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venerdì 27 giugno 2014

La Nova Rossia è la vecchia Russia

In Crimea e Ucraina orientale Putin non gioca il vecchio gioco di Stalin, di tenere l’impero unito tramite le colonie russe trapiantate nei paesi vicini. L’Ucraina di oggi è nata dalla pace russo-polacca del 1921, con cui la Polonia si annesse la parte storica occidentale dell’Ucraina, comprendente la Volinia, la Galizia e parte della pianura Podolica del Dnepr e del Donec, e l’Ucraina la parte orientale, a predominanza russa e con capitale Kharkov. Per incrementare il “peso” russofono in Ucraina, Krusciov, ucraino ma staliniano, la incrementerà nel 1954 con la Crimea.
Sono questi i territori detti della Nuova Russia, da fine Settecento. Da quando cioè Catarina la Grande riuscì a riconquistare Kharkov, Donetsk e Odessa, dopo aver colonizzato le “lande selvagge”, le steppe del mar Nero, e si annesse la Crimea. Territori che ribattezzò Nuova Russia perché erano russi prima di diventare cosacchi, con l’apporto di servi russi in fuga e altri sbandati.  

Europa all’ombra delle banche ombra

Si chiamano “banche ombra” e l’“Economist” le ha così consacrate nel numero del 10 maggio, ma in realtà sono banche senza i doveri delle banche. Sono finanziarie di varia natura e specializzazione, che però fanno tutto quello che fanno le banche, e molto di più, ma senza dover sottostare alla vigilanza cui sono sottoposte le banche, per il fatto che non raccolgono il risparmio – in realtà lo raccolgono, purché in grande quantità.
Sono fondi d’investimento, hedge fund, fondi monetari, operatori di Borsa, veicoli di bond, venture capital e di derivati, le carte di pagamento mobili, postali, aziendali.. La tipologia è già nutrita, e continuamente si reinventa. Il presidente della Banca d’Inghilterra, Carney, definisce il fenomeno “la più grande minaccia alla stabilità finanziaria mondiale”, per l’attività aggressiva svolta nei paesi emergenti. L’“Economist” le assolve, ricordando che la crisi del 2006-2007 fu opera delle banche vere e proprie, che vendevano il credito come titolo d’investimento. La funzione maggiore delle banche ombra è però il finanziamento a lungo termine, che è quello che consolida le economie: a caro prezzo ma senza alternative, poiché le banche non sanno non essere prudenti.
Più della tipologia è nutrito l’attivo: è superiore al pil delle grandi aree in cui le banche ombra operano, Usa e Ue. E anche in Europa si avvia a superare, sul modello Usa, quello delle banche vere e proprie. La Bundesbank ha calcolato a marzo che l’attivo delle banche ombra è cresciuto tra il 2007 e il 2013 dal 163 al 197 per cento del pil europeo, due volte il pil – mentre in Usa, pur contraendosi lievemente (dal 207 al 195 per cento) resta pur sempre il doppio del pil. Nello stesso periodo, l’attivo delle banche si è ridotto nell’eurozona dal 299 al 288 per cento del pil – mentre è cresciuto, di poco, negli Usa, per effetto dell’intervento pubblico salvabanche del 2007, dall’87 al 91 per cento del pil.
Il Financial Stability Board, l’agenzia di controllo dei mercati finanziari creata per prevenire altre bolle, definisce l’attività bancaria ombra come “credito di istituzioni non bancarie”. E lo valuta in un quarto del sistema finanziario globale. In rapidissima crescita: gli attivi delle banche ombra, che l’Fsb valutava in 71 triliardi di dollari all’inizio del 2013, erano cresciuti in dieci anni di 26 triliardi. In Cina, dove sono una novità crescono del 40 per cento l’anno.   

Vita da pensionato, alla Montaigne

All’improvviso è l’ora di Montaigne, di cui si ripubblicano anche i “Saggi” di Fausta Garavini “riveduti e corretti” - con l’originale fanno un libro di 2.500 pagine. Un doppio, uno specchio, un compagno, mai impositivo. Uno che non dà una filosofia, nemmeno scettica. È non dà soluzioni. La chiave del buon ricordo è questa, che non dà soluzioni? Ma uno che aiuta a “scriversi”, a conoscersi.
Il miracolo è doppio, essendo il personaggio invece uno che ha tutto per essere antipatico. Pre-pensionato, anzi pensionato baby, coltivatore incapace, padre di famiglia assente – eccetto che per la “figlia eletta” Marie de Gournay una giovane corrispondente alla sua tarda età. Da tutti i punti di vista un egotista. Anzi un cialtrone: uno che vive di rendita, dissipandola. Con appossimazioni. Quella per esempio, I, 25, di associare i turchi agli spartani in quanto negatori della cultura, e di tenerli per questo in gran rispetto – cosa non vera, e comunque, se lo fosse, ingiustificabile. Tutta roba che la biografa, competente archivista, non manca di sottolineare un po’ in tutti i venti capitoli, in ognuno di quelli che chiama inviti o tentativi di dare una risposta al quesito montaigniano “come vivere?”.
Titolo originale “How to live. Or A Life of Montaigne, in one question and twenty attempts at an answer”, questa “arte di vivere” è un esercizio in biografia, attraverso la rilettura dei “Saggi”. Una biografia un po’ acida. Prolissa a volte, ripetitiva, per indirizzarsi pedagogicamente a un grande pubblico. E, forse,  per voler essere equanime, cosa di cui Montaigne non ha bisogno. Con qualche faglia. Pietro, il padre, rappresenta dapprima soldato di ventura al seguito dei predatori francesi in Italia, e poi commerciante di dubbia moralità. Mentre fu padre sempre attento ai figli, quello che volle il piccolo Michel educato in latino, e alla moglie. Cui lasciò nel testamento il patrimonio e la gestione, fatto allora inconsulto. Lo stesso per varie idiosincrasie di Montaigne, di cui Montaigne era conscio, senza nello stesso tempo dare loro eccessivo peso. Ma è l’opera che ha contribuito per prima e con più sostanza al revival. E un saggio di grande cultura in tutti i contesti, oltre che di rianimazione degli archivi, con piglio narrativo.
Coi “Saggi” e tutto, Montagne fu del resto uno come tutti: non sapendo (volendo, potendo) più dedicarsi agli affari, evita il rischio che il suo maestro Seneca aveva individuato, di cadere in quella condizione che oggi si dice depressione, scrivendo le sue paturnie, anche le deprimenti. Iniziò così i “Saggi”, e li raddoppiò e triplicò a ogni rilettura, invece di “tagliarli”, come gli avrebbe imposto il moderno editor, semplificarli. La sua prima idea era di un commonplace book, una sorta di zibaldone, di chiose, glosse, appunti, promemoria, ma presto si esemplò su Plutarco, sugli opuscoli, tutti a tema. La saggezza viene assaggiandola.
Sarah Bakewell, Montaigne, l’arte di vivere, Fazi, pp.443 € 19

