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sabato 25 febbraio 2023

Letture - 512

letterautore

Ingeborg Bachmann – Non fu premio Nobel, come il “Corriere della sera” ripetutamente la vuole, a proposito del film che attorno a lei ha realizzato Margarethe von Trotta, “Journey into the desert” – non avrebbe nemmeno potuto, morì prima dell’età canonica, di 47 anni. Ebbe molti premi, praticamente per ogni sua pubblicazione, di poesia, prosa, saggistica, veniva premiata. Ma è vero che la “gloria” è legata oggi al Nobel, non c’è altro criterio – agli Oscar, ai Leoni d’oro, un premio.
 
Dante – Prima che islamico, si discusse a lungo se non fosse averroista, piuttosto che tomista – anche se più probabilmente non addentro né all’opera di Tommaso d’Aquino né a quella di Averroè. Un secolo fa si discuteva (Bruno Nardi ne faceva la sintesi “Sigieri di Brabante nella Divina Commedia e le fonti della filosofia di Dante”, nel n. III del 1911 della “Rivista di filosofia neoscolastica”) se Dante non fosse stato anche altro, per esempio agostinista, o avicennista – oltre che tomista e\o avicerroista.


Donne sovietiche – “Sono molto numerose, nell’esercito comunista, le donne che combattono nell’aviazione e nei carri d’assalto”, nota Mapalarte nella corrispondenza di guerra al “Corriere della sera” l’8 agosto 1941, tre settimane dopo l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Wehrmacht tedesca. Malaparte si era appena imbattuto in un carro armato russo rovesciato su un fianco: “Il pilota è ancora dentro il carro. È una donna…. Una donna sulla quarantina”.

Primo Levi ha una russa pilota, che atterra e riparte in una minuscola area nei boschi tra Ucraina e Polonia, per rifornirvi i gruppi di ebrei sfollati organizzati in forme di Resistenza, nel suo tardo romanzo “S e non ora, quando?”
Nella corrispondenza dell’8 agosto 1941 Malaparte spiega, di una cittadina Jampol, oggi Bulgaria, sul Nistro (Dnestr), tra Ucraina e Moldavia, che “la popolazione, in grande maggioranza ebrei (quasi il 70 per cento), è fuggita nei boschi, per sottrarsi ai bombadamenti e agli incendi”.


GialloIn Italia è regionale. Siciliano (Sciascia, Camilleri, Piazzese, Savatteri), dopo essere stato milanese (Scerbanenco su tutti), e naturalmente romano (Gadda, il più del “genere”, quello noir di De Cataldo e Manzini, quello fantastico di Dan Brown, quello posticcio di Alessia Gazzola, e poi Bertolini, Vichi, Morlupi, etc.), napoletano (Veraldi, De Giovanni), barese (Carofiglio, Genisi), elbano (Malvaldi), friulano (Ilaria Tuti), lucano (Mariolina Venezia), genovese (Bruno Morchio, Claudio Paglieri, Antonio Paolacci-Paola Ronco), calabrese (Gangemi).


Lusso – Presentando la sua monografia di una villa in Costa Azzurra, “Le château de l’Horizon”, la biografa americana Mary S. Lovell ne anticipa gli splendori nell’introduzione: “Simbolo di uno stile di vita sensuale, lussuoso, perfino peccaminoso, in cui un’ospite non ebbe remore a riempire una vasca da bagno con decine di bottiglie di champagne ghiacciato per rinfrescarsi i piedi….”.
L’ospite dai piedi doloranti potrebbe essere stata Sara Murphy, che allo Château convitava amici rimasti nella storia, come i Fitzgerald – o una di queste amiche, Zelda Fitzgerald, o Dorothy Parker, o la futura pettegola Elsa Maxwell.
 
Scrive Merlo nella posta di “la Repubblica” che il castello è “là dove nacque il mito della Costa Azzurra, dello snobismo e degli artisti che vi si rifugiavano”. No, il mito nacque mezzo secolo prima, sul finire dell’Ottocento, per bilanciare o sfruttare il mito di Capri e Taormina, decretato dagli erotomani gay, dalle Alpi alle isole britanniche e alla Scandinavia. Ci vuole poco – o molto – per fare di speroni rocciosi degli eden, miniere a cielo aperto.
 
Nekrassov, Viktor Platonovič – Fu espulso dal partito Comunista Sovietico nel 1972 “per la sua imparzialità borghese”. Cioè per le amicizie che aveva costruito e vantava in Italia, di Carlo Levi, Pasolini, Vittorio Strada. Era scrittore di molti romanzi di successo, tra essi l’opera a lungo più apprezzata su Stalingrado, “Le trincee di Stalingrado”, premio Stalin 1946 (oggi soppiantata dal romanzo di Grossman). Popolare anche come attore di teatro e scenografo (era architetto) nelle maggiori piazze della Russia. Si era reso colpevole, nei suoi resoconti di viaggio, in Italia e negli Stati Uniti, “Di qua e di là dell’oceano”, 1962, di racconti giudicati dal tardo breznevismo irregolari. In Russia c’è stata grande letteratura sempre a dispetto del regime.
Nekrassov emigrò due anni dopo, ma in Francia – il Pci non voleva dispiacere al Pcus?.
 
Recensioni – Non sono più critiche, da tempo sono “prospettiche” (promozionali), dopo aver ceduto il posto alle presentazioni, anteprime, anticipi, estratti.  Ma in curioso contrasto il più spesso con gli asterischi o pallini: le recensioni sono sempre superlative, i pallini-asterischi fra due e tre, fra mediocre e buono. La valutazione ha un suo linguaggio, naviga per i fatti suoi, impermeabile agli umori del critico?
L’analogo avviene per i film, ma in rapporto inverso: la recensione può essere – di solito è – riservata, pallini e asterischi invece trottano disinvolti, normalmente in quantità. Per aiutare le sale di cinema, il mercato del cinema, che è complesso?
 
Nella vecchia querelle fra autore e opera si tende a privilegiare l’autore, per farne un personaggio, un essere scenico, con foto, normalmente inappetibili, confidenze, ricordi, cimeli, abitudini. Tipo queste di McEwan: “La cosa su cui sono più superstizioso sono i taccuini: devono essere verdi e di formato A4. La penna deve essere nera. Può essere una di queste moderne molto economiche ma eccellenti, che costano meno di una sterlina”

 
Sanremo – Già celebre per tanti eventi, il casinò, i fiori, le ville, si esaurisce nel festival: le basta e avanza. Avrebbe anche Calvino da celebrare, come la villa dei Calvino, i genitori dello scrittore. O anche Scalfari, per dire. Ma niente. Di Calvino si fa una bandiera, con eventi tutto l’anno, Castiglione della Pescaia, nel cui territorio lo scrittore ha risieduto, poco, in una casa di vacanze, negli ultimi anni - in un posto, Roccammare, che aveva comprato come buen retiro e ora non lo è più.
 
letterautore@antiit.eu

Scientifico è il dubbio

“In fisica teorica è un principio generale: qualunque ipotesi vi venga in mente è quasi sempre falsa. Si sono cinque, o forse dieci, teorie rilevatesi giuste, nella storia della fisica”. L’ago nel pagliaio. Di che scoraggiare i più fervidi entusiasti. E invece Feynman attrae. Preciso e spiritoso al suo solito, e convicente. Senza l’ottimismo che tre generazioni fa, al tempo in cui parlava, era d’obbligo: “ Si diceva che la comunicazione tra le nazioni avrebbe condotto a una maggiore comprensione tra i popoli, e quindi a un maggiore sviluppo delle ptenzialità umane. Ma i mezzi di comunicazione possono essere manipolati, o soffocati. Si possono diffondere verità o bugie, buona nformazione o semplice propaganda”.
Tre conferenze tenute all’università di Washington, l’università pubblica dello stato di Washington, a Seattle, nel mese di aprile del 1963 dal non ancora Nobel per la Fisica (1965) ma già popolare “professore”, oltre che scienziato, faceto e serio insieme, docente al California Institute of Technology. Lezioni di filosofia, piuttosto, di filosofia spicciola della scienza, e di metodo scientifico. Che Feynman racconta con più gravità che leggerezza, anche se al modo colloquiale, non sistematico, non apparentemente, delle sue famose “Lectures on Physics” (“si pezzi facili” e “Sei pezzi meno facili”), sulle quali molti fisici si sono formali, e molti altri sono stai attratti alla Fisica, giovani e non. Sul dubbio alimento della ricerca. E sul dubbio irrisolto, irrisolvibile, nei valori di riferimento, i temi di due delle tre lezioni. Con una lunga conclusione sulle insidie di ritenere la storia risolta - ben prima dell “fine della storia” e del “pensiero unico”: “Un’epoca scientifica, la nostra?”

Curiosamente con molti riferimenti cristiani, anzi cattolici, compresa un’allocuzione finale in pregio della “Pacem in terris”  di Giovanni XXIII, da non credente. 

