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sabato 23 maggio 2015

A chi giova la sceneggiata greca

La Grecia non uscirà dall’euro e in qualche modo pagherà i suoi debiti, ma la crisi durerà ancora. Perché serve alle banche di affari e alle altre forze di Borsa. Abbastanza forti da tenerla in piedi ormai da sei anni, fuori da ogni ragionevole criterio. Più che un dramma una sceneggiata.
La crisi greca è anche di famiglia, tra governi che fanno parte di una Unione e s’incontrano e discutono ogni giorno, e quindi ancora più incomprensibile. Ma ovviamente una ragione ce l’ha. Più di una.
Tsipras fa un governo che non piace in Europa. Perché mette in crisi sia i socialisti che le destre. E perché può stabilire un precedente: l’autonomia nazionale di ogni singolo membro dell’Unione, sia pure il più piccolo e debole. Questo non va bene perché l’Europa ama e si compiace dei direttori.
Ma non è solo un gioco politico. I costi della sceneggiata greca sono elevati, e per qualche paese oltre la Grecia stessa, sicuramente l’Italia, disastrosi. Questo è l’esito dell’asimmetria della democrazia europea, per cui alcuni sono “più eguali” degli altri. E delle debolezze italiane, in particolare quella del governo Berlusconi, minato da Fini, cioè dalla destra, e dalla coabitazione con Napolitano.
Ma la questione non si chiude soprattutto perché la Grecia è il comodo punching-ball della destra tedesca. Fino a Schaueble, il maggiore ministro dei governi Merkel. E quindi della stessa Angela Merkel. La Germania ha sempre bisogno di un colpevole.

Due o tre cose che (non) sappiamo sull'Is

C’è la Turchia dietro l’Is, come forza dirompente contro l’opposizione separatista curda al confine con l’Iran e con l’Iraq. E ci sono i principati della penisola arabica, come forza che spazzerà via le comunità sciite loro suddite, prima che gli sciiti li spazzino via come fecero con lo scià. Tutto questo è notorio, ma non ne sappiamo nulla: questa è un storia di stragi e atrocità, ma anche di opinione pubblica fuorviata.
L’Is o Isis - doppio Is, perché ci spaventi di più? - se ne parla come di un’entità sconosciuta. Mentre è su piazza da cinque anni. È stato a lungo vicino all’Occidente,  la punta della lancia contro Assad in Siria. E non è un’organizzazione terroristica o di bande armate rivoluzionarie, ma un esercito. Con carri armati e cannoni, un apparato di intelligence-propaganda, e un apparato di reclutamento forte anche in paesi coma la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, lOlanda, indisturbato.
L’Is è stato, e probabilmente continua a esserlo, finanziato e armato dall’Occidente. Indirettamente, tramite i principati della penisola arabica, Arabia Saudita, Qatar, Dubai, Oman. E armato dalla Turchia di Erdogan, da primo ministro e ora da presidente della Repubblica.
Non c’è dubbio su questo. Loretta Napoleoni fa sforzi per dire l’Is finanziato e armato tramite i riscatti, e il petrolio del Curdistan iracheno. Ma non è possibile: il petrolio non si produce da solo, vuole tecniche e procedure complesse, e pomparlo e venderlo è anche più complicato – a quale terminale, a quale cliente, e come farselo pagare, con montagne di biglietti? E comunque non è vero,

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (246)

Giuseppe Leuzzi

Solo tre compagni di scuola a Padova alla veglia funebre per Domenico Maurantonio, il diciannovenne morto in gita scolastica a Milano. Nessun altro, nemmeno un professore del liceo, nemmeno per dovere di rappresentanza. Paolo Giordano non si capacita, e invece la questione è semplice: la barbarie è, non è solo antimeridionale.

La questione della barbarie si può dire anche così: la Lega non nasce dal niente, la Lega “ha ragione”. E questa è una consolazione, essere “esclusi” dalla Lega e dal leghismo.

Questa settimana “Sette”, settimanale del “Corriere della sera”, si occupa con la sua firma più prestigiosa, Gian Antonio Stella, di un concorso a Lingue e letterature straniere di Ragusa, sede distaccata dell’università di Catania. Di un concorso non a cattedra ma a un “contratto”. L’articolista tratta in dettaglio di un  ricorso contro l’assegnazione della borsa, per dire che a Ragusa, o a Catania, il diritto un vige. E un profumo di scorrettezza c’è, ma non si capisce dove, se a Ragusa o a Milano.

Anche questa storia si può vedere dentro la barbarie. Che il “Corriere della sera” impegni un giornalista sulle cronache “impossibili” dal Sud. Anzi, la sua firma più prestigiosa. Evidentemente ce n’è domanda.

L’Expo delle bandiere blu
L’inquinamento in Toscana, tra Scarlino e Follonica, in un’area di trenta km. quadrati, la zona industriale della Casona e la costa, è talmente elevato da risultare direttamente velenoso. Con tracce abbondanti di arsenico, piombo, zinco, cadmio e altri metalli pesanti, In terra, nell’aria e nelle acque. Non da ora. Ma nessun allarme è dichiarato. Anzi, Follonica, importante centro balneare, ha sempre avuto la bandiera blu. Malgrado sia contigua, oltre che a Scarlino, anche a Piombino. Di inquinato  c’è solo la “terra de fuochi”, che smuova le penne, i vescovi, e gli appalti “verdi”, teoricamente anti-inquinamento, e naturalmente non corrotti.
Scarlino da anni fa propaganda per la sue spiagge bianche – ex soda Solvay? – vantando che siano contigue al parco naturale di Follonica. E magari avrà anche la bandiera blu, come Follonica. Le bandiere sono blu di ossidi.

Per non dire di Milano, la capitale verde del mondo con l’Expo che nutre il pianeta. Milano non ha il mare, si sa, e quindi non può avere la bandiera blu. Ma ha una darsena, che si è recentemente lustrata, e quindi non è detto. Una blu ad honorem  comunque se l’attribuisce con l’Expo, le “città verdi” di architetto, i giardini verticali, i novemila, o novantamila, alberi (non) piantati del maestro Abbado, e le molte chiacchiere, sempre rigorosamente ecologiche.
Milano ha le acque più sporche del pianeta, nei navigli e nei fiumi. Ha le falde inquinate da decenni d sversamenti dei residui tossici di mezza Europa. Non ha collettori.  E nemmeno depuratori. Ma questo non importa: chi ha i soldi fa la realtà.

Il Sud va indietro - chi lo dice?
“Dopo tre anni di recessione, l’economia italiana” torna a crescere: “Ma dietro il dato economico nazionale si riscontra una divisione regionale di lunghissima durata, che si è approfondita negli ultimi anni”. E in conclusione: “Le differenze regionali sono comuni in molti paesi, ma il caso italiano è speciale a causa della sua longevità”. Chi l’ha scoperto, “Il Mattino”, ”La Gazzetta del Mezzogiorno”? No, l“Economist” l’altra settimana, con data 18 maggio. Partendo dalla rilevazione che la crisi in Italia è stata la crisi del Sud.
“In termini di prodotto interno lordo pro capite, gli italiani a Nord sono diventati quasi due volte più ricchi dei loro compatrioti meridionali. Mentre i settentrionali sono più ricchi dei britannici, i meridionali sono più poveri degli sloveni – l’“Economist” compara in una elaborato grafico il Nord e il Sud Italia con 29 paesi europei, sulla base di quattro indicatori: produzione, occupazione, istruzione, digitalizzazione. “La disoccupazione si aggira sul 9,5 per cento al Nord e sul 20,8 per cento al Sud. Nell’istruzione il Nord riesce meglio dei francesi nei test matematici Pisa, i meridionali, per contro, molto peggio dei croati. La maggior parte dell’Italia arranca in Europa in termini di infrastrutture digitali, ma il Sud va peggio: al Nord il 75 per cento delle famiglia ha accesso alla banda larga, al Sud solo il 65 per cento, meno che a Cipro”.
Inevitabile il paragone conclusivo della nota : “Negli anni 1990 la differenza tra l’Ovest e l’Est della Germania era più ampia che tra Nord e Sud Italia, ora è minore”.

