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venerdì 30 ottobre 2009

Breve storia dell'unità - 8

Arrivati al 1859, il progetto di Cavour era, si sa, di portare il re delle Due Sicilie a condividere la causa nazionale. Perché al Sud non c’era il fermento unitario che contagiava il Nord. E perchè l’unità era difficile da far digerire all’Europa. Che avrebbe accettato al più l’uscita dell’Austria dall’Italia, anche se a costo di favorire l’espansione a Est del regno dei Savoia. L’esigenza fondamentale di Cavour d’altra parte concordava, liberare l’Italia dalla presenza straniera, cioè dall'Austria. Il progetto allo scoppio della guerra con l'Austria prevedeva l’espulsione degli austriaci, l’espansione del Piemonte, una unione nell’Italia Centrale, e il mantenimento del Regno delle due Sicilie al Sud.
Ma Ferdinando II, gravemente ammalato, titubava, e i suoi ministri non osavano agire in sua vece. Circondato da sacre immagini, scongiuri, amuleti, e costantemente dai preti, sopravviveva a reiterate somministrazioni dell’olio santo e perfino a una speciale benedizione in mortem inviatagli per telegrafo dal papa: il re Bomba sopravviveva nella paura. Ai suggerimenti arrivati da Torino in aprile di unirsi alla causa dell’unità, rispose che il suo dovere era la neutralità. Allo scoppio delle ostilità ebbe un soprassalto di energia e ordinò con vigore ai suoi ministri la più stretta neutralità. Morirà a Caserta il 22 maggio.
Cavour approfittò delle esequie per mandare a Napoli il suo amico conte Gabaleone di Salmour. Con incarico notarile: andare, notificare al nuovo re Francesco II, Franceschiello, il messaggio di Cavour, osservarne la reazione e riferire. Essendo nel frattempo sopraggiunta la vittoria di Magenta, Cavour scrisse a Gabaleone di adombrare la possibilità per Francesco II di annettersi l’Umbria e le Marche. Ma Francesco II rifiutò la proposta indignato e Gabaleone se ne tornò a Torino: “Non c’è niente da sperare qui per la causa italiana”, scrisse.

Il sostegno di napoleone III, sempre contorto, non era all’unità d’Italia quanto a un piano generale di egemonia sulla penisola, in sostituzione dell’Austria. Come protettore del papa. Con un Murat invece dei Borboni a Napoli. E col principe Napoleone suo cugino, “Plon-Plon”, l’ex ufficiale dell’esercito del Württembeg, a capo di un regno del Centro Italia. Per tutto questo, e per allontanare anche fisicamente l’Austria dall’Italia, acconsentiva a un allargamento del Piemonte.

Garibaldi partì per la Sicilia con la malinconia nel cuore. La vigilia della partenza la passò a scrivere lettere accorate al re, a Bertani, e altri corrispondenti. Lettere senza entusiasmo, e di non grande speranza. Al re ricorda che non ha consigliato l’insurrezione in Sicilia, e che interviene unicamente per senso del dovere, perché chiamato a soccorrere l’unità. “Alla fine”, disse a un amico, “mi troverò nel mio elemento, l’azione al servizio di una grande idea”.

Letture - 18

letterautore

Amleto – Si può leggere “Amleto” in forma di giallo. La forma del giallo è quella vecchia del “disvelamento”, con un pizzico di sorpresa e di azione, in genere un atto di violenza. È il manifestarsi, sempre imprevedibile, della verità. Poiché, trattandosi di racconto e non di trattatistica, deve usare opere e strumenti pratici (il detective, la casualità, gli indizi, la prova), anche come strumento linguistico è reputato inferiore. Ma Amleto sarebbe un ottimo investigatore, uno che sa provare (fondare) le sue intuizioni. Verbalmente, è naturale.
Non necessariamente il racconto giallo si deve privare dei temi nobili della narrazione, la vita, la storia, il destino, l’abbandono.

Argonautiche – Il solo simpatico è il timoniere Tifi, che ha coraggio, intuito, e sa quello chee sta facendo, in mezzo a un elenco prolisso di tradizioni e meraviglie cui nessuno mostra di credere, e un branco di eroi cazzoni (Ercole, Polifemo) o demotivati (Giasone). Tra donne tentatrici che sanno di casalingo e ancillare, o “con grande scaltrezza” (Sinoe) si fanno dare in dono la verginità. Medea è diversa – ma è una maga, e come fa a farsi stregare da un ragazzo di buona famiglia qual è Giasone?
I tre quarti della letteratura classica, riedita e ristudiata con tanta passione (il commento a queste “Argonautiche” della Bur è almeno quattro volte più lungo del lunghissimo testo) sono importanti solo perché si sono salvati dal fuoco e dalle intemperie. E per l’esercizio archeologico – accademico, erudito, collezionista – testimoniando una lingua morta. Ma è come portare a spasso un cadavere, sempre rispettabile, certo, e talvolta, chissà, anche bello, ma morto.

Céline – Il mistero Céline si chiarisce al confronto con la “reazione assoluta” tedesca: Schmitt, Jünger, Heidegger. Si infierisce anche: il suo antisemitismo non è odio dell’Altro, della democrazia, del sociale – valori che invece in Céline sono ben forti – ma preconcetto. Tradizionale, nazionale, familiare. Nulla al confronto con la reazione assoluta dello Stato sacro.
Piccolo borghese insomma: valori e impotenza. Il suo è l’inferno (l’inconscio) piccolo borghese, sempre in ritardo sulla realtà: razionalista quando il progresso ha esaurito la sua promessa, critico al tempo della dittatura, incattivito all’epoca delle professioni di angelismo e coscienza pulita, e se il governo non va è l’unica volta che lo sostiene. Che non è anticonformismo, o la psicologia del bastian contrario. O meglio lo è, ma il disadattamento è più vasto e profondo.

Giallo – Si può anche dirlo la tragedia della contemporaneità. Con la differenze che l’“incommunicato” (mistero) della violenza non viene addossato alla divinità (sotto forma di Fato incerto, ancorché vendicativo) ma a un essere in carne e ossa. Non è il sostituto tout court della tragedia, in tal caso dovrebbe risalire a duemila e più anni fa, quando il senso del tragico vero (Eschilo, Sofocle) è morto. è subentrato di recente, quando la colpa individuale si è affermata, e la polizia. Coetaneo della letteratura di massa, vi ha soggiaciuto nella forma. Ma la sua materia, la violenza fisica, è sempre quella della tragedia.