giovedì 26 giugno 2014

La Kerneuropa sia italiana

La vera agenda europea dopo il voto del 25 maggio, dietro le nomine e l’allentamento dell’austerità economica,  è la Kerneuropa. Un concetto ormai vecchio di venti anni, enunciato peraltro, nel 1994, da due politici tedeschi, due cristiano-democratici, Wolfgang Schaüble, ministro delle Finanze dei gabinetti Merkel, e Karl Lamers. Ma di interesse precipuo dell’Italia: il nocciolo dell’Europa, attorno all’euro, dev’essere politico. E la politica che l’Europa necessita è federale. L’Italia deve lavorare a più federalismo e meno “assi”, tutti inevitabilmente a preponderanza tedesca, meno “lasciamo le cose come stanno”.
La Kerneuropa è anche nelle corde della scelta europeista del Vaticano. E del neo guelfismo europeo, innovatore, coraggioso, che Renzi dovrebbe interpretare. Se non si lascia travolgere dalla retorica etnica su cui è ripiegato nelle ultime settimane, i fiorini, i Medici, le repubbliche e i pricipati. E la strada, volendolo, sarebbe spianata dal connubio Merkel-Draghi: un presidente della banca centrale europea scelto dalla cancelliera come un “utile idiota” che ha invece rovesciato i rapporti di forza con la Bundesbank e Berlino. Nell’interesse, naturalmente, anche di Berlino.
Schaüble ha riproposto sul “Financial Times” tre mesi fa, il 27 marzo, insieme col cancelliere dello Scacchiere britannico Osborne, il suo vecchio programma. Con una lista dei benefici che Londra trarrebbe stando dichiaratamente, senza ambiguità, nel secondo livello europeo. La strada è dunque aperta per un regime sempre più federativo, che non si priverebbe del supporto della City, il maggiore mercato finanziario del mondo.
Il passaggio a una struttura politica e istituzionale di tipo federativo è l’unico mezzo per l’Italia di uscire dal nanismo politico a Bruxelles e in ogni istanza europea. Minoritaria. Inconsistente. Per un motivo o per l’altro sempre in quarantena. 

Voglia di harakiri

Se Renzi voleva rifare Ballarò, non bastava la Serracchiani, che se ne intende?
Non faceva un bel vedere Matteo Renzi, e quel che è peggio forse non se n’è nemmeno accorto, nell’incontro in diretta con Di Maio. Già un incontro in diretta, una sfida. Poi con un sottoposto di Grillo: il presidente del consiglio, presidente pro tempore dell’Unione Europea, che tratta con un giovanottino senza nessuna credenziale. Il quale peraltro è stato mandato perché è “uno che si presenta bene”, lo stile Ballarò, ma migliore attore di Renzi, che è sembrato la caricatura del toscano facondo.
Forse Renzi non se ne vuol perdere una? È lo stesso virus della facondia.  
Un errore, o un segno caratteriale? Quel che è certo è che Renzi è sceso di molti gradini nell’attendibilità. Anche perché è, era, ancora da dimostrare che Grillo questa volta farà sul serio. E ha messo a rischio l’unica riforma istituzionale che aveva sicura, quella elettorale.

Il liberalismo è poesia

L’ultimo Gobetti by Gobetti è questo, la raccolta e rielaborazione di saggi della sua rivista dallo stesso titolo negli anni 1924-25, sottotitolo “Saggio sulla lotta politica in Italia”. A cura e con un lungo profilo d Paolo Spriano, storico e “intellettuale organico” del Pci. L’edizione è l’avocazione del liberalismo da parte di Togliatti nel 1963 (l’anno di pubblicazione è il 1964), in concorrenza col centro-sinistra di Nenni – ma Togliatti aveva adocchiato il conterraneo Gobetti fin dal ritorno da Mosca nel 1944: “Era stato anche lui, volere o no, alla nostra scuola”, negli anni 1918-1922.
Brillante sempre, spesso acuto. Contro la filosofia tedesca: “Se la filosofia è storia, perché la filosofia?”. “La nostra riforma fu Machiavelli”. “Un’indagine dei motivi psicologici dominanti nella storia italiana potrebbe trovare inaspettatamente il riserbo accanto alla retorica”. E “il movimento democratico” che può diventare “arma dei conservatori” – del fascismo, avrebbe dovuto dire. “Cavour, il Cattaneo della diplomazia, che seppe evitare l’isterilirsi della rivoluzione in una tirannide”. Trovando, senza ironia giustamente, “la più grave deficienza del liberalismo italiano nella lunga mancanza di un partito francamente conservatore” – tutti radicali, quelli del “non so che voglio”, avrebbe detto Croce, liberale con più sostanza, “ma lo voglio subito”.
Con squarci avventurosi. La “retorica del tiranno romantico” a proposito di Mussolini. L’unità ideale della filosofia romantica e dell’economia moderna. La “mediocrazia”. “L’esempio inglese e americano insegnano che solo con un proletariato agguerrito e cosciente è possibile una serie politica espansionista”. “La lotta di classe è stata l’experimentum crucis della pratica liberale; solo attraverso la lotta d classe il liberalismo può dimostrare la sua ricchezza”.
E qualche baggianata. Lutero è compassionevole e solidale. Compassionevole come il taylorismo: “Lutero ha qualche diritto di precursore di fronte all’umiltà moderna del taylorismo”. Il cattolicesimo anarchico. Contro Mussolini (la malattia morale, etc.), l’“Elogio della ghigliottina”. E la più infettiva di tutte: la democrazia debole in Italia per la mancata Riforma. La brillantezza va a scapito anche della coerenza, della politica.
“Poesia” era l’aria che si respirava in “Rivoluzione liberale”, disse Carlo Levi, e così è.
Piero Gobetti, La rivoluzione liberale”

mercoledì 25 giugno 2014

Liberare l’Italia, abolire le Autorità

Una capacità installata pari a due volte e mezzo la domanda: un investimento pazzesco. Tanto più se avviene nel mercato dell’elettricità, controllato da un’apposita Agenzia. Peggio ancora se un tale sfacelo industriale lo pagano i consumatori, con tariffe gonfiate: i singoli e le industrie.
Renzi non contempla le Autorità di settore nella riforma della Pubblica Amministrazione, e questo è un grosso danno. Le Autorità sono il veicolo massimo, e anzi il Lord Protettore, della corruzione, con gravi danni per i consumi essenziali, i costi dell’industria, e la qualità dei servizi.
Il caso abnorme delle centrali elettriche in sovrappiù, con tutti gli oneri economici e di inquinamento che impongono, non è il solo. È tutto il mercato “made in Italy” sregolato, sotto forma di regolazione, e iugulatorio. In tutti i mercati liberi le tariffe sono più che raddoppiate, e mai diminuite. Con una caccia all’utente esasperata, in tutti i luoghi e i momenti della giornata, senza alcun vincolo di privacy. E una serie di fatturazione sempre fasulle – a consumi “calcolati”.
Un “mercato” prepotente appunto perché forte della acquiescenza delle costosissime Autorità pubbliche preposte al suo controllo. E del predominio, proprietario e ideologico, dell’opinione. Tanto da sbracarsi negli eccessi, che non camuffa nemmeno.
Troppi sono ormai i casi – in cui la “non privata” Acea romana si distingue – di fatturazioni a conguaglio, per migliaia di euro, a distanza di tre e quattro anni (sperando che l’utente non abbia conservato le bollette). Ci sono sovrapposizioni industriali enormi anche nel campo della telefonia, grazie a tariffe compiacenti. Ce ne sono perfino per le trasmissioni tv. 

