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sabato 17 dicembre 2022

Ombre - 646

Si leggono con sgomento “documenti segreti” della Cia sull’Italia ora declassificati, per l’indigenza. Di Enrico Mattei recepiscono come vera la nota di un diplomatico italiano nemico di un altro diplomatico, che avrebbe “venduto” al futuro creatore dell’Eni la patente di antifascista, anzi di comandante antifascista. Come se ci fossero patenti di antifascismo… Anzi, di Mattei aggiungeva che durante l’occupazione vendeva la moglie alle SS… È questa la potenza che ci ha governato, che ci governa?
Tutto perché Mattei concorreva nel 1961 ai permessi di ricerca petrolifera in Italia che interessavano anche alle compagnie americane.
 
Meloni insiste, e porta a casa da Bruxelles il tetto al prezzo del gas, che infatti subito crolla – si sa che è tutta speculazione, a partire dall’Olanda, ma ora la speculazione è palese. Una misura necessaria per tutti, ora che arrivano le bollette di ottobre, con i primi freddi. Come non detto.
Meloni ha insistito dopo Draghi. Ma nemmeno questa la assolve. E forse non è nemmeno pregiudizio politico, è incapacità di capire: si fa giornalismo a rimorchio di che, non ci sono più direttori nei giornali, dirigenti, in grado di capire?
 
Lo sciopero immediatamente proclamato da Landini, alla seconda o terza settimana del governo di destra, resterà segnalato per l’effetto media, che evitano le panoramiche per non diminuire l’evento. L’evento è la presenza di Landini sui tg e i talk show. Scioperanti solo pochi pensionati, desiderosi di uscire da casa.
Il sindacato dei sindacalisti? Che poi sono uno solo, Landini. Per che altro è stato chiamato lo sciopero?

Allucinante invece oggi la “spallata al governo” di Letta in piazza Santi Apostoli a Roma, che pure non è grande: obiettivi stretti e strettissimi sul segretario del Pd, perché niente di altro era da inquadrare. Sono minuti interminabili, Letta sembra concionare a se stesso.

“Contanti o pos?”, chiede l’intervistatore. “Che discussione mediocre”, risponde Pupi Avati: “In Iran impiccano in piazza i manifestanti, in Ucraina infuria la guerra e noi discutiamo del tetto ai contanti”.
La “discussione” prende tuta la corrispondenza dei lettori del giornale, “la Repubblica”, i quali tutti sono stati in paesi “civili” dove non si accettano contanti.
 
Singolare dibattito su “la Repubblica”, fra le Grandi Firme del giornale, a proposito di “Lady Murekatete”- non più Soumahoro - se ha diritto alla borsetta firmata oppure no, e sulle sue pose da vamp. Con analisi del tipo: “La rappresentazione di sé di Murekatete è la vittoria del capitalismo”.
 
A fronte di questo “dibbattito” il quotidiano ospita “Le idee” per un nuovo partito della sinistra. Che si penserebbe semplice. Ma si fa con interventi del tipo: “Per essere europea la sinistra provi a governare il capitalismo”. Sopra prose che nessuno legge (altrimenti s’incazzerebbe).
 
Le coop delle Murekatete erano dunque locupletate, oltre che dall’Interno e dalla Regione Lazio, anche dal Comune di Roma, sindaci Marino, Raggi e Gualtieri, senza documentazione e senza controlli. In virtù di che cosa? Del nome di Soumahoro. Poi si dice che i progressisti perdono le elezioni perché gli italiani sono fascisti.
 
Curioso che di Soumahoro, che nel partito che lo ha candidato era contestato per fatti specifici, di caporalato, da alcuni membri della direzione, si occupi solo “Striscia la notizia”. Anche soltanto per smentire queste accuse.
  
Molta cronaca e poca informazione sullo scandalo dei progressisti a Strasburgo al soldo del Qatar. Poca o nessuna informazione cioè sul perché e come il Qatar e il Marocco abbiano corrotto dei parlamentari progressisti invece dei moderati, i conservatori, i leghisti, e altrettali.
Dalle coop (anche la Lega Coop è sotto processo, vendeva come extravergini oli raccogliticci) al Qatar è questione morale ovunque, ma Pd e sostenitori (tutti i media?) Non lo sanno.

Il 30 per cento degli ex parlamentari europei e il 50 per cento degli ex commissari Ue (membri della Commissione di Bruxelles), scopre Transparency International, viene utilizzata nella capitale europea come lobbysta, a sostegno di interessi particolari, di varia natura. Veniva utilizzata nel 2017, l’anno dell’analisi di Transparency International. Da allora il reclutamento di ex parlamentari e ex commissari è cresciuto. 12.860 organizzazioni di lobbying sono in attività a Bruxelles per controllare e gestire le attività legislative della Ue.
 
Gli ex presidenti della Commissione Europea, Prodi e Barroso, sono entrati a far parte della banca Goldman Sachs. Nellie Kroos, ex commissaria per l’Agenza Digitale, è entrata nel consiglio di Uber, e di Merrill Lynch. Altri hanno assunto incarichi in Arcelor\Mittal, Volkswagen, Bank of America, e gruppi minori.
 
Paginate per Carrai, “il finanziere di Renzi”, nel 2019, perquisito di notte con violenza dalla Guardia di Finanza fiorentina e accusato di riciclaggio, poche righe per l’archiviazione, dopo tre anni di indiscrezioni pettegole ai giornalisti complici, per “infondatezza della notizia di reato”. Un attacco a freddo da parte di una Procura allora di destra dichiarata, con la volenterosa partecipazione della Guardia di Finanza. Andiamo bene.
Poi si dice che in Italia c’è troppa evasione fiscale: per forza, i guardiani si occupano di altro.
 
Grande indagine dei Carabinieri fra i rider, mezzo milione di persone, con la scoperta di un vasto caporalato: agli immigrati senza permesso di soggiorno si fornisce il falso account, per poter lavorare,  e anche, eventualmente, la bicicletta. Per la metà della paga. Ma di questo caporalato non avevamo sentito mesi fa da “Striscia la notizia”, con documentazione inequivoca?
 
“Il Sole 24 Ore” declassa Roma, bene amministrata dalla giunta Gualtieri in questo 2022 dopo l’abbandono degli anni della grillina Raggi, di ben 18 posizioni nella graduatoria della qualità della vita. Dopo che si è fatta finalmente pulizia per le strade, e molte sono state riasfaltate. Roma ritorna
al centro dell’offerta culturale, con 30-40 spettacoli teatrali in contemporanea, una media giornaliera di due concerti di classica, mostre d’arte di qualità. Ed è scelta dal “New York Times” per la migliore vacanza 36 ore. “Il Sole 24 Ore” è grillino – la Confindustria lo è? Come sono scelti i campioni di queste indagini? Il giornale le fa per promuoversi o per denigrarsi – farsi social, movimentista?

“È laureata in Storia dell’Arte, è effettivamente una professoressa, ha una sua famiglia”, Giletti assicura della donna che avrebbe fatto, e comunque ha divulgato, il video di un incontro di Renzi con un capo dei servizi segreti che ambiva a una promozione – che poi non ha avuto. Se non che “ha dato quattro versioni diverse della vicenda”. Forse Giletti pensa che i servizi segreti siano tipi da James Bond, non impiegati pubblici. Oppure si, se foto è video sono state riprese in una stazione di servizio semideserta, se non per le scorte dei due personaggi a colloquio - certe che i clic erano di un cellulare e non di un silenziatore.
 
“A fronte di una media europea, a spanne, di 25 mila leggi, ne abbiamo 250 mila. Più lo S tato è corrotto più sforna leggi”, Carlo Nordio, ministro della Giustizia, al “Corriere della sera”.
 
Calciatori dei campionati italiani di serie B e C, Crotone, Entella, Catania, portano la piccola Croazia in semifinale al Mondiale. Mentre le “sorelle” italiane di seria A ne sono fuori. Il calcio è un gioco di squadra.
 
Si erano viste cose in Olanda-Argentina che non c’entrano col calcio, anzi antisportive. Peggio ha fatto la Fifa, fingendo di non vedere, malgrado il sicuro rapporto dell’arbitro. Non gli argentini che vanno in squadra a sfottere gli sconfitti olandesi, né Paredes che prende a pallonate la panchina olandese. Né ha sentito Messi che ingiuria e diffama mezzo mondo. Anzi no, la Fifa non è rimasta inerte, ha sanzionato l’arbitro. Il signor Collina, l’arbitro degli onesti, ha sospeso l’arbitro spagnolo, che ha tentato di arginare le furie con i cartellini gialli, sedici. L’arbitro li ha divisi “equamente”, otto e otto, ma ha avuto il torto di ammonire Messi, mettendolo a rischio di non giocare la sicura finale. Effettivamente, non ha capito nulla.