Il Sud è pagano
Per molta pubblicistica transalpina, spiega De Martino, “Sud e magia”, il Sud non è magico, nel senso dei maghi, ma pagano. Che dovrebbe essere la stessa cosa ma non lo è: il Sud – il Sud Italia – è pagano nella polemica protestante anticattolica. La Chiesa è pagana perché corriva al Sud pagano e anzi lo fomenta – cioè al Sud si scopre, secondo gli antipapisti, butta via la maschera.
De Martino dice che molti “studi” sono stati fatti in proposito, e ne cita estesamente uno, di Theodor Trede, in quattro volumi, che assicura molto dotto, praticamente su ogni aspetto della religiosità popolare. Con l’avvertenza che la superstizione c’è ovunque, ma nell’Italia del Sud “assume proporzioni di un gigante”, così De Martino sintetizza Trede, “mentre in Germania si ridurrebbe a quella di un nano”. 
De Martino stesso però, pur escludendo la superstizione e la stregoneria, fa grande caso del malocchio. Sia nella prima parte della raccolta, sulla “magia lucana”, sia nella seconda, sulla jettatura a Napoli. Il vecchio, vecchissimo scongiuro apotropaico che sempre ha accompagnato l’uomo nel Mediterraneo – ma anche in Africa, e probabilmente nelle altre culture.  Che non è una superstizione ma una rete “più” complessa di stati psichici – più di quella giornalistica, o tardo positivista. Essendo stato più volte “passato” dalla mamma, che non era fattucchiera, contro il malocchio – l’“occhio” di olio nel’acqua – posso testimoniarne l’effetto ricostituente. In questo senso il Sud è pagano, d’intelligenza e volontà  aperte, vigili.
Le pratiche di scongiuro prevalente sono sul futuro (innamoramento, matrimonio, procreazione), sulla partenza (De Martino è curiosamente sordo a questo tema, pure prevalente ai suoi anni, quando si emigrava ancora in massa), sulla malattia.

Cattolicesimo meridionale
De Martino ha anche un “cattolicesimo meridionale”, contiguo alla “magia lucana”. Territorialmente è incontestabile: nel Meridione il cattolicesimo è meridionale, la stessa Italia lo è. Ma lo studioso intende altro: meridionale dice per superstizioso.
Tutte le pratiche canoniche (battesimo, consacrazione, olio santo, e l’esorcismo stesso naturalmente) lo studioso delle religioni dice esorcismi. La distanza tra la “magia lucana” e il sacrificio della messa riconosce “immensa”, ma solo “culturale”. Mentre l’analogia più volte implicitamente ribadisce.
Ora, De Martino era studioso delle religioni. E meridionale. Non c’è scampo.

La mafia dell’antimafia
Gianna Fregonara segnala con scandalo sul “Corriere della sera” la riapertura a Reggio Calabria degli asili comunali. Come, erano stati chiusi? E sono così pochi, appena tre? Colpa della mafia, dice la giornalista, che ha portato alla chiusura. E anche allo scioglimento del consiglio comunale appena eletto nel 2011, con commissariamento della città: “Dopo le proteste di genitori e associazioni i  commissari avevano cercato di correre ai ripari, provando a rimediare all’ennesimo schiaffo ai cittadini”. Fingendo di non sapere che i commissari sono lì per non fare, giusto per la diaria.
I commissari sono funzionari di Prefettura. Incapaci e incapacitati di tutto, ma felici. Specie dacché le Prefetture hanno potuto moltiplicare gli scioglimenti comunali per mafia, senza dover dimostrare niente – come a Reggio Calabria, dove nessuna incolpazione è seguita allo scioglimento. Per farsi a rotazione dodici-diciotto mesi di retribuzione extra, con uscieri e autisti a disposizione, e il potere di pagare o non pagare gli appaltatori. Un abuso naturalmente non sanzionabile da nessuna legge anticorruzione, e un’assurdità.

Un round per Lo Forte contro Lo Voi nella battaglia per la Procura di Palermo, per chi ne sarà il Procuratore Capo. Il Csm aveva scelto Lo Voi, che non si sa chi sia, giusto che è un giudice, preferendolo a Lo Forte. Il Tar del Lazio onnipotente ha annullato la nomina del Csm. Lo Forte invece si sa chi è, anche perché è il candidato dei giornalisti giudiziari. Nonché per aver bloccato la Procura di Palermo per una dozzina d’anni, per condannare Contrada (la condanna è ora cassata dalla Corte europea di giustizia) e per processare Andreotti capomafia, un atto d’accusa di 120 pagine finito nel nulla. Fu anche famoso in tempi remoti perché il suo capo Rocco Chinnici, quello che alta in aria nel film “La mafia uccide solo d’estate”, lo considerava un intrigante, un maneggione democristiano.
 
Contrada dunque non era processabile, o andava assolto, o insomma quello che è: lo ha stabilito cinque settimane la Corte Europa di Giustizia, il 5 aprile, con abbondante ritardo, ma Contrada non era colpevole. Mentre i suoi giudici hanno fatto carriere strepitose - e hanno evitato di arrestare i mafiosi. Anche alcuni cronisti giudiziari ci hanno fatto carriera, tra anticipazioni e indiscrezioni, e  così la notizia del clamoroso “errore” non ha fatto notizia, non sui giornali.  

leuzzi@antiit.eu

Le gioie della malinconia

Un’allegra storia di vecchiaia. Dove si cumulano altri fallimenti, e si incassano nuovi dividendi. Attorno a due  mostri sacri, il grande musicista e il grande cineasta,  rinchiusi in una spa conventuale, un centro benessere – si dice sia il Berghotel Schatalp a Davos, lo stesso dove Thomas Mann ambientò “La montagna magica”. Testimone ubiquo e muto l’alter ego, anche somatico, del regista: l’attore di cinema re degli incassi incerto sul senso della storia – finirà per immedesimarsi in Hitler. 
Un film allegro benché claustrale – si tratta di (ri)vivere da vecchi i sogni e i giochi da bambini, da ragazzi. Sottilmente claustrofobico benché immerso tra i prati smeraldini delle Alpi - ma è il proprio dei sogni. Per la Spa o Kurhaus dominante, monumentale e vuota, sempre tristemente alla moda oltralpe – e più per le storie letterarie e artistiche che si vuole vi si dipanassero, soprattutto gli adulterii in età matura. Ma in controtendenza con le tematiche funeree, sesso esplicito compreso, del festival di Cannes dove il film ha esordito: si potrebbe dire le gioie della malinconia. Di una tristezza avvertita, matura, nei vecchi come nei giovani, che sanno guardare oltre. La malinconia cui la letteratura ci ha avvezzati vuole morti e rovine, quella di Ossian, Foscolo, Senancour, del romanticismo in genere, qui siamo oltre la tristezza, come a una ripartenza, consapevoli della fine. Solo l’intellettualità vacua è bollata (“Strawinskij una volta mi ha detto che gli intellettuali non hanno gusto”), sotto forma di  sceneggiatori di cinema assorti e sciocchi.
Un film nuovamente felliniano, come “La grande bellezza”, e personale. Infiniti gli echi e i calchi. Sophia Loren al debutto nelle forme di Madalina Ghenea, con lo stesso sguardo sottomesso e sfidante, oltre che con le forme prorompenti. Lo Steiner-Alain Cuny della “Dolce vita” nel regista Harvey Keitel che sceneggia “L’ultimo giorno di vita”, l’ultimo suo film, prima di uccidersi. Il regista inseguito dalle sue attrici - i suoi fantasmi - nel prato, in maschera. Madalina Ghenea sull’acqua alta in piazza San Marco come Anita Ekberg nella fontana di Trevi  
Per molti versi Sorrrentino sembra un avatar, buono, di Fellini. Per il gusto delle immagini, che si diverte in ogni film a rifare. Ha perfino il “suo” attore, Toni Servillo, come Matroianni per Fellini. Che a un certo punto anche lui abbandona – qui per Michael Caine. Altrettanto innamorato della cinepresa, del mestiere – qui improvvisa pure il videoclip, e lo fa con maestria, senza respiro, più rapido del videogame.  Se “La grande bellezza” era la sua “Dolce vita”, questo “Youth”“ è il suo “8 e 1\2” - o piuttosto il suo “Amarcord”.
Ma, poi, Sorrentino scrive i suoi film – filma i suoi romanzi - mentre Fellini li disegnava. Li scrive e li sceneggia da solo. Qui irride la truppa dei cosceneggiatori che normalmente fa corona al regista di un film. E non improvvisa. Fellini, che era stato sceneggiatore di Lattuada, Germi, Comencini, amava lavorare con sceneggiatori di genio, Zavattini, Flaiano, Tullio Pinelli, Tonino Guerra, Brunello Rondi, Pasolini – oggi, certo, dove li troverebbe Sorrentino? Ma sul set improvvisava, lasciandosi trascinare dagli umori e dalle immagini stesse. Sorrentino vuole personaggi, anche marginali, con una storia, costruiti, mentre Fellini li voleva episodici, meglio se in maschera, e esagerati. Fellini è autofictivo nei film maggiori, compreso “Casanova”, e eccessivo, “espressionista”. Sorrentino è un narratore, limpido, non intromettente. Della stessa forza malinconica, ma sottile. Ugualmente invadente, forse ossessiva, ma non gridata. 
Paolo Sorrentino, Youth
Paolo Sorrentino, Giovinezza. Youth, Rizzoli, pp. 194, ril. € 17