Fisco, appalti, abusi (53)

Tocca ai Beni Culturali la palma della corruzione diffusa. In tutti  i luoghi che capita di dover frequentare,  Roma, la Versilia, la Calabria, non se ne possono non notare gli sprechi. Edifici storici restaurati in Toscana per essere abbandonati a nessun uso e senza sorveglianza (tutti mancano dei discendenti di rame, qualcuno delle serramenta). Musei rifatti due volte a Roma in cinque anni e mai aperti (tre nel solo Monteverde: Garibaldino, di villa Pamphili, della Matematica), il palazzo Incontro, etc. La biblioteca civica in paese che si rifà per la terza volta in dieci anni senza essere stata mai aperta – anche perché non ha libri né bibliotecario.

La corruzione dei Beni Culturali è quella degli ingegneri e architetti. È una prassi inaugurata a Roma, dal sindaco Rutelli, nella spesa dei quattromila miliardi di lire – poi ridotti a due – per il Giubileo. Che fu spezzettata in duemila appalti, di un miliardo in media l’uno, a beneficio di architetti e ingegneri, in qualità di consulenti e\o titolari di imprese ad hoc. Spesso composte da uno o due immigrati. Tutti impegnati al restauro e alla conservazione. Di cui niente è rimasto. .

Si apra il sito di Borsa Italiana, Forex vi invita a investire 40 mila euro con soli 100 euro. “Scopri la leva finanziaria è l’invito”. Forse pubblicità, forse no. L’avviso: “Training su Forex| CFDs con Leva finanizria
Comporta considerevoli rischi”, è meno del nero che lista i pacchetti di sigarette.

Il sindaco di Roma Marino ha cambiato i comandanti dei vigili urbani, e la cosa si è risolta in una revisione dei permessi per i tavolini all’aperto: non più il rinnovo ma una riperimetrazione. I vigili volentieri si sono mobilitati per la riperimetrazione e il rinnovo dei permessi. Ma non per tutti. Alcuni esercenti – non molti – hanno avuto i  vigili più volte, ma il permesso non è stato rinnovato.

I gestori implicati ritengono di sapere cosa manca in realtà, ma non vogliono cedere. Anche se hanno già perduto due mesi di attività. Solo, sono ora un po’ più scoraggiati: segnalazioni di questi ritardi al gabinetto del sindaco non hanno sortito alcun effetto. A meno che la posta non venga smistata al sindaco dai vigili urbani.
Il fenomeno interessa i gruppi I e II dei vigili, Centro e Parioli.

Il Comune di Roma, padrone di almeno 30 mila locali, uffici, appartamenti, palazzi, da cui ricava, con difficoltà, 8 milioni di canoni, ne paga 180-200 ogni anno per gli uffici comunali e delle municipalizzate.

Lo Stato, gli enti pubblici, e le amministrazioni locali (Regioni, Province, Comuni) spendono ogni anno per affitti circa 14 miliardi. La cifra, su cui il rapporto Cottarelli sulla spending review insiste poco, è calcolata per difetto: la massa dei contratti è talmente enorme e variegata che è impossibile quantificarne il valore.

In particolare a Roma, lo Stato e il Comune sono padroni di alcune migliaia di ettari, e di alcuni miliardi di metri cubi, di terreni e edifici ex demaniali, in zone anche centrali, come il Testaccio e Prati, che non utilizzano. 

Lo Stato imprenditore

L’economia prospera con l’innovazione, e l’innovazione è opera dello Stato, più che di ogni altro. La potenza e la ricchezza degli Stati Uniti si fondano sull’innovazione, e l’innovazione è voluta e pagata dalla Stato federale, sia esso a gestione democratica o repubblicana, anche ai tempi di Reagan. In tutti i campi di preminenza: l’informazione, la biotecnologia, l’energia nucleare, le nanotecnologie. Mazzuccato cita cinque agenzie federali: la Darpa, Defense Advanced Research Projects Agency,  il National Institute of Health,  con una dotazione che, grazie ai successi, oggi ammonta a 32 miliardi di dollari, lo Small Business Innovation Research, voluto da Reagan, che ha distribuito due miliardi di contributi e incentivi (a Symantec e Qualcomm tra gli altri), l’Orphan Drug Act, per la cura delle malattie rare, anch’esso voluto da Reagan, e la National Nanotechnology iniziative.
La Darpa lavora con 240 impiegati in tutto, di cui 140 esperti, e non fa ricerca, ma promuove, valuta e finanzia le ricerche, con una dotazione di tre miliardi, e risultati ovunque sempre eccezionali, da internet alle microfibre. Una pioggia benefica per gli Usa. Al punto che la questione etica si pone, della ricerca pubblica con profitti privati. Tanto più che molte aziende beneficiarie, la Apple è famosa per questo, si sottraggono poi alle imposte. traendo vantaggio da ogni possibile esterovestizione di comodo.
Torna lo Stato imprenditore? È il titolo originario. In Italia lo diciamo innovatore perché l’editore, vice-presidente della Confindustria, fa anche lui finta che quello imprenditore era corrotto. Ma è la stessa cosa. Forse per un movimento di pendolo: troppo Stato?  vogliamo il mercato, troppo mercato? vogliamo lo Stato. Ma la studiosa italo-americana dice un’altra cosa – più in linea in effetti col titolo italiano: l’economia progredisce con l’innovazione, e l’innovazione è, più o meno, di Stato. Pagata dallo Stato, direttamente o attraverso le finanze pubbliche, fondazioni e centri di ricerca esentasse, programmi settoriali internazionali (europei, transatlantici), programmi comunitari. E più volte che non anche progettata e patrocinata. È l’uovo di Colombo. Difatti, nessuno ha osato controbattere.
L’innovazione non crea direttamente, né univocamente o prevedibilmente, ricchezza: lavoro, reddito, salari, salari elevati. Ma la ricchezza non può fare senza. Gli Usa, il paese liberista per eccellenza, hanno più Stato nell’economia che ogni altro paese europeo. Una presenza diretta, secondo i dati Ocse: vi si fa ricerca con investimenti e partecipazioni dirette, più che con gli incentivi fiscali, con i quali la Ue camuffa gli aiuti pubblici all’industria. Internet è stato sviluppato dal ministero Usa della Difesa. La Silicon Valley è nata con contratti militari. C’è lo Stato dietro l’algoritmo google. Tutti i prodotti innovativi Apple, iPod, iPhone e iPad, si basano su ricerche di scienziati e ingegneri europei e americani in centri di ricerca pubblici, specificamente la tecnologia touch-screen. Solo il disegno e l’uso commerciale, nota Mazzuccato, sono dovuti a Steve Jobs. Sui semiconduttori, tecnologia in cui il Giappone aveva la leadership, gli Usa hanno riconquistato le posizioni, con Intel, Microsoft e Apple, grazia e ricerche e fondi federali. Molta green economy si è sviluppata con fondi federali.
Un libro controcorrente? Un libro onesto. Negli Usa, patria del mercato, è tollerato: la verità si può almeno dire.
Mariana Mazzuccato, Lo Stato innovatore, Laterza, pp. XXVI + 351 € 18

