e molti altri, fino a Benso di Cavour (Benz), e a Garibaldi (Kerpolt). Del “tipo biondo” sono Dante, Giotto, Donatello, Leonardo, Colombo e altri.

Novecento – Capisaldi del Novecento italiano saranno stati la storia di una seconda casa, un giallo irrisolto, un fumatore incallito, e le avventure di un bambino cresciuto in un giardino botanico. Ghirigori. In un secolo tremendo.

Pasolini – Vittima del pasolinismo in queste celebrazioni dei quarant’anni della morte. Che lo fa grigio, e quasi stinto. Per i tanti libri, e ora qualche film, che ne romanzano (falsano) la morte. Da ultimo con la ripresa del “Vantone”, il “Miles gloriosus” di Plauto. Che non è Plauto, e nemmeno probabilmente Pasolini – uno lo spera. Una farsa trasformata in commedia di costumi, arcigna.
A fine stagione 1963-1964 un’anteprima del “Vantone” alla Pergola di Firenze faceva letteralmente crollare il teatro, dal ridere. Una “serata di teatro” quale si favoleggia negli annali, che lasciò gli stessi attori accasciati sul proscenio dalle risate, incapaci di finire le battute. Attori navigati della Compagnia dei Quattro,  Valeria Moriconi e Glauco Mauri – con Emanuele Luzzati, scenografo, e il regista Franco Enriquez.
Ma è vero che lui stesso non apprezzo i Quattro, che pure gli avevano commissionato la versione e la portarono al successo, perché Moriconi e Mauri erano marchigiani e quindi non borgatari romani. E dunque non c’è rimedio?

Grande filologo sarebbe stato, di potenza, disinvolto, disincantato. E favolista al modo di Boccaccio, Chaucer e le Mille e una notte, o degli amati sconvenienti borgatari. Ne fece una parentesi, e fu poeta sentimentale - il poeta è incinto di se stesso. Sembrava si divertisse, nelle marane coi pischelli e le periferie, ma è in posa, sempre allo specChio. Si vede dalla foto in giacca e cravatta sul campo di calcio, il tackle perfetto secondo i canoni del “Calcio illustrato”, coi ragazzini sporchi nella fanga. Mentre nel fotoservizio per “l’Espresso” è in maglietta e calzoncini d’ordinanza, calzettoni, parastinchi, scarpini lucidi coi tacchetti bianchi, i capelli ordinati, imbrillantinati - il Muccinelli de noantri, la repubblica delle lettere si vuole romanesca, il Mariolino Corso perfetto. Imbalsamato nell’impegno politico, che è l’unica cosa che non sapeva e non sentiva, e lo rendeva nervoso.

Grande tragedia Pasolini avrebbe potuto farne, di quello che è e non è, con i mezzi che aveva. O commedia: è Aristofane, l’“Eautontimorùmenos”, è più forse di Plauto, il “Miles gloriosus”. Traduttore di Eschilo superbo, la sua “Orestiade” è un’altra. E di Edipo grande filologo, oltre che pittore, non c’è altra Grecia. 

Stupidità – Non esiste, dice Büchner, ma in questo modo: “Non è in potere di nessuno non divenire uno stupido”. Oppure: “Posso dire che uno è stupido senza per questo disprezzarlo, la stupidità appartiene alle qualità generali delle cose umane”.

letterautore@antiit.eu

Il culto del sangue

E così, visto da sinistra, il sangue è un fatto, di ereditarietà, cultura, identità – la materia era rimasta al “mito del sangue”, origine di tanti lutti: “La vita fluisce, per gli uomini, nella misura in cui questi conquistano, attraverso una complessa plasmazione culturale dei tratti biologici e «naturali», il linguaggio. Che si articola a partire da alcuni elementi fondamentali, il primo dei quali è il sangue”. Su questo presupposto il decano degli antropologi italiani ha condotto per un trentennio, col contributo anche di altri studiosi (Ottavio Cavalcanti, Mariella Combi, Giovannella Greco, Vito Teti), una serie di ricerche dai risultati sorprendenti: il sangue ci condiziona. Per i legami familiari, naturalmente, ascendenti e discendenti. Per la trasmissione dei poteri. Per l’eliminazione del nemico – la guerra, la vendetta, la faida. E “nella religione popolare, nell’orizzonte magico, nel diritto”. Nella religione prima e sopra a tutto, si direbbe tout court, di cui è fondamento il martirio, e pratica la flagellazione rituale, per sé, per i defunti, per i santi.
La ricerca si snoda attraverso il riesame dei racconti folklorici, gli ex voto,  le pratiche religiose, compresi i flagellanti alle processioni, le “punizioni divine” (qui l’Aids). E nella fondazione della casa,  nella deflorazione, nel culto delle reliquie, nel compianto funebre, nel sacrificio religioso - il rito più emblematico del sangue purificatore, per il cristiano, nella Passione del Cristo e poi a messa, nella Consacrazione e la Comunione. 
L’esito è polimorfo. Ma rispondente a un tracciato semplice, tanto quanto ambizioso: la ricerca registra “come una sorta di ponte tra il caduco e l’Eterno, la finitudine e l’Infinito, la sofferenza e la Fonte del riscatto, il dolore e la Gioia, la fralezza e la Potenza, la carenza e la Pienezza, l’assenza di significato e l’Origine di senso, la morte (la minaccia di essa)ne la Vita, l’essere e l’Essere, l’uomo e Dio”. Il sangue è morte, il sangue è vita. Ma della morte per esorcizzarla in resurrezione: “Il sangue si pone come elemento atto a dare vita, a fondarla, a renderla imperitura”. È la materia e il filo dell’Essere. Il “culto” del sangue, la memoria, la perpetuazione, è da sempre – continua Lombardi Satriani - un modo per l’uomo di trascendere la sofferenza, i propri limiti, la morte. Che è l’origine della religione, nata come rito propiziatorio: sacrificio, culto del sangue.
In finale una curiosa digressione sul “sangue blu”, nei capitoli quasi di nostalgia familiare, “Stanze della memoria” e “Legami di sangue”. Il valore coltivato della discendenza, e la funzione simbolica del sangue  elevando alla sfera del “divino”: “L’incontro del fedele aristocratico con la sfera cattolica del divino è, in un certo senso, dialogo in famiglia, rapporto impari tra pari”. Qui recuperando la “religione” del “Gattopardo”, tra rosari, reliquie e zie monache, che giustamente Lombardi Satriani legge non come parodia ma come reminiscenza storica, storicizzabile. Anche perché “carnalità e religiosità trovano nel sangue un elemento coagulante che rende possibile uno scambio continuo di pertinenze simboliche”.
Luigi M. Lombardi Satriani, De sanguine, Meltemi, pp. 192 € 14