Una bella traduzione, di Laura Servidei, nello spirito dell’autore – comprese le “doglianze” (“bella parola tra l’altro” e il “gran casino”. Una lettura formativa, oltre che gradevole.
Richard P. Feynman, Il senso delle cose, Adelphi, pp.125 € 11

venerdì 24 febbraio 2023

Cronache dell’altro mondo - costituzionali (249)

“Chi ha scritto la Costituzione riconosceva il valore del dubbio… Il non essere sicuri di qualcosa implica la possibilità che un giorno si troverà un’altra strada”.
“Il sistema di governo degli S tati Uniti, da questo punto di vista, è nuovo, è moderno, ed è scientifico”.
“È anche un gran casino. I senatori vendono il proprio voto in cambio di una diga nel proprio stato, le discussioni si animano e le lobby schiacciano le minoranze”.
“Il sistema americano non è granché, ma, insieme forse a quello inglese, è il migliore del mondo, il più soddisfacente, il più moderno”.
“Ma non è un granché”.
Richard P. Feyman, premio Nobel per la Fisica 1965, “Il senso delle cose”, p. 58.

Assassinii in serie nel nome di Allah

Un padre di famiglia amorosissimo, marito premurosissimo, amico amatissimo, di notte va in giro in motocicletta a strangolare prostitute. Per liberare Mashad, città remota dell’Iran al confine col Turkmenistan, ma città santa dell’imam Reza, l’ottavo dello sciismo duodecimano, dalla sporcizia. La storia è vera, tutto quanto è raccontato è accaduto, a Mashad, nel 2000-2001 - il “santo ragno” del titolo è il soprannome dato allora all’assassino. Una vicenda che ha già avuto una trasposizione al cinema in Iran, tre anni fa, “Killer Spider” di Ebrahim Irajzad. Ma giù subito, nel 2002, prima che l’assassino fosse impiccato, era stato tratatto da un documentario, “And along came a Spider”, di Maziar Bahari, che faceva parlare lo stesso killer, Said Hanaei.
Abbasi, danese di origini iraniane, giù regista di due film di genere misto, tra fantasia e horror, “Border” e “Shelley”, rielabora la vicenda con una serie di astarngolamenti, e la fnale impiccagione. “Holy Spider” è stato presentato a Cannes – e ora in Iatlia – come un thriller, ma la vicenda è nota. E come una parabola del potere religioso iraniano che tanto male fa nel nome di Dio. Inscena però  una serie di personaggi di cui l’unico plito è il mullah che poi condannerà l’assassino. Che gode invece del favore popolare.
Di veramente non banale è la ricostituzione dell’ambiente iraniano, esterni, interni, modi, fuori dall’Ira, alla periferia di Amman. Con troupe e interpreti peraltro tutti iraniani, non esuli.
Ali Abbasi,
Holy Spider

giovedì 23 febbraio 2023

Problemi di base marnixiani - 734

spock

“La storia odia i fessi”, E. Quinet, “Marnix de Sainte-Aldegonde”)?
 
“Li pone quasi al rango di colpevoli, e non è che un mezza ingiustizia”. id?
 
“Essere fregati è quasi sempre il segno di una situazione falsa”, id?
 
“Un po’più d’integrità da parte vostra, e non sareste stati ingannati”, id.?
 
“Un uomo integro nel suo impegno ha mille premonizioni”, id.?
 
“Una certa salute morale, veracità nativa, rivela negli altri la frode, come le sostanze che al contatto rivelano il veleno che altre racchiudono”, id.?

spock@antiit.eu

Gli affari dell’antimafia

“Imprenditore onesto denuncia la mafia, e muore di interdittive antimafia”. È una delle storie del libro: un imprenditore di Gela, in rapporto tradizionale di lavoro con le grandi imprese nazionali, Eni, Anas, Ferrovie, etc., “nel 2007 ha denunciato il pizzo e fatto condannare i mafiosi” che lo pretendevano, “ma è rimasto per anni nel mirino di una procura che lo riteneva complice”. Che non lo ha processato per questo, lo ha sottoposto a “interdittiva antimafia”. Senza contraddittorio. Cioè al sequestro, poi confisca, di tutti i beni, aziendali, immobili, mobili. Ha reclamato, si è agitato, e niente, l’interdittiva non è contestabile, il prefetto non sta sotto la legge. Solo dopo che l’imprenditore si uccide, nel 2017, undici anni dopo il furto di Stato, il Tar del Lazio gli dà ragione.   È una delle tante storie qui ricostruite. La prima è di un errore (della Guardia di Finanza) che non è un errore, lo scambio di un indirizzo per un sopralluogo mai fatto – neanche dopo, nelle more dei sequestri e le confische.
Un libro di cronache giudiziarie che si legge come un noir. Altrettanto avvincente, e violento. Sulle malefatte, nientemeno, di prefetti e procuratori della Repubblica. Sotto la copertura dell’antimafia. Dedicato “alla memoria di Leonardo Sciascia”, che s’immagina, con sofferenza, anche lui concorde, sui “professionisti dell’antimafia”, una professione già forte ai suoi tempi. Senza che da allora nulla sia cambiato, anzi questa antimafia perversa si è impadronita di ogni ganglio del Sud, che non respira più. Il tema è: “Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene”. Con una mezza dozzina di soprusi, ai danni di imprenditori e imprese, da lasciare a bocca aperta: depredati di tutto, spesso carcerati, per poi, quando un giudice finalmente si trova, essere assolti. Vittime non di “errore giudiziario” ma della prassi – delle carriere dei giudici.
I casi ricostruiti da Barbano sono specifici, ma il contesto e il contorno ne fanno un “sistema”. Per cui basta niente, anche solo una chiacchiera, per essere accusati di concorso esterno in associazione mafiosa e quindi depredati di tutto dallo Stato con le interdittive prefettizie. Atti d’arbitrio, sequestri e confische, senza aspettare un giudizio. Qui i prefetti sono celerissimi, che nominano fidati amministratori giudiziari a duecento e trecentomila euro l’anno, a spese del malcapitato. Svelti in questi casi anche i procuratori - con i loro comodi gip: ogni Procura antimafia ha il suo gruppetto di giudici delle indagini preliminari fidato, non c’è memoria di una procedura antimafia non avallata da un gip.
Una inchiesta inquietante. Anche per il silenzio che la avvolge. Malgrado l’avallo di importanti giurisperiti, l’ex ministro della Giustizia Flick, l’ex presidente della Corte Costituzionale Amato.
Un libro di lettura, quasi un romanzo, che tocca evidentemente un nervo sensibile, poiché non se ne parla: i media convivono con questa antimafia, prodiga di scandali, intercettazioni, e insospettabili “mafiosi”.
All’affollata presentazione all’Auditorium di Roma una sola voce si era levata a difendere gli attuali assetti della giustizia, Giovanni Melillo, il Procuratore Nazionale Antimafia - che peraltro ha operato a Napoli “in concorso” con Barbano, allora direttore de “Il Mattino”, il giornale cittadino,  per una migliore giustizia. Solo critiche, aspre. Giuliano Amato, presidente uscente della Corte Costituzionale, che aveva varato trent’anni fa le prime leggi speciali contro la mafia, se ne diceva pentito. Essendone nato un apparato burocratico, politico e affaristico fuori da ogni giusta finalità, al riparo dai controlli di legalità e di merito. “Da giurista negli anni Sessanta”, ha detto, “ho firmato un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno”. Paolo Mieli, che pure da direttore del “Corriere della sera” aveva condiviso alcune delle più efferate intimidazioni del Procuratore di Milano Borrelli, denunciava un “lockdown giudiziario”: “Tiene in una morsa la democrazia italiana e scatena retate contro innocenti nell’indifferenza generale”. In particolare al Sud: “Come mai”, si chiedeva Mieli, “abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche un senso di colpa? Come mai”, rivolgendosi a Melillo, il Procuratore Antimafia, “la scuola dell’illuminismo napoletano oggi si affanna a contestare il libro di Barbano?”
Barbano, che il Procuratore Antimafia Melillo aveva detto “un estremista”, poteva spiegarsi così: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?”
Barbano, che il Procuratore Antimafia Melillo aveva detto “un estremista”, poteva spiegarsi così: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?”
Barbano solleva anche il caso inquietante dell’amministrazione. Che ha superato gli arbitri del fascismo - il confino senza condanna, la residenza obbligata, la perdita dei diritti. Con lo scioglimento arbitrario dei consigli comunali, la grande occupazione (moltiplicatrice di commissariamenti e prebende) delle Prefetture. Con le interdittive antimafia – non c’è bisogno di giustificarle. Con indagini sui propri personali nemici, di giudici e investigatori, o degli informatori: indagini mirate, estenuanti, a strascico, per anni, alla ricerca dello scoop, una frasetta, un’imprecazione - come si fa nei social. Vittime troppo spesso sindaci e amministratori (il caso che Barbano racconta del presidente della Regione Calabria Oliverio è drammaticamente da ridere), a opera di giudici di opposto colore politico. Senza scandalo.
E senza eco: silenzio. Barbano, giornalista importante, che da direttore del “Mattino” ha provato a disboscare questa giungla, scrive quasi come da bottiglia buttata a mare: troppi gli interessi facili incrostati in questi abusi. Conscio cioè che le false argomentazioni che reggono questa falsa antimafia sono irrobustite da interessi diffusi, specie nel “terzo settore”, del “volontariato” – solo “Libera”, l’associazione di don Ciotti, ha un network di 1.600 associazioni e cooperative di gestione di beni sequestrati. E dalla rete poco nobile degli amministratori giudiziari, che si diventa per chiama a diretta, di un prefetto o di un giudice. Le interdittive sono infatti provvide di ricchezze, anche enormi, alla foltissima schiera dei curatori giudiziari, coi i loro referenti istituzionali, prefetti e giudici delle “misure di prevenzione”. Nonché al “volontariato” antimafia.
In pochi anni, poco di un decennio, il patrimonio gestito da questi tribunali senza condanna, spesso senza nemmeno un’accusa documentata, è incalcolabile. Ed è una grande forma di distruzione di ricchezza – se non per i beneficiari, i curatori. Curatori della distruzione. A metà giugno 2022 le aziende confiscate o sequestrate e assegnate a curatori giudiziari risultavano 2.245, ma solo 145 erano ancora attive, le atre 2.100 erano morte.
Sono tutte, Barbano non lo dice ma si sa, aziende del Sud. Si pensa il Sud vittima della mafia, e in molte parti lo è, ma ovunque è vittima dell’antimafia: niente di buono vi è possibile, se non per caso. Per essere sfuggiti alle informative raccogliticce dei Carabinieri, di norma curiosamente sfavorevoli ai denuncianti, ai “pentiti” in cerca di pensione pubblica onorevole, e ai disegni dei Procurato
ri della Repubblica che da trent’anni sono i padroni dell’Italia, indisturbati – cui i giudici indifesi delle indagini preliminari, prudenti, si accodano. I “professionisti del bene” sono probabilmente la parte meno losca di un sistema giudiziario inquinato. Di cui la politica è succube. Barbano apre la sua narrazione con il varo nel giugno del 2017 della legge 4.360, la “legge Orlando”, “un solo lungo articolo suddiviso in 95 commi” – Manzoni impallidirebbe – che allunga la prescrizione e inasprisce le pene per i delitti di mafia, estendendole alla corruzione. Un uso talmente arbitario della giustizia, a opera di un ministro di sinistra, anzi dell’ultra sinistra, che Mussolini avebbe avuto pudore a imporre per legge: confische e sequestri sono da allora possibili, e sono stati applicati, per semplice sospetto di reato. Non solo di mafia, anche di corruzione, e di peculato anche di modesta entità.  
Alessandro Barbano,
L’inganno, Marsilio, pp. 249 € 18