Proust – La “Recherche” è romanzo tradizionale: di personaggi tutti d’un pezzo, che si analizzano più che raccontare, la cui storia è il carattere, unico, una sola cosa. Hanno cioè una parte, all’infuori della quale non hanno e non sono altro. Il narratore è sempre malinconico, Charlus pensa al c., Albertine alla ginnastica dell’elusione.
Tantissimo erotismo di fantasia. Mentre l’atto è ridotto a poche righe, implausibile, fanciullesco (“faire cattleya”), improvviso e senza seguito.
Non c’è uno scarto, un controcanto, un’altra cosa. Si può fare a meno, anche in un romanzo, della sorpresa, ma non è possibile costruire un diapason -. che peraltro non c’è - in quattromila pagine, non c’è petite musique che tenga.

È come leggere Sade. Di cui tra l’altro Proust ripete l’apparato (l’impianto): filosofia spicciola intervallata da “pistonate” monomaniache, sessuali o sentimentali. La filosofia illuminista (antilluministica) in Sade, estetizzante in Proust: la sonata, il dovere morale, Dreyfus, l’adolescente, la zia, il profumo. Con in più, in Sade, la tirata rivoluzionaria (controrivoluzionaria), invece della memoria, anestetica se non arteriosclerotica.

È scrittore consolatorio, serve a molti come “versatoio”, d’infanzie, adolescenze, zie e nutrici, nonne e madri, turbamenti, ricordi caramella.
È grande scrittore per essere divenuto santo. Il santo degli snob. Anche se, come snob, era di quelli scassamazzo. S’indovina dall’attenzione alle morti – il tipo che scorre ogni giorno i necrologi, e quanta retorica delle condoglianze! Pettegolo, esibizionista delle sue nevrosi, non è certamente il tipo high tory, lo snob del duca di Bedford. È il vero snob, che mendica inviti e vuol’essere servile.
Ma, come santo, è tutti noi, snob e antisnob. L’uomo certamente non mancava di vizi (anche lo scrittore, se “I piaceri e i giorni” sono stati venduti in quattrocento esemplari in venti anni), e alcuni non li camuffa, anzi li esibisce: la suscettibilità, l’egoismo, la maldicenza, la strana sordità all’amicizia. Che implica anche una cattiva scelta di amici, conoscenze e corrispondenti, inevitabilmente parte del piccolo gioco al massacro. Ma dai memorialisti non si hanno che apprezzamenti, ricordi lieti, meraviglie.
Tutto ciò aggiunge alla sgradevole sensazione di falsità complessiva. Da modesta letteratura fin-de-siècle piuttosto che da commedia dantesca dell’Otto-Novecento.

La “Commedia”: l’ambizione è la stessa, nei personaggi, le storie, le ambientazioni. E c’è il sulfureo e c’è l’angelico. Ma tutto sul patetico. E non perché non c’è più Dio, ma perché Proust non è Dante, essendo un decadente – e un leccaculo.
La sua contemporaneità è blanda come ogni avventuretta Belle Époque, roba senza residui.

Per Lucien Leuwen la signora Grandet, che ambisce ad arricchire il suo salotto di ministri e accademici, è “grossolana”. I Verdurin non hanno ministri. Ma Grandet non è più grossolana perché punta ai ministri. Perché non dovrebbe voler arricchire il suo salotto della crème, giacché si sa che essere nel vento rende le persone più brillante, gaie, gradevoli? Grossolana è l’idea del salotto, l’incontro di gente che non ha vicendevoli trasporti ma solo rappresenta” (espone, recita) se stessa, fa un simulacro di dono incomparabile della conversazione, ma nello stesso tempo annusa e liscia, e spesso è una congrega. Specie il salotto borghese – il borghese è anti-borghese.

Sherlock Holmes - Nel racconto “The copper beeches” (“I faggi rossi”?) Holmes spiega a Watson il suo “sistema”, e la critica del sistema. Che è il contrario del metodo scientifico: è la diagnosi che diventa malattia, dopodichè si procede alla soluzione-cura. Che naturalmente può essere letale, se i presupposti sono infondati – ma non c’è mezzo di riesaminarli: non è un processo continuo di trials and errors, ma una convinzione, più spesso supportata da elementi intuitivi, visionari, magici, che porta a un-a fine.

Stendhal – Estremista vanitoso.
Prima di lui Kleist – “Kolhaas” e altri racconti.

Con lui le donne “si danno”. Storia stendhaliana verrebbe di Angela Pietragrua, che “si dà”, “si nega”, eccetera. Probabile borghese, come Stendhal, ma senza storia: si dava a Stendhal, e non lo sapeva.