La Sardegna inappetente

Inappetente. Anzi, irritante. Sembra un diario di scuola, quando usava, delle elemntari. Leggendolo a seguire alla Sardegna di Jünger, o di Lawrence, già allora disponibile, un’impressione di squallore.
Vittorini esordiva così nel 1932, a 24 anni ma già parte della Firenze letteraria che faceva l’epoca, in viaggio-premio de “L’Italia Letteraria” – premiato a sua volta da Deledda: col niente. Salite e discese da torpedoni e vapori, uomini accigliati con la barba di otto giorni, pietre, e silenzio, i sardi non parlano.
Alessandro Cadoni nell’introduzione dà qualche motivo di curiosità attorno al testo – di cui fa anche una succinta notazione delle varianti, nelle pubblicazioni in rivista prima che in libro. La decisione de “L’Italia Leteraria” di premiare in qualche modo Vittorini, giovane impecunioso a Firenze, come tutti, correttore di bozze alla “Nazione”, traduttore improvvisato, giornalista letterario. L’anticipo dei soldi per la “crociera” sarda da parte di Montale (“Elio è sui nuraghe e speriamo che vinca stavolta le auspicate 5000 lire”, così ne scriveva a Quasimodo, che di Vittorini aveva sposato la sorella). L’indecisione di Deledda, che presiedeva la giuria del rpemio. Ma poi sconfina evocando Defoe, Stevenson, Jack London. E una Sardegna suggerendo di cui nel libretto non si trova traccia: “Arcaismo, metafora, analogia, suggestione, sogno”.
Cagliari, per dire, “sopra un monte metà roccia e metà case di roccia” è la “Gerusalemme della Sardegna” – che non vuole dire nulla, tanto meno per Vittorini. Sassari è sassi, un posto muto. Alghero embra di pietra pomice” – “E a sapere che vi parlano catalano, mi diventa più oscura nell’imbrunire nuvolso d’una S pagna, anzi d’una Spagna d’America”... Il doganere ozioso è “il re della spiaggia” – la Sardegna è un’isola dove chiunque “poteva venire a farsi un regno e chiamarsi re”.
Con un inno a Arborea (“Mussolinia”), al trionfo della bonifica, contro la malaria: entusiamava anche Corrado Alvaro, non per propaganda, la bonifica è come la pencillina.
Elio Vittorini, Sardegna come un’infanzia, Bompiani, pp. X-129 € 12

venerdì 16 dicembre 2022

Cronache dell’altro mondo – fraudolente (234)

Sam Bankman-Fried, il fondatore ed ex gestore della borsa delle criptomonete FTX, arrestato alle Bahamas per il collasso del suo impero monetario, è accusao di bancarotta fraudolenta - l’atto d’accusa parla di “frode intenzionale, pura e semplice”.
Bankman-Fried è accusato di essersi appropriato dei fondi Ftx per uso personale, per ripagare debiti incorsi col suo hedge fund, Alameda, e per avere donato milioni di dollari a candidati politici: circa 40 milioni nel 2022, per il voto di medio-termine del 4 novembre, e 76 milioni nel voto presidenziale del 2020. Finanziare i politici è legale negli Stati Uniti, ma Bankman-Fried è accusato di averlo fatto di nascosto, non pubblicamente – “in quella che potrebbe essere la maggiore infusione di denaro illegale nella politica americana da decenni”.
Le donazioni politiche di cui c’è traccia legale sono andate al partito Democratico: 6 milioni di dollari a vari comitati elettorali Democatici, per la Camera e per il Senato, 27 milioni a Protect Our Future PAC (Political Action Committee), un gruppo fondato per affrontare la pandemia, che ha speso 24,2 miloni per finanziare la campagna di 19 Democratici alle primarie.
In un’intervista a novembre Bankman-Fried spiegava di avere finanziato i Repubblicani, ma di meno, perché sono già di suo “superliberali”. E in nero, quini con finanziamenti non tracciabili.
Due collaboratori di Bankman-Fried, Ryan Salame e Nishad Singh, hanno finanzioato l’uno i Repubblicani, con 24,5 milioni di dollari, e il secondo i movimenti, “oltre 12 milioni” – tra essi 2,25 a Women Vote!, 1,1 milioni a un Victory Fund Lgbtq della Emily’s List (la maggiore organizazione femminista in politica, gestisce 700 milioni di fondi a sostegno delle donne candidate), e 1 milione a un Senate Majority Fund.
Singh e Bankmann-Fried insieme hanno donato 6 milioni nel 2022 alla campagna elettorale di Biden.
 

Proust pastiche di se stesso

La prima raccolta di scritti diversi di Proust, messa assieme nel 1926, a ridosso della morte, dall’editore e dal fratello Robert, che firma una imbarazzante avvertenza: l’immagine di Marcel si vuole accreditare come di mondano snob. E di gusti letterari in linea.
La scelta ha dell’incredibile. Anche perché lascia il sospetto che sia veritiera, risponda al personaggio. Si parte dai salotti di varie dame di nessuna qualità – prose noiosamente lunghe, per esercitare il name dropping, firmate con pseudonimi, come voleva l’uso elegante, “Dominique”, “Horatio”, “Echo”…. Si continua con recensioni mediocri di opere mediocri, forse di amici, forse e volute dai giornali. “Guerra e pace” apprezzando come “Il mulino sulla Floss”. Addizionate di elzeviri impressionisti, romanticheggianti, per “Le Figaro”, il quotidiano conservatore. “La chiesa del villaggio”, “Vacanze di Pasqua”, “Spine bianche, spine rosa”, “Raggio di sole sul balcone”.
Si ritrova il Proust saggista più noto, dei successivi “Pastiches et mélanges”, di “Contro Sainte-Beuve”, in due prose di dopo la “Ricerca”, scritte e pubblicate nel 1920, saggi su due autori che Proust non amava, e sembra non capire, Flaubert e Baudelaire. Di Flaubert aveva anche fatto uno dei suoi spiritosissimi pastiches, pezzi scritti nello stile di uno scrittore, e lo ricorda per raddoppiare il carico: “Per quanto concerne l’intossicazione flaubertiana, non saprei raccomandare troppo agli scrittori la virtù purgativa, esorcizzante del pastiche”. Qui ne abbozza all’impronta uno di Balzac, per introdurre il salotto di Mme Madeleine Lemaire, tanto più brillante e divertente per sembrare improvvisato – ma dura una sola pagina. Madeleine Lemaire è per più pagine la “grande pittrice”. Così come Anna de Noailles è la poetessa più grande, “un genio dela poesia”: “Se, a proposito di lei, si parla di genio, lei non l’ha rubato”, e così via, per una intera pagina di “Le Figaro”.
L’inno a Lemaire e de Noailles non è il solo, le cronache mondane sono profuse, lunche anche una pagina di giornale. Ci vuole genio per scrivere una pagina di giornale senza dire nula, il giornale più autorevole dell’epoca, ma Proust ci riesce – è questo precedente che trasse Gide in inganno sulla “Ricerca”. Con paginate di nomi. La recensione del libro di viaggi di un conte de Cholet è dedicata a “Henri de Rothschild per il suo gusto dei viaggi”, e e s’illustra con una citazione preventiva del “Viaggio” di Baudelaire. C’è molto la nonna di Robert de Flers – chi era costui? C’è anche uan contesa Potocka née Pignatelli.
Singolarmente pronunciato spicca il gusto di Proust per le cattedrali e le chiese di paese, per le feste religiose e gli scampanii, Natale, Pasqua. Numerosi i richiami a Chateabriand, anche in opposizione a Flaubert, e di Chateaubriand al “Genio del cristianesimo”. Il biancospino, “il mio primo amore per un fiore”, associa alla devozione, “al mese di Maria” in chiesa. Un primo esercizio, labile, della “Ricerca” - sul “Figaro” del 1912? Uno più consistente è nella prosa ironica “Vacanze di Pasqua”, la Pasqua promessa dal padre a Firenze – un viaggio che poi non si fa, ma interamente goduto al solo nome della città: “C’è una differenza tra un nome e una parola”.
Di Flaubert nel saggio che gli dedica, confinandolo sardonicamente all’uso e all’expertise di passato remoto, imperfetto e participio presente, è poi di suo maestro arcigno di grammatica. Una lezione che sconcerta a petto dei grandi elogi che profonde per Léon Daudet, che era suo amico ma piccolo scrittore - e grande antisemita. Baudelaire è “il più grande poeta del diciannovesimo secolo”. Alla pari con Vigny. Salvo aggiungere che “I giori del male” fanno un baffo a V.Hugo, al suo “Boozaddormentato” della “Leggenda dei secoli”. Con lodi reiterate anche qui, in nota, a Léon Daudet.
Non ama Flaubert, anche se lo difende – finge di difenderlo. L’attacco del saggio, in difesa di Flaubert contro una critica del suo “stile” apparsa sulla “Nouvelle Revue Française”, lo appaia con un ghigno a Kant: “Ha rinnovato quasi alttrettanto la nostra visione delle cose”. Oltre che per Léon Daudet, professa amore per Chateaubriand e Nerval. Nerval lo ama perché praticava “le intermittenze del cuore” – “titolo che avevo dato in un primol tempo a una mia opera”. Fosse un libro d’autore, invece che di memoria, sarebbe un pastiche di se stesso – e in questa chiave folle di gradevole lettura.
Marcel Proust, Chroniques, L’imaginaire-Gallimard, pp. 263 € 8,50