mercoledì 22 febbraio 2023

Secondi pensieri - 507

zeulig

Guerra – È sempre di annientamento, più o meno radicale, più o meno secondo codici: il nemico va sconfitto, e nemico è la forza in campo ma non solo, anche il territorio e le popolazioni – con assedi, esecuzioni, distruzioni più o meno radicali. Anche nella “guerra umanitaria”, di cui si è tentata l’enucleazione dopo il crollo dell’Unione Sovietica – a conclusione della guerra fredda sotto la deterrenza nucleare, un cambiamento giudicato epocale nella storia dell’umanità, verso un mondo unificato, pacificato. Un’etichetta nuova sul solco della tradizionale irrisolta questione della “guerra giusta”.
Il meglio che se ne possa dire è con Malraux: “Ci sono guerre giuste, non ci sono guerre innocenti”. Oppure, con C. Schmitt, “Il Leviatano”, p. 84: “La guerra di stati non è né giusta né ingiusta. È un affare di Stato, e in quanto tale non le occorre essere giusta”. La “buona causa” è “un concetto discriminatorio di guerra (che) trasforma la guerra di Stati in una guerra civile internazionale”. Cioè una guerra di tutti contri tutti. Una guerra “totale”. Mentre non va con Ortega y Gasset: “La guerra non è un istinto ma una invenzione”. È un’invenzione perché è un istinto – primigenio, individuale, già quando non c’erano armi specifiche, con la sola violenza del corpo, di Remo contro Romolo.
 
“Si è detto”, aggiunge Schmitt, p. 87, “che possono ben esistere guerre giuste, ma non eserciti giusti”. Oggi più a ragione, spiega, nella complessità dell’industria degli armamenti - la “tecnologia”. Lo dice richiamandosi a Machiavelli: “Quando in chiusura del «Principe» Machiavelli afferma essere giusta la guerra, se è necessaria per l’Italia, e umane («pietose») le armi, se in esse riposa l’ultima speranza, tutto ciò suona ancora umanissimo a paragone della completa oggettività delle grandi macchine il cui perfezionamento si è realizzato in modo esclusivamente tecnico”. Macchine statuali e belliche.
Sulla “guerra giusta” l’unica argomentazione che tiene è quella di Elizabeth Anscombe, del “Mr Truman’s Degree”, il breve pamphlet con cui l’“assistente” di Wittgenstein contestò nel 1956 la decisione dell’università di Oxford di conferire la laurea honoris causa che all’ex presidente americano Truman. La guerra, anche la più giusta, diventa ingiusta se usa “mezzi immorali”, di distruzione di massa. E se impone condizioni di pace capestro. La guerra più giusta, contro le potenze dell’Asse, si può dire ingiusta quando impone la “resa incondizionata”. Dopo aver mutato la tattica del “bombardamento per obiettivi” in quella dei “bombardamenti d’area”. Nel bombardamento di tutte le città delle potenze avversarie, e infine con i massacri atomici. In particolare, il bombardamento atomico del Giappone Anscombe condanna per tre motivi. Il Giappone cercava un armistizio - lo aveva chiesto a Stalin. Il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki non era contro obiettivi militari. L’atomica si sapeva che avrebbe distrutto tutto, che non ci sarebbero stati superstiti, e avrebbe lasciato l’area contaminata.
 
Si riscopre erraticamente la pratica romana dei Feziali per legalizzare la guerra. Una sorta di diritto internazionale, ancorché unilaterale, che prevedeva condizioni belliche restrittive come base giuridica – giustificazione – della guerra. Ma i feziali, il collegio sacerdotale elettivo che dichiarava la guerra per conto del Senato e del popolo romani, non ponevano in realtà limiti alla distruzione bellica. Analizzavano ed elaboravano i motivi per cui i Romani dovevano dichiarare guerra. Davano cioè uno scopo alla guerra, non la pura e semplice distruzione del nemico. Se non di una guerra proporzionata all’offesa, di una guerra comunque limitata nello scopo. Ma sempre guerra, con la massima violenza necessaria a vincerla.
 
C’è molta invenzione lessicale attorno alla guerra, che è invece una sola, anche la guerra di difesa: la violenza.
Se ne trova una sintesi in una curiosa interista breve pubblicata dal “Corriere della sera” nel 2011 al generale dell’Aviazione Tricarico, e non firmata (siglata M.Ne: - Marco Nese?), malgrado dicesse cose importanti. Sulla famosa “difesa attiva” inventata da D’Alema, presidente del consiglio nel 1999, grande furbata, contro la Serbia che non minacciava nessuno, per sottrarle il Kossovo e darlo a un mafioso. Il generale lamentava l’esercizio d’ipocrisia attorno alla guerra alla Libia nel 2011:
«In Kosovo i nostri aerei bombardarono fin dalla prima notte del conflitto. Sono passati più di dieci anni e posso rivelare come andarono veramente le cose». Il generale Dino Tricarico guidò gli attacchi contro la Serbia come capo delle forze aeree italiane e vicecapo di quelle Nato. «La notte del 24 marzo 1999 i nostri Tornado sorvolarono l’Adriatico e lanciarono bombe di precisione contro le postazioni della contraerea dei serbi. Fu un’operazione condotta insieme con i caccia dell’Aeronautica tedesca». Durante il conflitto fu detto che i caccia italiani avevano solo un compito di protezione verso i jet degli altri Paesi. «Questa fu la versione ufficiale. Era presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Per tranquillizzare i sonni dell’onorevole Cossutta fu necessario inventare la dizione Difesa integrata. In realtà i piloti italiani colpirono fin dal primo momento. Solo una decina di giorni dopo arrivò l’ordine di intervenire coi bombardamenti. Tre righe scritte in forma incomprensibile a testimonianza delle folli acrobazie lessicali necessarie per scriverle. Con questo voglio dire che le operazioni militari italiane, come dimostra ora la crisi libica, sono sempre accompagnate da ambiguità e anche ipocrisia». Non c' è differenza tra governi di destra e di sinistra? «Direi di no. Nella prima guerra del Golfo del 1991, i nostri Tornado vennero immessi nelle operazioni di bombardamento dell’Iraq senza aver avuto una sola opportunità di addestrarsi insieme agli alleati e senza le notizie di intelligence necessarie per inserirsi nello scenario operativo. Era capo del governo Andreotti. Bellini e Cocciolone vennero abbattuti dalla contraerea irachena dopo essere stati gli unici a raggiungere il territorio nemico, dove avevano fallito tutti i nostri alleati. Invece di elogiarli, furono messi sotto processo mediatico».


Natura – “La forza della natura è molto, molto più grande di quella dell’uomo”, Richard P. Feynman, “Il senso delle cose”. Ma è bruta, sregolata.
La natura è un mistero, continua ad argomentate il fisico americano premio Nobel: “Le leggi di natura hanno l’aspetto di leggi matematiche”. Quindi logiche? Ma “perché poi la natura sia matematica è un altro mistero” – “le leggi sono solo congetture, sono estrapolazioni nell’ignoto”.