mercoledì 16 marzo 2016

Futurismo per tutti, in Francia

Impressionante prova di attenzione culturale, questa riproposta in edizione economica di un movimento artistico che pure sarebbe italiano. Un’opera di divulgazione a un secolo e oltre dal movimento che rinnovò, letteralmente, le arti e le arti applicate. L’inventario di Lista è lunghissimo dei settori che il futurismo rivoluzionò: moda, design, giocattoli, comunicazione postale, creazione grafica e tipografica, mobili e arredamento, sport, cucina, oltre al modo di porsi, individuale e sociale, la sessualità, la tradizione. Nonché delle innovazioni: parole in libertà, musica dei rumori, scultura cinetica, assemblaggi plastici mobili, sonori, astratti, architettura del vetro, del ferro, del cemento, danza plastica, teatro astratto, tatticismo, giochi simultanei. E del rinnovamento che promosse in Europa e fuori: Cubo-futurismo in Francia, Costruttivismo in Russia, Ultraismo in Spagna, Modernismo in Brasile, Vorticismo in Inghilterra, Elettricismo in Svezia, Formismo in Polonia, Attivismo in Ungheria, Ardentismo in Messico. E naturalmente il Dadaismo e il Surrealismo. Pioniere del “secolo delle avanguardie”, dell’avventura. Che è una delle poche cose che resistono alle macerie del Novecento.
Una prova di effervescenza culturale, specie a fronte della perdita di memoria dell’Italia. Che si vuole impegnata sempre alla ricerca e all’invenzione del nuovo ma in realtà sembra avvolta nel sonnambulismo, o nell’alzheimer.
Parigino da ormai mezzo secolo, esperto d’arte, Lista coltiva da tempo il Futurismo. Ha già pubblicato un voluminossimo “Le Futurisme. Textes et manifestes”, 2.208 pagine.
Giovanni Lista, Qu’est-ce que le futurisme, Folio, pp. 1.186 + 16, ill., € 13,99

L’astro Serra in declino

Il fenomeno, pur macroscopico, era finora passato sotto silenzio: l’attacco al risparmio, la cassaforte dell’Italia. Ma non ignoto. Ora suscita solo nervosismo tra i guru economici di Renzi. Si vede da un  segnale preciso: il ruolo di Davide Serra, il finanziere italiano che opera da Londra, con fondi lussemburghesi che fanno capo ad Algebris, suscita solo fastidio.
Serra, uno dei primi sponsor della Leopolda e di Renzi, ne era diventato una sorta di bandiera nel mondo finanziario. Una garanzia di buone politiche, oltre che di sicuri guadagni. Ora con la crisi delle banche, è diventato un nome a rischio, prosperando Algebris sulla cartolarizzazione dei crediti inesigibili delle banche stesse. Uno di quelli che trae vantaggio dalla crisi.

Ombre - 308

“Il 31 ottobre papa Bergoglio andrà a Lund, in Svezia, a celebrare con i luterani i 500 anni della Riforma”. Il papa della riforma. Non se ne fa mancare una.

Curiosa campagna elettorale a Roma, dove i due maggiori – finora – schieramenti concorrono per perdere, fra divisioni, ripicche, candidature di disturbo. Senza ragione apparente.  La teoria del complotto li vorrebbe a questo punto impegnati a far vincere i due outsider, uno fra i due: Marchini o la 5 Stelle. Ma se fosse solo stupidità?

Riuscirà Berlusconi a sgonfiare la Lega, dopo averne spuntato l’oltraggioso lepenismo? Sarebbe da annali di storia. Almeno possiamo vedere la tv in pace, senza l’ubiquo Salvini.

Più patetici o più cinici i pm romani che vanno al Cairo a chiedere la verità sulla tortura e l’assassinio di Regeni ai giudici egiziani.  Come se i giudici non fossero parte del potere in Egitto, cui si deve la mattanza. Ignoranza? È possibile, il giudice italiano è al di sopra di ogni immaginazione. Ma gli Esteri, palazzo Chigi, i tanti consiglieri e consulenti diplomatici, che ci stanno a fare?

Poi, però, la Procura del Cairo ha ottenuto da Roma la trasmissione degli atti, “in spirito di collaborazione”. E questo non è più la gita al Cairo, è consegnare le prove al nemico.

Sette minuti di Sky Tg 24 su Bertolaso che vuole la Meloni mamma. Un’eternità. Il terremoto elettorale in Germania, con l’estrema destra al 15 per cento dei suffragi, secondo e terzo partito, viene dopo. Anche Putin che lascia la Siria. Si dice per difendere le donne. A cui non gliene frega nulla, ma questo sarebbe già comprensibile, trattandosi pur sempre del Tg di Murdoch – un po’ di onestà, cioè un po’ di pettegolezzo.

Ma Sky fa da battistrada. Il “Corriere della sera” segue con quattro pagine, “la Repubblica” con tre: c’è una parola d’ordine? Per una storia, s’intende, che non interessa a nessuno, nemmeno alla Meloni – tanto schieramento non riesce a trovare una sola dichiarazione d’appoggio. Poi dice che uno non compra il giornale.

Giusto Boldrini solleva un “caso Bertolaso”. Già, “la” Boldrini: c’è una donna alla presidenza della Camera. C’è una presidente della Camera.

Vogliamo per un giorno non dover parlare di Pd? Ottimo. Ma non sarà che Bertolaso fa paura? Siamo a questo punto?

Non c’è dubbio che sarà Hillary Clinton il candidato democratico alle presidenziali Usa. E che, allo stato dell’arte oggi, sarà lei a vincere, contro Trump o altro repubblicano.  Questo è vero per tutti eccetto che per le giornaliste italiane accreditate all’evento. Le donne in Italia odiano le donne in politica.