letterautore@antiit.eu

giovedì 29 ottobre 2009

Il ritiro Usa dall'Irak scuote il M.Oriente

Il ritiro americano dall’Irak l’anno prossimo ha messo in moto una dinamica deflagrante in tutto il Medio Oriente, il Pakistan incluso. Coinvolgendo i paesi limitrofi all’arco della crisi, la Siria con il Libano, e la stessa Turchia.
Visto da Teheran, è un temuto sgonfiamento della politica ormai quarantennale della Casa Bianca, di Carter come di Reagan e dello stesso Bush jr., che l’Iran ha valorizzato come una pedina importante della sua complessa geopolitica mediorientale. L’equilibrio vuole una serie di soggetti di eguale peso specifico, e l’Iran degli ayatollah, sciita, fondamentalista, e tutto sommato occidentalista, è stato questo. A fronte di Israele e del mondo arabo. Di questo soprattutto, in tutte le aree sensibili, Libano, Palestina, Golfo, Irak.
Il ritiro americano dall’Irak apre un grande vuoto, e questo diventa il fulcro del gioco: se l’Irak sarà sciita, quindi in qualche modo legato all’Iran, o se non tornerà saldo nel fronte arabo. Il feroce terrorismo degli ultimi giorni, in Pakistan e in Irak, apre ufficialmente le ostilità - un caso a sé si pone in Afghanistan, di tribalismo affine alla mafia. L’affrettata rinuncia iraniana all’arricchimento dell’uranio a fini bellici, per quanto temporanea, è la prima contromossa.
Quella iraniana non è una decisione, anzi prima di diventare una rinuncia alla bomba molto tempo e molta diplomazia ci vorranno (senza la bomba la scelta nucleare iraniana è inutile, cioè insensata, poiché il paese dispone della riserve di gas maggiori forse al mondo, nel Golfo Persico e in terraferma, molto più flessibili e molto meno care delle centrali nucleari). Ma qualcosa si muove. L’America per prima ne è cosciente, che conduce il gioco in prima persona, col presidente Obama e col segretario di Stato Hillary Clinton. Finora Washington ha favorito un Irak sciita, prendendo atto che gli ayatollah sono tutto sommato un fattore di stabilità, in una regione per ogni altro verso politicamente volatile. Ma ultimamente ha mostrato di poter cambiare vincente.
Un segnale è venuto proprio in Irak, con la cosiddetta strategia Paetreus. Ora, sotto i violenti colpi degli interessi sunniti da una parte, in Iraq e in Pakistan, e dall’altra la riproposizione del governo Ahmadinejad, la strategia filo-sciita americana è sembrata vacillare, se non è già cambiata.
L’uscita americana dall’Irak condiziona omai da tempo tutta la politica dell’area. In Libano ritarda la composizione del governo, a quattro mesi dalle elezioni. Hezbollah, che dev’essere parte del governo, valuta come prendere le distanze dall’Iran, sia in Libano che nei confronti di Israele. La Siria del giovane Assad ha ormai abbandonato ogni contatto privilegiato con Teheran. La stessa Turchia di Erdogan tenta di entrare in gioco, trascurando per il momento i legami con Israele: Erdogan vuole apportare un contributo alla stabilizzazione dell’Irak in senso arabo moderato, temendo le insidie del khomeinismo sul fronte confessionale interno.

L'ombrello Tremonti sul rischio Berlusconi

Una teoria non peregrina è che il supertecnico, genialoide, lassista, furbetto gran commercialista Tremonti, l’uomo dei mille escamotages per truccare i conti pubblici, o sopravvivere all’asfissia del rigido monetarismo europeo, sia diventato l’uomo dell’ordine. A un momento e con un obiettivo preciso: evitare o contenere la marea di discredito che avrebbe sommerso l’Italia sui mercati dopo l’estate delle puttanate berlusconiane. I titoli del debito pubblico italiano, sui quali ogni zero virgola zero qualcosa di interesse aggiuntivo significa un maggior costo di miliardi. Si spiega del resto solo così che, per la prima volta nella storia d’Italia, i conti debbano essere perfettamente in ordine secondo i maestrini della Banca centrale europea e di Almunia, e anzi anche migliori.
O è un punto d’onore, di un superministro che infine trova necessario darsi una caratura politica, avendo esaurito tutte le possibilità di ascesa tecnica? È possibile, e non sarebbe una colpa. Ma solo l’altra lettura rende ragione dell’alterigia tremontiana di fronte, alla fin fine, al suo capo, a quello che l’ha portato in politica, l’ha promosso e sostenuto, e nel cui partito egli milita: difendere Berlusconi da se stesso, uno che non capisce le sciocchezze che ha commesso e ha creato nei mercati un rischio Italia aggiuntivo per le sue intemperanze. Magari giustificandolo, perché no, date le orrende delusioni patite dall’uomo in famiglia, per la perfidia di una che dopotutto è sua moglie, e di un’altra che è sua figlia. Ma intervenendo a prevenire il peggio, che si addensa sull’Italia, sulle finanze.
Si spiega così anche il ruolo di saggio che nella vicenda è stato chiesto a Bossi, che in teoria non c’entra nulla: Bossi è quello che per primo e più di tutti ha alzato e alza l’ombrello a difesa dalle intemperanze di Berlusconi. Tutto ciò non è compreso e non è comprensibile a “Roma”, in quel mix d’irresponsabilità e ciarlatanismo che fa le veci della politica attorno al Panteon e in televisione. Ma ha un costo preciso, che dove si fanno i conti è ancora temuto.

Arriva il debito pubblico delle banche

Le banche s’infiocchettano mentre gli Stati si dissanguano. Washington e Londra inondano i mercati di cataste di titoli del debito, facendo carta straccia del dollaro e della sterlina. Per finanziare disavanzi impensabili, rispettivamente dell’11 per cento e del 14 per cento del prodotto interno lordo. Accumulati per salvare le banche. Le quali, fatto tesoro delle gigantesche iniezioni pubbliche di capitali e di liquidità, tornano agli usati utili illusori. Al fine di pagare i lauti benefits ai propri manager.
È il mercato. Che, seppure assottigliato nelle motivazioni (giustificazioni), non si nasconde e anzi incede protervo. È la morale tragicomica dei mutui di terz’ordine, che ora si pretende superata. Quando tutti sanno che il “buco” non sarà riempito prima di otto-dieci anni. È il segno di una politica corriva, sia pure a opera del socialista Brown e dell’uomo della speranza Obama. È l’Impero del Male del millennio, seppure ridicolo, o tragico per essere ridicolo: che il mercato, la razionalità, Adamo Smith, il benessere, siano solo i benefits dei banchieri.

Sòle a volontà per l'Italia civile

È pesce d’aprile a ripetizione per la stampa in Italia. Che mai se ne accorge, non lo mostra. Da ultimo un archivio Vasari di un conte Festari, che l’aveva già impegnato e perduto per debiti più volte, è stato dato per acquistato alla morte del conte, il 17 ottobre, da un magnate russo, per 150 milioni. Con alti lai sul patrimonio culturale depredato, eccetera. Da un magnate che invece era morto quaranta giorni prima, e prima di morire non aveva comprato niente. “Avrebbe potuto”, commenta imperturbabile il mediatore, un signor Stepanov che suona in russo come un signor Nessuno, che forse ha pure un ufficio, alla periferia di Mosca, alcuni operai stanno pulendo un appartamento con le insegne della sua società. Tutto questo non sui giornaletti scandalistici ma sui migliori quotidiani, la coscienza dell’Italia civile.
Prima ha occupato le cronache un signore americano che voleva comprarsi il Bari, e per questo festeggiava per le vie della città – ora si capisce perché, dopo Berlusconi - e sulla gradinate del san Nicola. Prima ancora, periodicamente, c’è la vendita della Roma, la squadra di calcio, ora ai padroni della Bmw, insomma a un parente dei padroni, ora perfino a George Soros, di solito a un non descritto magnate russo. Roba ogni volta non innocente, il titolo i Borsa schizza in su e in giù consentendo fortune rapide, mentre i migliori giornali di Roma, la Figc, il Coni non risparmiano valutazioni, analisi, dottrine.
Uno si chiede perché queste patacche non ricorrano nella stampa inglese, per dire, o spagnola. E l’unica risposta possibile è che i giornali sono di bocca buona solo in Italia: è roba da frustrati, non può essere solo stupidità. Le sòle fanno il paio con la citazione nervosa, compiaciuta, provinciale di quanto di nefando, osceno, oscuro, è si scrive di noi a opera di giornalisti angloindiani. Una volta l’acquirente della Roma era un avvocato di New York, dove però non esercitava. Che, quando dovette esibire i titoli per comprarsi la squadra, optò per il Bologna. A Bologna fu anche visto, ma presto scomparve: provinciale non vuole dire stare in provincia.