 
Urbanistica – È scienza di umana convivenza. Anche quando fosse adoperata a fini bellici, di difesa (castelli, borghi addossati ai castelli, città murate). O di difesa politica, anche dalle rivoluzioni – Parigi ridisegnata da Haussmann. O di difesa politica e civile insieme, come Torino, la città squadrata. Qualcuno spiega a Maria, la ragazza protagonista del racconto “Accabadora” di Michela Murgia, che “il ripetitivo schema viario di Torno, nasceva “da esigenze si sicurezza, perché una città regia non doveva offrire ai ribelli e ai nemici alcun anfratto per nascondersi”. È tematica risaputa. Ma logica.
L’idea della città razionale, squadrata da linee e rettangoli, sembra buffa a Maria, per un tempo esiliata a Torino, talmente “le sembrava illogica”, che ne scrive alla sorella come di “una divertente novità”: “L’idea che i trinesi avessero prima di tutto deciso il viaggio, e solo in un secondo momento si fossero dati da fare per costruire come meta le case, le piazze ed i palazzi”. C’è in effetti un altro modo di crescita dell’abitato – non solo per una ragazza che non è mai uscita prima dal paese. “Quell’ordine millimetrico la urtava nel buon senso, convinta che per le strade il modo giusto di nascere potesse essere solo quello di Soreni, le cui vie erano emerse dalle case stesse come scarti…., ricavate una per una come spazi casualmente sopravvissuti. ll sorgere irregolare delle abitazioni”. Una “irregolarità” che però non è sinonimo di socialità. In aree costruite senza piani particolareggiati  o di lottizzazione privata, per “abusivismo di necessità”, anche fuori e contro il piano regolatore, per esempio a Massa negli anni 1970-1980, l’esito è un conglomerato asfittico, senza aria, senza spazi pubblici condivisi, ogni centimetro quadrato conteso in lite col vicino, senza nemmeno spazi per la circolazione, strade, marciapiedi, difficile poi da urbanizzare (acqua, luce, gas, fognature).  
 
 zeulig@antiit.eu

Tutti perdenti alla guerra delle tasse

La “guerra” è tra chi paga le tasse sul reddito e chi si sottrae, ribaldo, in piccola o in larga parte. Ben scritta. “La mia nipotina ha 11 anni, è figlia unica, ha due zii che non hanno figli e due prozie che non hanno discendenti diretti: nel corso della sua vita, dopo alcuni passaggi intermedi, erediterà beni di sette famiglie, prevalentemente immobili, e quindi sarà una donna molto più benestante rispetto alle famiglie di origine. Se le leggi non cambieranno, non dovrà pagare tasse di successione di ammontare rilevante. Se deciderà di utilizzare uno degli immobili ereditati come prima casa, non pagherà nemmeno l’imposta immobiliare. Se sceglierà di affittare gli altri immobili ricevuti, pagherà un’imposta ridotta sui proventi degli affitti, e lo stesso accadrà se investirà parte delle eredità in titoli. Praticamente tutto ciò che potrebbe decidere di fare con i guadagni delle eredità sarà, dal punto di vista fiscale, più vantaggioso che lavorare”. Vero. Ma è colpa della nipotina, o di chi la “protegge”, o non di chi non protegge i lavoratori, e i pensionati di lavoro?
Un pamphlet politico. Visco attacca i “privilegi fiscali”, concessi “da una classe politica in ostaggio delle lobby”. Il frutto avvelenato di una politica, quella di Reagan e Thatcher, dell’“affamare la bestia”, ossia la Funzione Pubblica, tagliare le tasse e i conti dello Stato. E questo dice tutto: è il solito articolo polemico, rimpolpato, contro “i guasti del capitalismo”. Mentre l’impasse fiscale in Italia è ben anteriore a Reagan, di almeno un decennio.    
Lo stesso editore che nel primo anno di Reagan proponeva la critica radicale di Fuà e Frosini agli eccessi della tassazione del reddito,

http://www.antiit.com/2023/02/troppe-tasse-e-sbagliate.html
ora ha cambiato idea, e gli basta liquidare la questione al grido “evasione! evasione!”. Lo stesso fa Visco, sempre in quell’anno autore di uno studio su “Disfunzioni e iniquità dell’Irpef e possibili alternative”. Disfunzione (evasione) che stimava “prudentemente” in 10 mila miliardi di lire, tra un quinto e un quarto del gettito Irpef 1983. Anche se poi, da ministro del Tesoro o delle Finanze negli anni a cavaliere del millennio, dei governi D’Alema, Amato, Ciampi e Prodi, si era trasformato in apologeta delle imposte sul reddito quali che siano.
Un instant book su una materia che meriterebbe più precisa riflessione. La fiscalità non è roba da polemica spicciola. È il sistema venoso di un essere-Paese, la rete di comunicazione di tutte le sue sostanze vitali. Ed è la palla al piede dell’Italia: complicata, esosa, erosa, evasa. All’origine (è la causa, non l’effetto) della crescita spropositata del debito pubblico, che continua ad alimentare. Nonché di una fortissima discriminazione sociale, a danno di chi lavora o ha lavorato. Cose note, da più di trent’anni. A cui però non si pone rimedio – come se si volessero comoda riserva di facile polemica politica, sterile di fatto.
Visco, specialista di Scienza delle finanze, una scienza che ha avuto grandi esperti in Italia, Einaudi, Cosciani, si adagia anche lui sulle approssimazioni giornalistiche, o della sinistra seduta di questi decenni: si evade perché si è cattivi. Personalmente si dice agnostico, “non ho più nemmeno la tessera del Pd”. Ma da uno come lui ci si attenderebbe qualcosa di più del “paghino i ricchi”, eccetera. Al limite, per dire, ha ragione Reagan, se tassare i ricchi va ad alimentare una spesa pubblica improduttiva e dispersiva, riduce gli investimenti, e porta alla fuga dei capitali, e delle professionalità. Le tasse non sono materia bellica, o di punizione – altrimenti ognuno si difende, si deve difendere.  
Giovanna Faggionato-Vincenzo Visco,
La guerra delle tasse, Laterza, pp. 136 € 16

martedì 21 febbraio 2023

Il mondo com'è (457)

astolfo

Donbass – Fu all’origine del crollo dell’Unione Sovietica, già nell’inverno 1988-1989. Prima, e con maggiore impatto, delle fughe in massa dai paesi della “cortina di ferro”. La stessa area della guerra civile ucraina in corso da nove anni, e da un anno del tentativo russo di annessione. La cosa è ora dimenticata ma all’epoca se ne parlò, per esempio nei programmi tv di Santoro, con le prime ipotesi di crollo del regime sovietico per la protesta dei minatori e metalmeccanici del Donbass. Una forma di sindacalismo e di protesta russa. 
 