venerdì 22 maggio 2015

Ombre - 268

I candidati delle destre e 5 Stelle alla Regione Toscana più che fare campagna si divertono: alle tv, nei giornali, alle tavolate. Sanno che il Pd vincerà al primo turno. Non col sistema Italicum , cioè con pochi voti: lo statuto elettorale toscano vuole il 50,1 per cento dei voti, altrimenti si va al ballottaggio. Si penserebbe che questo accenda la sfida, e invece no: tutto è deciso nelle segrete (logge)?
 
Il giudice Milena Melloni condanna a  Bologna l’ex direttore del “Resto del carlino” Visci per avere pubblicato un necrologio diffamatorio. Pena ridotta per averlo pubblicato solo sulla pagina di Bologna. Il responsabile della raccolta pubblicitaria invece la giudice lo ha assolto.

Al chirurgo Paolo Macchiarini, arrestato nel 2012 per corruzione, il Karolinska Institute di Stoccolma contesta la falsificazione dei dati dei tre trapianti di trachea che vi ha effettuato in qualità di visiting professor. Per Macchiarini, che veniva da Barcellona con la fama di grande trapiantatore di trachee, la Regione Toscana creò un Centro di ricerca, malgrado i suoi titoli fossero già allora contestati. Ma nessuno, né in Toscana né a Roma, ne chiede conto alla Regione.

Il presidente della Regione Toscana Rossi, lo sponsor del chirurgo, lo dice un taumaturgo. Uno che aveva rinnovato l’ospedalità in Toscana. Migliorandone anche, da solo, i rendimenti.
Senza contestazioni, e nemmeno risate – lo spiritaccio fiorentino si ferma davanti al potere.
Macchiarini sarebbe ora a operare in Russia, pare. Da dove non c’è l’estradizione.

Lupi, costretto alle dimissioni da ministro per scarsa moralità, si propone da capogruppo parlamentare degli alfaniani ogni giorno, in ogni telegiornale. Per allontanare dalla politica?

Capita di leggere il saggio di Ernesto De Marino sulla jettatura a Napoli (in “Sud e magia”), con un senso di stantio. E poi di leggere che l’ex viceministro De Luca, prossimo presidente della Campania, si è rotto un dito per il malocchio di un uomo del suo concorrente Caldoro: “È il risultato di un assessore di Caldoro che porta seccia”. Di nuovo c’è solo il vocabolario?

L’Is di Libia che voleva abbeverarsi alle fontane di piazza San Pietro da qualche tempo tace - dopo il bombardamento egiziano. L’Is di Siria e Iraq invece occupa Palmyra, poi la disoccupa, poi la rioccupa. Poi occupa Ramadi, poi la disoccupa, poi la rioccupa. Un “fronte compatto”, si dice. Da Palmyra a Ramadi, per 700 km., di deserto?

Fulmini a catena dell’Inter, da ultimo anche Zanetti, su Sacchi. Sacchi si era limitato a dire che l’Inter di Mourinho vinceva con undici stranieri. E che pure la Primavera Inter è farcita di ragazzi di colore. Tutto vero, detto anche nella maniera giusta. Ma Zanetti infine la gioca, l’arma totale dell’Inter: Sacchi è un razzista.  A Milano c’è il delitto anche di lesa Inter.

Renzi va in televisione per dire ricche, da punire, le pensioni da tremila euro, lordi. Poi ci ripensa, e torna in tv per dire: come si può dire ricca una pensione da tremila euro lordi - 1.600 netti? Tempista, lo è senz’altro.

Gli agricoltori svizzeri offrono contratti agli immigrati a duemila franchi, praticamente duemila euro – come dire: accontentatevi. Chi è più democratico,  il governo democrat a Roma o i contadini svizzeri?
E dire che gli svizzeri hanno nomea di ipocriti.

Fatto il referendum per l’acqua bene pubblico e intoccabile, Publiaqua a Firenze ha preso a staccare la fornitura se un solo condomino, magari in un casamento di quaranta o cinquanta appartamenti, è moroso. Il bene è pubblico e va protetto.
Ci sono state cause per questo. Ma ora sono tante che non si riesce più a nascondere la notizia.

Ospite di Fazio sabato è Michael Dobbs, di cui Fazi pubblica il romanzo politico “House of Cards”. Prima e dopo si criticano Barbara Spinelli, e Matteo Renzi. Per Dobbs applausi. Dobbs è parlamentare conservatore, prima che scrittore, ed è stato chief of staff di Margaret Thatcher. Non si capisce bene.


Il “Corriere della sera-Firenze” contesta vigorosamente le erogazioni del neo costituto Fondo per la promozione della moda (50 milioni…): 15 milioni a Milano, solo 2 a Firenze (600 mila euro a Roma). Il lettore della “Corriere della sera” a Milano non ne sa nulla.