martedì 24 giugno 2014

Non c’è più lo spazio delle riforme

Si fanno oggi riforme su riforme, si annunciano perlomeno anche se poi non si fanno, mentre lo spazio delle riforme è esaurito, o così sembra. La riforma è un progetto politico, e non si può escludere un politico di genio che abbia un’illuminazione imprevista. Ma sociologicamente si individua e si prepara analizzando criticamente la realtà, quando essa mostra crepe e insufficienze. Oggi è come se la globalizzazione avesse chiuso o esaurito ogni spazio di riforma. In Italia come in Cina.
Si prenda il mercato del lavoro. Ovunque in Europa (di più nell’Europa più ricca, occidentale) va nella duplice direzione di una domanda iperqualificata che non trova offerta, e di un’offerta non qualificata che non trova domanda. Da cui il doppio sovraccarico di disoccupazione e di immigrazione in eccesso e clandestina – una doppia negatività, che si somma invece di elidersi, che curiosamente colpisce da qualche tempo anche la Cina, regina della globalizzazione. O si prenda la produttività. Che necessita investimenti. Mentre i capitali sono dirottati, per la rendita materie prime o la rendita lavoro (sottopagato, ipersfruttato) all’esterno dei sistemi produttivi nazionali e dell’Europa.
È questo il nodo dell’Europa e dell’Italia: conquistarsi spazi di riforma. È anche la via per sfuggire alla jugulazione germanica attraverso il compact fiscale: trovarsi uno spazio di riforma nel più ampio mercato globale – ogni ipotesi è possibile: una burocrazia che facilita gli investimenti invece di scoraggiarli, la defiscalizzazione degli investimenti, la riqualificazione professionale dei tanti laureati in scienza delle comunicazioni o discipline umanistiche. La Germania, come si sa, si è liberata della jugulazione globale attraverso la “riforma” radicale del lavoro – che può essere anche superpagato in alcune aziende, in proporzione ai benefici, ma non ha più nessuna garanzia contrattuale. 

Se Napolitano difende Bruti Liberati per Ruby

Si sveglia il presidente Napolitano dal sonno novennale nella sua carica di presidente del Csm per intimare al Consiglio di non sanzionare il Procuratore Capo di Milano, Bruti Liberati, nella lite col vice Robledo. La lite verte principalmente sull’avocazione da parte di Bruti Liberati dell’inchiesta su Berlusconi per l’affare Ruby. Napolitano protegge Bruti Liberati per quest’avocazione. Il che, sillogisticamente, porta a Napolitano persecutore di Berlusconi.
La cosa non si dice, ma si sa. E oggi più sinistramente s’illumina del goffo no dello stesso Napolitano alla riforma della P.A. Un no che si sa essere stato argomentato e pronunciato da Donato Marra, segretario generale del Quirinale, che ha 74 o 75 anni e non vuole andare in pensione. La riforma prevede infatti la pensione dei giudici a 65 anni, come tutti, e questo non piace ai giudici – Marra è un giudice. La riforma prevede anche che i giudici non possano avere doppi e tripli incarichi, peraltro in conflitto d’interesse, nella P.A. e nella giustizia, e anche questo non piace ai giudici e a Marra.
Dunque, si può riformare la P. A. ma non i giudici, sua eccellenza non vuole – forse nel 2016, quando lui non ci sarà più (e un’altra legge sarà fatta, non c’è dubbio). Così una presidenza che si poteva finalmente ritenere avulsa da cordate e ricatti precipita nel discredito. Si dice: bisogna andare cauti, i giudici scioperano. E allora? C’è il diritto di sciopero, l’hanno già fatto. Cossiga non li ha puniti, e loro si sono vendicati – sono venticinque anni che si vendicano. E anche fuori del diritto, non si può argomentare con i giudici, solo obbedire? I giudici sono l’unica casta privilegiata, di tipo fascista, a settant’anni dalla caduta del fascismo, con gli ermellini, le eccellenze, e l’attendente (la guardia del corpo), e non si vede perché.
Per non dire delle illegalità. Napolitano forse non lo sa, ma col suo “invito” al Csm ha sancito che privare un cittadino del suo giudice naturale non è più un reato. Di questa Costituzione intoccabile è stato forse abolito l’art. 25, comma 1, che assicura: “ Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”?
Non è la sola anomalia del caso Ruby. Il caso è nato dal fermo della ragazza su denuncia di una sua amica, e dall’intervento di Berlusconi in questura per farla rilasciare. Era l’amica di Ruby una confidente della Polizia? Sì. Era, è, Ruby una confidente della Polizia? Sì. “Repubblica” ha una foto giovedì di Ruby in primo piano e della sua giudice che la osserva sullo sfondo, fresca per loccasione di parrucchiere e visagiste, che guarda la ragazza col sorriso atteggiato di chi va allo zoo, e il lettore si smarrisce come in una giungla, sia pure a quatre épingles.