giovedì 15 dicembre 2022

Cronache dell’altro mondo – elettorali truccate (233)

Il partito Democratico ha vinto le elezioni di medio termine col trucco di portare gli iscritti repubblicani alle primarie a votare personaggi di estrema destra o comunque non credibili. Il quotidiano “The Washington Post” fa un conto dettagliato di questa tattica.

Il partito Democratico ha investito 19 milioni di dollari per far vincere alle primarie repubblicane in primavera per alcune cariche sensibili dei candidati perdenti. Una tattica applicata in tredici primarie, in contesti tradizionali di parità fra Democratici e Repubblicani. E in sei il candidato finanziato dal partito Democratico ha vinto le primarie. Tutt’e sei poi hanno perso le elezioni.

Questi i candidati repubblicani “portati” dal partito Democratico che hanno poi perso le elezioni: i candidati a governatore del Maryland Dan Cox, della Pennsylvania Doug Mastriano, dell’Illinois Darren Bailey, il candidato senatore del New Hampshire Dion Biolduc, e due candidati alla Camera dei Rappresentanti, ancora nel New Hampshire e nel Michigan.

Un gruppo di 235 ex parlamentari Democratici aveva pubblicato una lettera aperta, l’1 agosto, di critica ala pratica di manipolazione delle primarie. 

 

Il principe strano e l'attricetta

Una serie che si annuncia noiosa tanto è scontata - come sono insulsi i reali quando non stanno sul trono e non sanno fare altro. Un reale peraltro un po’ strano, con un’attricetta, come usava dire. Una specie di “Oggi “ o “Gente” quando le principesse si abbrancavano ai fusti, tipo Maurizio Arena, o le attrici-modelle, di qualche forma se non opere, catturavano i principi imbranati. Di fatto, un principe inglese che gestisce un pollaio in California (o nell’Oregon?).
Lui si lamenta orfano, ma tutti abbiamo avuto una mamma, non è quello che distingue. E litiga col padre e col fratello - fino al prossimo lutto, la visibilità non si paga? Ma, poi, lui non conta, è un comprimario. Di lei che però non esiste, si direbbe a Roma. Si dice attrice ma per vantare una comparsa, minore, in una serie tv minore. Non è una bellezza, non è simpatica – e non sarebbe difficile se ci riusciva Maurizio Arena – e ha qualche anno, e qualche intelligenza, più di lui.
Curioso che la serie venga dall’America. Forse il paese che non ne ha mai abbastanza delle melensaggini inglesi.
Menhaj Huda, Harry&Megan: A Royal Romance, Netflix

mercoledì 14 dicembre 2022

Il mondo com'è (456)

astolfo

Elena Ferrari – È una delle tante donne giovani e belle spie che la Russia sovietica infiltrava in Europa tra le due guerre, negli ambienti letterari e artistici. Nata Ol’ga Fedorovna Revzina, nel 1889, a Ekaterinoslav, emerge a Mosca nel 1916, attivista del partito Socialdemocratico-frazione  bolscevica, e si distingue, in divisa militare, con i gradi di capitano, nella guerra civile contro i Bianchi controrivoluzionari, perdendo un dito della mano sinistra. Smobilitata, entra alla scuola della Čeka, il servizio d’intelligence sovietico poi Kgb a Mosca, e presto si ritrova in Turchia, ufficialmente addetta all’ambasciata, col compito di spiare le attività dell’armata di Vrangel’. È in Turchia che adotta lo pseudonimo Elena Ferrari: si presentava infatti come cittadina italiana.

A Roma “Ferrari” arriva nel settembre 1924, addetta culturale all’ambasciata sovietica. Ma prima ha fatto esperienza diplomatica a Berlino, centro allora di transito o di permanenza di quasi tutta l’intellighencija russa, emigrata e non. A Berlino fa la conoscenza, fra i tanti, di Maksim Gor’kij, Chodasevič, Šklovskij, Nabokov. E pubblica nel 1923 una piccola raccolta poetica, “Erifilli”. La critica di Gor’kij, che giudica la plaquette “artificiosa”, non la smonta, e a Roma, dove viene trasferita, nel settembre dell’anno successivo, reitera con la raccolta “Prinkipo” – dal nome greco delle isole antistanti il Bosforo. A Roma ha maggiore fortuna. Vi è arrivata introdotta da Ruggero Vasari, conosciuto a Berlino. Vasari, futurista oggi dimenticato, poeta e pittore, autore del dramma “L’angoscia delle macchine”, la introduce nel mondo dei Bragaglia, gli animatori della scena teatrale e artistica della capitale degli anni 1920. E il ventenne Vinicio Paladini, nato peraltro a Mosca, da madre russa, il futuro architetto futurista, già bolscevico e rivoluzionario, s’incarica della pubblicazione, disegnandone la copertina e le illustrazioni – la traduzione è affidata a Umberto Barbaro, altro ventenne, siciliano. Il 2 febbraio 1927 figura tra gli artisti del movimento artistico-letterario che Paladini lancia, Immaginismo - con Barbaro, Dino Terra, Paolo Flores e altri. Claudia Salaris fa dell’“agente segreto sovietico Elena Ferrari” una delle tante “Donne d’avanguardia” che ha pubblicato qualche anno fa. 

Per evitare legami, “Ferrari” fu però presto assegnata all’ambasciata di Parigi, e successivamente con vari incarichi negli Stati Uniti, sempre in qualità di letterata-spia. “È difficile dire se le sue occupazioni letterarie fossero motivate dai compiti che le assegnava il controspionaggio o se fossero uno sfogo emotivo, un riposo intellettuale”, concluderà il suo studioso Lazar Flejšman. Richiamata a Mosca nel 1936, nella lotta di potere al vertice dell’Urss che finì con la lunga stagione dei processi, fu condannata a morte nel 1938.

“Elena Ferrari” non era la sola, la procedura era standard, nella Čekà e poi nel Kgb, di “piantare” una bella donna accanto a un facitore, per un qualche verso, dell’opinione pubblica: la politica delle “compagne” appassionate dell’intellighentsia occidentale è un unicum nella storia della turpitudine, ma fu praticato su vasta scala. Tutte comunistissime pur essendo anticomuniste, buone con Mosca cioè. Tutte sposate prima a un uomo inutile, la procedura è standard: Moura Budberg, dapprima con Gor’kij, buon sovietico ma sospetto, poi con H.G.Wells, Tatiana e Giulia Schucht, le sorelle Kagan (Elsa Triolet e Lilja Brik), Gala multiforme, Margarita Konenkov, che Einstein arrapava, la principessa Kudasheva, musa di Rolland. Neppure ipocrite, Elsa l’ha detto, la sposa e musa di Louis Aragon, oggi dimenticato per molti decenni a metà Novecento figura centrale dell’intellighentsia parigina: “Mi piacciono i gioielli, faccio parte dell’alta società, e posso essere una sporcacciona. Sono un agente sovietico”. Con l’aggiunta non ironica: “Mio marito è un comunista, ed è colpa mia se lo è”, al “contadino di Parigi” Aragon non lasciando neanche la colpa dell’abiezione.