mercoledì 28 ottobre 2009

Breve storia dell'unità - 7

Non c’era dubbio nel 1860 che Garibaldi, Cavour, l’Italia, non stessero facendo una Rivoluzione. Tutti gli scambi diplomatici dell’epoca concordano. Lord John Russell ne scrive al suo ministro a Torino, sir James Hudson. Il russo Gorciakov ai suoi ministri a Parigi e Torino. La stessa Austria, quando tentò di riunire i tre regimi dispotici per un intervento a favore del re di Napoli, a Varsavia il 22 ottobre 1860, li ammonì contro “la Rivoluzione trionfante in Italia”.
Esaltò l’Europa la corsa spontanea degli italiani verso la libertà, e l’organizzazione, l’ordine, con cui organizzarono e conclusero le loro ribellioni. Tra tutti gli italiani c’era un fermento patriottico molto simile all’entusiasmo. Sobrio al confronto con i deliri del 1848. Ma sofisticato e maturo. Si sapeva inoltre, si sentiva, che, se anche l'Austria e i Borboni fossero stati espulsi dalla vita politica italiana, molti nodi restavano da sciogliere prima che l’Italia potesse tornare alla gloria della libertà. Ma tutto sembrò possibile.
Che cosa è andato storto? È brutta la Rivoluzione? È brutta l’Italia?
Si è detto e si dice che sono brutti i meridionali, ma non può dirsi la diagnosi giusta, dopo un secolo e mezzo.
L’Italia non si è vaccinata contro la Rivoluzione, né ne ha avuto una, e per questo continua a recalcitrare, in un indefinito risentimento. È un ammasso eterogeneo, un’identità che è tutto e sempre insoddisfatta: repubblicana e monocratica, laicista e clericale, imprenditrice e profittatrice, sempre soggetta al potere e mai alla giustizia, e al meglio è populista, il terreno di coltura delle mafie.

“Tra i documenti del Risorgimento a me noti, nessuno è più deprimente de “Il libro dei Mille” di Maurizio Quadrio, che mostra come, a causa di una speranza delusa, uno spirito di valore si inaridisce e incattivisce” – W.R.Thayer, “Life and Times of Cavour”.

Il Congresso di Parigi, che Napoleone III volle ai primi del 1956 per rifare la carta d’Europa, in risposta al Congresso di Vienna del 1815, e che per la prima volta porrà in ambito internazionale una “questione italiana”, contro l’occupazione straniera dei domini pontifici e contro il malgoverno nel Regno delle Due Sicilie, Cavour avrebbe voluto posposto. Il suo disegno era di trascinare nella guerra di Crimea l’Austria al fianco della Russia, cioè contro la Francia e l’Inghilterra, dopodichè la “questione italiana” si sarebbe risolta nei fatti. Nel riconoscimento della “questione italiana” peraltro, la critica alla presenza delle truppe straniere negli stati pontifici si limitava all’Austria, che presidiava le aree settentrionali, non alla Francia, che presidiava Roma.
In alternativa, Cavour elaborò un piano che legava la questione italiana a quella dei principati di Moldavia e Valacchia. Formalmente in possesso dell’impero ottomano, i principati erano sotto il protettorato russo dal 1829. Cavour prospettò a Londra e Parigi la probabilità che l’Austria ampliasse la sua sfera d’influenza ai principati, rompendo così l’equilibrio europeo. Per prevenire la costituzione di un impero absburgico dal Ticino al mar Nero, propose di assegnare i principati danubiani ai duchi di Modena e di Parma. Non anti-austriaci - Francesco V duca di Modena, anzi, era decisamente filoaustraico. Col sottinteso che il Piemonte avrebbe potuto annettersi i ducati di Modena e di Parma, come compenso per la partecipazione alla guerra di Crimea.
Napoleone III fece, in un certo senso, di più: propose che Francesco V diventasse sovrano di Moldavia e Valacchia, la duchessa di Parma Maria Luigia diventasse duchessa di Modena, e il ducato di Parma fosse annesso al Piemonte, senza più. Sembrava la quadratura del cerchio, ma l’Austria non aveva l’ambizione di arrivare al mar Nero, e non aveva l’intenzione di perdere un alleato fedele in Italia, alla quale invece era interessata. Sull’obiezione dell’Impero ottomano, contrario naturalmente a ogni forma di smembramento, sostenuto dall’Inghilterra, la questione fu riposta.

La famiglia che Kafka ambiva

Un romanzetto, dunque non può essere un'ingiustizia. Canetti ha fatto un romanzo di Kafka. Ma sul tema del matrimonio impossibile cosa ha mancato! Forse per proiettare sul matrimonio sue proprie fobie. Gli aneddoti del mancato fidanzamento con Felice sono spassosi, soprattutto la riunione die parenti di lei in albergo a Berlino per giudicare il promesso. Ma Kafka non aveva paura della donna: vivrà con Dora Diamant a Berlino, soli e isolati, in condizioni non agiate, la prima volta che gli capitava, in un'ebollizione politica e sociale che non comprendeva, mostruosa. Né ha paura dei figli: si trova a suo agio con i nipoti, e con i bambini che gli capiti d'incontrare.
Kafka aveva paura della vita familiare perché era scontento della sua nella casa paterna, del rapporto fra i genitori e i figli, e fra i genitori, e lì era scontento del rapporto col padre, non di quello con la sorella o la madre, o del sistema di vita familiare, molto aperto agli amici, alle abitudini irregolari. È una scontentezza metafisicca (vedi "La Lettera", il padre essendo l'ombra reale di se stesso, il pipistrello gigante che la vita proietta su ognuno. E pratica, effettuale, per avere lui e il padre, con suo personale dolore, due caratteri diversi. L'analisi freudiana, tutta fisiologica, è limitata.
Elias Canetti, L'altro processo di Kafka