L'evoluzione è ominicida

Si può pensare al femminicidio indotto, dalla protervia femminile? Primo Levi non lo dice, al suo tempo i sessi non erano divisi, ma il lettore d’oggi ne trae l’impressione che il femminicidio cristallizzi una frustrazione di lungo periodo, da selezione naturale. Tante sono le specie su cui Levi si attarda di femmine che divorano i maschi una volta fecondate: mantidi, api, ragni femmina, superlucciole. Finendo per far dire all’ape regina, dall’alto della storia (“il nostro regime vive da centocinquanta milioni di anni, e il vostro neanche da uno”): “Un maschio ogni cinquanta femmine basterebbe in abbondanza” – per la riproduzione, mentre “tutte quelle repliche” sono “tutte ore di lavoro perduto” - “e oltre tutto risolvereste anche il problema della fame nel mondo”.
Fin da ragazzo la natura assorbiva la curiosità di Primo Levi, nei mesi estivi in cui, “da cittadino”, ci si immergeva. I girini. I grilli. E rimase il suo primo e più costante interesse perfino nell’anno dell’internamento a Auschwitz. I racconti e gli elzeviri che Ernesto Ferrero ha qui collazionato sono parte di raccolte già note, ma l’idea di metterle insieme per affinità tematica non è superflua: dà probabilmente il senso più vero della vita e del pensiero della vita in Primo Levi: uno scienziato, un materialista. Quietamente, senza furori ateisti, e anzi con qualche riferimento alla Provvidenza, seppure nel senso manzoniano, dell’ordine delle cose, della selezione naturale. 
Il titolo della raccolta è fiabesco, i testi no. I racconti – sono raccontati anche gli elzeviri e le interviste immaginarie - sono più spesso divagazioni. Apologhi più che racconti, anche se senza la morale finale. Fantascientifici, ma più scientifici (chimici, etologici, filosofici) che fantasiosi: di mondi possibili radicati nell’evoluzione creatrice. Giocosi per lo più, quasi parodistici, e non apocalittici. Vivono qui le piante, gli alberi, i fiori,  i lemuri, gli invertebrati, i microrganismi, le memorie sedimentate nei millenni, il dimorfismo sessuale. In generale, l’eccezionalità e la diversità, prima dell’addomesticamento o appiattimento nella cultura, nelle regole. Su un fondamento cioè di solida materia.
Ferrero ricorda che Massimo Mila propose di definire Primo Levi, in morte, un umorista. Che forse è troppo: Levi non ha il distacco dell’ironista, comunque amaro, ma la curiosità divertita – e divertente – del materialista. La “volontà di vita” gli si presenta oscura ma meravigliosa. Anche lui, come i suoi biologi di “Verso Occidente”, alla ricerca dell’“ormone che inibisce il vuoto esistenziale”. Per l’antologia di testi formativi cui Giulio Bollati lo incoraggiò nel 1981, poi raccolti in “La ricerca delle radici”, Levi scelse come tema del primo raggruppamento “La salvazione del riso”.
Mettendo tutte queste fantasie insieme, Ferrero le ha sottratte all’etichetta di marginalia sotto la quale sono state finora etichettate, volendosi Primo Levi un uomo e uno scrittore pubblico e politico, della Resistenza e della Testimonianza contro l’abiezione fascista e nazista. E ne ha inavvertitamente dato la dimensione reale – ha dato i mattoni su cui rifare la costruzione. Che è sì di testimone dello sterminio. Ma di suo è legato a un’ontologia elementare, nel senso degli elementi. Nel lager alla volontà di resistenza all’abominio, più che agli stenti. Nella sua vita, prima e dopo, alla meraviglia della vita naturale. In cui la storia si mischia con la natura: elementi, composti, fermentazioni, ibridazioni, scambi di energia, perfino di suoni, anzi di tonalità dello stesso suono. Una passione solo temperata dal senso torinese (piemontese) dell’equilibrio.   
Primo Levi ha vissuto un materialismo non dichiarato ma costante. Già nella sua vita precedente, di studente svagato, ma anche dopo la morte e la resurrezione. Di un mondo che è così ma potrebbe essere, è stato, sarà, in tante altre forme. E rifugge da Dio, poiché non esiste - non  ce n’è bisogno. La Provvidenza ricorre come ragione del creato medesimo. È “incredibile la miopia” dei nemici di Darwin in nome della ragione, sbotta nel testo che Ferreo appone alla silloge: “Dall’opera di Darwin, che coincide con la sua stessa vita, spira una  religiosità profonda e seria, la gioia sobria dell’uomo che dal groviglio estrae l’ordine, che si rallegra del misterioso parallelismo fra la propria ragione e l’universo, e che nell’universo vede un grande disegno”. Che di Darwiin può essere un  ritratto di maniera, ma per lo scrittore è sicuro modello.  
Sorridente (scettico) in tutto, fuori dalle certezze delle sue provette di chimico. Anche sulla non credenza: “Qualche lettore si chiederà a cosa servono queste ricerche: un animo religioso potrebbe rispondere che anche in una pulce si rispecchia l’armonia del creato; uno spirito laico preferisce osservare che la domanda non è pertinente, e che un mono in cui si studiassero solo le cose che servono sarebbe più triste, più povero, e forse anche più violento del mondo che ci è toccato in sorte. In sostanza, la seconda risposta non è molto diversa dalla prima”. 
Completano la raccolta le poesie degli animali. Di stile gozzaniano - anche Gozzano amava gli insetti.
I raccontini più arieggiati, nella forma di interviste immaginarie con animali, sono della primavera del 1987, preludio alla morte tragica.
Primo Levi, Ranocchi sulla luna e altri animali, Einaudi, pp. 220 € 19


giovedì 21 maggio 2015

Letture - 215

letterautore

Aforisma - Una rincorsa continua, scrive Felice Ciro Pappano a commento della raccolta  di Valéry intitolata “Cattivi pensieri”,  sullo “stereotipo” – la “dannazione faustiana”, si dice lo stesso Valéry. Esito e matrice delle avanguardie che segnano il primo Novecento: l’ansia di innovare (rompere, aprire) e sistemare insieme. Di cui poco rimane se non il movimento stesso, il riconoscimento dell’esigenza di muovere, muoversi. Innovare cioè, il riflesso condizionato dell’intelligenza.

Decadenza – La decadenza in letteratura Valéry vuole “sistematica”: “il prodotto di uomini più dotti, più ingegnosi e a volte anche più profondi degli scrittori precedenti, di cui hanno ripreso tutti gli effetti annoverabili, accolto, classificato, concentrato il meglio”. Era il “programma”  del postmoderno.
La decadenza fa “coesistere”, dice ancora Valéry, “opere esteriormente  molto diverse, che per la loro caratteristiche sembrerebbero appartenere a epoche ben distinte”. L’una “di straordinaria ingenuità”, l’altra “espressione di un selvaggio”, accanto all’autore  “così totalmente metaforico che risulta impossibile distinguere fra ciò che vuole dire e l’espressione che usa”. Ma uniformi: “Questi autori così diversi sono infinitamente vicini. Hanno letto gli stessi libri, gli stessi giornali – hanno frequentato gli stessi licei, e avuto in genere le stesse donne…”.
La scrittura delle scuole di scrittura è necessariamente decadente, in questo senso – donne escluse, inavvicinabili.

Dialetto – Primo Levi lo vedrebbe bene restaurato nei nomi e toponimi, come più sensato e comunque espressivo. Una serie di esempi portando, nell’elzeviro “Lo scoiattolo” (ora in “Ranocchi sulla luna e altri animali”), che in effetti rimandano, nella forma italianizzata degli ufficiali dello stato civile, al suono falso dei nomi e toponimi tirolesi o sloveni italianizzati delle aree di frontiera.
La scoperta Levi fa casualmente, presentando un suo amico Perrone a delle vecchie zie di provincia che si ostineranno a chiamarlo Munssù Prún. Nel caso, la dialettizzazione non gli piace, “la distanza fonetica tra Perrone e Prún è grande”. Ma in altri la trova invece persuasiva: “In Piemonte, cognomi come Bergesio, Cravetto, masoero, Schina, Súita, Pentenero, vengono subito riconosciuti come nostrani, e nel contesto di un discorso in dialetto vengono restaurati alle loro forme originarie (Bergé = pastore, Cravèt = capretto, Masué = mezzadro, Schin-a = schiena, Süita = siccità, Pentné = pettinaio)”. Le forme italianizzate rivelando fastidiose, per gli stessi interessati.
Ma poi anche del Perrone-Prún Levi non sa che pensare. Dopo che ha scoperto che prún è lo scoiattolo. Deluso, anche, dal Dizionario dei cognomi italiani” di E. De Felice, che di Perrone fa “uno dei molti dervati da Pietro”.

Fascista – Fascista è il linguaggio, asserì Roland Barthes in una lezione, subito memorabile (trasmessa alla radio, pubblicata su Le Monde”) e poi dispersa, al Collège de France nel 1977, “Pier Paolo Pasolini e Sade” – una lezione per la verità aggrovigliata sulla trasmissione dei saperi, insomma sulla cultura, di quanto sia autoritaria, un esercizio di potere. In Italia è anche peggio. Negli anni della lingua di legno, o biforcuta, o triforcuta, della doppia e tripla verità, e anche dopo – ammesso che siamo “dopo”.  Chi  non è fascista in Italia? Da Curcio a Berlusconi e Renzi, a Fassina, e un poco anche Camusso. Fascista era la stessa storia, per Elsa Morante – Morante e Moravia erano famosi per “non” essere fascisti, Carlo Emilio Gadda se li ritrovava militanti importuni se poco poco usciva per cena la sera, da single che pure doveva sfamarsi.  

Genet – Trascurato e anzi obliterato nell’epoca in cui il “tutto sesso” e il transgender di cui fu il pioniere fa genere praticamente unico in romanzi, racconti, teatro e cinema. In effetti, aveva esaurito il genere nel mentre che lo imponeva, non recedendo da nessuna “trasgressione”. Fu però pedofilo manifesto e anzi esibito in numerose prose, in cui celebra il “l’occhio di bronzo”, la rondella”, “la cipolla”, e “i fanciulli” (più esplicito che altrove forse in “Pompe funebri”: “La venerazione che porto a questo posto del corpo e l’immensa tenerezza che ho accordato ai fanciulli che mi permisero di penetrarvi, la grazia e la gentilezza del dono di questi bambini…”), e questo oggi lo condanna .