Con Majakovskij la partita fu invece più sottile, come del gatto col topo. quando a vent’anni il poeta s’imbatté in Lilja, sotto forma della più giovane sorella Elsa che lo innamorò. Lilja, già di ventisette anni, se ne impadronì e ne terrà strette le briglie col marito Osip. Nelle relazioni maschili, con le spie Agranov e El’bert, che lo controllavano, e in quelle femminili. Quando nel 1928 Elizaveta Zilbert, in arte Elly Jones, da New York decise di recarsi a Parigi e rimettersi col poeta, Lilja l’anticipò, promuovendo l’affascinante Tat’jana Jakovleva, un’emigrata. Quando l’anno dopo il poeta ingenuo s’apprestava a proporre le nozze a Tat’jana, Lilja fulminea scambiò le parti: Tat’jana andò sposa a un visconte du Plessix, mentre una Veronica Polonskaja si rese disponibile, benché sposata. Poi Majakovskij morì – e Lilja ne ebbe gloria pereptua.

 

Europa testa di ponte – Ritorna l’Eurasia, col conflitto russo-ucraino, e all’interno dell’Eurasia ritornano la prima nozione di geopolitica, un secolo fa, che ne faceva “il pivot” del potere mondiale, e all’interno di essa individuava il nucleo condizionante nell’Europa Centro-Orientale - la Germania, per intendersi, e la Russia. Ritorna nell’aggiornamento che ne ha fatto Zbigniew Brzezinski a fine Novecento, ne “Il grande scacchiere”, esattamente venticinque anni fa, nel 1997, riscoperto con la guerra.

L’Eurasia “pivot geografico della storia”, o heartland, cuore geografico, è una delle primissime nozioni di geopolitica – dopo la discussione a fine Ottocento se conta più nel potere mondiale la terraferma (Germania) oppure non contano i mari (Inghilterra). La elaborò il geografo inglese Harold Mackinder nel 1904, in un saggio, “The Geographical Pivot of History”, presentato il 29 gennaio 1904 alla Royal Geographical Society e subito dopo pubblicato. Condensandola in una sintesi presto famosa: “Chi comanda l’Est Europa comanda lo heartland eurasiatico, chi comanda lo heartland comanda l’Isola-mondo, chi comanda l’Isola-mondo comanda il mondo”. Sottintendendo che l’Europa occidentale era una “testa di ponte” verso il “cuore del potere” mondiale.

Brzezinski aggiorna il “pivot geografico della storia” di Mackfinder alla luce della globalizzazione economica, del ruolo nella distribuzione mondiale del potere assunto dal continente asiatico, Cina e India, e fa dell’Europa – lui esplicitamente - una mera testa di ponte verso l’Eurasia. “Gli Stati Uniti potenza non Eurasiana”, spiega, “ora godono del primato internazionale con la loro potenza direttamente dispiegata su tre periferie del continente eurasiatico”, l’Europa occidentale, il Medio Oriente e il Giappone, “dalle quali esercita un’influenza potente sugli Stati che occupano l’hinterland eurasiatico”.

 

Imperialismo – Alla conferenza di Bandung, in Indonesia, nell’aprile del 1965, che riuniva 29 paesi ex coloniali (una conferenza poi famosa, negli annali della diplomazia, perché proclamò i punch sila, i cinque pilastri del non-allineamento tra Occidente e Unione Sovietica), il presidente indonesiano Sukarno, che ospitava la conferenza, tracciò la lifeline dell’imperialismo. Una linea che andava dallo Stretto di Gibilterra, attraverso il Mediterraneo, al Canale di Suez, il mar Rosso, l’oceano Indiano, il mare della Cina meridionale, e il mare del Giappone. Per gran parte della linea, al di sotto e anche subito sopra, i territori erano colonie, le popolazioni non erano libere ma sottomesse, politicamente e anche economicamente.


Lutgarda, santa – È la santa protettrice dei fiamminghi. Una badessa del dodicesimo secolo, che si distinse per vivere praticamente in condizione mistica, con numerose visioni della Passione. Negli ultimi undici anni di vita soffrì di cecità totale. Le sue visoni furono presto famose, tanto da farla passare da una condizione modesta al priorato di un importante convento cistercense, Aywières, comunità di lingua francese, dove Lutgarda si ostinò a parlare fiammingo. Fra le tante visioni una delle più importanti la ebbe nel 1216, poco dopo la morte di papa Innocenzo III: vide il papa tutto avvolto dalle fiamme, ma in Purgatorio, dove sarebbe rimasto fino alla fine del mondo, in espiazione. La beatificazione avvenne poco dopo la morte. Ma Il “Penguin Dictionary of Saints” di Donald Attwater, è scettico: “Molte visioni ed esperienze mistiche si celebrano di lei ma il suo quasi contemporaneo biografo era piuttosto credulo”.

Wikipedia vuole la santa simbolo del nazionalismo fiammingo, per essersi impegnata all’uso nelle pratiche del fiammingo come lingua. La vita della santa di Thomas Merton, “What Are These Wounds?: The Life of a Cistercian Mystic Saint Lutgarde of Aywières”, riedita nel 2015, è andata subito esaurita.

Nel dodicesimo secolo molte badesse avevano molto potere, e anche influenza in tutto il mondo cristiano. Profondendo molta santità. Successivamente meno. Ma le badesse di Port Royal al tempo del giansenismo, Angélique e Agnès Arnauld, esercitarono molto potere, sorelle fra di loro e sorelle del Grande Arnauld, autrici di diari importanti.

 

Mary Celeste – È la nave fantasma di molta narrativa, ritrovata alla deriva, al largo di Gibilterra, nel 1872, senza nessuno a bordo, mentre era in navigazione verso Genova, con un carico di. Nota anche, oltre che per la scomparsa dell’equipaggio e del carico, senza che si sia mai potuto fare un’ipotesi certa delle cause del naufragio, come la nave portajella per eccellenza nel mondo scaramantico della marineria, che pure non difetta di catastrofi, per una serie di incidenti che aveva assommato nella sua breve vita.  

Un brigantino varato in Canada, in Nuova Scozia, nel 1861, col nome di Amazon. Ribattezzato otto anni più tardi, nel 1869. Il suo primo capitano morì alla partenza del primo viaggio, dopo il varo. Alla fine del primo viaggio, si contrò nella Manica con un altro brigantino. Nel 1869 fu rivenduto perché in secca, per una brusca manovra andata navale, nella baia di Glace, sempre in Canada, Nova Scotia - dopo la vendita fu ribattezzata. Al momento della scomparsa trasportava un carico di alcol da Staten Island, New York, a Genova. Al comando del capitano Benjamin Briggs era un equipaggio di sette uomini. Col capitano viaggiavano anche la moglie Sarah e la figlia di du anni, Sophia Matilda. Il 4 dicembre 1872 l’ultimo avvistamento: dalla “Dei Gratia” la incontrano al largo del Portogallo, verso le Azzorre, alla deriva a vele spiegate in direzione di Gibilterra, con nessun segno di presenza a bordo. I marinai del “Dei Gratia” non trovarono nessuno a bordo, anche se la nave era in buone condizioni. Il carico di 1701 barili di alcol era intatto. Ma all’arrivo a Genova nove barili furono trovati vuoti. Mancavano anche la maggior parte delle carte d brodo – le ultime annotazioni risalivano, in vista di Santa Maria delle Azzorre, al 25 novembre. Pochi giorni prima dell’incontro col “Dei Gratia”.

astolfo@antiit.eu

Muore la civiltà a Teheran

L’Iran khomeinista fa torto agli ayatollah, oltre che all’Iran. Erano di grande cultura, massimamente tolleranti, si sono ridotti a sbirri: bastonano, assassinano, condannano, con processi perfino assurdi nella loro stessa perversa natura di processi politici. Per questo probabilmente ora un’escrescenza, in un paese che non vuole rinunciare al vivere civile maturato in millenni di storia. Benché la religione al comando sia radicata e feroce.

Assistere a un processo politico a Teheran è uno “spettacolo” sorprendente e deprimente, in un paese di tanta civiltà. I processi politici sono tutti offensivi, ma quelli di Evin, il carcere di Teheran elevato a tribunale politico, doppiamente tali: sono orchestrati come una commediola. Videoripresa perché si sappia: l’imputato è un condannato.

L’imputato non ha avvocati e nessun’altra protezione. Il giudice non fa riferimento a nessuna legge. Il tribunale siede in una stanza come tante, anonima, che si fa affollare da sostenitori del regime, donne coperte di nero e giovani barbutissimi perlopiù. La sentenza di morte si pronuncia con indifferenza.  