Sotto lo stupore niente

Il presepe ha il Guardincielo, che fa la bocca a O, pastore dello Stupore. Patrizia Cavalli (“Datura”, p. 108) si chiede: “Possibile\ che solo a noi sia dato lo stupore?” Jeanne Hersch aveva già concluso, qui alla prima pagina: “Stupirsi, è proprio dell’uomo”, lo stupore adottando come innesco della conoscenza (il titolo originale è “L’étonnement philosophique”).
Vico non sarebbe stato d’accordo, che voleva gli uomini “bestioni tutto stupore e ferocia”. Ma è indubbio: la filosofia nasce con esso, lo stupore è ciò che ha portato gli antichi greci a porsi “le loro strane domande”. A cominciare da Talete e la scuola di Mileto. Che posero la questione: che cosa persiste attraverso il cambiamento? La sostanza. E cos’è la sostanza? Tema che Platone riprende, “Teeteto”, Aristotele, “Metafisica”, Plotino più di tutti, “Enneadi”. Ma a mano a mano, bisogna pure dire, lo stupore scema, la scoperta: le ultime domande, se non le risposte, sono sempre la prima.
Le ultime risposte, per quanto sofisticate, variano peraltro poco: il nominalismo, vedo il cavallo ma non la cavallinità, il realismo, la soggettività, da Descartes a Nietzsche, inclusa l’impossibilità del Cristo o della fede (Kerkegaard), e l’irriducibilità dell’essere (Begson), l’inconscio, la rimozione (Freud), la trascendenza, la temporalità – l’opera è del 1981, Jeanne Hersch si ferma a Heidegger e Jaspers. E non più risolutive che l’aria, l’acqua,  fuoco e l’infinito dei milesi, nemmeno tanto nuove. La capacità di stupire della filosofia è limitata? Specie nel mainstream, da Kant in qua, della filosofia sistematica, assertiva. “Che cos’è l’essere”, direbbe ancora Hume, o la scuola di Mileto.  La ricerca dell’“essere dell’esistente” è piena Mileto.
Curiosa opera, che in una prospettiva evolutiva, una storia della filosofia dal punto di vista della novità, della scoperta, finisce per metterla in surplace da 2.500 anni. L’esito è quello di Kant: il soggetto non può aggiungere nulla all’essere. Hegel, che pensava di aver quadrato il cerchio, col pensiero totalizzante in grado di fissare la verità, riduce il razionale al reale – neppure consolatorio. La libertà dell’etica (del pensiero) e la necessità della geometria vanno in simbiosi, direbbe Spinoza: la libertà è necessità, la necessità è libertà – promettente, ma Spinoza a 45 anni morì. Il resto è religione (il mondo creato), col problema insoluto del male, oppure vanità, nichilismo (materialismo), con la fine della filosofia. Siamo sempre al paradosso di Zenone: il moto e il mutamento dominano la nostra esperienza della realtà, ma noi siamo incapaci di pensarli.
Opera arguta, forse involontariamente. Montale, cronista maligno, che ha incontrato Jeanne Hersch nel 1949 a un convegno ginevrino delle Rencontres Internationales di cultura, la ricorda così nel quinto di una serie di servizi che scrisse sul”Corriere della sera” il 16 settembre (ora in “Ventidue prose elvetiche”, p. 88), dopo aver introdotto Karl Jaspers, l’oratore della seduta, un uomo altissimo, dai capelli bianchi un po’ a zazzera e dagli occhi chiari metallici e severi, che “parla in tedesco, un tedesco così scandito e aristocratico che tutti (anch’io) hanno l’illusione di capirlo”: “Lo accompagna la sua interprete, Jeanne Hersch, che registra ogni sua parola: una donna piccola, bruna, scuretta di pelle, coi capelli accercinati attorno alla testa, che passa per essere la più fedele depositaria del suo pensiero” – con un sussulto in fine: “Quando però la Hersch traduce il verbo del maestro, non dirò che le cose s’intorbidino, ma certo si fanno chiare fino all’evanescenza”. Una filosofa che di preferenza ha lavorato “sul terreno”, dei diritti civili all’Onu, la cui opera principale s’intitola “L’illusione della filosofia” – Abbagnano, che “L’illusione della filosofia” curò nel 1942, a guerra ancora vinta, lo sapeva già: “Certo, l’essere non può più costituire l’oggetto della filosofia, se questa ha perduto la sua ingenuità primitiva”.
Jeanne Hersch, Storia della filosofia come stupore

lunedì 23 giugno 2014

Secondi pensieri - 179

zeulig

Diaspora – È un senso di appartenenza e di mancanza. È un fatto storico, di persistenza di fattori religiosi, culturali, cultuali, etnici, familiari, psicologici, anche linguistici, più che idi una condizione sociale o materiale. Ma è sempre una scelta.
Non è l’emigrazione in sé, ma un modo di affrontarla, e il confronto con l’emigrazione pura e semplice aiuta a definirla. L’emigrato, pur non rifiutando le origini, mira a integrarsi nel paese di elezione, più o meno volontaria, di destinazione. Se ne fa anche un motivo di orgoglio. Questo procedimento, che è stato chiamato dell’assimilazione, è prevalente – è all’origine dell’incontro delle culture, il meticciato di Senghor, il meccanismo attraverso cui cristallizza e “avanza” la civiltà. Ed è anche ragionevole e giusto, posto che l’emigrazione, sia pure pacifica, riconoscente,  servile,  è comunque un’invasione di campo. La prevalenza accordata alle radici, fino al rifiuto della residenza, variamente espresso oppure riservato, è anch’essa ragionevole, e giusta. Ma non nel senso di un pacifico sviluppo quanto di una rivalsa.

Ironia – È critica e scettica. Contrasta con la certezza, della prima età, la prima scoperta del mondo, che è densa e si vorrebbe di verità (unica) e autenticità. I cui approfondimenti successivi porteranno a un distanziamento. Nella forma della critica del reale – ovvero la sua costruzione. Dell’ermeneutica. Dell’ironia, o scetticismo.
È anche una forma di socievolezza, per il sottinteso umorismo, di condivisione del sottinteso codice, oltre che di conoscenza. Come una serie di cerchi concentrici sull’acqua attorno a un punto, che vanno via e si dissolvono per l’impeto impreso dal corpo centrale, ma senza dissolversi. Con increspature più o meno lievi – sempre lievi.

Memoria – Si ricorda a lungo, anche in dettaglio, una lettura noiosa, per esempio il Proust della “Ricerca”. Mentre si dimentica tutto di una lettura che pur si ricorda saporita, e avida. Tipo Soldati, o anche Scerbanenco. Capita di rileggere di quest’ultimo “Dove il sole non sorge mai”, dopo non più di dieci anni, come se fosse la prima volta, in tutto, senza memoria di nulla, nomi, personaggi, città, che pure sono stati e sono familiari e riconoscibili, individualizzabili. Dunque, la memoria va scolpita, e sempre rinfrescata. Ma, allora, a maggior ragione più di tutto dovrebbe venire scolpita la memoria remota. In età non alzheimer: quella dell’infanzia. Che è invece la più privilegiata. Per il motivo che la psicoanalisi ne ha fatto il centro del suo business?

Morte – “Voglio che la morte mi sorprenda mentre sono nell’orto a piantare i cavoli”. È difficile immaginare il signor de Eyquem a piantare cavoli, però modernamente sì, il giardinaggio è un passatempo per gentlemen, Montaigne è credibile. Modernamente, invece, Montaigne sembra cinico. In quest’epoca che pure è salutista e pacifica, non più assediata dalle pesti e le guerre come all’epoca: il pensiero (rifiuto) della morte incombe più che mai, deprime su vasto raggio, si può dire a strascico. Forse perché non ci sono più gli orti? E comunque non più cavoli? I cicli della natura. 