Merini – Resta inspiegata, la follia in letteratura non come oggetto ma come soggetto: il caso preclaro è Alda Merini, ma anche Saro Napoli (“Incom”), Dino Campana, ufficialmente anche Pound, o nel Seicento il Tasso. Di una capacità di versificazione facile e insieme qualitativamente elevata, unita alla pluralità degli interessi, a un’estrema sintesi e rapidità di giudizio, e sempre a un equilibrio malgrado tutto robusto. Le proprietà poetiche della schizofrenia restano da indagare. O la schizofrenia in poesia.
I testi che si propongono in argomento sono un’antologizzazione dei “casi” storici. Il sito francese Babelio repertoria 1.665 libri sul tema “follia”, ma si tratta di opere che abbiano personaggi folli o situazioni di follia, più qualche testo bio-bibliografico. Non c’è l’analisi del rapporto poesia-follia. Lo psichiatra Vittorino Andreoli, nel voluminoso “Il matto di carta” o “la follia nella letteratura”, 2008, propone un repertorio di situazioni, storie e personaggi che ricorrono, con qualche problema psichico. Ma non  degli autori, che siano vittime di follia in questa o quella fase della loro esperienza, e magari per lunghi periodi, o a intermittenza.

Parassita – È arte ammirevole, spiega il Primo Levi naturalista de “Il salto della pulce”, una delle sue divagazioni parascientifiche ora raccolte in “Ranocchi sulla luna e altri animali”: “Fra gli animali, sono proprio i parassiti quelli che dovremmo più ammirare per l’originalità”, dell’anatomia, della fisiologia e delle abitudini. Sono “fastidiosi o nocivi”. Ma che meraviglia”! “Basti pensare ai vermi intestinali: si nutrono, a nostre spese, di un cibo così perfetto che, unici nella creazione insieme forse con gli angeli, non hanno ano”. O alle pulci dei conigli, “le cui ovaie, grazie ad un complicato gioco di messaggi ormonali, lavorano in sincronia con le ovaie dell’ospite: così coniglia e ospite figliano contemporaneamente”, per cui ogni coniglietto “uscirà dal nido già provvisto di pulci sue coetanee”.
Una favola naturale per una volta in Primo Levi con una morale: “Bisogna ricordare che il mestiere di parassita “colui  che mangia al tuo fianco”) non è facile, né nel mondo animale né in quello umano”

Poeta nazionale – La Francia non ne ha uno. Nemmeno la Spagna. L’Italia invece ne abbonda, da Dante a Montale. Anche l’Inghilterra, che peraltro privilegia Shakespeare. E la Russia fa l’analogo con Puškin. C’è un perché? Gli Stati Uniti ne sono alla ricerca, avendo rinunciato (provvisoriamente?) a Pound – in Whitman si riconoscono e non si riconoscono, Pound è “mondiale”, e multilinguistico.

Provvidenza – È rimasta manzoniana, dove Manzoni l’ha collocata nel romanzo, nei saggi e nelle lettere. Parte quindi, sentitamente, dello stesso pessimismo. Senza nulla di divino, malgrado i proclami, anzi con un che di profano e materiale, se non materialista. Come l’ordine delle cose, degli accadimenti sociali, politici e naturali, non a buon fine, e nemmeno regolati.

letterautore@antiit.eu

La guerra meglio fredda

Sul filo del paradosso, l’ambasciatore Romano sostiene che i due blocchi irreggimentavano la violenza. Sotto l’ombrello nucleare, che non era esattamente protettivo ma minaccioso, per tutti. Senza cioè vittoria possibile. Mentre lo sciogliete le fila ha accresciuto la litigiosità nel mondo. Moltiplicato le guerre, le stragi, gli stermini tribali e razziali. Portando  la guerra perfino in Europa, nella ex Jugoslavia e ora in Ucraina e con la Russia.
È vero, ma fino a un certo punto. Sono ora le guerre a  basso voltaggio, “tradizionali”. Mentre nei quaranta e più anni di guerra fredda non ci furono forse guerre “calde” molto più vaste, gravi e insidiose, con lager e proscrizioni, e esodi\stermini di intere popolazioni? Non è neanche vero che col condominio atomico non ci fu mai il rischio di un’ecatombe: ci fu un allarme rosso nella crisi dei missili a Cuba nel 1962, e un altro nella guerra del Kippur nell’ottobre 1973.
È un paradosso però utile per l’epoca così eccezionalmente smemorata – ci pensiamo nella pace perpetua: non siamo nella fine della storia, la politica (diplomazia) deve stare all’erta come sempre. Un utile promemoria Romano ha costruito raccogliendo le note in argomento, una trentina, che quotidianamente pubblica per la posta del “Corriere della sera”. “Cinquant’anni di pace”, “La rivoluzione ungherese”, “La primavera di Praga”, fino alle “Rivolte arabe”.
Sergio Romano, In lode della guerra fredda. Una controstoria, Longanesi, pp. 132 € 16

mercoledì 20 maggio 2015

La riforma della scuola privata

Noioso e scontato il dibattito alla Camera sulla scuola. Renzi ha proposto un preside onnipotente come feticcio, per attrarre e monopolizzare l’attenzione, e i deputati abboccano. Un sorta di punching-ball, per farli esercitare a vuoto.
La vera “riforma” è la detrazione fiscale delle spese per le scuole private, di tutti i figli, dal nido all’università. Non di tutta la spesa, di una parte. Ma, come si è premurato di far sapere il presidente del consiglio, “importante è stabilire il principio”.

Si può dire Renzi più furbo? Ma tutti sanno che il vero fine della Buona Scuola è liberalizzarla. In privto se lo dicono tutti, a Montecitorio. Ma fanno finta di nulla: nel noioso dibattito nemmeno un accenno, nemmeno ironico, sulla verità della legge.

La Storia non morde

La Storia, maiuscola, corre per settecento fitte pagine verso una fine nota: è la storia di quella fine (un bambino trovato morto in casa al Testaccio, a Roma, la madre impazzita, e una cagna pastore che vigila gelosa sulla catastrofe). Un romanzo che è quindi una sfida. A ritmo sostenuto e quasi aggressivo: un atto di furore. Ma con stilemi che avvincono poco, a meno di volersi vittime.
Una storia quindi di vittimismo? Purtroppo sì: la Storia non siamo noi, la Storia è fascista - e anche, si diceva quarant’anni fa, “La Storia”uscì nel 1974, padronale. Un romanzone, un romanzaccio. Un concentrato moltiplicato delle saghe dei “vinti”: stupri, bombardamenti, fame, malattie, pene e affanni non hanno rimedio e non hanno fine.
Una storia a sé, in questa edizione che riproduce quella ET, dei tascabili Einaudi, è la prefazione di Cesare Garboli, 1995, disinvolta e opportunista. Che Morante mette in lista con Stendhal, Victor Hugo (“I miserabili”) e Dickens. Una caricatura di apprezzamento, forse non involontaria - Garboli sarà subito dopo il curatore delle opere di Elsa Morante. Dopo averlo detto, nella memoria, “famigerato e discusso”, “didattico e puntiglioso”. Tutto sbagliato, dice rileggendolo: “Ho cercato invano i lezii e i diminutivi che mi avevano infastidito vent’anni fa”. Che però, purtroppo, ci sono. E non solo i lezii. È vero che “La Storia” non è il romanzo ”indignato, ribelle, polemico, ideologico” sotto la cui coltre la memoria del critico lo aveva seppellito. Ma non è nemmeno, non può essere, il “romanzo gaio, arioso, e… «divertente», pieno di humour” che Garboli pretende. Né “metafisico e sapienziale”. Se non nel genere favolistico, con cui Morante era cresciuta.
Questo forse “La Storia” è: una lunga fiaba. Il segreto del suo immediato successo, con 600 mila copie all’uscita – il record dell’editoria italiana fino a “Gomorra”. Benché corposa, la narrazione ha andamento fiabesco. Con interpolazioni di filastrocche e poesiole, e interlocuzioni  paradialettali – romanesche, cosentine – di tipo fanciullesco. Fiabesco l’uso di nomignoli e diminutivi (che tanto avevano infastidito, anche Garboli), e i ritmi, le interiezioni, le metamorfosi, spesso istantanee, molte delle digressioni, e la digressione stessa. Il tratto fiabesco dei debutti Elsa Morante ha conservato in tutta l’attività posteriore, di racconti, romanzi e poesie. Le stesse cronologie degli eventi importanti, che qui antepone a ogni capitolo, evocano più che dire, lontane dalla rete-verità che si supporrebbe.   
Garboli lo dice a distanza un romanzo-programma – uno dei tanti degli autori in età sorpresi dall’onda d’urto del Sessantotto. Questo è possibile, la scrittrice fu molto amata - otre che sempre violentemente innamorata, di Moravia, Bill Morrow, altri anonimi, e perfino Luchino Visconti e Pasolini. E più amata dagli ex del Sessantotto. Confluisce anche il programma dichiarato: la denuncia di “uno scandalo che dura da diecimila anni” – il male nel mondo, il male dei poveri. Ma “La Storia” non è violenta, è anzi anti-violento. Né rivoluzionaria, nemmeno in petto. Perfino filotedesca, per pacifismo preconcetto: benché una traccia delle persecuzioni degli ebrei sia visibile nell’ammasso delle disgrazie, non è antitedesca – un caso unico.
La Liberazione non libera
 “La Storia” si vuole una polemica contro la Storia, con la vita minima e misera di alcuni quartieri – allora – popolari di Roma. Di pezzi diversi di quartiere, che si combinano in una mappa della frustrazione costante. Questa polemica “non storia” la scrittrice impianta polemica storicamente, ogni capitolo facendo precedere da larghe cronostorie, annuali o periodiche. Si comincia anzi con una cronologia politica, dal 1900 al 1941. Cui segue però, in epigrafe, questo incipit della narrazione: “Un giorno di gennaio dell’anno\ 1941\ un soldato tedesco camminava\ nel quartiere di San Lorenzo a Roma…”
È l’avvio di un ciclo, per il bene e per il male. Da “La Storia” un filone è germogliato vent’anni dopo – in una con la prefazione-peana d Garboli - e ancora dura. Sull’emigrazione, interna e esterna, il duro lavoro, le disgrazie sempre in agguato, la povertà imbattibile e, se altro non concorre, la malattia o l’incidente, mortali, con corredo di stupri, fuori e dentro la famiglia, incesti, pedofilie, prostituzioni. Anche nella modalità della narrazione: un polverio di storie piccole e minime. In un quadro prospettico classista, della violenza che si esercita sui piccoli e indifesi, più che tra di essi. In tutto il ventaglio immaginabile: sociale, politico, bellico, razziale, di genere (il genere” c’era prima che si costituisse in genere), fisico, fisiologico, mentale, alimentare.
Si legge – questo è importante per un romanzo popolare? Si legge. Con costrutto? Troppo insistito per essere convincente – per “prendere”. Eco, appassionato del “fogliettone”, del romanzo d’avventure, non ha trovato modo di occuparsene. Molto connotativo, ma nel senso del folklore. E senza fantasia. Un esercizio oratorio sempre vivace ma a pialla, un bulldozer.
Il “Corriere della sera” ripubblica il romanzo nella collana dedicata alla Resistenza per i settant’anni della Liberazione. La Resistenza c’è, ma in una liberazione che non libera, dopo i nove mesi di occupazione tedesca di Roma. Anzi deprime, con personaggi e fatti anch’essi immersi nel cono  della morte, del disfacimento inevitabile. Con una dedica “all’analfabeta per il quale scrivo” – in spagnolesco, eco di Garcia Marquez, “El coronèl non tiene quién le escriba”. Elsa Morante era soprattutto una donnina affaccendata.