L’ayatollah Behesti, uomo formato a Parigi e Amburgo, in qualità di mullah dell’emigrazione iraniana, ne era cosciente, che era il ministro della Giustizia del primo gruppo khomeinista succeduto allo scià. Era cosciente di tanta barbarie. Ma fu fatto saltare da un gruppo di mujahiddin avversari di Khomeiny – così fu detto.


Cronache dell’altro mondo - poliziesche bis (232)

Risorge il computer abbandonato di Hunter Biden, che l’Fbi ha acquisito nel 2019, con molti messaggi, foto, video, email, su traffici dello stesso figlio del presidente, che in qualche parte diceva il padre parte anche lui degli affari. E la questione, collegata, delle pressioni dell’Fbi su twitter e facebook durante la campagna presidenziale del 2020 perché censurassero ogni riferimento al laptop, il cui ritrovamento, e i cui contenuti, imputavano ai servizi segreti russi.

Dopo il ritrovamento, apparentemente fortuito, del computer, dimenticato in un negozio di riparazioni, un amico e socio di vecchia data del figlio del pesidnente, Tony Bobulisnki, denunciò all’Fbi molti affari con risvolti penali di Hunter Biden. Bobulinski fu interrogato a lungo all’Fbi di Washington alla vigilia delle elezioni dei 2020, il 23 ottobre. La deposizione di Bobulinski fu supportata da tre cellulari, che consegnò agli inquirenti, con email, e documenti finanziari.

Bobulisnki fu gestito da un funzionario Fbi di Washington, Timothy Thibault. Che non ne ha fatto nulla. Thibault ha lasciato l’Fbi il 26 agosto, senza spiegazioni, dopo che un senatore repubblicano lo ha accusato di avere manipolato la testimonianza. Dopo le accuse dei media destra l’Fbi ha comunicato che Thibault non si era occupato del laptop di Hunter Biden.

Ora il presidente (speaker) designato della Camera dei Rappresentanti, il repubblicano Kevin McCarthy - succede a Nancy Pelosi, la speaker Democratica che aveva messo sotto accusa Trump per l’assalto al Congresso il 6 gennaio 2020 - ha annunciato la convocazione dei funzionari Fbi coinvolti nella faccenda a tstimoniare sotto giuramento. In particolare i 51 che firmarono la lettera a Twitter e Facebook che scagionava Hunter Biden. “Molti dei quali”, afferma McCarthy, hanno una “security clearance”, cioè avevn accesso a informazioni segrete. 

La Trinità disvelata

“Dall’avere un unico Dio all’avere un’unica idea di Dio” si fa presto, ma non bene. L’incontro, in un negozio, della riproduzione della Trinità di Rublëv risolve a Michela Murgia, credente praticante, il suo problema di una Trinità che è difficile da concepire di suo, e peggio per come viene rappresentata, con un Padre barbuto e accigliato, un Figlio bel giovane biondo con la croce addosso, e una colomba svolazzante non si sa per dove. Col problema succedaneo, di un “Credo” onnipotente. E ce ne fa partecipi, in una disamina che sarebbe teologica, ma è un racconto che dire appassionante è dire poco. Le letture queer dei testi sacri della cristianità abbondano, ma Murgia ne una a sua volta di lettura, non di erudizione o esegesi. In brevi capitoli che si leggono d’un fiato – malgrado le fastidiose terminazioni queer in un 3 che risospinge verso gli insopportabili social (ma si può pensarla una ε greca rigirata, che si pronuncia breve, indistinta). Gesù bel giovane biondo in effetti è un mistero, copia di un Apollo dipinto visto in Grecia (mistero relativo: la posa è da sole divinizzzato, in età tarda - Dio padre barbuto e la Trinità sono rappresentazioni recenti) ma qui non si fa pesare, non è questa la questione che pone Murgia. 
“È possibile essere credenti, femminist3 e queer allo stesso tempo?” La risposta per Murgia è sì. Qui si è tentati di dire: embé? Non lo è possibile, senza problemi, non lo è stato per millenni, per innumerevoli persone, in campagna ma anche in città, specie al Sud ma anche a Parigi, a Londra non ne parliamo, ma poi in tutte le metropoli? Mary Shelley per dire, o Emily Dickinson, Virginia Woolf naturalmente. Con il beguinismo. E le monache di casa. Si è più spesso soli e solitari, senza essere per questo queer, cioè strani – prima che Judith Butler ingigantisse (imbastardisse) la parola.
“Catechismo femminista” si vuole la trattazione in sottotitolo, ma in senso proprio. Marinella Perroni, la teologa emerita degli atenei pontifici romani, ne fa l’expertise in postfazione: la femminista “Murgia è una credente che interpella i credenti”. Eliminando i sottintesi ovvi: “Murgia non si rivolge ai non credenti, né è un’atea devota che fa sfoggio delle sue reminiscenze dottrinarie”.

Murgia è contro il “Padre nostro” e per il “Credo”. Ma il Dio “onnipotente” del “Credo” la lascia per più ragioni perplessa. È un concetto problematico - non solo per la questione “unde malum” – che Murgia ripercorre con l’esperienza personale, il racconto di sé. E su una faglia dell’onnipotenza, che, scopre sorpresa, il “Genesi” ha certificato, 2, 18-20, quando lo stesso Signore dice: “Non è bene che l’uomo sia solo”. E fabbrica la donna.
Soprattutto la disturbano le “Trinità” che si rappresentano in chiesa e nelle immaginette, con due uomini, un vecchio e un giovane, e un uccello in volo, “rappresentazione di Dio piatta, abbrutente e intrinsecamente violenta” – una Trinità, si direbbe, che è un po’ il Trinità dei western di Sergio Leone. L’icona di Rublëv la dice invece possibile e sensata. “Dio non è banalmente una «Persona», ma una comunione indivisibile di persone”, la materializzazione del mistero Trinità. In una triangolazione fluida e ricca, ferace. Murgia ci vede “un vertiginoso crescendo di scambi reciproci”: “Ciascuna persona della Trinità riceve l’amore da due Persone distinte e non è lo stesso amore, sono due amori diversi che mutano”. Che sembra ovvio, ogni amore è diverso, ma Murgia ne fa una tipizzazione, la triangolazione. Come opposta alla “coppia chiusa, patriarcale”, al sacramento del matrimonio, “inventato di sana pianta fuori tempo massimo”. Ancora: “Un tavolo trinitario apparecchiato per quattro, con un posto vuoto proprio davanti a me, come un invito a sedermi”, “un cerchio aperto e inclusivo”, “un Dio così fortemente relazionale”, senza paragone con quello astratto del catechismo.                                     
Una trattazione felicemente conclusiva ma veloce. A volte aforistica. Su fede e logica, fede e speranza, cristiani e cristianizzati, emozioni e frasi fatte sulle emozioni. E alcune constatazioni: le incongruenze del catechismo, i “padri” nel “Credo” e i padri in chiesa, assenti, nella pratica religiosa. Cristo, “l’idea di un Dio con la con la carne e i suoi limiti è così folle in chiave narrativa che non può non essere vera”. Il § “Il Messia queer” è, in poche parole, una storia. Temi desueti, tanto più dal punto di vista femminista. Anzi della queerness – che potrebbe anche essere anti-femminista. Insomma, da un punto di vista originale, in vario modo.  Con qualche questione aperta.
I sensi sono “la cosa più limitata di cui disponiamo per farsi un’idea della realtà”. Perché, cosa c’è d’altro? Non c’è la “realtà oggettiva”, chi lo dice? Ma la capacità critica sì. L’“immaginazione immersiva” è nella pubblicità, nel “tracciamento” di se stessi a fini di consumo, cavie e vittime per il commercio. Lo Spirito Santo è queer “nel senso etimologico della parola”, dove? E “il sexting di una domenica pomeriggio con uno sconosciuto” non è una delectatio? quindi nemmeno nuovo.
C’è, a parte, anche un disinvolto adattamento di una categoria sociologica in materia di Meridione e di mafia, il familismo amorale, sbagliato perché la famiglia si vuole in crisi. Mentre questo familismo è ben il tribalismo, un residuo incontestato tanto quanto persistente, nelle faide, nelle combinazioni matrimoniali, nelle denominazioni, cinematografiche, soprannominali. Altro aspetto problematico incidentale è il rapporto madre\figlia. Risolto nello stereotipo “le donne si odiano fra di loro”. Che però non è solo (di origine) maschile, né patriarcale: il rapporto conflittuale madre\figlia, ancorché ignorato dalla psicoanalisi, è un fatto perturbante, molto.
E c’è la questione del titolo a disturbare la trattazione, la queerness – non solo per la terminazione barbarica. Che Murgia non risolve con la “Trinità” di Rüblev, non può. Una “questione” derivata dall’anglosassone, mentre è documentata, piana, non problematica, dalla realtà di ognuno, familiare, di zie e zii, fratelli e sorelle, amici e amiche, che vivono senza pulsioni sessuali, non terminali, di fratelli e sorelle che convivono senza turbamenti anche nelle arti, i fratelli Goncourt, i fratelli Grimm, le sorelle Brontë, i fratelli “Delly”, gli Svedomskij o i Rizzoni, russi animatori della scena romana a fine Ottocento, i tanti fratelli del cinema. 
Per non dire delle infinite sfaccettature dell’amicizia, relazione forse anch’essa tabù in ambito anglosassone – ma non da Chaucer e fino a Shakespeare. Nonché dalla lunga e consistente tradizione cristiana della verginità, che da alcuni decenni si trascura (Freud non ne ha nemmeno il sospetto), ma è stata ed è importante, e anche affascinante. Di santi e sante, beghini e beghine, di operosità amorevole, dentro e fuori della parrocchia, nel vasto mondo. E anche di chi santo non vuole esserlo. Certo, la queer question è il vero fuoco infernale della divisione psicologica e sociale in America, ben più della violenza sessuale, e del razzismo, del #metoo e del #blacklivesmatter. Ma è un fatto storico e politico.