martedì 27 ottobre 2009

Una storia balzacchiana di Balzac

Un’agiografia. Nel 2009. E tuttavia non inutile. Balzac visse accasciato tutta la vita sotto i debiti. Si sapeva ma non abbastanza: non erano debiti di un tenore di vita eccessivo ma quelli accumulati in gioventù con le attività di imprenditore. Tanto era incapace negli affari quanto invece di vena facile e speciale acume nella scrittura: scrisse quaranta volumi in cinque anni, ai suoi vent’anni, libri di vario genere, che pubblicava sotto vari pseudonimi, e ai trenta-quaranta, dal 1827 al 1848, novantasette opere, trentamila pagine, quattro-cinque in media al giorno, di cui rivedeva le bozze normalmente dieci-undici volte, nel mentre che viaggiava, come gli piaceva, e chiacchierava.
Una fulminante storia familiare di Daria Galateria non tralascia peraltro nell’introduzione le parti crudeli: di un bambino abbandonato a otto anni in collegio, nel 1807, perché la mamma aspetta un figlio adulterino, e non dal più ambito dei suoi tanti amori, fino ai quattordici anni, quando entrò in coma. In tutti quegli anni aveva visto due sole volte, di sfuggita, il padre. Ne erediterà un risentimento costante oltre che la goffaggine in amore. Da genitori, tuttavia, che non si penserebbero migliori. Il padre, amministratore di ospedale, aveva aperto dei laboratori per anziani in grado di lavorare, ai quali faceva corrispondere un salario. La madre lo accompagnerà vigile nell’inseguimento del successo, firmando per lui le cambiali al momento dei fallimenti. Le buone intenzione possono essere assassine. Ne viene fuori una storia molto balzacchiana di Balzac.
Un piccolo cameo balzacchiano è anche il ritratto di Honoré che a ogni rovescio si rimonta. Che è il segreto della creatività dell’uomo “Solo la realtà ammette l’inverosimile, a me è consentito solo il possibile”. E della sua innocenza di vivere: “Perché la sofferenza passata, agiungendosi di continuo alla sofferenza presente, opprime l’anima con un peso schiacciante”. Nell’indifferenza dei critici – i più benevoli gli chiedevano: “Ebbene, Balzac, quand’è che ci farete leggere un capolavoro?”.
Laure Surville Balzac, Balzac mio fratello, Sellerio, pp. 180, € 9

Breve storia dell'unità - 6

Chi erano i fratelli Bandiera? “Veneziani che muoiono in Calabria nel tentativo di promuovere l’unità e l’indipendenza d’Italia”: W.R.Thayer, “Life and Times of Cavour”.
Lo storico americano, il cui ottimo Cavour un secolo fa ha avuto il pregio di non essere mai tradotto, caso unico nella storia del Risorgimento, fa sempre attenzione alla provenienza dei patrioti e alle loro caratterizzazioni locali, oltre che personali e ideologiche. Leghista ante litteram? In quanto registra la persistenza del tribalismo sì.

Benché storico di Cavour, in due densissimi volumi, Thayer ha la più alta considerazione di Garibaldi. In questi termini. I Mille sono “un’avventura senza paragoni nel mondo modrno”. Garibaldi “l’eroedi un’impresa che ebbe fin dall’inizio contorni leggendari”. La sua spedizione richiamò “la mitica prodezza degli Argonauti che Giasone condusse alla Colchide, riprodusse il trionfo che Dione, l’antico liberatore, ebbe in Sicilia su Dionigi, l’antico tiranno, eguagliò in improbabilità gli epici fatti di Giovanna d’Arco”. Ma, al contrario di Giovanna, Garibaldi, “che aveva invincibile ocoraggio, mancava dela fede che muove le montagne”. E quindi: “Fosse stato per lui, i Mille non avrebbero salpato il 5 maggio 1860; ma klui era nelle mani di abili pianificatori, che non avevano cautele né scrupoli”.

Un milione di moschetti per Garibaldi
Il 5 gennaio 1860 Garibaldi, con l’assenso del governo piemontese, diede incarico ai massoni Giuseppe Finzi e Enrico Befana di organizzare una raccolta di fondi per “Un milione di fucili per Garibaldi”. Furono raccolti poco più di due milioni di lire. Non una grande cifra.
Ma il Fondo era già attivo a New York, col nome più bellicoso “Un milione di moschetti per Garibaldi”. Il “New York Times” ne parla il 9 novembre 1859, a lungo, lamentando la scarsa partecipazione del pubblico alla raccolta: “In seguito a un annuncio pubblicato da questo giornale, per un’assemblea dei residenti italiani che prenda delle misure a sostegno di Garibaldi e della racolta fondi per un milione di fucili, poche persone si sono riunite ieri sera allo Stuyvesant Institute. L’incontro era presieduto dal generale J. Avezzana. Il quale ha lamentato che così pochi dei ventimila residenti italiani a New York abbiano risposto al richiamo della patria…”. Il professor Achille Magni ha quindi esposto in breve la storia dell’Italia dal 1848, i soprusi cui è andata soggetta da parte dell’Austria, chiedendo una risposta all’appello del “povero generale Garibaldi”.
L’articolo prosegue dando in dettaglio una serie di mozioni votate dall’assemblea.
Il mese successivo, il 5 dicembre, il “New York Times” dà notizia che altre personalità sono entrate a far parte del Comitato per il Fondo di Garibaldi, illustri esponenti della comunità massonica cittadina. Un busto di Garibaldi a olio, offerto dal pittore Giuseppe Gerosa, da sorteggiare fra i sottoscrittori, sarebbe stato esposto, informa il giornale, alla Borsa.
Avezzana, volontario napoleonico, fu successivamente un guerrigliero in varie parti del Sud America. Comandò la Guardia Nazionale di Genova nel 1849, quindi fu a Roma, ministro della Guerra della Repubblica. Nel 1850 aveva raggiunto anche lui, dopo Garibaldi, New York.