Elsa Morante, La storia, Corriere della sera, pp. 622 € 7,90

Al Dio minore del calcio minore

“Macalli e Tavecchio sono due rincoglioniti. In mano a Lotito, che li ricatta”.  C’era bisogno della Polizia di Stato,con complessi apparati di intercettazione e trascrizione, per dire quello che tutti si dicono, ogni giorno, in ogni crocchio. Cioè, si sono detti, per mesi, ormai si sono stufati. Quelli che parlano di calcio naturalmente.
Di nuovo – ma è da mandato d’arresto? – c’è solo l’uso improprio di “ricatto”: Macalli e Tavecchio li ha creati e li comanda Lotito.
Di più degli inquirenti impressionano i giornalisti. Che un giudice possa non sapere di Lotito e Tavecchio è possibile, tante cose un giudice non sa. Ma un giornalista?
Si fa dire poi che il calcio minore è controllato dalla ‘ndrangheta – con l’inevitabile commento di Gratteri. Ma tra i 130 indagati e arrestati si trova un solo ‘ndranghetista, da alcuni anni in carcere.
Il commento è inevitabile anche di Renzi: non c’è cronaca che se ne privi. Renzi non sa che dire e fa dire: “Nell’anno della Juventus finalista di coppa dei Campioni, non facciamo figuracce”. Il culto della personalità c’è, i giornalisti del Millennio ci sbavano sopra, ma perché ci trattano così male?

Cioè: Renzi pazienza, ma fategli dire un cosa “intelligente”. È come se con la serie minore del calco anche l’intelligenza scalasse – c’è un Dio minore per il calcio minore?

martedì 19 maggio 2015

L'insopprimbile tentazione di pensare

Il “Piccolo salmo del mattino” è un programma accattivante: “La mia mente pensa alla mia mente.\ La mia storia mi è estranea.\ Il mio nome mi stupisce e il mio corpo è idea.\ Ciò che sono stato è insieme a tutti gli altri.\ E io non sono neanche ciò che sarò”. L’attacco è ambizioso: dare colore al “più del 99%” della “sostanza mentale” che è “costituito da immagini e impressioni senza valore” – anche perché “le concessioni inusuali, i pensieri nuovi e singolari traggono tutto il loro valore da questo fondo volgare che li fa risaltare”. Ma solo il progetto è eversivo, i “cattivi pensieri” si ordinano più concettosi, se possibile, che nelle altre raccolte di Valéry, “Alfabeto”, “Tel Quel”, “Varietà”, e ora i “Quaderni”. Sempre rapsodici, occasionali, come compagni di strada, ma “pensare altrimenti” è purtroppo vezzo comune non appropriabile.
È un libro d’autore, del poeta pensatore, che insopprimibile ha il bisogno di riflettere. Ce n’è del resto per molte passeggiate mentali indipendenti. In forma prevalentemente di aforisma. Talvolta a prima vista contestabile: “La donna è nemica dello spirito, sia che doni sia che rifiuti l’amore”. Ma forse, benché scorretto, no: “Nemica naturale e necessaria” è la donna dello spirito; “anzi, la migliore nemica dello spirito”. E c’è un perché: “L’anima è la donna del corpo” – anche se, forse, troppo sottile. La misoginia però c’è, non dichiarata. E la solitudine: mai un riferimento, sia pure di censura, un nome, un’eco.  “Non si riesce a immaginare a che cosa potrebbe pensare un dio”, anche questo è vero. Disuguale, questo sì – le raccolte, quando non sono selettive, stancano.
Paul Valéry, Cattivi pensieri, Adelphi, pp. 215 € 12

Renzi perde 4-3

Doveva finire 7-0, finirà 4-3, e non sarà una vittoria ma una sconfitta (potrà pure finire 4-4, bisogna vedere quanto è duro ancora lo zoccolo ex Pci in Umbria). All’improvviso è frana, e proprio sul punto considerato più solido, il piedistallo di Renzi: sondaggi in calo, campagne elettorali di cui i media hanno problemi a celare le vergogne, in una settimana o poco più il colosso sembra sgretolato.
Ai primi ostacoli, la scuola e le pensioni, lo stesso Renzi si mostra imbizzarrito. A suo agio nelle beghe di partito, recalcitra davanti ai problemi quando si pongono. Nella conferenza stampa sulle pensioni sembrava perfino avere perso l’uso della lingua - “ricche” le pensioni da tremila euro lordi, “dare” 4-500 euro una tantum quando ne toglie tremila, più l’aggiornamento mensile, quel “togliere ai ricchi per dare ai poveri” a cui nessun povero ha mai creduto, giustamente, e il “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani” quando tutti si stanno facendo i conti degli aumenti comunali e regionali. Le elezioni cadono in un brutto momento, tra 730, Imu, Tasi, Tari, e ticket a gogò.
Può sempre finire 7-1, ma in discesa, per l’assenteismo, che peserà più sulla destra che sul Pd. E con percentuali che faranno vergogna all’Italicum, di meno cioè del 40 per cento.  La destra è divisa e litigiosa, e i sistemi elettorali delle sette regioni sono maggioritari e anzi plebiscitari: vince chi prende più voti, anche se pochi. Non ci sono percentuali minime, e non si fanno ballottaggi – eccetto che in Toscana, dove però il voto è sempre compatto, da qualche decennio a sinistra. E tuttavia il Pd rischia di non farcela, là dove, fuori da Umbria, Toscana e Marche, lo zoccolo ex Pci non c’è o si è dissolto. Nella dissoluzione del centro-destra, è il Pd che fa e disfa, e cioè Renzi. A favore dell’astensione, e del voto ancora di protesta, ora per Salvini oltre che per Grillo.

lunedì 18 maggio 2015

Secondi pensieri - 217

zeulig

Aforisma – La definizione dell’indefinitezza – il tentativo di. Una rincorsa, come appigliarsi a un lembo di chi sfugge davanti. O una sorta di danza sulle punte, senza musica, senza nemmeno ritmo, attorno e dentro le funzioni dello spirito. In uno spazio senza pareti, e senza fondo. Non c’è finale: si continua la danza, come in surplace.