Il “queer” del titolo richiederebbe una trattazione a parte – non è nuovo ma è nuovo il genere nella grafica, qui segnalato da un 3, come nella Trinità al centro della trattazione, che è una cosa un po’ inutile - e anche blasfema. Anche perché il concetto rinvia al discorso critico, di libertà, ma nella pratica, nelle varie importazioni dall’indistinto inglese, via Arbasino, finisce in una “diversità” che invece è normalità. Perlomeno in Italia – a Londra, quando Arbasino valicò Chiasso, sospettavano degli italiani, degli italiani maschi, e un po’ anche delle femmine, perché camminavano per strada tenendosi a braccetto: tutti hanno avuto uno zio, una zia, un amico, un’amica “non interessata”, semplicemente. E non è vero che l’impulso sessuale sia pervasivo, onnipresente, anch’esso onnipotente, questa è sfuggita ai Padri del “Credo” – e a Freud: sarà Freud un patrista mascherato? Questo ridurrebbe queer a asessuale, il che la queerness, ammesso che se ne possa costruire una, non vuole. Ma rileggere il Dio onnipotente, che è probabilmente il più grande problema del credente, e in parte la Trinità, non è molto più (meglio) del 3?
Ha una connotazione diminutiva, il mondo dei diritti, quella di essere una dittatura culturale, quella anglosassone, linguistica e ora inevitabilmente mentale, cresciuta veloce nel secondo Novecento, dominatrice nel Millennio - in una con la globalizzazione economica, col trentennio del mondo as business. Un’acculturazione (inculturazione?) che non solo egualizza ogni differenza culturale, ma ne elimina anche le radici, il passato, la storia, come se il mondo nascesse ora, e pensasse, o comunque parlasse, americano. Ora per esempio si può essere non interessati per essere queer, e si può anche andare sottobraccio con gli amici perché la pratica è stata battezzata, bromance. Murgia non è provinciale, ma molte differenze restano factice, direbbe il francese, artificiose più che fittizie, fredde, di imitazione.
Murgia sfugge al vezzo di categorizzare i mondi lgbtqia - di categorizzarsi - come automartirio. Ma fa la “scoperta della queerness”, pur non essendo anglosassone. Contrastando il “femminismo della differenza”, che riduce a “femminismo (o religione) del corpo”, sintetizza la “prospettiva queer” come “quella pratica della soglia in cui la sessualità non solo non concorda con l’identità, ma può addirittura limitarla”. Come se il cristianesimo, quindi una storia e una pratica di duemila anni, non fosse la religione del corpo, mistico e fisico, a fronte degli altri monoteismi. E la più grave trascuratezza della Chiesa, almeno nell’Ottocento, e ancora nel Novecento, non è stata l’elevazione del corpo a suo tabù, col conseguente suo sprofondamento all’inferno – all’inferno psicologico in vita, con la sua maglia di rimozioni, bugie, autoviolenze e violenze?

Curioso, ma non marginale, è anche l’assurdo contrasto che Murgia vuole fra “analogici” e “digitali”. Come un divide epocale, ben più che generazionale, e radicale. Il digitale intendendo come social. Che sono il vecchio bar Sport, delle chiacchiere. Peraltro, dov’è il digitale? Nel Russiagate, un dossier inglese, con gli hacker russi, e i Cambridge Analytica, roba di servizi segreti, vecchia (la disinformacija), solo aggiornata negli strumenti? Nella messaggistica istantanea, privata e di piazza, whatsapp e twitter, ora sostituiti, anche in chiave più narcisista, esibizionista, dai video, tiktok, instagram, meta. Nell’ondata, già spenta, del “da remoto”? Nelle fake news? Lo storytelling è già di più, ma non è nuovo, da Svetonio in poi, anzi da Tucidide, e compreso Erodoto. Rivoluzionaria è solo la velocità, il consumo del tempo nell’istante. Mentre la sottovalutazione è perfino assurda del big tech, che ha creato le piazze-social per vendere pubblicità e consumi – e non lo nasconde, ricchissima solo di soldi e nient’altro, avendo saputo allargare il marketing a ogni minimo gesto quotidiano, dove compriamo le sigarette o prendiamo il caffè, che libro leggiamo (insomma, abbiamo comprato), come ci vestiamo (non ci dice la chiesa in cui siamo entrati, non finché non troverà come appropriarsi delle elemosine). Con buona pace della privacy, altro falso mito. Viviamo allo stadio avanzato di quello che si chiamava neo capitalismo, senza la costrizione e con la partecipazione convinta e anzi entusiasta. Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, il Grande Fratello di Orwell, sono oggi il mercato. Libero, liberale, democratico, aperto dalla e nella tecnologia.

La verginità è lo stato queer per eccellenza. Lo stato quintessenziale, anche, della religiosità. Sant’Ambrogio la lega alla fede: “Castis fides refrigerans” recita nell’inno “Ad horam incensi”, fede refrigerio dei casti. Non patriarcale, né matriarcale, è la queerness, lo stato panico per eccellenza. Concetto problematico, peraltro.
La lotta dei sessi riproduce vecchi modelli (si ripete periodicamente?). Lo nota Lafargue, “Le Matriarcat”, 1889, e si rileva nella pubblicistica di un secolo dopo. Alla donna che cancella la paternità, con la madre vergine, si contrappose in antico Giove che concepiva e figliava di suo, Minerva dalla testa, Dioniso dalla gamba. Un neo patriarcato deve ancora ricorrere all’utero in affitto, ma fino a quando? Che senso ha la lotta dei sessi, se non come passatempo (fatte salve le salvaguardie giuridiche)?
La verginità è come la presenta la chiesa dei Padri, legata al romitaggio e al deserto: è una desertificazione. Lo è nei fatti – nelle vite in convento – e nella dottrina: chiudersi alle passioni.
Eliminare le passioni è anticristiano, Gesù Cristo è Dio di passione. Per non dire che interrompendo l’ordine della creazione interrompe la salvezza. La salvezza è la promessa dei creati. Le verginità premia la salvezza a meno della creazione? Ma piace, in poesia e tra i religiosi, perché intrisa di eros. Non sconta secchezze e fragilità, bensì prolunga lo stato adolescenziale, denso di sensualità (affetti “terminali”, ideali, fantasie, colori), nel bombardamento ormonale cui è sottoposto. Nella religione è proposta peraltro come unione con Dio.
E d’altra parte il sesso (sessualità) è durissimo livellatore. Toglie senso e sapore a molta storia: infanzia, vecchiaia, famiglia, verginità appunto (sia essa sublimazione o sia erotizzazione). Toglie anche il piacere della carne, nel mentre che la moltiplica in immagine. È una ritenzione che propone, un’immensa cupola del desiderio, nel mentre che annulla le diverse esperienze della vita.
 