Più di tutte è contro Hillary Clinton Maria Laura Rodotà, che si professa lesbica: la dice bugiarda, carrierista, impietosa. La scoperta dell’acqua calda per un politico di così lunga data. Bisognerà tarare il giornalismo anche per gender?

Obama taccia i governi francese e inglese di “opportunismo” e incapacità per avere precipitato la Libia nella “merda”, testuale  – “un intervento che ci è costato un miliardo di dollari”. Cameron, che c’era anche nel 2011, non risponde. Hollande non critca Sarkozy, il compare di Cameron. Senza vergogna? O l’Europa è una massa di cialtroni?

“Lo strano caso di Brogli Puliti” è l’esercitazione di Francesco Merlo su “Repubblica”. Un ghirigoro aviario: Merlo, di madre napoletana e bassoliniano, dà addosso a Bassolino presidente della Regione e a Bassolino ricandidato al Comune.  Gli piace morto?

Tutto in effetti è sinistro, i Brogli Puliti e il ricamo – si capisce che quelli di sinistra, che ci sono,  non votano più.  

Il femminicidio viene da lontano

Periandro uccide la moglie Liside, che aveva ribattezzato Melissa per il dolce carattere, ne profana il cadavere, non ne onora le spoglie. Perseguitato dal rimorso, si fa per dire, convoca le donne di Corinto, la città di cui è il tiranno, al tempio, le fa denudare dai suoi giannizzeri, e ne brucia le vesti in onore di Melissa, le cui spoglie non hanno pace. Un romanzaccio? La fonte è Erodoto, che non amava i tiranni, e Periandro è il primo - o il secondo dopo suo padre Cipselo - tiranno della storia greca. Ma Erodoto qui non ricama, la storia è vera.
Amato dai filosofi (Bacone, Heidegger) per i suoi “detti”, Periandro, secondo tiranno di Corinto, è personaggio storico del VI secolo a.C.. Qualcun altro dice che fece spogliare le donne di Corinto dei loro gioielli… È più noto come uno dei Sette Sapienti. Il delitto della moglie? Nessuno, se non, forse, di essere straniera. Invisa per questo alle donne di Corinto, che spingono Periandro a trucidarla e violentarla mentre è in attesa del loro terzo figlio. Maria Teresa Di Clemente ha drammatizzato la vicenda, in questa messa in scena di Rosi Giordano, rivivedola nel ruolo di una deuteragonista, Neera, che ad Atene da etera ha saputo diventare moglie amata e madre ma non sfugge a un processo. Unendo le due vicende - la seconda, più tarda di un paio di secoli, è immortalata da Apollodoro - apparentemente dissimili.
Una drammatizzazione dunque di stati d’animo e strati storici, e quasi un manifesto. Che la regia di Rosi Giordano, al modo delle sue messinscene di Jarry, Copi, Perec, dell’umanità dell’assurdità, mobilizza con un’azione scenica costante, di corpi e materiali. Su un fondo di video-immagini e sonorità che allarga la claustrale, quasi rassegnata, vicenda delle due donne, ottime e - per questo? - perseguitate, in una più larga, “liquida”, necessariamente fiduciosa, umanità. Alle cupe vicende storche dando uno straordinario effetto liberatorio.
Le due storie, esumate da Di Clemente e Giordano dal classico “Grecia al femminile” di Nicole Loraux, sono di violenza domestica. Ma in un senso ampio: contro le donne, naturalmente, il femminicidio non è invenzione recente, contro lo straniero, e contro l’inferiore. Parte, bisogna dire, della violenza domestica (la “guerra civile”) come motore della democrazia greca, l’originale rilettura della politica nella polis dell’ellenista francese - prematuramente scomparsa. Qui nel senso dell’esclusione, che sempre rimbalza anche contro i migliori propositi.
Una storia emblematica, e non. In fuga da un’eventuale condanna - non si sa mai: la Legge è imprevedibile e arcana, lontana dalla sensibilità e la ragione - in un non luogo, fuori città, Neera incontra il fantasma di Melissa. Da cui apprende molto, per esperienza e saggezza. Sulle pieghe dell’estraneità, in forza di Legge e di stati d’animo, che inducono debolezza e martirio.
La pièce è stata montata nel 2012 al XXI Festival di Toronto, “On Diasporas and Return”. Qui è recitata dalla stessa Di Clemente, con Giulia Bornacin nel ruolo di Melissa.
Rosi Giordano, Cittadine straniere, teatro Agorà, Roma

martedì 15 marzo 2016

La distruzione del risparmio

In Borsa a Milano la speculazione imperversa. Sulle banche, specie Mps ma anche Unicredit, una delle più solide in Europa, su Telecom Italia, sui titoli dell’energia (Enel, Eni, Saipem, Saras). Imperversa senza limiti, malgrado i tanti, costosi, organismi di sorveglianza – che lavorano semmai, si direbbe, a garantire il buon successo delle strategie speculative. Sono infatti note, e calcolate, le posizioni ribassiste di molti fondi, hedge e d’investimento.
Ciò è possibile a Milano in un quadro generale che vede il risparmio, uno dei maggiori asset dell’economia, sotto attacco. Ha aperto l’offensiva il professor Monti, il beniamino della City, tartassando la casa, investimento primario del piccolo risparmio. Che ha trasformato a tutti gli effetti in fardello da liquidare. L’ha scatenata l’Unione Europea, sempre più preda degli speculatori d’alto bordo, attaccando le banche, baluardo del risparmio – il risparmio necessita di una mediazione. Nel momento in cui i titoli di Stato, l’unico risparmio a questo punto sicuro, vanno a rendimento zero.
L’Ue ha attaccato a Bruxelles e a Francoforte – una banca centrale che terremota le banche era de vedere, quella di Draghi si è aggiudicato questo primato. L’Italia ha pur sempre il record del risparmio. Che però è esposto a attacchi senza difese. È questo, a giudizio dei guru economici di palazzo Chigi, il vero nemico dell’Italia, forte di tanti quisling all’interno – piuttosto che, sottinteso, Angela Merkel (che, si può aggiungere, ha cooptato – cioè disinnescato - l’avventurismo della City, il motore della speculazione).

Recessione - 46

L'economia è ancora in crisi:
La ripresa nel 2015 si è fermata non allo 0,8 ma allo 0,6 per cento.