Antropofagia – Abietta e proibitissima nella sua forma fisica, materiale, è praticatissima e normale in quelle traslate: la guerra dei sessi, la guerra, il pettegolezzo, la calunnia, la politica. Con poche regole, e giusto nello sport. La giustizia, che dovrebbe esserne la diga, ne è la condotta.

Ateismo – Si è a lungo protetto in chiesa, soprattutto nella chiesa cattolica, piuttosto che contrastarla o sfidarla. È vero che gli ateisti non avevano altro dove andare, ma la concezione panteista (materialista, umanista) del mondo e della natura non si concilia con la religione e con Dio, che vogliono essere fuori del mondo.

Curiosità – Dice meglio ciò che Jeanne Hersch e Valéry dicono lo stupore. La compulsione,  il riflesso condizionato, a cercare, a scoprire, a vedere. Tale che il contrario, l’inerzia o accidia, è uno stato morboso e un peccato.

Dio – Si è fatto uomo. Mentre l’uomo spesso si è fatto – e si fa – Dio. Si è fatto uomo più spesso che nei Vangeli.

Esistenzialismo – In precetti, parole e opere è alla sommatoria l’estrema, radicale espressione (personificazione, esperienza) del romanticismo, o dell’ipersoggettivismo - dell’ “ombelico” filosofale. Del soggetto da ultimo introvabile. Trepido, tremulo, idillico, disperato, disperante, angosciante. All’opposto della fenomenologia, fredda (filosofica) disamina, con la quale viene confuso o si sovrappone.

Europa – Senza Dio e senza avvenire. E senza passato. Al traino di un mondo globale che si vuole anch’esso di consumo e accumulazione, ma strumentalmente, anche ancillarmente, in un arco espansivo e anche conquistatore.

Filosofia tedesca – Non c’è una simile cosa, argomenta violento il filosofo tedesco Markus Gabriel sul “Corriere della sera” contro Donatella Di Cesare – la filosofia è cosmopolita, apolide, universale, eccetera. Tutto ciò forse non è filosofia ma è molto tedesco - i giovani tedeschi vanno come i vecchi, simili alle loro nubi basse, mutevoli e debordanti, alle zusammen, tutti in un verso e sempre determinati.   

Intelligenza –  È composita. La logica ne è applicazione diretta, ma non la esaurisce. Nemmeno la estende. L’analogia è altrettanto intelligente. Ma anche il fiuto – nel senso proprio, della bestia, l’odorato, e in quello figurato dell’intuito, o intuizione. La volizione è un’altra applicazione\espressione.
È la forma dell’esistenza – l’esistenza come viene riflessa (vissuta).

È sorprendente. L’intelligenza si esprime sempre per qualcosa di inatteso, sia pure la verità percepibile o realtà delle cose. Non necessariamente, per ciò stesso, reale o veritiera.

Si può esercitare in profondità, o in altezza, e anche lateralmente, di sghembo, con la mossa del cavallo. Ma non con l’esempio di Valéry, uno dei suoi esercitatori massimi (“Cattivi pensieri”, 24), per l’eccezionalità: “Come (in) un gruppo di quadrupedi che hanno visto volare via da loro, e al di sopra dei muri in cui si credono rinchiusi, un loro simile, segretamente provvisto di ali”. No, l’intelligenza si manifesta (sorprende) tra eguali. 

Musica – È invalso caratterizzarla per l’assenza di senso, e come pura creazione materiale, sonora. Mentre a un orecchio profano, e dunque al common sense, ha la stessa materialità (senso) della parola, e le stesse qualità: grammatica, sintassi, etc. Il detto, e anche lo scritto, è sempre molto musicale: varia per intonazione, pause, assoli, coralità.
La parola è sonora. Il pensiero va col ritmo – la memoria, e la progettazione – e le sue armonie (disarmonie, stonature), melodie, melopee. Anche in dialogo (duetto, quartetto), vocale o strumentale.

Silenzio – “La parola «silenzio» è la più perversa, o la più poetica: è essa stesa pegno della sua morte”. Georges Bataille.

Speranza – È costante e normale. poiché si vive come se non si potesse morire all’istante.

Storia – È lo storico. È lo storico che diminuisce Napoleone e ingigantisce Montaillou e il mugnaio del Cinquecento. Con limiti, ma sono i limiti che lo storico si pone.
È scienza (capacità, abilità) senza frontiere. Lo storico è un demiurgo – un creatore.

Traduzione – La traducibilità integrale, tecnica, scientifica, si estende alla filosofia. Una filosofia intraducibile è un controsenso. Succede con la filosofia tedesca per un problema linguistico di fondo: l’articolazione libera e multipla in tedesco dei radicai linguistici (se ne censiscono 2.500), in forme e con esiti illimitati e non catalogabili. Quindi di ardua riproduzione con esattezza, a un orecchio non tedesco. Nietzsche è traducibilissimo perché usa una lingua semplice – e “leggibile” in originale. Kant pure è traducibile. Non lo è Heidegger, per un motivo anch’esso evidente: la riserva mentale.

zeulig@antiit.eu

La favola vera al cinema

Il cuore mangiato, la testa mozzata, la pelle scuoiata: gli ingredienti dell'horror non mancano. Ma anche la pulce gigante, la foresta impenetrabile, il castello inaccessibile, il drago albino: gli ingredienti fiabeschi. Con tre desideri immutabili - scelti appositamente tra i racconti di Basile, il soggetto originario - o temi del fiabesco: la maternità, l’eterna giovinezza, l’amore.
Il film non è piaciuto ai critici – troppo fuori schema. In effetti è un genere nuovo al cinema, il fiabesco non addolcito di Disney. Sulla traccia di “Into the woods” – ma Garrone era partito prima di Rob Marshall (ci ha messo troppi anni e realizzare il progetto, a trovare i capitali), che per di più aveva un musical stagionato di successo su cui fare affidamento. Ed è anche meglio, filologicamente oltre che narrativamente, del precedenti riuso di Basile al cinema, “Cera unavolta” di R osi, con Sophia Loren, 1967.
La fiaba è horror, le pulsioni inconfessabili scoperte e estremizzate. In Perrault, madame d’Aulnoy, Andersen, i fratelli Grimm, e ogni altro epigono di Basile – Walt Disney è un’altra cosa. Anche “Pinocchio” è non poco crudele.
Le critiche hanno letto il film meglio dei critici, le donne critico. C’è una critica di genere?
Matteo Garrone, Il racconto dei racconti

domenica 17 maggio 2015

Il mondo com'è (216)

astolfo

Bisanzio - Fu allegra. Si ballava, per le strade risuonava il hasapiko, quasi una tarantella, Hadjidakis l’ha riscoperto. Anche se da tempo aveva rotto con Roma, per la superbia del patriarca Fozio, che pure fu benemerito bibliofilo. Ben prima delle manovre del santo Gregorio Palamas, contro le quali si infrangeranno i tentativi unionistici di due generosi calabresi, i frati basiliani Barlaam e Pietro Vitale.

Il monachesimo italogreco fu relativamente esente dall’infezione polemica dello scisma. Molti monaci erano arrivati in Calabria da Costantinopoli nell’Ottavo secolo, in fuga dalla lotta iconoclastica, gli altri in fuga dalla Palestina e l’Egitto dopo la conquista araba, in cerca di pace. Ma ha perso ogni funzione – ora tenta di ricostituirsi, a san Giovanni Therestì e qui o là, ma è poca cosa. L’aveva persa già nel Quattrocento, quando si svolsero i primi, e ultimi, tentativi unionistici, a livello conciliare.