Gabriella Lapasini
– Personaggio notevolissimo del giornalismo e del terzomondismo degli anni 1970-1980, di cui non c’è traccia in rete, fatto inconsueto. Salvo due righe dell’editrice Sur: “Gabriella Lapasini è stata una nota scrittrice, giornalista e traduttrice italiana. Fra gli autori su cui ha lavorato figurano Eduardo Galeano, Miguel León Portilla e Miguel Barnet”. Ma anche Mariategui, Halperin Donghi, Eva Forest – e Alain Touraine, il diario che il sociologo tenne degli ultimi sessanta giorni di Salvador Allende. Nonché coautrice dell’Enciclopedia “Europa” della Cei, l’editrice del Pci, a dieci mani. Resta in edizione Galeano, riproposto da Sur, “Le vene aperte dell’America Latina”.
Maria Rosa Cutrufelli la ricorda con gratitudine nella rievocazione di “Noi Donne”, il settimanale del Pci: Devo molto a ‘Noi Donne’ e alle sue meravigliose giornaliste, in particolare alla capo-redattrice di allora, Gabriella Lapasini, che ha allevato con generosità una giovane generazione di ‘professioniste della penna’”.
Su eBay c’è ancora un suo libro di racconti, il suo primo, di giovane avvenente narratrice, della provincia veneta. Che poi, inurbandosi, “si perdette” nella politica, nel terzomondismo di quegli anni: “I racconti del borgo”, 1957. Pubblicato da Feltrinelli nella serie Scrittori d’oggi, nella Universale Economica, una collana di 50 titoli negli anni 1956-1963 – la più parte scelta da Luciano Bianciardi, non di grande fortuna. Un volume di racconti, “Fumo in collina”, “Il cappotto nuovo”, “Il nonno, Marco e il macellaio”, “Il ritorno”. Di respiro paesano. Di ambiente veneto – come la stessa autrice specificava nella terza di copertina: “I personaggi, l'ambiente, il paesaggio dei racconti, sono quelli delle colline venete tra le quali io sono nata (nel 1927, n.d.t.) e cresciuta ed alle quali mi sento profondamente radicata. Non c'è altra aria, altra luce, altre voci che io possa immaginare mi somiglino più di quelle che io possa supporre di sentire, un giorno, più mie. I miei interessi sono molteplici e, credo, tutti vivi; ma più che tutto amo la gente, le cose, un certo paesaggio veneto, verde ed ondulato, amo la realtà tangibile di ogni giorno.
A Roma sarà giornalista, e traduttrice di autori latinoamericani, specie politici. Nel 1979 fondò e diresse la rivista “Cubana” – poi “Latinoamerica”.
Così la ricorda Astolfo, nel romanzo “La gioia del giorno”, nei tardi anni 1980, al funerale “rosso” del suo ultimo compagno Franco, combattente della Resistenza - qui chiamato “Severo”:
Il corpo è deposto nel capanno degli attrezzi in cima al poggio, aperto verso il giardino, coperto di coppi rossi, adesso li fanno di plastica, tirato a calce, ornato di bandiere rosse con la falce e il martello, e stendardi, gagliardetti, nastri d’onore oro e azzurro delle formazioni garibaldine, con coccarde tricolori, sotto la villetta a un piano e mezzo che è la Casa del Popolo alla Garbatella, il quartiere costruito da Mussolini per le famiglie povere, pieno di pendii, giardinetti, case unifamiliari, sorprese e privacy, un fascismo biedermeier prima della romanità novecentista……
“È un funerale civile, che i compagni della Garbatella hanno organizzato nel segno della Resistenza. Sono loro che si sono battuti a porta san Paolo e alla Montagnola. Severo è testimone del tempo, giusto la massima di sant’Agostino che amava: “La fede non pensata non è niente”. La stanzetta contiene giusto il feretro. Adagiato su trespoli di ferro battuto. Si può guardarlo da fuori, dal fronte aperto sul terreno digradante. Fiori di campo, roselline e grossi crisantemi deposti per terra prolungano le aiuole del giardino.
“Dice poche parole il segretario della sezione, indossando la giacca sulla blusa da lavoro, fazzoletto rosso al collo. È l’unica presenza politica. Qualche giornalista è passato. Qualcuno intona stentoreo un triplice “hip, hip hurrah!”. Segue un battimani, che si perde nel giardino. Le bandiere sono state abbassate sulla bara da compagni improvvisamente apparsi.
“Si salda la bara di zinco con la fiamma ossidrica. Finito lo sfrigolio, il coperchio viene inchiodato. Si apre intanto il cancello del giardino, il carro funebre entra a ritroso, tra grida gutturali. Al ricordo, ma sarà falsato, anche gli addetti delle pompe funebri sono in tuta da lavoro col foulard rosso. La bara è portata a spalle giù per il sentiero e adagiata nel carro. I compagni seguono con le bandiere rosse e i gagliardetti e si schierano ai lati. Viene suonato il silenzio, da un anziano trombettiere, con trasporto. Segue un altro battimani, che suona spento. Cos’è il rumore per il sordo? Da morto uno può pensare, chissà, ma sordo sicuramente è. Il furgone si avvia nudo, senza fiori….
“Stanno vaporose tra le aiuole fiorite del giardino a gradoni, le gallerie, le barriere, o sedute attorno al pozzo, sotto il fiammante verde della vite americana, la compagna Gabriella e altre signore ignote. È il quadro dell’Angelico a San Marco, “Il battesimo del Battista”, per l’aria di chiostro e la luce primaverile. Conoscenze ignote, malgrado la familiarità di anni con Severo…. Gabriella è in seta rosso cardinale, a pois bianchi e mezze maniche, con la cicca alla piega della bocca e la voce gracchiante per il fumo, ma ordinata, chioma di parrucchiere, occhiali a farfalla, e fresca di argomenti, in conversazioni prolungate, in toni neanche sommessi, francamente curiosa…. Bellezza non bella, direbbe Platone… Capelli ramati, i fianchi appesantiti dai dispiaceri, le caviglie gonfie….
“Gabriella aveva ambizioni in proprio e ha esordito con Severo da Feltrinelli, nella collana avulsa dedicata alla narrativa popolare, di finti contadini partigiani e storie di guerra che nessuno aveva vissuto o visto. I racconti riemersi a Porta Portese s’illustrano di una foto in piano americano, per mostrarne le gambe alte di giovane veneta, bionda, levigata. Non resse a quella prima falsa uscita….
- Aveva un quadernetto – ha detto al telefono – con i buoni da un lato e i cattivi dall’altro. Ho pensato che dovevi saperlo, che ora Franco non c’è più. – E: - Non era contento ultimamente, le tattiche lo deprimevano, era un duro - o intendeva un puro?
 
Liturgia
- Aveva da fare in origine con le imposte, una sorta di “sostituto d’imposta”. Lo spiega meglio Luigi Einaudi, “Miti e paradossi della giustizia fiscale”, pp. 274-275, a proposito dei sistemi di tassazione in Atene: “Le imposte dirette erano considerate incompatibili coni la libertà e con la qualità di cittadino. Solo gli stranieri, le cortigiane e gli schiavi vi erano sottoposti. Gli stranieri permanentemente domiciliati nella città pagavano il «métoikion», a guisa di compenso per i privilegi di cui essi godevano nella città. Era un pesante uniforme testatico, a cui si aggiungevano particolari tributi, ad es. per il diritto di lavorare sul mercato. Anche le cortigiane erano soggette ad un tributo fisso. Più incerta era la situazione degli schiavi e dei liberti.
“Le liturgie ordinarie… sostituivano, per i cittadini, lei imposte da cui erano immuni. Distinte in varie sottospecie, come le «coregie» destinate a coprire le spese dei giuochi drammatici e musicali e delle danze, le «gimnasiarchie» a copertura dei giuochi atletici, l'«estiasi», a sopperimento delle spese delle pubbliche cene a carattere religioso delle tribù, poggiavano sul concetto che ad ogni spesa si dovesse provvedere con una particolare entrata all'uopo stabilita e sovratutto facevano affidamento sull'ambizione tradizionale nei ricchi greci di fare buon uso della propria ricchezza e sul desiderio di rendersi popolari con generose largizioni ad incoraggiamento di feste religiose, giochi e spettacoli. La liturgia era dunque in origine e rimase sempre in principio una oblazione spontanea. Lo spirito di emulazione tra i ricchi, la brama di cattivarsi il favore del popolo innanzi alle elezioni inducevano non di rado i ricchi greci ad eccedere, nelle pubbliche largizioni, i limiti considerati normali dall'opinione generale. Testimonianza di volta in volta di patriottico amore alla cosa pubblica e della sua degenerazione demagogica, le liturgie non sempre bastavano a coprire la spesa, sovratutto quando essa assumeva dimensioni insolite. All'oblazione spontanea sottentrava la coazione morale. Si compilavano liste dei ricchi messi a contributo; problema sempre arduo, a causa del piccolo numero dei chiamati e della gravezza del contributo. Soccorre qui l'istituto forse più originale della finanza ateniese: l'antidati.
“Il cittadino chiamato ad offrire la liturgia poteva designare un altro cittadino, che egli avesse creduto più atto a sopportare il peso della spesa desiderata. Il designato in seconda poteva rifiutarsi; ma in tal caso era obbligato a permutare il proprio col patrimonio del primo designato, il quale doveva prelevare l'ammontare della liturgia sul nuovo patrimonio cosi acquistato. Il sistema era ingegnoso, poiché nessun designato in primo luogo avrebbe avuto convenienza ad indicar altri, se la fortuna di questi non fosse davvero stata maggiore della propria. Il sistema, suscitatore di atti emulativi e talora ricattatori, non doveva però essere di piana applicazione, se a poco a poco si riduce a mera forma, e la decisione è, nel quarto secolo a. C., rimessa al giudizio dei magistrati…”
 
Linea Maginot – Il sistema fortificato costruito dalla Francia nei vent’anni dopo il 1920, dal Mare del Nord al Mediterraneo, più intensificato nel Nord-Est, alla frontiera con la Germania e il Lussemburgo, celebrato come di “temibili postazioni belliche”, era vistyo da Jünger come “un cannicciato”. Ernst Jünger, capitano (richiamato) della Wehrmacht, spirito sensibile, molto filofrancese, nel “Diario” trova a fronteggiare l’avanzata tedesca dei cannicciati - “paraventi (contrevents”) di canne”.
 
Maria CristinaUna regina di Napoli, una Savoia, moglie del “Re Bomba” Fedinando II, è da tempo dichiarata beata dal papa, e mantiene la sepoltura a Santa Chiara nel cuore della città - malgrado i rivolgimenti architettonici a cui il complesso viene periodicamente sottoposto. Anche se la città, che pure ha il culto dei morti, non lo sa. Napoli non si riconcilia col suo passato di capitale del Regno, malgrado i campanilismi: dei Borbone, degli spagnoli. La sua memoria è di fatto solo la versione risorgimentale – benché non fosse più mediocre, in tema di libertà e di modernizzazione, a quella dei Savoia prima di Cavour (che durò pochi anni, e fece poco).
Maria Cristina era figlia di Vittorio Emanuele I e di Maria Teresa d’Asburgo-Este, nipote di Maria Antonietta. Nacque a Cagliari perché il Piemonte era occupato dalla Francia. Le cose non andarono meglio quando la famiglia tornò a Torino: Vittorio Emanuele I si inimicò la parte liberale, post-napoleonica, e dopo I moti del 1821 dovette abdicare. Abdicava in favore del fratello Carlo Felice, che però non era a Trino, e vivrà ancora pochi mesi, e quindi il regno passò di fatto al cugino Carlo Alberto, dei Savoia-Carignano, che era invece vicino ai liberali.   
In un primo tempo, nel 1827, Maria Cristina, quindicenne, era stata chiesta in moglie per il duca d’Orléans. Ma la madre non volle un matrimonio fracese. Né Maria Cristina era propensa al matrimonio: avrebbe preferito farsi suora. Tre anni dopo fu lo stesso Carlo Alberto a negoziare per suo conto il matrimonio col principe Borbone Ferdinando, che da re, nel 1848, dopo il bombardamento di Messina avrà il nomignolo di Re Bomba. Maria Cristina vivrà poco, a gennaio del 1836 morirà, di soli 23anni, di parto – dei postumi del parto. Lasciava l’erede al trono, l’ultimo re di Napoli, Francesco II. E una tradizione di pietà.
La chiesa l’ha beatificata – al termine di un processo aperto dal marito, Ferdinando II, e durato poco meno di due secoli - riconoscendo come miarcolosa una guarigione dal tumore al seno impetrata in suo nome. Ingentilì la corte napoletgana, e non è ricordata male dai liberali. Settembrini, “Ricordanze della mia vita”, attest che “finché ella visse tutti i condannati a morte furono aggraziati”.  
 