La ripresa ne primo trimestre è stimata dall’Istat allo 0,1 per cento. Che potrebbe anche essere meno 0,1  – la stima è una forcella, tra meno 0,1 e più 0,3. E comunque, in sostanza, di niente: sempre gli uffici statali di statistica arrotondano per il meglio, per non creare ripercussioni negative su tutta la contabilità nazionale.

Nei primi due mesi del primo trimestre 2016 sono calati gli investimenti e le esportazioni.

Il numero de mendicanti a Roma è valutato oggi il doppio rispetto a tre anni fa, dalla Caritas diocesana, che gestisce la spesa comunale dei poveri (pasti e posti letto), dalla raccolta e il riuso degli indumenti usati, dalle valutazioni della Questura.  

A Roma per ogni ristorante nuovo ne chiudono due.

Il turismo è in calo a Roma del 18-20 per cento, malgrado il giubileo e la stagione mite.

Sono salite a un milione e mezzo le famiglie sotto la soglia di reddito che si chiama della “povertà assoluta”. Lo comunica l’Istat alla Camera: “1.470.000 famiglie residenti in Italia (il 5,7 per cento del totale) sono stimate in condizione di povertà assoluta: si tratta di 4.102.000 individui (il 6,8 per cento della popolazione)”.


I “senza fissa dimora” sono “oltre 50 mila”.

Il mondo com'è (253)

astolfo

Debito – È schizzato negli anni 1990: da 1.173.542 milioni di euro nel 1990 a 1.609.883 nel 1999 – è poi diminuito per quattro anni, e dal 2004 ha ripreso a crescere. Per pagare l’attacco di Soros contro la lira, e la debolezza di Ciampi, che per irrobustire la lira l’aveva sopravvalutata. Nel 1995 il Bot pagava il 12,2 per cento, e il Btp il 13,5: il debito si avvitava su se stesso. Mentre l’economia viaggiava, unica in Europa dopo la batosta monetaria del 1992, attorno alla crescita zero – evitata grazie a calcoli ragionieristici, ma allora di crescita limitata allo 0,1 per cento. Di crescita negativa in realtà, se non di vera e propria recessione. Nei tre anni al 1995 furono chiusi 1.700.000 posti di lavoro.

Fascismo –Fu oggetto di considerazione intellettuale, e comunque fece l’Italia meta di molti intellettuali: Pound, Yourcenar, Gor’kij, anche se non si mescolava agli italiani, e i tanti tedeschi, ebrei e non, che fuggirono il regime hitleriano – almeno fino alle leggi razziali. Oltre che dei tanti russi in fuga dal sovietismo, e degli anglofiorentini, compreso Yeats. Si fa la storia dell’emigrazione intellettuale dall’Italia nel fascismo, per motivi politici e\o razziali, ma anche una dell’immigrazione sarebbe interessante.


Germania ewige – La pubblicazione dei “Quaderni neri” – dei due già tradotti - conferma che una buona parte della Germania pensa soltanto di essere stata sconfitta nella guerra, non di avere avuto torto e di averne la colpa. Buona nel senso di consistente. Non criminale e non povera di spirito. Nemmeno intossicata dalla propaganda nazista – sono passati ottant’anni. E convinta nel profondo, contro tsunami e tifoni. Heidegger è ben un filosofo, e di spessore.
Abbiamo una nuova Germania dopo la riunificazione. Nuova rispetto alla repubblica Federale di Bonn, divisa e con i russi a Berlino. E abbiamo la Germania di sempre, malgrado la sconfitta del 1945, che pure si penserebbe non onorevole, e un nuovo principio. “Heidegger e figli” si direbbe non nel senso di Donatella Di Cesare, degli eredi materiali e esecutori testamentari del filosofo, più o meno interessati a vendere una copia in più, ma della Germania ewige, eterna. Una Germania che non recede neanche dall’antisemitismo, seppure blando - noi e gli altri. Anche se non porta più argomenti a favore, mattoni al muro.
Il revisionismo del resto è inevitabile. Sullo sterminio si evita, ma solo per opportunismo. Mentre si lavora alacremente sui bombardamenti “totali”, sulla capitolazione (resa senza condizioni), sulla mutilazione delle regioni orientali, con 12 milioni di profughi, e sulla divisione e occupazione militare del Paese, per 45 anni. Già Hannah Arendt un cinquantennio fa (“Sulla rivoluzione”), benché ebrea, perseguitata e espatriata, consigliava di considerare il conflitto “una forma di guerra civile che abbraccia la terra intera”.  
La storia andrebbe comunque rivista anche all’interno. Del regime di Pankow, che fu ben tedesco, subito dopo l’intervento russo del giugno 1953 contro i moti operai di protesta. Un regime che non ebbe bisogno di “purghe” imposte d Mosca, né di invasioni militari, come la Polonia e la Cecoslovacchia. Il Muro fu costruito e mantenuto, con il tiro alle spalle dei fuggiaschi, da Berlino Est – la barzelletta all’epoca era: “Perché le guardie che tirano ai fuggiaschi non sarebbero russe? “Se fossero russe, non prenderebbero così bene la mira”. Solidamente autarchico, come Tito in Jugoslavia e Ceausescu in Romania. Sostenuto da molti intellettuali di valore, Brecht, Kurt Weil, Georg Heym, Christa Wolf, e molti altri. Senza una vera opposizione o una fronda larga – si ricorda solo Wolf Biermann, il cantautore. E forse all’origine del terrorismo della Raf.
Una Germania che la Repubblica Federale aveva messo a tacere. Con le leggi elettorali proibitive per i violenti. Con un saldo schieramento politico-istituzionale. E la gestione misurata e proficua dell’economia. Ma sempre presente, ben più del 5 per cento di sbarramento elettorale che i violenti non riescono a superare. Non si evidenzia per opportunismo, in Germania sempre molto forte, ma ben viva. La migliore “tradizione” della Germania del Novecento, C.Schmit, Heidegger, Jünger, non esclusi Th.Mann e Brecht, e a suo modo lo steso Grass, è stata nazionalista e radicalconservatrice. Con un solido revanscismo.