Un viaggio nella fede ortodosso e piano, leggibile, perfino avvincente. Convincente. Ma di un Dio rivoltato, volto e specchio del femminismo, quindi sempre divisivo. Se non che a un certo punto l’umanità è detta “la specie più fallita di tutte, l’unica capace di causare da sé i presupposti della sua distruzione”. Ma Dio non è in parallelo con questa umanità? Sono “due estremi inconciliabili” (p. 51) il Creatore e le creature? Creatura non è creat3, è qualcosa in evoluzione – è il vangelo secondo Murgia. E non può avere torto, sennò che si vivrebbe a fare?
Si pubblica meritatamente come un classico, con postfazione, nota al testo, bibliografia.
Michela Murgia, God Save the Queer, Einaudi, pp. 142 € 14,50

martedì 13 dicembre 2022

Intercettare, sempre meglio che lavorare

Si discute delle intercettazioni come se fossero la chiave del diritto all’informazione. Mentre sono la chiave di una giustizia di sbirri – sbirro è “agente di polizia di governi del Medioevo e del Rinascimento”, dice wikipedia, ma tutti sappiamo cosa vuole dire, e non si riferisce più all’agente di polizia: da quando sono i Procuratori della Repubblica a condure le indagini, se ne sono appropriati, e non se ne adontano.
Le intercettazioni sono più spesso una forma spregevole di diffamazione, calunniosa. Che noi paghiamo, alcune centinaia di milioni l’anno, per il divertimento e la carriera di giudici spregiudicati e cronisti giudiziari, e di qualche colonnello – è sempre meglio che lavorare. Si veda da ultimo dal profluvio di intercettazioni a carico del management Juventus, dalle loro conversazioni quotidiane per un paio d’anni estraendo le frasi dove si dice “cazzo” e “merda”. Salvo poi, ieri, rinunciare a presentarsi in giudizio. Dopo due settimane di diffamazioni.
Non è opera dei Buffi, è la Giustizia, senza senso del ridicolo. Le intercettazioni sono uno strumento di indagine non una prova. Si dispongono per arricchire le indagini su un reato che sia stato commesso, e non “a strascico” come alla pesca proibita (ci sono registrazioni di effusioni in
 camera da letto, e anche di meteorismi e evacuazioni al bagno), alla ricerca di un reato purchessia. I giudici lo sanno. I cronisti giudiziari pure. Ma finché la diffamazione è libera, se ne avvalgono – sempre meglio che lavorare.

Il sole è freddo al Nord e violento

Lui e lei, due giovani buoni coartati da famiglie cattivissime sotto la rispettabilità, sono costretti alla violenza. Dal forte romamzo di Jo Nesbǿ, sulla violenza dei “buoni sentimenti”,
Il sole incombente del titolo vuole dire che produce follia? Non si direbbe, più si va al Nord più il senso del giusto e del diritto si vuole inappellabile. E poi non è che il sole di mezzanotte illumini, la luce è per tutta la durata del film, anche a mezzogiorno, grigia e umida. Un romanzo per questo spetto anche controcorrente, quello del grande scrittore norvegese, sul mondo superno del suo paese.
Una seconda curiosità il film presenta, di essere una produzione italiana, con una regista e un protagonista (Bergonzoni) italiani.
Francesco Carrozzini, The Hanging Sun – Il sole di mezzanotte, Sky Cinema

lunedì 12 dicembre 2022

La Fifa qatariota e l’arbitro Collina

Va alla conclusione imperturbato questo Mondiale del Qatar mentre si moltiplicano gli scandali per la corruzione che lo ha propiziato e accompagnato. I cronisti se ne dicono entusiasti, perché è sempre un mese di vacanza, in un posto poi carissimo. Ma nulla al confronto degli entusiasmi della Fifa, del grande emigré Infantino, assurto dall’ombra a Grande Capo, e del Capo degli Onesti, l’arbitro Collina, già coordinatore degli arbitri in Ucraina. 

L’arbitro spagnolo Lahoz ha osato ammonire Messi nella violentissima partita Argentina-Olanda, e Collina lo ha sospeso inflessibile. Mentre Infantino non ha sanzionato, neppure criticato, la squadra argentina, che in formazione si è recata a dileggiare gli olandesi sconfitti - è il “legittimo entusiasmo”, dicono i cronisti, colliniani e quindi onesti per definizione ma digiuni di diritto (la “legittimità” è concetto complicato).
La storia degli arbitri in questo Mondiale, quando si potrà ricostruire, sarà una copia di quella economico-finanziaria?
Senza accedere alla cospirazione che denunciano i calciatori portoghesi, la designazione di un argentino a dirigere Marocco-Portogallo cos’è? Un errore? Non può essere, Collina è infallibile - l’unico che non cambia nella federazione del calcio mondiale, dove il più onesto ha la rogna, una barca in un mare in tempesta di dollari.

Letture - 505

letterautore

Baudelaire – Si trascura che “I fiori del male” avrebbe voluto intitolati “Le lesbiche”. “Fiori del male” gli fu suggerito e imposto dall’amico critico d’arte – la “professione” di Baudelaire - Hyppolite Babou.

Brontë – Le inglesissime sorelle scrittrici devono il loro nome a Bronte nel catanese, la città dei pistacchi. Della ducea di Bronte, che in qualche modo si perpetua, era stato insignito da Ferdinando IV di Napoli, poi Ferdinando I delle Due Sicilie, l’ammiraglio Nelson per riconoscenza del riacquistato reame – un riconoscimento non da poco, al titolo era accodato un possedimento di sedicimila ettari. E dell’ammiraglio era grande fan il padre delle future scrittrici, pastore anglicano. Che di suo aveva un nome assonante, Brunty. Quando lo cambiò in Bronte per “nelsonismo”, volle la dieresi perché anche in inglese si pronunciasse com e in italiano.

Dante – C’è qualcuno che non lo apprezzava, Voltaire. Che ne parlava alla milanese: “Il Dante è sicuro di sopravvivere, lo si legge poco”. Lo riferisce Proust alla fine del saggio “A proposito di Baudelaire”, ma facendolo precedere dalla chiosa: “Una frase inesatta, assurda, una fase così divertente benché falsa, che mi dispiace di non citarla con esattezza”. Ma è vero che Voltaire, per anticlericalismo e non solo, non apprezzava Dante. A lui si fa ascendere la lunga eclisse di Dante in Francia, nel Sette-Ottocento.

Di Dante Voltaire solo apprezzò, nel discorso di ricezione all’Accademia, il ruolo che aveva avuto nella “creazione della lingua” - sempre alla lombarda: “Non c’è niente che il Dante non esprimesse, al modo degli Antichi.  Abituò gli italiani a dire tutto”. Il Poema disse, al meglio, “bizzarro” – Voltaire apprezzava Ariosto, “il primo dei poeti italiani e forse del mondo intero”, scrisse a D’Alembert, pari a Omero, e a Madame du Deffand: “La più feconda immaginazione di cui la natura abbia mai fatto dono a nessun uomo”. 

Destra – Hitler affascinò non soltanto Hamsun, Pound e Céline. Molti giovani anche: non solo Fo, ma Albertazzi, Vianello, Tognazzi, Walter Chiari, gli attori più amati, l’architetto Sottsass, marito di Fernanda Pivano, Saverio Vertone, Ingmar Bergman non furono arruolati ma volontari del nazifascismo, Günter Grass e Pio Filippani Ronconi delle SS combattenti, e non era facile, la selezione era severa - Filippani Ronconi che poi seppe tutto dell’Iran, pure i dialetti.

Editori - Diventano sempre i più i protagonisti del giornalismo culturale, più è meglio degli autori, che sono, o rimangono, senza storia. Arturo Ferrari, Ernesto Ferrero, le corrispondenze Mondadori, ora pure con Buzzati, le corrispondenze Einaudi, quelle Garzanti, le giurie o comitati di lettura degli editori, Neri Pozza, gli eterni Alberto Mondadori e Livio Garzanti, i redattori creatori sempre più numerosi, Sgarbi, Andreose, come già Niccolò Gallo o Vittorio Sereni, figure solitarie, mitiche.

Flaubert – Proust non lo ama, perché nuon vuole metafore (“Solo la metafora può dare una specie di eternità allo stile, e non c’è forse in tutto Flaubert una sola metafora”) ma lo difende, in quanto innovatore della lingua, in “À propos du «style» de Flaubert” (in M. Proust, “Chroniques”, ora nelle varie raccolte di saggi) – stile tra virgolette, per dire che Flaubert non ne aveva. Gli aveva anche dedicato in gioventù un pastiche, che è genere ironico ma anche un riconoscimento, un omaggio allo stile. Nel saggio lo appaia a Kant – con ironia doppia: “Un uomo che con l’uso interamente nuovo e personale che ha fatto del passato remoto, dell’imperfetto, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni,  ha rinnovato la nostra visione delle cose tanto quanto Kant, con le sue Categorie, le teorie della Conoscenza e della Realtà del mondo esterno”.