Natura – Non è ecologica? Sembra – è – scomparsa in questa era ecocompatibile. Non tanto nella flora e nella fauna, accudite come non mai, ma nel rapporto umano. L’ecologia è applicazione asettica anestetizzante.

Psicologia – Un scienza svanita, appena concepita? Quella del profondo messa in crisi dalla psicoanalisi. Quella prenatale dalla riproduzione in vitro. Quella dell’infanzia dal marketing, la commercializzazione.

Riproduzione – La funzione genetica si è ridotta alla riproduzione. Da creativa a riproduttiva. Si era ritenuto che i tratti somatici e del carattere si trasmettessero col seme, e si ritiene tuttora, per una scelta (d’amore, ma non importa), ma ora il seme è indifferente. Anche l’utero – l’humus di coltivazione, il sistema ecologico  – è indifferente. Solo il meccanismo della riproduzione è calcolato: considerato, protetto.

Suicidio È voglia di non lasciarsi fare? Il suicidio è atto assertivo, che si pone a contrasto dell’unico evento comune a tutti gli uomini, la morte, la quale si vuole incerta. Il suicida vorrebbe schivare questa ineluttabilità, rendendola volontaria. Ma la fa doppiamente volontaria: è la famosa servitù volontaria. Né è detto che ci riesca. Il moralista Chamfort, il trovatello divenuto l’“Ercole in forma di Adone” delle nobildame della Reggenza, nonché della corte di Luigi XVI, poi giacobino, quando temette di restare vittima del Terrore si sparò in testa ma si staccò solo il naso e mezza mascella, si tagliò il collo ma non trovò l’aorta, si squarciò il petto ma non trovò il cuore, e quando si recise le vene dei polsi il cameriere lo soccorse, per cui visse altri sette mesi agli arresti domiciliari, con l’onere di pagare la diaria al gendarme. La vita si gioca a rimpiattino con la morte, finché riesce - anche la nascita è evento comune a tutti gli esseri, che altrimenti non sarebbero, e indipendente, così come la morte, dalla volontà del soggetto.
È voglia di eccezione? Comune, giusta, il proprio dell’uomo d’eccellenza, dell’uomo. La morte ugualizzando tutti, il suicidio si prospetta quale marchio di differenza. Ma ha l’effetto di anticipare l’immota uguaglianza: la morte può fare di ognuno un eletto, nelle opere, nel ricordo, mentre il suicidio cristallizza in sé, soverchiando ogni altra sfumatura. Ciò è vero anche in senso metaforico: nessun suicida ha mai cambiato nulla, non l’equivalente del battito di ciglia a Manhattan, del volo di farfalla a Singapore. I letterati suoi simili, gli intellettuali dell’epoca, Chamfort diceva “simili agli asini che scalciano o s’azzuffano davanti a una mangiatoia vuota”. Il suicida rende ineluttabile una morte che, in teoria, potrebbe non venire, per longevità, resurrezione, il modulo più frequente tra le forme di vita, oblio.

“Dove sono cresciuto io”, è uno dei motti celebri di Woody Allen, “a Brooklyn, nessuno si suicidava. Erano tutti troppo infelici”.

Umori –  La diffusione della depressione in tempi di ricchezza senza precedenti (agiatezza, servizi, sicurezza, innovazione) riporterà la medicina alla teoria di Ippocrate degli umori? Oggi più che mai l’assunto basico della sua teoria si conferma, che la salute è una combinazione di elementi e fattori fisici, ma anche di umori e carattere, la somatizzazione è un fatto.
Anche i fattori della “teoria umorale” di Ippocrate si confermano, con qualche sofisticheria in più. I fattori umorali correlati ai quattro elementi, aria, acqua, fuoco e terra: rispettivamente sangue, flegma, bile gialla, bile nera. O del temperamento flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Il carattere, la tipologia fisica e fisiologica, e conseguentemente la salute, o l’equilibrio psico-fisico, sono diversi per ognuno e correlati, più che alle condizioni esteriori, agli “umori”.

zeulig@antiit.eu

Essere Montaigne, al mare

Successo alla radio, 39 mezzogiorni d’estate su France Inter, per un pubblico, si pensava, di pensionati a casa refrattari all’ombrellone. Ma il successo si è duplicato col libro che riunisce le conversazioni: uscito in sordina a metà maggio l’anno scorso, ebbe un solo “passaggio” in tv, due mesi dopo a Télématin, che però bastò a venderne tra luglio e agosto 100 mila copie, secondo solo all’“Inferno” di Dan Brown e alle “Sfumature”. Un miracolo? Non senza motivo.
Compagnon evita il massimario – cui Montaigne peraltro non si presta, gli almanacchi alla Schopenhauer: Charron ci aveva provato subito, ma il “Traité de la sagesse” fu un fallimento. Lega Montaigne alla sua vita, al modo di vivere (la solitudine, la famiglia, il cavallo), ai retroscena necessari, e alla storia del tempo, in ognuno dei quaranta capitoletti tematici. Al modo di Montaigne o della casualità, dell’ordine disordinato. Ma il successo è indubbiamente di lui, di Montaigne, solo reso leggibile, in cento invece che in mille pagine. Uomo attivo, in tempi di guerre e di pesti, diplomatico, “per esempio, mediatore tra i cattolici e i protestanti, tra Enrico III di Valois ed Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV”, sindaco energico di Bordeaux in una pausa del buon ritiro nel castello di famiglia e della scrittura dei “Saggi”, l’opera della vita di Montaigne. Compagnon sa anche darne  con semplicità le chiavi dell’interesse costante che suscita nel lettore: “è uno scrittore”, “è un relativista”, è il cavaliere “in  equilibrio, in assetto precario”, è uno che non dispera e non si piange addosso, che ha e dà fiducia. La parola appartiene per metà a chi scrive e per metà a chi legge, si può dire parafrasandolo,  e nel suo caso l’equilibrio c’è e si rinnova.
È un moderato, senza essere un conservatore. E uno che sa ascoltare – fino a un certo punto. “Propone un’estetica”, come dice Compagnon, e un’arte di vivere nella bellezza (serenità d’animo). Nel gusto. Nel tempo sempre alla giusta cadenza – “quando danzo, danzo, quando dormo, dormo. E quando passeggio solo in un bel bosco, se i miei pensieri capita che si occupino di occorrenze estranee, io li riporto alla passeggiata”. Che sembra zen e lo è, senza l’applicazione dell’ascesi orientale, il maestro col bastone, e non per annullarsi ma per prendere possesso, della vita e di sé, nei limiti del possibile. Non presuntuoso, non ultimativo, non misogino, mai cattivo. Diretto: scrive breve come Cesare, nota Compagnon, con la “sprezzatura” che aveva trovato nel Castiglione, quello del “Libro del Cortegiano”. “Un antidoto contro la malinconia”, non, come lui stesso diceva ridendo, “una statua da collocare a un crocicchio”. O della perfezione dell’imperfezione.
Uno che vive solo e scrive solo, benché per un pubblico – dopo La Boétie, dai 25 ai 30 anni, non ebbe altri interlocutori. Che la solitudine rende amabile, attitudine non facile - non cedere all’amarezza. Per un equilibrio spontaneo oppure coltivato, non fa differenza. I “Saggi” si compongono per aggiunte, riletture, riscritture. Non come sistema filosofico e non per esercizio di saggezza – e come avrebbe potuto? Montaigne era scettico di proposito. Perciò curioso sempre: è questo il meccanismo. E tuttavia di giudizio certo (solido).
Il segreto della longevità di Montaigne è di aver dovuto cominciare a parlare in latino? Con istitutore tedesco inflessibile, su prescrizione del padre, legista altrettanto inflessibile; Cui il resto della casa doveva acconciarsi: “Mio padre, mia madre, i servitori e le fantesche in mia presenza dovevano usare soltanto quelle poche smozzicate parole latine che ciascuno di loro aveva imparato per comunicare con me”. Che sembra ridicolo, certamente non utilitaristico, ma è un progetto pedagogico degno di nota.
Antoine Compagnon, Un’estate con Montaigne, Adelphi, pp. 136 € 12 