Processione – Dismessa come rito pagano al Sud, e anzi mafioso, come del resto tutto al Sud, specie dai sacerdoti, per i quali è una corvée, viere riabilitata a Roma e in atre città, e inventata dove non c’, dalla parrocchie come una forma di socializzazione. Come lo scoutismo e l’oratorio. E anche di occupazione degli spazi esterni, di proiezione del sacro fuori della chiesa.

Re - Il borghese che si fa re è facile folle, sia Cromwell, Robespierre, Bonaparte, Mussolini, Hitler, Stalin.

Tacchi Venturi – È legata al suo nome una prima vicenda poco corretta e anzi infamante della curia vaticana, nella sanità e l’assistenza ai poveri, il terzo settore di oggi – attorno a cui si sta facendo oggi carne di porco del cardinale Bagnasco, e al quale era interessata Francesca Immacolata Chaouqui. Non propriamente della curia, ma della gerarchia e la finanza cattoliche. Un gesuita ora dimenticato, molto noto ai suoi anni, quelli del fascismo, e ubiquo, anche se con ruoli dubbi, in molte vicende, quasi tutte non edificanti. Fu fascista, antimeridionale, razzista, e in queste vesti sempre molto attivo - vivendo per gli stessi motivi nel dopoguerra appartato, fino al 1956. Fu anche, ex segretario generale dei Gesuiti, il mediatore tra Mussolini e la Santa Sde, per quello che poi sarà il Concordato del1929, che chiuse settant’anni di “non expedit”, dopo aver fatto introdurre in precedenza il catechismo a scuola. Per la Treccani di Gentile è stato il responsabile della sezione affari ecclesiastici, e curatore della “Storia delle Religioni”. A lungo definito il “gesuita di Mussoini” (si favoleggiò pure che ne fosse il confessore – di Mussolini?), se ne tenta da qualche temp la riabilitazione.
Nella primavera del 1928 padre Pietro Tacchi Venturi fu vittima di un attentato – “Il fatto di questi giorni è l'aggressione, possiamo anzi chiamarlo attentato, contro il P. Tacchi Venturi.”, scriveva il “Popolo d’Italia”. Aggiungendo: “Qualche mese fa il P. Tacchi Venturi fu informato che nelle famose liste di personalità del Regime che avrebbero dovuto essere soppresse nell'agognata restaurazione democratica, il suo nome veniva subito dopo quello di Benito Mussolini”. Il complotto attribuendo alla massoneria: “La Massoneria attribuisce a lui la responsabilità della repressione antimassonica così coraggiosamente intrapresa e condotta dal Duce”. Secondo il giornale di Mussolini l’aggressore dovette pensare di averlo ucciso e lo lasciò esanime per terra, ma la coltellata alla gola era stata schivata dal sacerdote, che si abbandonò esanime per ingannare l’aggressore.
La Polizia invece seppe un’altra verità, che avvicina quel fatto alle liti odierne attorno alle opere degli ordini religiosi a Roma, nel terzo settore e nella sanità. Tutti i gesuiti chiamati a testimoniare e i domenicani esclusero l’attentato politico. Mentre emerse che si era creato un profondo dissidio tra i Paolini e i Gesuiti. L’“Opera Cardinal Ferrari” dei Paolini era all’orlo del fallimento, con un buco di nove milioni. Il papa aveva incaricato i Gesuiti di provvedere a un salvataggio. Cosa che fu fatta. Ma l’operazione avrebbe comportato il conglobamento della “Cardinal Ferrari” nelle opere dei Gesuiti, e questo creò una frattura tra i Gesuiti e i Paolini, specie i più giovani.

astolfo@antiit.eu

Lo Stato giardino all'italiana diventa xenofobo

Si può anche dire che Sassonia-Anhalt, il Land che ora guida l’oltranzismo antieuro e forse xenofobo in Germania, ha mutato radici con la recente storia comunista, della Repubblica Democratica, di cui era parte. Tanto è un altro rispetto alla tradizione, alla storia per cui si era creato un tratto distintivo nella grande Germania. Che G. Leuzzi, “Gentile Germania”, così evoca alle pp. 264-266:
“Leopold di Anhalt-Köthen, giovane principe di ventitré anni, offrì nel 1717 un posto a Bach. Remunerandolo come il maresciallo di corte, il doppio di quanto prendeva a Weimar. Weimar era un paesino torpido quando Bach vi arrivò a diciotto anni, e poi vi tornò a ventitré. Il Cantor fu il primo tassello del secolo d’oro del ducato: vi s’ingegnò a far cantare il tedesco – si cantava, allora, in italiano. Ma quando, dopo nove anni di onorato servizio, volle andarsene, il duca lo fece imprigionare, e sopravvisse alla vergogna.
“Esattamente un secolo prima di Leopold, Ludwig di Anhalt, detto Luigi, aveva fondato a Köthen, insieme con la Società della Palma per la quale è famoso, un’accademia per la purificazione della lingua, la prima della lingua tedesca, detta Compagnia Fruttifera, di cui si nominò Nutritore, tesaurizzando i tre anni vissuti da studente a Bologna e da cavaliere a Firenze, apprendista del bello e delle arti, che trasfuse nel castello e nel giardino ancora oggi ammirati, nonché membro della Crusca, “l’Acceso”, patrocinato da Bastiano de’ Rossi, e traduttore di Petrarca, iTrionfi. Della Società della Palma fu membro Johannes Valentinus Andreas, alchimista e cappellano di corte del Württemberg, al quale si fa risalire il simbolo dei Rosa Croce, la croce di sant’Andrea con la rosa agli angoli, derivato dal Roman de la rose e dal cielo della Divina Commedia. Del cappellano sarà progenie collaterale il marito astinente di Lou Salome, la filosofa tedesca di Russia, il quale ne ereditò i tratti.
“Il principe Leopold aveva la passione, anch’essa italica, dei libri, la musica e gli oggetti d’arte. Come Luigi prima e poi Franz, dedicò molte energie all’edizione, per promuovere la lettura. Cantava da baritono e suonava il violino da professionista, dilettandosi di viola da gamba e clavicembalo, propensioni che Bach onorò con varie composizioni. La cantata, Neumeister dirà, paroliere preferito di Bach, è l’opera in chiesa. Il giovane Leopold assunse gli ottimi professori licenziati dal re di Prussia Federico Guglielmo, sordo alla musica. Da cui comprò pure il cembalo, e due violini Steiner. E le forze riproduttive di Bach, giunto al settimo figlio, onorò con doni e presenze ai battesimi. I musicisti erano tenuti altrove e remunerati per sacrestani.
“Dopo un secolo esatto Leopold Friedrich Franz, del contiguo dominio Anhalt-Dessau, successore di Leopold, celebrerà morendo la trasformazione del principato in Gartenschaft, stato giardino. Federico il Grande l’aveva snobbato, lo chiamava “princillon”, Napoleone invece l’aveva protetto. Ancora un secolo e nel Gartenschaft Gropius creerà la scuola Bauhaus. Sono le radici che fanno gli alberi”.