Leone – “È noto che solo l’intervento del presidente Giovanni Leoni poté salvare il negativo del film e la reputazione della Repubblica” - Marco Tullio Giordana, ricordando sul “Venerdì di Repubblica” lo scandalo suscitato cinquant’anni fa da “Ultimo tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. “Non è poi cosa così nota”, obietta l’intervistatore, Marco Cicala: “Povero Leone, «meschino calunniato»”. Leone sarà qualche anno dopo costretto alle dimissioni, da una campagna calunniosa de “L’Espresso” e di Camilla Cederna.

Livorno – “Una città di porto, ma non di mare: in Italia lo sono Trieste, Napoli e Genova”, Serena Melani, livornese, comandante di grandi navi, a Stefano Salis, “Il Sole 24 Ore” dell’altra domenica.

Madeleine – Del procedimento della memoria inavvertita Proust fa antesignani Chateaubriand e Nerval, sempre parlando, bene e male, di Flaubert, all’ultima pagina del saggio. Chateaubriand quando nelle “Memoria d’oltretomba” sente a Montboissier cantare un tordo, e il tordo lo riporta alla giovinezza Cobourg, lontano nel tempo e nel luogo. Mentre Nerval potrebbe avere a titolo di tutte le sue opere, insiste, “quello che avevo dato all’inizio a una delle mie: Le intermittenze del cuore”.

La “madeleine” non piaceva a Proust. Il saggio su Flaubert conclude con una filippica contro i critici che lo avevano acculato ai ricordi d’infanzia: “In ‘Dalla parte di Swann’ alcune persone, anche molto letterate (probabile allusione a Gide, n.d.r.), fraintendendo la composizione rigorosa benché velata, (e forse più difficilmente riconoscibile perché era a larga apertura di compasso e il pezzo simmetrico di un primo pezzo, la causa e l’effetto, si trovavano a grande intervallo l’uno dall’altro) credettero che il mio romanzo era una sorta di raccolta di ricordi, concatenati secondo la legge fortuita dell’associazione d’idee. Citarono a sostegno di questa controverità delle pagine dove alcune briciole di «madeleine», bagnate in un’infusione, mi richiamano (o perlomeno richiamano al narratore che dice «io») tutto un tempo della mia vita, dimenticato nella prima parte dell’opera”. Proust rinvia per una corretta lettura all’ultimo libro della “Ricerca”, “non ancora pubblicato”, dove il lettore troverà, dice, “tutta la mia teoria dell’arte”.   

Roma – Profumata la percepì un secolo fa la pittrice russa Anna-Oustrumova Lebedeveva, o così la ricorda, nei tardi “Appunti autobiografici”, del 1974: “Non potevo non entusiasmarmi del fascino della sua lieve aria profumata. Dai recinti delle ville e dei giardini arrivava il profumo del lauro, del cipresso e delle rose”. Nonché animata – il che è ancora vero, a tutte le ore, sembra una città che non lavori: “Mi conquistò la vita delle strade così rumorosa e lucente, anche se nel suo chiarore e movimento non c’era alcuna affinità con le altre capitali europee”.

Russi in Italia – Sono stati soprattutto donne, quelle che più hanno inciso: Anna Kusliscioff, Marìa Bakunina, Angelika Balabanova (russa d’Ucraina) Eva Amendola Kühn, Ol’ga Reznevič Signorelli, Jenny Griziotti Kretschmann, Maria Fišman Di Vestea (Antonella d’Amelia, “La Russia oltreconfine”). Anche perché molte donne venivano in Italia, all’epoca di Giolitti, per frequentarvi l’università, da cui erano escluse in patria - insieme con esponenti socialisti, come Gor’kij, Bogdanov, Lunačarskij, Viktor Černov, Plechanov, German Lopatin, Pëtr Kropotkin.

Sainte-Beuve – Proust ne elogia “il linguaggio parlato, perlato” – “À propos du «style» de Flaubert”. 

Tornei – Quelli letterari sono patriarcali? Tra i dieci autori che “La Lettura” premia come “libri dell’anno” (romanzi), solo due sono donne – e non ai primi posti: Elizabeth Strout è ottava, Hanya Yanagihara nona.  Le donne scrivono meno degli uomini? Non sanno scrivere altrettanto bene? O sono i giurati patriarcali? Tra i 282 giurati, “giornalisti, collaboratori e amici del «Corriere della sera»”, i maschi in effetti a un’occhiata veloce sembrano molto più numerosi. Sono allora i maschi che leggono più romanzi e non le donne? C’è da cambiare i criteri su cui si regge l’editoria.

letterautore@antiit.eu

Il mistero delle donne

Curioso rifacimento oggi di un film che già vent’anni fa, nell’edizione franco-italiana di François Ozon, risultava misogino, oltre che stererotipo antiborghese. Basato, oggi come allora, sui dialoghi di una commedia per il teatro del 1958, del francese Robert Thomas – un drammaturgo che non ha lasciato altre tracce.
Ma le sette donne dell’edizione italiana, una in meno rispetto a quella di Ozon (la governante nera non si può più al cinema), si divertono e divertono. In ruoli per loro inconsueti, di Margherita Buy soprattutto, e di Luisa Ranieri e Micaela Ramazzotti, per non dire di Ornella Vanoni resuscitata.  
Alessandro Genovesi,
Sette donne e un mistero, Sky Cinema

domenica 11 dicembre 2022

Problemi di base pratici - 726

spock


Perché ci sono le code agli ospedali?
 
Se è giusto operare di tumore una persona settantacinquenne - in Germania?
 
Se è giusto non operarla - in Germania?
 
Perché i pantaloni unisex, scomodissimi, impraticabili: per risparmiare sulla chiusura lampo?
 
O l’umanità va evirata?
 
C’è la mafia perché non c’è la giustizia?
 
O è viceversa - non c’è la giustizia perché c’è la mafia?

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La transizione energetica non sarà breve ed è difficile

La transizione ecologica è troppo ambiziosa?  È radicale. È affrettata. È ineguale. Rispetto alle precedenti, dal legno al carbone, e dal carbone agli idrocarburi, che hanno preso secoli, “l’obiettivo di questa transizione è non solo di attivare nuove fonti di energia ma di cambiare interamente le fondamenta energetiche di qualcosa che è oggi un’economia globale di 100 mila miliardi di dollari in due o tre decenni”.
Ci saranno, ci sono, dei bumps su questa strada, buche e dossi, il percorso è accidentato. Yergin, lo storico americano maggiore esperto mondiale del passato e futuro delle fonti di energia, vice-presidente di S&P Gobal, individua e spiega almeno cinque di questi bumps, dossi, strozzature. Lo sviluppo delle energie alternative, il solare, il vento, l’acqua, è incerto e pone problemi analoghi a quelli cui intende rimediare, i guasti delle fonti fossili.
Quattro problemi sono individuabili. La sicurezza degli approvvigionamenti, a prezzi congrui, è un prerequisito della transizione come di tutta l’economia: è bastata la sola aspettativa, ben prima delle decisioni, di una transizione rapida per scoraggiare gli investimenti nelle fonti fossi in uso e far salire alle stelle i prezzi, ben prima della guerra in Ucraina. Non c’è consenso fra i grandi “produttori di CO2” sulla velocità della transizione, in parte a causa dei problemi di mercato (di prezzi) che pone. Terzo: si aggrava il divario tra economie avanzate ed economie in via di sviluppo. Infine, l’obiettivo emissioni-zero troverà problemi a breve termine: minerari, per la fornitura delle materie prime necessarie, a partire dalla più diffusa, il rame, e nelle “catene di approvvigionamento” nella rete mondiale di scambi.
“Le quattro sfide, sicurezza energetica, impatto macroecomico, divario Nord-Sud, minerali, avranno ognuna effetti significativi sulla transizione energetica. Nessuan di esse è di soluzione agevole, ed esse interagiranno tra di loro, il che accrescerà il loro impatto”.
Daniel Yergin, Bumps in Energy Transition, International Monetary Fund, “F&D Finance&Development”, dicembre 2022, free online