Matrimonio repubblicano – Fu così detto uno dei procedimenti di esecuzione sommaria adottati dalla Convenzione Nazionale della rivoluzione francese a fine 1793 contro la ribellione della Vandea, nella città di Nantes. Consisteva nel legare insieme due condannati, in un primo tempo vestiti poi più spesso nudi, per tesaurizzare gli abiti, portarli su una chiatta al centro della Loira, e lì buttarli in acqua. Nelle esecuzioni più famose si imbarcavano più coppie di condannati su una chiatta che poi veniva affondata, fino a una cinquantina per barcone.
Nantes, la città celebre per l’editto, lo divenne anche per le noyades o “matrimoni repubblicani”.  Teatro di una delle prime, se non la prima, esecuzioni di massa della storia, tra novembre e dicembre 1793, studiate con applicazione. Jean-Baptiste Carrier, il commissario mandato dalla Convenzione parigina, lo escogitò come sistema di esecuzione meno costoso delle fucilazioni, e più rapido: benché procedesse a duecento fucilazioni al giorno, non riusciva a uccidere tutti i rivoltosi. Nel mese di ottobre erano stati presi prigionieri diecimila rivoltosi vandeani, e altri diecimila prigionieri furono fatti a dicembre.
Di matrimonio repubblicano si parlò propriamente in una testimonianza contro Carrier, quando il commissario cadde in disgrazia – fu ghigliottinato da Robespierre: “Consisteva nel legare insieme, sotto le ascelle, un giovane e una giovane completamente nudi e precipitarli così nelle acque”.
Carrier vantava di avere eliminato con questo sistema 2.800 prigionieri. Gli storici della Vandea ne conteggiano 4,800.

astolfo@antiit.eu

Cosa non si fa per la presidenza, anche la guerra

Si ride, ma si trema anche, molto. Attorno alla (facile, accondiscendente) manipolazione dei media, dell’opinione pubblica, da parte del potere. Con una guerra finta – un attacco dall’Albania …. -  che un produttore fallito e uno spin doctor pazzo, Dustin Hoffman e De Niro, devono inventarsi un per sollevare il presidente americano in corsa per la rielezione da uno scandalo sessuale.
Un fim che si può ritenere un atto di coraggio, nel corso della seconda presidenza Clinton – della penetrazione-non penetrazione di Monica Lewinsky. Ma è anche pauroso, a distanza, viste le cose ora.
Barry Levinson, Sesso e potere

lunedì 20 febbraio 2023

Ombre - 655

Zelensky riceve sotto i missili gli inviati dei grandi giornali italiani, alla vigilia della visita annunciata di Meloni, a sostegno della causa ucraina, complimentoso, e per iniziare dice: “Stiamo ripulendoci della corruzione per entrare nell’Unione Europea. Dopo la guerra, porremmo anche scoprire che ci sono più oligarchi in Italia che in Ucraina”. Non per celia. L’Europa non ha ancora assimilato gli slavi – la sua parte slava.
 
Il superbonus e gli altri bonus edilizi erano insostenibili, all’evidenza. Come tante altre provvidenze del governo grillino, per esempio il reddito di cittadinanza, senza nessun avviamento al lavoro. Ma nessuno, nemmeno mezza riga, che ne faccia colpa a Conte. Tutti a chiedersi: quando cade il governo? Soprattutto a sinistra, che ha spalleggiato il governo grillino.
 
Un missile da 40 mila dollari per abbattere un pallone da 12. Lanciato da un club si appassionati dell’Illinois per figli e nipoti reduci dal film per bambini “Up”. Il presidente Biden lo ha fatto abbattere “su consiglio dei militari”, non per scherzo. Dall’Occidente da cui l’Occidente dipende. .
 
Lapsus di Renato Zero a “Che tempo che fa”. Ricordando il suo teatro tenda che ogni anno, dal 1979, faceva lo spettacolo “Natale a Zerolandia, dal 23 dicembre all’1 gennaio, interrompendo a un certo punto lo spettacolo, la vigilia, per la messa di mezzanotte, per riprenderlo dopo, un’idea che molto lo gratificava, dice, e piaceva a tutti, conclude: “Finché il prefetto Bettiol non ha fatto irruzione”. Bettiol era un pretore, che ordinò l’irruzione di Polizia il 28 dicembre del 1982 per interrompere lo spettacolo. Un giudice è sempre off limits, anche a distanza di quarant’anni. Fanno paura?
 
Negli incontri al Quirinale e alla Farnesina è l’ospite, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, a fare da anfitrione. Una patta sulla mano al presidente Mattarella, come a dare il benvenuto, e un invito alle delegazioni a sedersi per cominciare la seduta di lavoro nell’ampio salone degli Esteri.
Lo stesso ripete a Bruxelles. E poi a Monaco, alla conferenza sulla Sicurezza.
 
Tra i libri che Messina Denaro leggeva molti che non si vendono in edicola ma in libreria, che non c’è nel paese dove viveva. Era uno che si muoveva liberamente? Con l’automobile propria.  
 
L’arbitro Calvarese dice una cosa che tutti sanno, soprattutto i telecronisti, che operano al montaggio, alla moviola. Che la velocità a cui si fa andare il materiale, il taglio, l’illuminazione, fanno vedere una cosa e il suo opposto, possono farla vedere. Non l’avesse mai detto! Non solo, nel caso, fra gli antijuventini, che sono la maggioranza degli italiani e insonni. Di più fra chi manovra la moviola, per es. “La domenica sportiva”, e che ha avuto e ha più voglia di “credere alla tecnologia”. Ipocrisia, forse. Ma forse sono giornalisti tecnologici che non sanno l’abc della tecnologia.
 
“Il tariffario: 200 euro per avere l’intercettazione”. Di cui c’è un commercio, lo sanno bene i giornali, e ora è un caso penale, a Roma. Dove una giovane avvocata è denunciata per avere procurato le intercettazioni, a prezzo modico. È per questo che è stata scoperta (denunciata), perché faceva concorrenza sleale?
 
La tariffa dell’avvocata denunciata era in realtà di 700 euro a telefonata e non 300. Le intercettazioni si vendono a acro prezzo.
 
L’Inps, spazientito, manda cartelle ultimative per il rimborso di congrue annualità di pensione a decine di impiegati e funzionari del gruppo “la Repubblica-l’Espresso” per pre-pensionamenti risultati irregolari, anzi illegali. Spazientito perché l’indagine penale che ha promosso nel 2017 è stata conclusa solo da un anno dalla Procura di Roma – cinque anni. Che nell’anno successivo non ha trovato il tempo di mandare gli avvisi di garanzia agli indagati (ci sono anche funzionari del ministero del Lavoro, ex sindacalisti) né per fissare l’udienza preliminare. Era impegnata con la mafia capitale?
 
Giorgio Ruffolo lo ricorda solo “la Repubblica”. La damnatio memoriae del partito Socialista non cede: sarà la vera pietra fondante di questa immonda Seconda Repubblica, del dipietrismo, del grillismo, del giustizialismo. Dell’ignoranza e la furbizia al potere.
 
La maggioranza progressista dell’Europarlamento, sotto scacco per troppa corruzione, vota ogni giorno decisioni “rivoluzionarie”. L’auto elettrica domani per tutti. I caccia Nato all’Ucraina. Forse perché non conta?
 
Il Portogallo, che produceva 400 mila biciclette l’anno, quante ne bastavano per il mercato interno, ora ne fabbrica tre milioni e le esporta in tuta Europa – primo fabbricante europeo. È bastato ridurre l’Iva al 6 per cento. Senza stare a lagnarsi dell’Europa, della Francia, della Germania, etc. – la lagna che i volponi democristiani hanno impresso alla politica estera italiana, la vecchia Italia del “posto al sole”, della “proletaria”, e tiene il posto di una politica estera quale che sia.
 
Il Portogallo è anche il Paese che da un ventennio offre asilo gratis ai pensionati che vi risiedono per sei mesi l’anno – gratis nel senso di esenzione dalle tasse sul reddito. Che quindi affittano case e e spendono per alimentarsi e curarsi. Bruxelles naturalmente avrà protestato, ma poi si sono accordati nell’asilo ai pensionati per dieci anni - un tempo che non molti superano.
 
Si guarda in tv Paris Saint-Germain-Bayern e si trasecola: 70-80 minuti giocati nell’area del superclub francese, dove quello che guadagna di meno prende il doppio di chi gioca nella squadra bavarese. Il calcio degli sceicchi fa male al calcio – il calcio dei soldi. Si comprano tutto, anche i Mondiali, ma non riescono a fare una squadra.
 