lunedì 14 marzo 2016

L’asse franco-tedesco alternativo

Un milione e mezzo di elettori, poco meno, 1.348.956, su una platea di 8.713.586 votanti, è il vero senso dell’esito delle elezioni regionali in Germania ieri. Alternative für  Deutschland è il secondo e il terzo partito in tre Stati. È una novità assoluta per la Germania, e disegna un riassetto della politica nella Repubblica Federale. Nel complesso, AfD ha già il 15,5 per cento del voto, in un bracket dal 12 al 25 per cento,  venendo dal nulla. E tutto porta a credere in crescita: un’onda lunga oltre che già robusta.
Gli elettori dei due grandi partiti, la Cdu-Csu e la Spd, hanno sempre esercitato la libera uscita. A sinistra per i Verdi, a destra per i Liberali. Ma questa volta la scelta è radicale, non per un partito equivalente. Inoltre, non risponde alla cautela dell’elettore moderato, che vuole solo evitare che un partito, sia pure il suo, diventi strapotente. È un voto di scelta. Per una destra-destra. I voti di AfD sono ex cristiano-democratici, ma di elettori di destra vera, che finora non avevano un partito di riferimento: AfD, evitando i richiami, di linguaggio e simbolici, al neo nazismo, proibito per legge e dallo stesso orizzonte della destra moderna, si propone come un ancoraggio - nato come partito liberale euroscettico, AfD sfonda come formazione al limite della xenofobia..
Si è creata in Germania l’asimmetria ormai stabile in Francia col Front National. Di cui la Lega è il  prototipo, che però Berlusconi ha ammansito, mentre questo non si vuole, e forse non è possibile, in Francia e ora prevedibilmente in Germania. E senza il provincialismo che limita la Leg, il fronte del rifiuto in Germania e in Francia è nazionale. Un’opposizione radicale e radicata, oggi anti-euro e anti-immigrati. Una sorta di asse franco-tedesco della destra, non formalizzato e forse non formalizzabile, ma ora questa destra sarà in grado di condizionare le politiche europee.

La conversione in massa dei comunisti a democristiani

Non più di notte ma di giorno, e senza parole d’ordine né codici cifrati, senza neppure l’occhiolino,  come a un diapason connaturato, o come le greggi di bisonti, o gazzelle, o zebù che nella savana imbizzarriscono e si buttano al galoppo dietro un capo-colonna improvvisato senza sapere dove, anche al burrone, comunque sia, esaurite le similitudini, questo è quello che fa la “minoranza” Pd: si agita.
Si celia. Se Pd non stia per Pi Due, per esempio, stante il patrocinio di Verdini, Oppure per partito Democristiano, dato che lo governano loro. Ma non si scherza: si addolcisce la verità, ormai da tempo nota, dal tempo di Prodi e dell’Ulivo, quindi da vent’anni, e ora irreversibile: che i che i comunisti sono finiti democristiani. Alcuni recalcitranti, e sono quelli che fanno la fronda. Altri in massa, da Bersani in giù – fu molto democristiana la trattativa di Bersani con i Cinque Stelle, o la gestione Napolitano al Quirinale. Mentre i recalcitranti hanno meno di quarant’anni e dunque non si possono nemmeno dire comunisti, poiché non hanno avuto il tempo per esserlo: sono semplicemente politici con qualche idea, a disagio nel corpaccione del Pd.
È per questo che la fronda non morde. Anche quella uscita dal Pd: la base non la segue – non la riconosce. È per questo che Renzi la snobba: perché sa che non si portano dietro il voto ex Pci, che arrivò fino a un terzo dell’elettorato, ma era comunque uno zoccolo duro – il famoso zoccolo duro – di un quarto, un quinto, del voto. Quello Renzi ce l’ha con sé, a cominciare dai consiglieri comunali ovunque e le cooperative nelle quattro regioni ex rosse. Non ha il voto giovane - relativamente giovane, fino ai quarant’anni. Che costituisce probabilmente la massa degli astenuti – purtroppo bisogna andare a naso, l’analisi dei flussi dei voti è carente, non si va oltre il sondaggio a pelle. A cui cioè la fronda Pd non dice nulla.

Gli Ossi duri della nuova Germania

Si può prendere il mezzo plebiscito della piccola Sassonia-Anhalt per la destra antieuropea e antimmigrati come un voto di stizza. Anche marginale. Ma non tanto, Sassonia-Anhalt è alla fine ben più popolosa che metà delle regioni italiane. E ha un passato. Ne ha due per la verità. Questo è l’ultimo (da “G.Leuzzi, “Gentile Germania”, p. 135):
L’unificazione ha mutato i fondamentali. Gli Ossi, i tedeschi dell’Est, sono entrati nella federazione esenti dalla Colpa, avendo mutuato la comoda certezza che il nazismo era il fatto del capitalismo - si concedono pure il razzismo. Il Lastenausgleich, il principio costituzionale che “la proprietà ha obblighi”, è accantonato: si contesta ogni redistribuzione del reddito, non solo quelle ai paesi europei in crisi. L’“economia sociale di mercato”, costituzione materiale di Bonn, è in desuetudine. Su iniziativa socialista, d’intesa con i sindacati, il lavoro è libero, la protezione ridotta. È troppo dire che la psicologia è mutata, ma la politica sì”.