lunedì 26 ottobre 2009

I maestri del Muro lottano insieme a noi

Il paradosso dell’attacco sul Muro è sconcertante oggi ancora più che vent’anni fa, quando il libro usciva: dove sono (erano) i paladini della libertà? Anche Arbasino sorvola: non sarebbe stato male qualche nome d’indefettibile parrocchiano del sovietismo, Ingrao, Asor Rosa, “Il Manifesto”, Fortini. E un accenno alla loro durata o tenuta, analoga a quella degli immarcescibili Dc – anche se, a differenza dei Dc, non ne hanno mai azzeccato una (e in politica non è difficile capire…).
Ma anche con queste cautele, il pamphlet dà una sensazione vivace da convalescenza: di chi l’ha scampata, per caso, per fortuna, alle cure del più affettuoso e pressante dei medici. Va bene l’utopia, l’uguaglianza, il popolo, le masse, ma perché nemmeno un briciolo di onestà? Se sono integri, questi maestri, perché sono coerenti, allora la loro utopia è proprio bacata.
Alberto Arbasino, La caduta dei tiranni

Padre mistico, David Turoldo

Il padre è la figura del padre, anche in forma di Dio, ma è soprattutto una persona. Il tema è come sempre l’amore, così facile e così difficile. Ma l’amore di e per David Maria Turoldo, il bellissimo servita che tra Milano e Firenze fu per un trentennio, fino agli anni Settanta, al centro di vivaci, seppure trascurati, cenacoli religiosi e poetici. Centrati sulla vita: la condizione umana, filosofica e pratica, con una distinta curvatura estetica, poetica, tragica. È una celebrazione, in memoria. “Io venni alla Corsia de’ Servi\ e appena ti vidi la mia ragione ammutolì”. “La tua bellezza disorientava le folle che non capivano le tue parole”. Ma è di più.
Una serie di prime linee superbe inanellano un ritratto fantastico del prete-poeta, il santo della prima giovinezza della poetessa. “Partorii un figlio una notte\ e aveva il tuo volto”. “La passione è un inverno”. “In ogni animo c’è un albero cavo”. Il forte sentimento religioso di Alda Merini genera qui una trasfigurazione, o reincarnazione. Ripetute nei tre poemetti in morte di Giovanni Paolo II, “chiuso fra le pareti del mondo”. Un gioiello non polveroso di poesia mistica - esemplare non comune, direbbe il libraio, nella biblioteca contemporanea.
Alda Merini prosegue imperterrita il suo percorso obsoleto di Poeta Io. Seppure aggiornato dalla condizione esistenziale, la malattia mentale, la povertà. E pur usando del poeta oggettivo eliotiano le antenne sensibili del corpo e degli oggetti, di un mondo vigile e animato. Da qui la peculiare cifra di classico vivente. Che è pestifero, ma la Merini sa fronteggiare.
Alda Merini, Padre mio, Frassinelli, pp. 106, € 15

Breve storia dell'unità - 5

La trafila
La “trafila” è propriamente l’organizzazione del salvataggio di Garibaldi, dopo la caduta della Repubblica romana, nel ravennate. Ma sta per tutte le traversie di Garibaldi nell’agosto e il settembre del 1849, una rocambolesca fuga attraverso mezza Italia. Dapprima nel tentativo di raggiungere Venezia, l’unico rifugio ancora libero dalle influenze francese e austriaca. Garibaldi fuggiva con Anita incinta, che poi morì nelle paludi della valli di Comacchio, con Angelo Brunetti, “Ciceruacchio”, e col capitano Giovanni Battista Culiolo, il fidato “Leggero”.
Leggero lo aveva convinto a mettersi in salvo abbandonando Anita morta: «Generale, per i vostri figli, per l'Italia...». A Ravenna i repubblicani della locale “trafila” li accolsero, li nascosero cambiando vari rifugi, e ne prepararono la fuga attraverso una “trafila” forlivese. In uno degli alloggi a Ravenna Garibaldi ascolta il 14 agosto, non visto, alcuni operai parlare della sua fuga, e del ritrovamento del cadavere di Anita, dissotterrato dai cani.
Più che dalle milizie papaline, Garibaldi fu braccato dagli austriaci del maresciallo Costantino d’Aspre, che comandava il corpo di spedizione asburgico in Toscana. Tuttavia è attraverso la Toscana che i patrioti romagnoli divisarono da mettere in salvo Garibaldi, grazie a locali “trafile”, appoggi in grado di portare Garibaldi attraverso il granducato fino al mare. L’uscita da Ravenna fu favorita dai festeggiamenti dell’Assunta. Ma al cimitero di Forlì, nessuno della trafila forlivese si fece vivo.
La notizia si era sparsa della fucilazione a Ca’ Tiepolo di Ciceruacchio e altri cinque patrioti e i repubblicani locali non vollero avere a che fare con Garibaldi. I due fuggiaschi vennero allora fatti passare per disertori lombardi, e così trovarono guida e ospitalità.
La trafila in Toscana durerà diciassette giorni. L’identità dei fuggiaschi sarà rivelata ai patrioti, ma disorganizzazione e incompetenza creeranno molti problemi. La fuga si snoda per Castrocaro, Dovadola, Montacuto, Monte del Trebbio, Modigliana, Palazzuolo, le Filigare, Prato, Poggibonsi, Colle Val d’Elsa, Volterra, Pomarancio e San Dalmazio, dove sostano quattro giorni, e infine Scarlino attraverso la boscosa Maremma. Fra gli accompagnatori più capaci Garibaldi ricorderà un prete, don Giovanni Verità, che lo assiste per tre giorni al passaggio dell’Appennino.
Il 2 settembre Garibaldi e Leggero sono a Cala Martina, presso Scarlino. Una barca li attende, che li porta a sera all’Elba, e il giorno dopo a Portovenere. In Liguria, cioè nel regno di Sardegna. Garibaldi poteva considerarsi salvo, ma le sue traversie non erano finite. Si presenta a Chiavari all’Intendente provinciale, Conte di Cosilla. E ità nelle peripezie della fugafug, i a Caprera come allevatore e agricoltore.rso ella Carmen, un clipper mercantile da 400 tonChe però reagisce terrorizzato: lo supplica di non creare problemi alla città, e infine, su ordine del La Marmora, Regio Commissario a Genova, lo fa tradurre, sotto scorta dei carabinieri, in quella città, dove arriva la sera del 7 Settembre. Datato Genova 17 Settembre, don Giovanni Verità riceverà da Garibaldi un telegramma rassicurante: “M’incarica il nostro Lorenzo farvi avvertito, che le due balle di seta sono giunte a salvamento”. Ma La Marmora lo trattiene in stato di fermo, guardato a vista nel Palazzo Ducale. Finché la Camera Subalpina non lo farà liberare.
Il governo sabaudo decise allora di ostracizzarlo. Imbarcato sull’incrociatore Tripoli Garibaldi venne portato a Tunisi. Dove però gli fu impedito di sbarcare. In attesa di una soluzione alternativa, Garibandi trovò ospitalità, tramite Leggero, originario della Maddalena, nell’arcipelago, ospite del sindaco per una ventina di giorni. Dopodichè fu imbarcato sul brigantino da guerra Colombo, che lo portò fino a Gibilterra, in territorio britannico. Ma anche il governo inglese lo ritenne un soggetto pericoloso: il governatore inglese gli concesse di sbarcare, ma per un soggiorno limitato a dieci giorni.
I successivi sei mesi Garibaldi li passò a Tangeri, ospite dell’ambasciatore piemontese Giovanni Battista Carpenetti, suo ammiratore. Poi s’imbarcò, via Liverpool, per New York, dove risedette un anno, dall’aprile 1850, lavorando tra l’altro nel laboratori di candele di Antonio Meucci. Fu quindi in Centro e Sud America. Al Callao, il porto di Lima, ottenne il comando della Carmen, un clipper mercantile da 400 tonnellate, di un armatore italiano, con il quale arrivò fino in Cina, trasportandovi guano e riportando indietro emigranti cinesi. Successivamente trasportò il rame cileno, da Valpariso e altri porti, sempre verso l’Asia. Nel 1854 tornò in Italia, installandosi a Caprera come allevatore e agricoltore.