“Pd-M5S, tre milioni di voti finiti nell’astensionismo”, il conto è preso fatto da Balleri sul “Messaggero”: due milioni in Lombardia e uno nel Lazio. Basta confrontare il numero voti tra il 2018 e il 2023.
 
La “straordinaria” vittoria della destra nel Lazio, col 54 per cento, arriva con gli stessi identici voti del 2018 e del 2013, di due sconfitte - circa 850 mila.
In Lombardia Fontana ha stravinto con un milione di voti in meno che nel 2018 – un milione 774 mila contro due milioni 793 mila.
 
Il centro-destra che passa dal 44 al 54 per cento non è segnale da poco. Ma di più conta che a Roma ha votato uno su tre. Cioè: se si votasse di più, l’esito sarebbe diverso. Non ci vuole molto per saperlo, è l’evidenza. Ma di questo non c’è traccia fra i grandi media, che tutti spalleggiano, dicono, il Pd. Per incapacità o a trucco – si sa che i giornali in Italia appartengono a interessi opachi?


“Truffa del finto incidente” a Roma, “bancaria salva un’anziana”, una donna sola, novantenne, che si era recata in banca a prelevare 30 mila euro, in contanti. Trentamila euro in contanti non si possono prelevare, l’impiegata non poteva che insospettirsi. Ma una novantenne, sola, che dispone di un conto corrente con (almeno) trentamila euro? Per sovvenire una figlia incidentata, che dunque esiste. L’Italia non è quella che ci viene detto, un paese bisognoso. E con largo cuore, che accudisce i suoi anziani.
 
«A livello politico manca perfino la consapevolezza dei problemi. Si continua a dibattere su cose improbabili e a spendere in direzioni sbagliate. Diamo bonus per i monopattini, creiamo incentivi alle vacanze, ci inventiamo detassazioni insensate e poi ci troviamo a dover tagliare gli investimenti per ricerca e scuola, e ultimamente anche per la sanità; con risultati sotto gli occhi di tutti». È una vecchia intervista, insomma del tempo del covid, di Vincenzo Visco, ministro delle Finanze tra fine Novecento e primo Millennio, ma sempre attuale.

Political shaming

Fedez può ingiuriare Mario Giordano. Lo fa, espressamente, per farsi pubblicità: usa Giordano per dire, un giorno o due, che esiste, che Fedez esiste. Ma se lo si dicesse di lui si potrebbe offendere.
L’editore inglese Puffin-Penguin per rilanciare le vendite, e gli eredi per allungare le entrate, con un nuovo copyright, modificano le opere di Roald Dahl. Non potrebbero, è un falso. Ma non se sotto la copertura della correzione politica: riscrivono le storie di Dahl togliendo personaggi e termini che contrastano con qualche correzione politica a loro nota.
Non c’è un manuale o un codice del politicamente corretto. Ma c’è, ci sono, posizioni di potere da cui si può proclamarlo, anche con le offese: il politicamente corretto non è una filosofia e nemmeno una ideologia, è una specie di fortezza. Dove conta mettersi con chi conta.  
Fedez può dire che Mario Giordano ha voce sgradevole e appeal negativo. Mario non può dire, per es., che Fedez è un buffone: non si può dire di un buffone che è un buffone. Nemmeno di uno che “fa” il buffone – in simbiosi con Roberto Saviano: chi si somiglia si piglia? O, per dire, che è un magnaccia, uno che si approfitta della moglie, intelligente. Lo shaming è politico, un atto di forza.

L'Italia è postumana 2 - pet industry

È significativo, per capire la non incidenza del fattore economico nella crisi demografica italiana (molte meno nascite delle morti), un raffronto fra la spesa annua per un neonato, di salute, alimentazione e accudimento, e quella di un pet – che comunque andrebbe considerata su più anni. Un confronto non si può fare perché non c’è uno studio o un’ipotesi sul costo medio annuo di un bambino. Mentre c’è per gli animali domestici - 1.600 per il cane e 1.200 per il gatto. Ma un confronto è possibile con la dimensione dei due business, delle due aree di produzione specifica, da parte di fornitori specialistici. Arcaplanet e Isola dei Tesori, i due maggiori operatori per il benessere e dei pet, sono in grande espansione. Arcaplanet ha accresciuto il numero dei negozi specializzati, in richiestissimi franchising, da 390 a 500 nel 2022, e programma nel quinquennio, volendosi espandere al Sud, 200 nuovi negozi – di cui 100 appunto al Sud. Isola dei Tesori, che opera solo in quindici regioni, escludendo il Sud, ha 390 negozi. Arcaplanet programma anche l’entrata nelle polizze e cure mediche, giudicato un comparto in grande espansione.
Per l’economia dei bambini si può assumere come segno di tendenza l’andamento del gruppo più visitato e di maggior nome, Chicco, l’azienda specializzata 0-3 anni di Artsana: ha ridotto i suoi negozi a 150, riducendo anche la presenza nelle farmacie, che una volta ne erano lo sbocco naturale, e ne mantiene all’estero (India, Russia, Messico e Polonia) 160.

Troppe tasse sui redditi (di pochi) – 2

Un titolo infelice de “L’Economia” oggi, il supplemento del “Corriere della sera”, a un conteggio di Alberto Brambilla, non ne falsifica il senso: “I cittadini con un reddito superiore a 35 mila euro, compresi i pensionati, sono 5 milioni: pagano il 60 per cento delle tasse e sono esclusi da qualunque bonus”. E dunque: “Il bancomat che mantiene tutta l’Italia”.
Sembrerebbe grave, ma è come non detto.
E non è tutto, Brambilla in breve può anche dire: 1) i pensionati da 35 mila euro (lordi), che sono l’11 per cento del totale (16 milioni, di cui 7 “sociali”, totalmente o parzialmente a carico dei paganti), pagano 42 miliardi di Irpef (il 70 per cento del totale) e subiscono una rivalutazione ridotta sull’inflazione; 2) negli ultimi 13 anni le rendite mediane  e i salari più alti hanno perso il 20 per cento del potere d’acquisto; 3) negli ultimi 15 anni la spesa assistenziale è passata da 73 a 145 miliardi e i poveri assoluti anziché ridursi sono passati da 2,1 milioni a 5,6 milioni (da 6 a 8,5 quelli in “povertà relativa”). Il paese è dei furbi? Ma allora con i Parlamenti e i governi compresi.  
Questo sito recuperava alla memoria qualche giorno fa l’aureo trattatello di Fuà e Rosini, due economisti impegnati politicamente a sinistra, specialisti di scienza delle finanze, che spiegavano come la progressività fiscale è – in Italia – regressiva. A vantaggio, nel migliore dei casi, di una spesa pubblica parassitaria. Un libro del 1983. Niente è cambiato se non in peggio, da ultimo con l’alluvione demo-grillina – ma solo da ultimo.