Stupidario ordinario

“La Livorno-Civitavecchia rischia di diventare un’incompiuta. Esauriti i fondi. Verso lo stop ai lavori. Esultano gli ambientalisti e i capalbiesi: fine di un’orribile utopia”

“Bombe d’acqua a Roma. Indaga la Procura”.

Lunga intervista del tagliente Roncone a Franceschini su “Style”: personaggio chiave, decisivo, grande romanziere, di successo, fidanzata giovane. Da leggere, Franceschini se l’è messa online:

“L’Italia è il primo paese al mondo per visite dei bambini su siti di gioco d’azzardo (il 16 per cento degli accessi) e con carte di credito a pagamento (8 per cento)”. È secondo, dietro la Russia, per armi e “contenuti senza censura”, cioè pornografia, crudeltà, droghe. Bisogna rivedere l’Italiano brava gente. O l’attendibilità della ricerca: su che basi si dicono queste sciocchezze – il bambino con carta di credito? C’è da vendere un dispositivo internet di bloccaggio?

Perché in Italia si pubblica di tutto? Per il sorriso di una pr? Per stupidità? C’è un fee?

 “Le Grandi Opere che l’Italia non sa più costruire. Dalla Salerno-Reggio al Ponte sullo Stretto”, “Corriere della sera” 9 giugno: “Spesso indicata come l’emblema delle opere incompiute. L’autostrada A 3 Salerno – Reggio Calabria aprì il primo cantiere nel 1963. L’attuale rifacimento è iniziato nel 1997 e forse verrà finito entro 20 anni”. Mentre è vero il contrario: tutti  lavori appaltati sulla Salerno-Rc sono stati completati, più o meno nei tempi – se ci sono 395 “cantieri mai portati a termine” non è su questa arteria. Dal 1971 l’A 3 è percorribile per intero. L’ammodernamento è cominciato nel 2002.

Crollano gli investimenti esteri in Italia. In cinque anni, dal 2007 al 2013, il calo è stato drammatico: -58 per cento. A dirlo è il Censis, nel sesto numero del “Diario della transizione”: “Gli investimenti diretti esteri nel nostro Paese sono stati pari a 12,4 miliardi di euro nel 2013”. Cioè un ammontare enorme.

“I momenti peggiori dell’investimento estero in Italia”, si legge sempre nel rapporto del Censis, “sono stati il 2008, l’anno della fuga dei capitali, e il 2012, l’anno della crisi del debito pubblico”. Sì, ma negli altri paesi come va l’investimento, nazionale ed estero?

domenica 22 giugno 2014

Problemi di base - 187

spock

Supermario supersanto subito? la cresta ce l’ha già

Ma Balotelli che ha più di Pulici?

Ha segnato più gol, ne ha segnati di più belli?

Beckham è – era - lanciatore migliore di Pirlo?

E lo avrebbero costretto – Beckham – al tiki-taka, anche lui?

Perché Paletta è meglio di Bonucci?

E Thiago Motta?

E perché portare Bonucci fino in Brasile?

È arrivato prima don Matteo della Rai in bicicletta oppure padre Brown della Bbc? (Maigret)

spock@antiit.eu

Ombre - 225

Creste, tatuaggi, pettorali, scarpini bicolori, i capricci per il 9 e il 10 in Nazionale, le cuffie, twitter, e la capigliatura scolpita nel gel, anche al novantesimo. Il calciatore non si segnala più per l’atletismo, ma per fare personaggio: più gel più milioni. Da sponsor, pubblicità e club.

James Murdoch va, col suo ad in Italia Zappia, a trovare Renzi a Palazzo Chigi. Zappia è democrat professo. Ma i Murdoch sono conservatori professi, e anche reazionari. E  la visita è alla vigilia dell’assegnazione dei diritti tv sul calcio. Poi dice Berlusconi.

Ricevendo Sky alla vigilia della contesa assegnazione dei diritti tv sul calcio, Renzi vuole mostrare di avere le spalle larghe? D’Alema prima di lui, altrettanto franco, uscì di scena con la nomea di Finanziaria Palazzo Chigi.  Una battutaccia della malalingua Cossiga, ma inventata?

Il giudice Esposito non si presenta al Csm, al procedimento disciplinare. Manda un certificato medico. Lo manda con la figlia, che è anch’essa giudice. E col difensore Davigo, il giudice - missino - dei “pedalini”. Nobiltà delle toghe?

Il certificato medico del giudice Esposito è per tre giorni. Quelli dell’udienza al Csm.
Berlusconi non è simpatico, ma che dire dei suoi giudici?

Si fa la gara per i diritti Champions, tutto semplice, tutto limpido, Murdoch (Sky) perde, niente da ridire. Si fa la gara per i diritti della Serie A e Sky trucca le offerte, ogni squadra si vende (vende il suo voto), i giornalisti benpensanti intimano di non considerare Mediaset – Sky paga bene le collaborazioni.  L’Italia in effetti non se la passa bene.

“Quello del giornalista è un mestiere di poco futuro e scarsa moralità”, stabilisce Piero Ottone con Vittorio Zincone dall’alto dei suoi novant’anni. E su Montanelli: “Su di lui ne posso raccontare molto”. Coraggio. O aspetta i cento? E l’omertà, sarà morale?.

Ottone fa un’eccezione per Londra. A Londra il giornalismo è puro, dice. Un dubbio facendo insorgere: ma lui, c’è stato?

Si premiano i pubblici accusatori di Tortora a Napoli, un processo che fu la punta estrema della stupidità o abiezione che ingombra la giustizia. A opera di un sindaco “civico” del Pd.
Un processo che non ebbe mai un pentito. Uno vero, tra i tanti giudici che Tortora perseguitarono per partito preso, senza mai un indizio. 