domenica 25 ottobre 2009

La giustizia del ricatto

Dunque, l’ormai storico 96 di via Gradoli pullula di viados. Anzi, tutta la strada ne pullula, è una sorta di casino all’aperto di transessuali. Senza permesso di soggiorno. Ad affitto evidentemente imbattibile per i padroni di casa, e necessariamente in nero. Contro i quali, locatori e locatari, innumerevoli esposti e denunce sono state presentate. In via Gradoli la cocaina è inoltre in libera offerta - a prezzi abnormi. Ma la cosa non interessa i carabinieri, la guardia di Finanza, i giudici, i servi segreti che ai temi del sequestro Moro risultarono titolari di numerosi appartamenti. Solo Marrazzo interessa: la giustizia si muove se c’è profumo di scandalo.
I carabinieri felloni sono stati informati dei movimenti di Marrazzo da qualcuno della scorta, ma nemmeno questo interessa ai giudici. Non è una novità. Si devono sicuramente alle scorte gli scandali estivi, di Noemi e delle ville sarde di Berlusconi. Con le foto ravvicinate di chi si sciacquava le palle dopo il bagno, di cui Zappadu era poi il collocatore. Zappadu che, conti all’estero dichiarati, non è stato nemmeno lui oggetto d’interesse della Guardia di Finanza. Né i Carabinieri o i Ros, i reparti speciali: uno che sostiene, per coprire i complici, che aveva otto, o dodici, postazioni attorno a Berlusconi, un assediante in piena regola. Un assediante di Sarkozy, o di Zapatero, sarebbe in prigione da tempo.
Vige solo il ricatto. Il metro è quanto ce l’ha grosso il fotografato: il video di Marrazzo non l’ha voluto nessuno perché, da quando ha lasciato la televisione, il governatore del Lazio non interessa a nessuno. Le foto molto meno compromettenti di Sìrcana, invece, hanno molto agitato il mercato, perché Sircana significava Prodi. E la Rizzoli Corriere della sera le ha comprate, battendo tutti sul prezzo, per averne il favore, di Prodi.
Resta da vedere il ruolo di Berlusconi, che scandalo è senza di lui? Resta da vedere anche come saranno ricattati i Ros, che sono intervenuti nel caso Marrazzo. Magari dagli altri carabinieri – a Palermo è successo e succede. Insomma, nessuna novità, tutto negli schemi triti. O sì, non è stato intercettato questa volta Berlusconi. Ma gli avvocati dei carabinieri ricattatori fanno valere che i loro assistiti erano manovrati dall’altro, e dunque, sempre lì si torna - magari sapremo che si è arrivati a Marrazzo intercettando Berlusconi...

Niente più governo tecnico, Tremonti solo

Bossi è rimasto zitto, mostrando di non seguire Tremonti, e lo stesso Tremonti non ha posto ultimatum nel faccia a faccia con Berlusconi sabato. In tal senso consigliato probabilmente anche dai suoi sponsor: il progetto dalemiano del governo tecnico destra-sinistra, una riedizione del governo Dini, il capolavoro dell’ex leader diessino, ha perso smalto. Sempre sorretto dai giornali Rcs, ma con molta più cautela dai banchieri che l’avevano fatto proprio.
In contemporanea Fini trovava utile assicurare che lui mai si presterà a un governo che non sia uscito dalle urne. Senza Fini, oltre che senza la Lega, senza cioè una parte del Pdl, un quarto o anche un terzo, non c’è maggioranza possibile contro Berlusconi.
Il progetto Tremonti, come si ricorderà, puntava a un rompete le file, dopo l’abbattimento di Berlusconi, con un governo tecnico, o di unione o ricompattamento nazionale, destra-sinistra. Era stato veicolato un mese e mezzo fa con slancio dal “Corriere della sera”, con una larga intervista-annuncio dello stesso Tremonti il 15 settembre. Che faceva sue anche le prese di posizioni polemiche del nemico Fini. La demolizione di Berlusconi sembrava a via Solferino completa, con l’aiuto di Veronica Lario e Patrizia D’Addario, e il momento quindi propizio. Ma due fatti nuovi sono intervenuti - a parte il fatto che tra i "due nemici" non ci può essere tregua, benché ridotti alla modesta e traformistica scena italiana.
Un fatto nuovo è che Berlusconi resta battagliero, anche se in difficoltà. L’altro è che il momento di Tremonti è passato, e la parola è per almeno sei mesi alla politica. Tutto quello su cui la posizione di Tremonti è dirimente è ormai legge – né Tremonti potrà opporsi a una riduzione dell’Ires. In agenda sono già le elezioni regionali, con la prospettiva di una maggioranza berlusconiana consolidata tra cinque mesi, non solo con la Regione Campania, ma anche col Lazio, e possibilmente col Piemonte e la Calabria.
Il silenzio di Bossi è stato molto eloquente per i fautori della soluzione tecnica, di unione nazionale, della società civile, eccetera. Tremonti solo, senza più la Lega, che non può e non vuole seguirlo sul piano politico e su quello delle tasse, “vale” meno di Lamberto Dini, che aveva con sé la vecchia Dc e Scalfaro.