La guerra è brutta - tra opposti imperialismi

Su piazza dal 1940, nella Resistenza in Francia e poi nella Liberazione, ma soprattutto centenario (101 anni), Edgar Morin può permettersi di dire la verità sulla guerra, che non è mai bella. Sulle guerre che ha visto – “Dal 1940 all’Ucraina invasa” è il sottotitolo del pamphlet. Di fatto, a partire dalla Grande Guerra. Dall’invenzione delle false notizie di guerra, da allora una costante: nel 1914-18, ha scoperto, gli inglesi pubblicavano i bollettini di guerra propri e quelli dei nemici, mentre in Francia e in Germania cominciavano a dilagare quelle che lo storico Marc Bloch, in guerra sergente in trincea, tratteggerà nel 1921 in “La guerra e le false notizie”. O come si vede dalla guerra in corso: Morin non ha aggiornato l’aneddotica all’Ucraina, o non ne ha avuto il tempo, ma chi ha letto anche un solo giornale in tutti questi mesi ne ha letta almeno una ogni giorno – ci sono specialisti per questo, è una professione (in America se ne fece un film anche famoso, con Dustin Hoffman e De Niro, “Sesso e potere”): dall’innocua combattente-modella, in tiro, con i ricci da parrucco, la mimetica inamidata, e un mitra di cartapesta in spalla (questa la vendevano anche a Gheddafi), ai bombardamenti di asili infantili e ospedali, agli orfani rapiti e venduti (in alternativa si è tentato anche di espiantarli), con le vedove naturalmente violentate, un esercizio libero di fantasia turpe, tanto nessuno se ne ricorda il giorno dopo. Una “isterizzazione” reciproca, commenta Morin, che spinge a un “manicheismo” senza soluzione possibile se non la distruzione dell’avversario, impedendo una “contestualizzazione” delle ragioni in causa, e una possibile transazione, di tregua o di pace.
Morin collega naturalmente Putin a Stalin e all’impero russo: la sua guerra è in continuità con l’imperialismo panrusso all’interno del mondo slavo. Ma tra le cose che può permettersi c’è anche l’evidenza: che la guerra in Ucraina è una guerra “tra due imperialismi, quello russo e quello americano”. Quello avventato e vantone, questo impegnato “per procura”, opportunista, sulle spalle e in danno dell’Ucraina e dell’Europa. E ammonisce a non dimenticare le bugie di guerra americane (in Iraq, per es.), la violazione costante delle leggi internazionali, il sostegno a dittature sanguinarie in America Latina. L’America è una democrazia, senza dubbio, ma “imperialista, colonialista, e perfino genocida”. Di che tremare, insomma.
Anche la guerra difensiva può essere brutta, violenta. Morin può permettersi di non lasciar cadere un fatto che in settant’anni di dopoguerra, o di impero americano, non è stato mai trattato dagli storici – se non tangenzialmente: la guerra aerea, indiscriminata. Di distruzione massiccia, selvaggia. Senza più una parvenza di onorabilità. Sulle città ucraine oggi come già “sulle grandi città tedesche”: “Invochiamo giustamente il «crimine di guerra» quando una città ucraina viene rasa al suolo” dai missili, “ma, analogamente, avremmo dovuto invocarlo quando gli anglo-americani bombardarono Dresda. Non c’era nessun vero obiettivo militare. Solo palazzi abitati da cittadini indifesi”. E poi c’è la storia che non si rifà – non ancora, il Giappone non può ancora permetterselo – dell’atomica.
“Di guerra in guerra” si apre con queste immagini, di Morin ventenne in servizio militare e la scoperta dei bombardamenti a tappeto. Il primo, tedesco, su Rotterdam a maggio del 1940. Poi Londra nell’estate dello stesso anno, salvata dalla Raf. “Poi ci furono i bombardamenti alleati sulle città tedesche”. Pforzheim, dove arriva nel febbraio 1945, addetto di Stato maggiore alla Prima Armata francese, la trova “totalmente distrutta da un raid di 370 bombardieri della Raf”. L’83 per cetno degli edifici erano stati demoliti, un terzo della popolazione, ossia 17 mila civili, uccisi, e altrettanti feriti. “Ho conosciuto in seguito Karlsruhe e Mannheim, completamente devastate dai bombardamenti americani, e infine Berlino, che attraversai da parte a parte nel giugno 1945 tra le rovine…. Infine seppi che il 13 e 14 febbraio dello stesso anno mille e trecento bombardieri inglesi e americani avevano annientato la città d’arte smilitarizzata di Dresda, riversandovi duemilaquattrocentotrenta tonnellate di bombe incendiarie e facendo, secondo una valutazione della Croce Rossa, più di trecentomila morti”. Stragi di cui Morin per ottant’anni, quasi, non si è data ragione, dice, fino all’attaco russo contro l’Ucraina: sono guerre di distruzione di massa, non c'è ragione. “È molto più tardi - dall’invasione dell’Ucraina – che è montata in me la coscienza della barbarie dei bombardamenti compiuti nel nome della civiltà contro la barbarie nazista”.
Questa è la prima pagina della riflessione. Di che non stare tranquilli, nella buona coscienza dell’Occidente.
Con una presentazione di Mauro Cerruti, già collaboratore di Morin, oggi senatore Dem, teorico della complessità, a Ginevra prima a lungo, ora allo Iulm milanese – una sorta di alter ego filosofico del Nobel della Fisica Parisi. 
Edgar Morin,
Di guerra in guerra, Raffaello Cortina, pp. 104 € 12

domenica 19 febbraio 2023

L’Italia è postumana

Altroconsumo censisce in Italia 7,3 milioni di gatti domestici e 7 milioni di cani. Il 39 per cento delle famiglie ha un cane o un gatto in casa. Talvolta anche cane e gatto insieme: le famiglie gattofile sarebbero il 18,3 per cento di tutte le famiglie, quello cinofile il 27,1, quindi con una leggera sovrapposizione dei due animali domestici – le famiglie censite sono 27,6 milioni.
Il costo annuo di un gatto, per cibo, igiene, cure, Altroconsumo calcola in circa 1.200 euro. Quello del cane in circa 1.600. Inoltre, come si sa, gli animali domestici, il cane specialmente, hanno bisogno, per tutto il corso della vita, di attenzione tutto il giorno, per l’igiene, l’alimentazione e per sgranchirsi le gambe e prendere aria - più o meo come un bambino, ma per gli anni, pochi, del pannolino.
La crisi delle nascite in Italia, che ora si scopre ma è in atto da almeno trent’anni, non è dunque dovuta al fattore economico, come si suole dire - la madre vuole lavorare, oppure la coppia ha bisogno che anche la madre lavori. Il tempo dell’accudimento totale è più lungo per un cane che per un bambino. I costi “specifici” sono all’incirca eguali – anzi potenzialmente inferiori per il bambino, che presto può nutrirsi con i cibi in uso nella famiglia.
L’Italia è un caso piuttosto del “postumano” che Rosi Braidotti, italiana da tempo olandese, o australiana, ha teorizzato dieci anni fa. Esito di un certo femminismo anti-genere (la maternità non connota la donna) – di fatto maschilista, ma qui non importa. Il rifiuto della procreazione è di fatto “postumano”.   

Meloni e la palla al centro

Meloni gestisce un partito, da lei fondato, che ragiona e chatta di “comunisti che ci hanno venduto all’Europa”, o a Big Pharma, o all’Africa. Lei personalmente non la pensa così, a quello che si vede. Ma fondare e gestire un partito che chatta così (le vecchie “conversazioni da bar”, anche senza troppe birre in corpo) è un merito o una colpa, o una zavorra da naufragio?
Il merito nella storia politica dell’Italia è solitamente riconosciuto a chi ha saputo democratizzare le spinte eversive, che in un paese di democrazia recente sono in vario modo forti. A Giolitti con i socialisti, a Moro con i comunisti, a Berlusconi con i neofascisti e i leghisti. Sarà Meloni, capo dei conservatori europei, corteggiata dai Popolari, in grado di addomesticare il suo stesso partito?
Dovrebbe essere facile: in Italia il partito è sempre un partito del Capo. Ma nulla di analogo ai veleni dei suoi si legge nelle chat delle destre polacche o ungheresi – forse solo in quelle scandinave.
   

 

Il “consenso” arriva con il Concordato

Il volume è interessante per la prima parte, “Plebiscito di fede”, sul voto popolare chiamato il 24 marzo 1929 ad eleggere la nuova Camera dei Deputati, che doveva ratificare gli accordi fra la Santa Sede e lo Stato italiano. Gentile curiosamente non dà rilievo al senso epocale dei Patti Lateranensi, che chiudevano un’esclusione assurda dei cattolici dalla vita politica nazionale – una esclusione che il mezzo secolo abbondante di vita “liberale” dello Stato italiano non si era curato di chiudere. Si limita a ricordare che a un mese dai Patti Lateranensi, aprendo il 10 marzo 1929 la campagna per il voto del 24, Mussolini così ne poteva presentare la firma: “Per gli Italiani basterà ricordare che il giorno 11 febbraio 1929 è stato dal Sommo Pontefice finalmente e solennemente riconosciuto il Regno d’Italia sotto la monarchia di Casa Savoia, con Roma capitale dello Stato italiano” – sottinteso: a nessun costo, o minimo, per lo Stato. Però lumeggia la mobilitazione del mondo cattolico per il Si come una sorta di anticipazione, di fatto, degli “anni del consenso” defeliciani.
Si schiera per prima l’Azione Cattolica, per tempo, per evitare l’astensione abituale dei cattolici alle urne. Consigliando di votare comunque, anche se i candidati erano fascisti, del partito unico - “ma il plebisicito è sulla fede fascista”, può anticipare lo storico, più che sui Patti Lateranensi. Il presidente dell’Azione Cattolica, Luigi Colombo, lo fece con un discorso a Milano che De Gasperi bollò in privato come “documento di dabbennaggine e di ottimismo infantile”, ma che l’“Osservatore Romano” pubblicò.
La mobilitazione cattolica era importante per evitare l’astensione, alla prima elezione fascista, che si sarebbe potuta mascherare ma non troppo. I rapporti dei prefetti testimonieranno che la mobilitazione fu capillare, organizzata nelle parrocchie, e riuscita. A Cosenza come a Frosinone (“il Clero con a capo i Vescovi delle Diocesi, hanno risposto all’appello. Le comunità religiose, come quelle numerose, delle Abbazie di Casamari e di Trisulti, si sono recate inquadrate alle urne”, è il rapporto del prefetto), a Firenze (“il cardinale partecipò al plebiscito votando in una delle sezioni del centro, la stessa dove votava il prefetto”, nota Gentile), a Reggio Emilia, a Venezia (“il patriarca di Venezia, cardinale La Fontaine, e i vescovi di Chioggia e Portogruaro si recarono alle urne fra gli applausi dei fascisti, mentre il parroco di Malamocco andò a votare con i paramenti sacri…”). Dopo una propaganda elettorale intensa: “Quasi tutti i sacerdoti si prodigarono in opera di propaganda verso gli elettori delle rispettive parrocchie e taluno, contravvenendo a divieto delle superiori Autorità ecclesiastiche, parlò del plebiscito in chiesa, durante la celebrazione della messa”.
Protestarono per la conduzione del voto-plebiscito gli antifascisti, ormai dell’esterno, ma anche “fascisti che avevano votato sì”. Era il primo voto di regime. Ma le proteste non dovettero essere molte. Gentile ne elenca solo due, da Benevento e da Livorno, per la “eccessiva” gestione del voto – “che danno veniva da un milione o due di meno di sì quando fossero stati tutti onestamente dati gli altri milioni”, obietta un contestatore. Il consenso fu sicuramente vasto e entusiasta, molto.
Emilio Gentile, Storia del fascismo – 10. Credere, obbedire, combattere, “la Repubblica”, pp. 157, ill. € 14,90