L’egemonia attraverso l’equilibrio

È un vecchio libro, del 1988 (tradotto quarant’anni dopo la pubblicazione in Germania – una prima edizione, nel 1954, passò inosservata), ma di lettura ancora proficua. Anzi, la migliore riflessione probabilmente sull’antinomia che ora paralizza l’Europa. Di un conservatore nazionale, come tutti, la cultura più consistente della Germania negli anni tra le due guerre – tenuto lontano dalla tentazione hitleriana, provvidenzialmente?, dalla classificazione come Vierteljude, ebreo per un quarto, che lo escluse dalla carriera universitaria e lo confinò agli archivi..Dopo la guerra Dehio è stato nominato professore onorario a Marburg, e ha ripensato la storia della Germania alla luce della guerra fredda, nello schieramento per la libertà. Ma senza riconoscersi nella Colpa nazionale, quella della Germania, sia pure di Hitler, considerando solo una guerra perduta.
Qui si rifà lungamente all’autorità degli storici illustri dell’Ottocento prussiano, Meinecke e Ranke - e a Carl Schmitt, che non nomina (nel 1948 non era ancora denazificato), ma di cui riproduce le teoriche sulla sovranità, specie di “Terra e mare”, e quasi alcune pagine. Di Ranke, in Italia noto per la storia dei papi, ripropone la teorizzazione delle lotte fra europei come prodrome e anzi gestanti dell’unione del continente. O viceversa, di una unità europea che si rafforza per le lotte intestine che la animano. Che sembra bizzarro, ma non infondato.
Ranke esalta la formazione degli Stati europei nel Quattro-Cinquecento, degli Stati sovrani. La politica di potenza prospettando come un obbligo degli Stati: gli Stati si formano “dall’esterno”, contro  i nemici esterni, più che dall’interno. E ne elogia l’applicazione su scala mondiale dal Cinquecento in poi, oltre che all’interno del continente, come valvola di accrescimento spirituale, non solo materiale. Per lo stesso motivo la politica di potenza, anche nei suoi risvolti intestini, che oggi diremmo di guerra civile, vuole il nutrimento migliore dell’unità del continente – “il senso della comunanza europea”.
Dehio concorda: “Prima di lui”, prima di Ranke, “questa unità non fu mai guardata così chiaramente e da tanti lati”, l’unità dell’Europa. Il sistema europeo degli Stati dice cresciuto sulle ceneri del sistema italiano degli Stati (Venezia, Genova, etc.) dopo che l’avanzata turca e la scoperta dell’America hanno spostato il baricentro politico del continente dal Mediterraneo all’Atlantico. Ma su una legge fondamentale: di bilanciamento tra equilibrio ed egemonia. Le spinte all’egemonia, in linea con la teorica di Ranke, non condanna e anzi giustifica, ma in un quadro comunque di equilibrio, seppure in riassetto costante: “Gli Stati liberi e sovrani in competizione nel sistema europeo hanno di fatto sempre concordato su un solo punto, la prevenzione dell’unificazione dell’Occidente sotto uno di loro, al quale gli altri dovrebbero sacrificare la sovranità”. Fosse la Spagna, la Francia o la Germania, “grandi coalizioni si sono sempre formate per sconfiggere” la nazione più potente nel continente”.

Con un corollario. Chi combatte la potenza dominante in Europa ha sempre il sostegno delle potenze periferiche (marittime, isolane, remote – la Russia) o esterne al continente. Di questa somma di esperienze storiche il Terzo Reich ha fatto le spese. Su questo Dehio non dice molto di più. Anzi indirettamente ne “giustifica” la guerra come uno sviluppo delle forze produttive – è sempre un convinto nazionalista. Ma sa che la storia è più grande.
Ludwig Dehio, Equilibrio ed egemonia, Il Mulino, pp. 268 € 18,50

domenica 13 marzo 2016

La Germania torna rancorosa

Non ci sono solo la Grecia e gli immigrati a non far dormire i tedeschi. Ora c’è pure Draghi, e anzi tutte le banche. Eccetto quelle tedesche, benché molto mal gestite e anche corrotte. Tutte le banche italiane e dei paesi che non si sa più se dire latini o mediterranei, insomma, “quelli là”, da vituperare, ecco, quelle del Sud, così è più semplice, mentre quelle del Nord Europa sono belle-e-buone. Eccetto quelle che falliscono - e anche la Finlandia (e forse la Svezia…). Oggi si vota all’insegna del rancore.
Non è una novità: i tedeschi si sentono sempre minacciati, abusati, derubati, e si lamentano. Ma ora di nuovo con l’astio. Non si percepisce fuori perché Angela Merkel fa diga, sia sugli immigrati che su Draghi, e alla fine anche sulla Grecia. La cosa va come lei è andata dicendo in questi anni ai suoi colleghi dei governi europei e mondiali: non posso fare di più, la Germania non vuole, e senza di me sarebbe un disastro. E non è una deriva momentanea o artificiosa, indotta da demagoghi o dalla cosiddetta stampa popolare – che invece in Germania è molto buona. È il mainstream del Paese che ha portato la Germania di nuovo al suo imbuto sciovinista e astioso: economisti, opinionisti, storici, industriali, banchieri.
È un’altra Germania, in un’altra Europa. Non ci si pensa ma è un fatto, consolidato, macroscopico: la fine della guerra fredda ha lasciato l’Europa a se stessa, e si scopre che non è cambiata. Non l’hanno cambiata le ecatombi della guerra. Non l’ha cambiata il disegno unitario, di una politica peraltro svanita – eccetto che per Merkel e pochi altri. Non del tutto, l’economia è unita. Ma l’Unione Europea ha inciso poco o pochissimo sulle identità nazionali, sulle psicologie storiche. Il tedesco si culla e viene cullato nella sindrome da accerchiamento e spossessamento. 

Secondi pensieri - 254

zeulig

Amore – È mistico, oltre che corporeo - è corporeo per essere mistico, simbolo e materia di unione corporea sempre, anche se non propriamente sessuale. La chiave è il linguaggio: il linguaggio mistico è tutto mutuato da quello amoroso. Che è – anche questo è un fatto – venuto prima di quello mistico.
Roger Bastide, il socio-psicologo del misticismo, contesta l’uso di fare “del misticismo una specie di erotismo”. Il limite è del linguaggio: “I mistici sanno benissimo che le parole da loro usate non corrispondono o corrispondono molto male ai loro veri sentimenti, ma vogliono farsi comprendere”. Disturba un apparentamento - misticismo-erotismo - inteso come filiazione. Ma il contrario con più verità si può arguire, essendo l’esperienza religiosa una delle prima se non la prima: dell’amore come religiosità, divinizzazione.  