Breve storia dell'unità - 4

La Sicilia fu annessa così. Garibadi lasciò Depretis prodittatore a Palermo. Uno che era arrivato in Sicilia a luglio come rappresentante del re. Passando la notte a Genova prima d’imbarcarsi con Bertani, capo dei radicali. E la stessa mattina del suo arrivo a Palermo con Crispi. Un mediatore, l’inventore della Sinistra, e del trasformismo.
Depretis era stato mandato da Cavour a Palermo per promuovere l’annessione, e fece valere molte mozioni popolari favorevoli. Crispi lo ridicolizzò spiegando che le petizioni erano pagate oppure false. Depretis reagì accusando Cripi di corruzione: se la faceva con i vecchi borbonici, e pagava la propaganda per la Repubblica e per l’Autonomia.
Quando Garibaldi attraversò lo Stretto, Crispi accusò Depretis di tradimento. Depretis a sua volta accusò Crispi di tradimento. Crispi allora si dimise e s’imbarcò per Napoli. Depretis prese la stesso vapore. Garibaldi diede ragione a Crispi, ma Crispi non tornò più a Palermo - anche perché aveva capito che le decisioni si prendevano a Napoli.
A Palermo ci andò lo stesso Garibaldi, che il 17 settembre annunciò alla plebaglia la destituzione di Depretis, senza spiegazioni, la sua sostituzione col toscano Mordini, per formare un “gabinetto rivoluzionario”, e la decisione di proclamare a Roma Vittorio Emanuele re d’Italia.
Sarà il destino dell’isola, di essere terreno di scontri altrui.

Le elezioni generali il 27 gennaio 1961 videro la vittoria del governo, una stragrande maggioranza cavourriana. Anche Napoli e la Sicilia, roccaforti radicali, votarono per il governo: i leader repubblicani, Bertani, Cattaneo, Ferrari, Guerrazzi, Mordini, recuperarono miracolosamente al ballottaggio.

Nell’autunno del 1860, Cavour dovette organizzare in fretta l’occupazione dell’Umbria e della Marche per trovarsi pronto all’incontro con Garibaldi che aveva conquistato Palermo. A difesa del papa, in quello che poi sarà lo scontro, tutto sommato lieve, di Castelfidardo, si raccolse un’orda di “mercenari stranieri”, Cavour lamentava nei suoi ultimatum al cardinale Antonelli. La componevano giovani eredi della vecchia aristocrazia europea, contadini polacchi, vagabondi irlandesi, molti francesi, incluso il generale del papa e dell’imperatore Lamoricière, che odiavano l'imperatore Napoleone III, tra essi alcun borbonici, quali il mangiatore di fuoco vandeano Athanase Charette, che si consideravano crociati e martiri della fede. La sera prima di Castelfidardo, Lamoricière e gli altri generali si prostrarono con la fronte a terra durante la messa, in atto d’ingraziamento.

Era il momento in cui, da Palermo, Garibaldi tempestava il re perché licenziasse Cavour. Cavour istruì i suoi di tenersi in buoni rapporti con Garibaldi. A Nigra scrisse: “Speriamo che (la vittoria di Castelfidardo) ci dia forza sufficiente a impedirgli di rovinarci”. Noi, l’Italia.

Il Garibaldi Panorama
Alla fine del Settecento il “pubblico” avido di conoscere realtà ed eventi che non poteva vivere direttamente ebbe a disposizione uno strumento del tutto nuovo: i panorama. Si trattava di dipinti circolari, di grandi dimensioni, che venivano installati in un edificio appositamente costruito, di forma cilindrica, con una piattaforma visiva al centro. Dopo alcune prove preliminari in Scozia, il primo tipo di panorama fu mostrato a Londra nel 1788 ed ebbe fin da subito un grosso successo commerciale.Uno dei pochi panorama ancora oggi esistenti è alto circa 1 metro e mezzo e lungo circa 83 metri, dipinto su entrambi i lati. Si dice che sia il più lungo panorama esistente al mondo. Opera di James J. Story, fu completato a Londra nel 1859. Dal 1860, e per qualche tempo, il panorama fu mostrato a migliaia di interessati spettatori in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Dopo varie vicissitudini e passaggi di proprietà, il Garibaldi Panorama è ora, da qualche anno, uno dei “tesori” della Hay Library a Brown University, Rhode Island. È unanimemente giudicato il più affascinante panorama mai prodotto.
Angela De Benedictis, “A Garibaldi Panorama”. Un simposio a Brown University e un progetto di ricerca internazionale, «Storicamente», 3 (2007), http://www.storicamente.org/04_comunicare/debenedictis_brown.htm

Il Vangelo spegne Alda

La poetessa del corpo e dell’amore ha una forte vena religiosa – non si capisce perché venga candidata al Nobel… “Paura di Dio” è la sua seconda raccolta, del 1955, “Tu sei Pietro” la quarta, nel 1962. Da ultimo, in felice rapporto con mons. Gianfranco Ravasi, ha pubblicato raccolte importanti dedicate a Maria e alla Croce. Anche qui c’è Pietro, con gli altri personaggi del Vangelo: Alda Merini si cimenta in versi in una sorta di auto sacramental, una pièce orchestrata con i Vangeli della Passione. Ma per una volta, nella sua poesia sempre appassionata, con calcolo ordinatorio più che con partecipazione.
Il contrasto teatrale è ben organizzato. Tutti hanno una ragione. Pietro: “Tu non sai sorridere”. Pilato: “Quanta malinconia non danno i profeti… Quanti dubbi sulla verità”. Giuda: “Non avevi un vizio. Ma cos’è un uomo che non ha un vizio?”. Ma senza ispirazione. Come se il compito da svolgere inaridisse quell’immaginazione sempre fertile che hanno fatto della Merini il poeta dell’epoca.
Alda Merini, Cantico dei Vangeli, Frassinelli, pp.117, €14