Nei sette anni precedenti Napolitano è stato presidente del Csm in sonno. Non al modo massonico, evidentemente. A quello dei sapienti dell’antichità? Anche loro dormivano, in genere per multipli di sette.

All’ottavo Napolitano si scopre presidente del Csm e lo “invita”, autorevolmente, ad assolvere Bruti Liberati. A questo punto, Napolitano non potrà dire che non c’era.

Dunque, Bruti Liberati si sostituisce al giudice naturale di Berlusconi nell’affare Ruby – art. 25, comma 1 della Costituzione: “ Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”. Bruti Liberati è protetto da Napolitano. Napolitano si è sostituto al giudice naturale di Berlusconi. Oggi non si può dire, non è tollerato. Ma è la storia.

Per il Mondiale, alcuni giornalisti sono stati mandati all’estero, e hanno scoperto che l’Italia non è il paese di merda dei loro giornali. Non si potrebbe mandarli in gita fuori più spesso? Magari tagliando gli uffici di corrispondenza a Bruxelles e Berlino – tradurre Angela Merkel si può fare a Roma o Milano.

L’Europa al guinzaglio

Nell’incontro a Parigi il 21 marzo 2011, indetto dagli Usa con la Ue, la Lega Araba e l’Oua (Organizzazione per l’unità africana), tre “ruote di scorta” per l’attacco a Gheddafi, Sarkozy fregò tutti attaccando per primo all’insaputa degli altri. Sembrò un gesto glorioso d’indipendenza.  Che Hillary Clinton però, segretario di Stato (degli Esteri) Usa all’epoca, e futuro presidente, così ricorda nelle memorie “Scelte difficili”.
“Il segretario alla Difesa Gates era assolutamente contrario. Era un veterano dei conflitti in Iraq e in Afghanistan, e realista sui limiti del potere americano, dunque non riteneva che i nostri interessi in Libia giustificassero il sacrificio”. Non era solo: “Sapevamo tutti che le conseguenze di un intervento potevano rivelarsi imprevedibili…..
“Poi, prima ancora dell’inizio della riunione ufficiale, Sarkozy prese da parte me e il premier inglese, David Cameron, e ci confidò che gli aerei francesi erano già in volo verso la Libia.
“Quando scoprirono che la Francia era partita prima del via, gli altri Paesi (europei) si inalberarono… Berlusconi, caparbio e smanioso di protagonismo quanto Sarkozy, si mostrò particolarmente indignato….
“Sentendosi messo in ombra da Sarkozy, Berlusconi minacciò di abbandonare la coalizione e sbarrare l’accesso alle basi aeree italiane”. Una muta di barboncini dispettosi. Ed è tutto.
“Suscettibilità a parte”, concede H.Clinton in conclusione al (breve) episodio, “il disappunto italiano e di altri paesi era giustificato”.
Gli americani non sono teneri, si sa. Ma la volitiva Clinton sembra più che altro divertirsi: troppo facile, troppo stupidi. I prim’attori di una guerra.

I liberali al cimitero

Passato dallo zoo al cimitero, ma sempre nel cuore di tutti, il liberalismo è tanto più simpatico nel nome di Gobetti. Ma basta scorrerlo, scorrere Gobetti, per capire: molti buoni propositi e molta confusione. Fortemente attratto dalla personalità di Gramsci e dal movimento comunista torinese fin dal 1918, ben prima della scissione, attorno alla Fiat-Centro, cresciuta nella guerra a “piccolo Stato capitalista”, Gobetti non si decise personalmente al gran passo ma volle convertirvi il liberalismo. Un  destra-sinistra oggi indigesto - rileggere Gobetti oggi è come leggere Scalfari, contro ogni partito e contro ogni politica in realtà, per i “tecnici” illuminati e onesti, la “classe dirigente” di cui il giovane torinese vaticinava (non ridicolmente definita infine degli “apoti”, di “coloro che non la bevono”, né il fascismo né il sovietismo, in realtà degli apolitici).
Questa di Pietro Polito, lultimo confidente di Bobbio, è un’altra antologia della “Rivoluzione liberale”, con una mezza dozzina di articoli tratti da altre testate. Rispecchia quindi l’antologia che lo stesso Gobetti aveva estratto dalla rivista a marzo del 1924, ma la scelta e l’impianto cronologico ne mettono in evidenza, più che la brillantezza, le incongruenze. Un ritorno all’ordine in una prospettiva sempre palingenetica, terribilista.
Ai collaboratori della sua prima rivista, “Energie nove”, scrive il 30 novembre 1920: “La scissione del partito socialista è il cimento estremo. Riusciranno gli operai a resistere alla crisi? a cacciare i socialisti destri che sono il compromesso che tenta di negare le posizioni nette? Questo è il problema. I borghesi (accettiamo dal linguaggio socialista il termine) lavorano per scindere l’unità ideale degli operai. Non riusciranno. La loro opera è ad ogni modo il massimo delitto della nostra storia. Spezzare il movimento operaio oggi vale distruggere l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia” – ideale? religiosa? “Io non coltivo miti: non credo che la massa sia evoluta e cosciente: non vedo nei più neanche il preludio a una coltura politica che sia pratica politica. Pure questo è meno importante. Il fatto gigantesco è che il popolo (quello che era il fantasma di Mazzini) chiede il potere. Il popolo diventa lo Stato” – con Mussolini? “È venuta l’ora di affermare e dimostrare il valore nazionale del movimento operaio” – contro i socialisti?
Poche settimane, e il 20 febbraio Gobetti si inorgoglisce: ha “dimostrato”, dice, che la rivoluzione russa “è essenzialmente un’affermazione di liberalismo”. Sulla fede di Trockij: “Trotski afferma, per primo in Russia, una visione liberale della storia”. Ma “La rivoluzione liberale”, il suo nuovo giornale, porrà subito dopo al primo punto della sua azione “la mancanza di una classe dirigente come classe politica”.
Gobetti sarà un martire di Mussolini, e il suo riverbero resta luminoso. Ma che altro? Il compito che si dava, “una ripresa del movimento rivoluzionario del Risorgimento, che entri alfine nello spirito delle masse popolari”, è immane e benemerito. Ma a che prezzo? “Tutti questi propositi sono schiettamente liberali e autonomisti”, i propositi dei “comunisti torinesi” subito dopo la scissione di Livorno: la disciplina, autorità, l’unità, e la violenza – “la violenza, sopra i sentimentalismi e i danni contingenti, dimostra fermenti vitali, energie decise, pensieri maturi”. E il disegno è mettere “un’aristocrazia politica liberale” ‘n coppa “al movimento sorto dal basso”.
Piero Gobetti, La rivoluzione italiana, edizioni dell’asino, pp. 255 € 15