Corpo – È – anche – l’anima, non solo per l’aspetto fisico, la complessione, la figura. Proprio in quanto ammasso muscolare e osseo. Al modo come già dice Cicerone nelle “Tuscolane”, I, XXXIIII: “È di grande importanza per l’anima essere collocata in un corpo piuttosto che in un altro: poiché ci sono nel corpo molti elementi che acuiscono la mente e molti che la ottundono”.

Evoluzione – Lo “Struggle for Existence”, il capitolo III di “The Origin of Species”, Darwin conclude decretando che “the vigorous, the healthy, and the happy survive and multiply”. Non è vero, più spesso prevalgono e sopravvivono i brutti, sporchi e cattivi. Anche oggi, molte specie scompaiono che portano letizia, e altre se ne impongono crudeli e pestifere, l’hiv, la mucca pazza, l’aviaria, ebola, la zanzara brasiliana, come già la peste e le carestie. La vita è hobbesiana, cioè senza criterio, bisogna difendersi.
La selezione naturale non è progressiva (selettiva), l’uomo sì. Il successo della selezione naturale sarà stato di avere “creato” l’uomo, tutt’altra specie.

Incontri – Non si incontra più nessuno per caso, per avventura, per coincidenza, per armonie prestabilite – in treno, in tram, al caffè, per strada, in vacanza, al lavoro. Si è sempre collegati al telefonino. Al più si incontra qualcuno su internet, a distanza, nel vago. Saremo sempre quello che eravamo.

Memoria – È vita, come dice lo scrittore Alvaro. Anche in morte: l’annientamento è sconfitto dalla memoria. Il dimenticato medievista e filologo tedesco Friedrich Ohly lo spiega con precisione: “Gli uomini sopravvivono al loro corpo finché sono in vita coloro che ne serbano il ricordo”. O le opere che lasciano, si può aggiungere – creazioni spirituali e manufatti, nomi, fatti, anche disgrazie. E del resto si sa, per dirla con Ohly, che non c’è storia senza memoria. “Il flusso del tempo scorrerebbe via come il Lete”, il fiume dell’oblio, senza la memoria: “La memoria trasforma in storia l’accadimento, dà forma a ciò che fluisce”. E crea la società – ancora Ohly: “La memoria delle esperienze vissute concorre a configurare il nostro futuro. La comunità trae vita dalla sua memoria”, tra passato e futuro. Ma ognuno lo sa: noi siamo i nostri ricordi. La memoria come narrazione, evidentemente, rappresentazione.
È un fatto psicologico, l’accumulo delle esperienze? È un fatto fisiologico? Le due cose si saldano: “Nessuna memoria è più salda che la memoria del sangue”, sintetizza l’antropologo Lombardi Satriani in “De sanguine”.

Costante e necessario ne è l’esercizio, fino all’alzheimer. Una vita senza memoria è inimmaginabile. E anche impossibile, nel senso di successione o continuità di eventi, di soluzione a ogni istante “in automatico” di sistemi di equazioni complessi.

È l’invenzione e il ricostituente della tradizione. Era per i greci una divinità, Mnemosine, che era la madre delle nove muse. Gli orfici l’aldilà figuravano come un inferno dove obliare l’oblio, si può dire: dove trascurare il Lete, il fiume del’oblio, per dissetarsi invece alla fonte della Memoria.
Il potere la coltiva perché è la radice dell’essere, individuale e comunitario. Da Augusto (ma già da Pericle) a Mussolini in forme plateali: coi monumenti, le epigrafi (slogan), le narrazioni.

L’alfabeto del Socrate di Platone, “Fedro”, doveva ingenerare “oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare le memoria perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cose alla mente  non più dall’interno di se stessi ma dal di fuori, attraverso segnie stranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma un richiamare alla mente”. E imbeve ha proroddot una solida memoria (tradizione), anche socratica. La posta elettronica he destabilizzato in una generazione uno dei capisaldi delel scieze storiche, delle sue fonti più ghiotte, l’epistologgrafia, tra confidenza e segreto.. Ma ha moltiplicato la forma diario. Corrispondenza, il poco che ne rimane,.sottrae anche al dominio privato, esclusivo e spesso distruttivo.e diario

Nietzsche – A un certo punto è stato preso troppo seriosamente. La sua seriosità è nella svagatezza, lo “Scherzo e Malizia” delle postille, la musica, l’antiaccademismo, dopo essere stato in cattedra senza titolo, e subito dopo baby pensionato, a vita. Il suo “eterno ritorno” in realtà è un incubo – lui lo figura come un incubo. La sua”morte di Dio” angosciosa – Nietzsche è figlio di pastore luterano:  è annunciata dall’“uomo folle”, e confermata a lui da un gaudioso uditorio di atei che accolgono l’annuncio con “una grassa risata” – la conseguenza sarà un “oscuramento” (l’oscuramento dei vangeli alla morte di Cristo).

Riso – È strumento critico più che divagatore – in forma di divagazione. Così come lo sconforto del resto, il pianto, l’ira. Così lo individua Nietzsche, “La gaia scienza”, aforisma 333, facendo proprio, ribaltato, il motto di Spinoza, “Non ridere, non piangere né sdegnarsi, ma comprendere”. Nel senso che l’intelligenza è la risultante del riso, il pianto, l’ira mescolati insieme, “un certo rapporto degli impulsi tra di loro”, dice Nietzsche, sottolineato. Il “pensiero consapevole” considerando una parte, e non la migliore, del pensiero.

Socrate – È antisocratico, diffidando della scrittura, cioè di una comunicazione dei suo pensieri. Anche della testimonianza della sua saggezza, quindi del ruolo di maestro o comunque di testimone – il suo è un processo senza contraddittorio, per sua volontà. O altrimenti è uno che tace, il Cristo che dice superbo: le mie opere parlano per me, non ho bisogno di discolparmi.
Il Socrate di Platone, che macina parole anche se non scrive, è anch’esso antisocratico.
Il suo fascino è forse nel metodo, che però ha più del paradosso – della riproposizione del dubbio nel mentre che “apre” (scardina) la verità.

zeulig@antiit.eu