Glamour – È svanito con la licenza, e con la secolarizzazione totale che è il mercato. Il tappeto rosso a Cannes è più posticcio che negli anni 1950-1960: pettinature, trucco, abiti, pose. Più falso anche, allora qualche attrice, qualche attore ancora si credeva, credeva in se stesso: c’erano le dive i divi, oggi sono tutti impiegati del catasto – portano il nudo come se avessero freddo, carni secche, fardate, visi senza carattere. Catherine Deneuve, che ha memoria dei tempi passati, lo dice giustamente: “Ma le dive non esistono più”.

Guerra fredda – Si stava meglio quando si stava peggio? Emanuele Severino non ha letto il libro di Sergio Romano che svolge questo paradosso, “In lode della guerra fredda. Una controstoria”. Ne ha sentito parlare, e dice che dice le stesse cose che lui ha detto molti anni prima. Che lui Severino molti anni prima avrebbe detto benefica la guerra fredda, in quanto precludeva la guerra reale, con gli scoppi e morti. L’aveva detto anche a Bobbio, che invece temeva il peggio. Ora dice (sul “Corriere della sera” di giovedì 14): “È il venir meno della guerra fredda a spiegare la crescente pericolosità del mondo”.
Non è solo autorappresentazione e autoelogio. Severino (Romano non si spinge a tanto, si limita al paradosso)  traspone nell’arma assoluta l’autorità dello Stato. Contro ogni condizionamento di  parte, “democraticistico”. Rifacendosi a Luigi Einaudi.

Lavoro femminile – È stato a lungo italiano, latino, mediterraneo. In casa, nei campi, nelle lavorazioni artigianali, domestiche (tessitura, sartoria, conserve) e fuori. La donna americana vi si è avvicinata tardi, e più attraverso il lavoro femminile immigrato, la donna inglese tuttora è restia, e nel mondo germanico in genere. In Francia da mezzo secolo la politica demografica favorisce la donna in famiglia rispetto al lavoro, senza  ripensamenti, anche se si è dovuto fare maggior ricorso al lavoro immigrato. Solo in Italia peraltro il lavoro è considerato l’occupazione per eccellenza della donna – ne è un segno anche il recordi mondiale italiano della maternità ritardata, sotto e sopra i quarant’anni.

Luddismo – La resistenza all’innovazione è soprattutto dei sindacati. La distruzione delle macchine  innovatrici fu diffusa soprattutto nel Cinquecento, secolo più di altri innovativo e anzi “esplosivo”: Macchine e procedimenti innovativi, nel trebbiatura, la tessitura, perfino la stampa, pure di conio recente, erano causa di proteste e moti anche sanguinosi, a opera delleorganizzazioni di arti e mestieri. Si rompevano le “arti” tradizionali, le gilde, o sindacati di allora.

Mancession – L’industria degli accessori maschili, compresi quelli dello sport e della fitness, supera probabilmente quella tradizionale femminile, delle borsette, i foulard, i cappelli etc. Una trentina d’anni fa era già possibile  contare tredici accessori maschili per la palestra, diciotto per lo sci, ventisette per il trekking, sport povero, ventidue per la pesca, otto, costosi, per andare in moto. Ad essi va aggiunta la cosmetica, sempre più vasta. E l’adozione degli accessori femminili. Fino alla Manx, la guina Spanx maschile, al perizoma a laccio, e ai meggings, i leggings per uomo, o i mantyhose, o collant, e agli assorbenti (Tena Men). C’è tutta una linea di mangeria, o lingerie da uomo – Costanza Rizzacas d’Orsogna illustra su “Io Donna”.
È come se il femminismo avesse portato, più che a una maschilizzazione delle donne, alla femminilizzazione: l’uomo si carica di accessori, e più della donna ha sostituito le vecchie occasioni, mattino, pomeriggio, sera, con gli impieghi del tempo, lavoro, casa, week-end, sport. Per i cosmetici la linea uomo è quella in maggiore ascesa, allargandosi al manscara. Lo stesso trionfo della culinaria è maschile.  Un rovesciamento di ruoli: l’uomo si prende quello tradizionale della donna. Si potrebbe dire che si prende tutt’e due, anche quello della donna. Ma in realtà ha abdicato al ruolo tradizionale maschile. Che non era certo più quello del cacciatore e del procacciatore della selvaggina e di una capanna, ma era pur sempre attivo e fattivo. L’epoca sarebbe alla mancession, la recessione dell’uomo, o della virilità. Che non sembra malignità femminile.

Oversharing – È l’ultima angoscia, l’eccesso di condivisione. Di date, luoghi, eventi, amori, storie, passioni, figli, pets. Maria Teresa Cometto segnala da New York questa preoccupazione in termini di mercato pubblicitario. Poiché si sa che i social forum, face book, linkedin e altri, sono in realtà delle mailing-list mirate a fini commerciali. Autocostituite e autogestite, e perciò più affidabili. Una innovazione delle strategie di marketing, e in questo senso geniale: poiché è l’utente che “si fornisce” in abbondanza, in abitudini di spesa, gusti, capacità di spesa. Ma sono anche un dispendio di effettività o emotività. Come buttare tutto dalla finestra, nell’intento di condividere - la condivisione è emotivamente selettiva. Se non ora, presto la novità sarà satura (matura, obsoleta).

Russia - Si celebra a Mosca il 9 maggio la Vittoria contro il fascismo nel mondo – non contro il nazismo, l’odio dei tedeschi è solo occidentale. Oggi come ai tempi di Breznev – e presumibilmente di Stalin. La Russia è da un secolo filotedesca.
Una sorta di relazione speciale c’è sempre stata tra la Russia e la Germania, dai tempi di Pietro il grande. Fatta di principesse fattrici e reggitrici, di volenterosi e abili immigrati e, a partire dal 1917, di accordi sempre reciprocamente convenientissimi. Dalla pace separata, all’assistenza militare  tedesca all’Armata Rossa di Stalin, anche dopo il 1933 e l’ascesa di Hitler alla Cancelleria a Berlino  L’alleanza con Hitler portò alla Russia nel ’39 l’Ucraina polacca, con Bielorussia, Bessarabia, Estonia, Lettonia, Lituania. La liberazione della Germania dal fascismo nel 1945 – dopo la follia dell’attacco di Hitler alla Russia - le portò la Polonia tutta, con Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria e un terzo della Germania abbondante, più Sakhalin e le isole Curili. La Russia  non ce l’ha fatta con la Finlandia, ma non per colpa della Germania.
Sosteneva Giorgio Galli nel 1970 (“La tigre di carta e il drago scarlatto. Il pensiero di Mao tse.tug e l’Occidente”) che la Russia non ha la democrazia perché non ha avuto la caccia alle streghe: è “mancato il rapporto sfida-risposta”. Si spiegherebe perché l’America vi indulge, da Salem a McCarthy. Si spiega anche l’ingovernabilità anarcoide succeduta al sovietismo, cui Putin ha dovuto mettere riparo con mano dura.
A meno dell’ortodossia, che è sempre stata severa in Russia. Anche con Stalin. E col papa: il pio Solov’ëv fu detto eretico per avere apprezzato a Roma la messa del papa..

È l’antilatinità che ha portato Costantinopoli a Mosca, che così può pretendere di essere Roma e Gerusalemme insieme. Ufficialmente dal tempo di Ivan il Terribile, il primo zar (cesare), di fatto da molto prima. Per colpa dei “franchi”, cioè degli Occidentali – gli stessi greci i fichidindia chiamano fichi franchi. Ancora nel 1812 Napoleone invadeva la Russia per “dare una lezione al grasso bizantino” Alessandro I. Ma più conta l’antilatinità, sotto le sue varie specie: laicismo, antipapismo, sradicamento, l’etnodissoluzione, la remissività, il ritiro.

La resurrezione ha ruolo preminente nella “vera fede”: l’uovo, l’agnello, la redenzione, il “Christòs anesti”, Cristo è rinato. Dopo che Dio, cioè, è arrivato sulla croce al bordo del nulla. La miscredenza ha penetrato l’Occidente col rifiuto della resurrezione, il mistero pasquale. In un primo tempo lo rifiutò pure l’Est: fu sulla Redenzione che l’aeropago di Atene, che fin lì sembrava accettare la rivelazione di Cristo, licenziò san Paolo: “Di questo magari ci racconti un’altra volta”.

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