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sabato 17 settembre 2016

La Bundesbank impose la svalutazione della lira

Affrontammo insieme la drammatica estate del ’92, quando la Bundesbank tedesca ci comunicò all’improvviso che non avrebbe più scambiato marchi contro lire. Era un venerdì, Ciampi si trovava nel mio ufficio a Palazzo Chigi quando arrivò la telefonata, e la domenica decidemmo la svalutazione sotto la pressione della banca centrale tedesca”. Giuliano Amato, presidente del consiglio nel 1992, dà a Giovanni Bianconi sul “Corriere della sera” un’altra versione del fallimento della lira – che fu pagato caro da tutti gli italiani, con l’Isi-Ici-Imu e altre tasse (anche con un prelievo sui conti correnti), ed ha avviato la venticinquennale stagnazione dell’economia.
L’allora presidente del consiglio lo fa di passata, in un’intervista a commemorazione di Ciampi:  “Amici per quarant’anni: l’estate in cui svalutammo la lira”. Ma apre una scena interamente diversa dei veri rapporti dentro l’Europa unita, e del senso dell’euro. Aggiungendo alla fine a proposito di Ciampi: “Da europeista convinto aveva sostenuto che fosse meglio contare per un dodicesimo all’interno della Banca centrale europea piuttosto che subire le decisioni della Banca centrale tedesca”.
Ciampi era allora governatore della Banca d’Italia, da tredici anni, e aveva fortemente voluto, insieme col suo negoziatore Mario Draghi, l’euro nella formulazione attuale, di moneta unica. Il predecessore di Ciampi in Banca d’Italia, Paolo Baffi, era fautore di una convergenza monetaria modulabile: di “cambi fissi ma flessibili”, entro una fascia, seppure ristretta, di oscillazione.
La svalutazione della lira è stata imputata allo speculatore George Soros, a ricasco di analoga operazione contro la sterlina. In realtà le due operazioni non erano legate.
Si disse anche che Soros avesse puntato contro la lira perché Ciampi ne aveva favorito l’apprezzamento nei confronti del marco tedesco, in vista del varo della moneta unica. Questa ipotesi aveva riscontro sul mercato delle valute nelle fasi precedenti l’attacco alla lira. Ma con la rivelazione di Amato il meccanismo dell’attacco assume un altro senso: è come se Soros e Bundesbank avessero agito di conserva.

Sono i giovani che fanno i vecchi

Un panorama di vispi novantenni. Passati in pieno swing gli ottanta, Pansa si gira attorno e vede non i pensionati al bar ma una folla di personaggi attivisissimi come lui, da Fo a Cesare Romiti,  all’utracentenario Gillo Dorfles. Ai tanti pensionati che cambiano paese e vita per godersi la pensione con una tassazione più equa. E a chi ancora s’innamora. Magari della badante. “Il piacere della vita nella terza età” è il sottotiolo.
Celebrarsi non porta bene, ma un movimento antigiovanilista, dopo cinquant’anni, non fa male.Triste non è l’età ma la divisione, senza precedenti, di linguaggio, sociali, e perfino d’amicizia per classi di età.
Giampaolo Pansa, Vecchi, folli e ribelli, Rizzoli, pp. 291 € 20

venerdì 16 settembre 2016

5 Stelle cambia assetto

Grillo e Casaleggio si sono orientati tre giorni fa per lo scioglimento del direttorio del movimento. Per le divisioni all’interno dello stesso, e per le difficoltà che in esso si creano per la neo sindaca di Roma Virginia Raggi. Sul cui successo elettorale Grillo e Casaleggio ritengono che il movimento debba capitalizzare. Mentre sulla coerenza dell’azione della sindaca con lo statuto del movimento ci sono altre procedure statutarie per vigilare.
Una settimana fa era stato il minidirettorio di Roma (Paola Taverna, Fabio Massimo Castaldo e Gianluca Perilli), ad autosciogliersi, dichiarando il proprio compito esaurito. Di affiancamento della neo sindaca nelle prime procedure amministrative. In realtà, fu una presa di distanza. Non condivisa da Grillo, che il giorno precedente aveva manifestato a Nettuno all’insegna del “siamo tutti Virginia”.
Grillo e Casaleggio sono sempre alla ricerca della forma-movimento. Una nuova, dopo l’assunzione di responsabilità di governo nelle grandi città col voto di metà giugno. Il direttorio a cinque, varato due anni fa, dopo il “sono stanchino” di Grillo, doveva servire a far crescere alcune personalità, politicamente e d’immagine. Ma si sarebbe rivelato rigido, una forma di cooptazione che sta stretta al movimento.
Il movimento ha comunque bisogno di una scossa, questo il succo del colloquio milanese. Il successo di Raggi a Roma è ritenuto necessario per fidelizzare il voto plebiscitario - per la metà dovuto agli antirenziani, della destra e all’interno del Pd. E la chiave per potersi dire vincitori al referendum istituzionale, se il no prevarrà.

Recessione (54)

Resta grave, malgrado l’ottimismo, lo stato dell’economia:

La Confindustria rivede al ribasso le stime della crescita dell’economia, allo 0,7 per cento in questo 1016, rispetto all’1,2 per cento ipotizzato dal governo ad aprile, e allo 0,6 nel 2017, rispetto all’1,4.

Vent’anni fa il pil pro capite dell’Italia era superiore del 3 per cento alla media dei 19 paesi euro euro, ora è inferiore del 13.

A parità di potere d’acquisto il reddito medio italiano è al livello di vent’anni fa, 1996.

Tutti i paesi dell’Eurozona, Grecia compresa, hanno un pil pro capite superiore al livello del 2000, l’Italia inferiore di uno 0,4 per cento.

Nel Millennio il pil è aumentato in Spagna del 23,5 per cento, malgrado la crisi severa del 2007, in Francia del 18,5, in Germania del 18,2. In Italia è calato dello 0,5 per cento.

La Spagna supera l’Italia per il pil pro capite. Era il 72 per cento di quello italiano trent’anni fa, nel 1986, sarà quest’anno superiore di 3 punti percentuali, forse 4.


Confindustria stima in otto milioni (7,9) le persone in cerca di lavoro. Il 78,1 per cento in più rispetto all’inizio della crisi dieci anni fa. Così suddivise: poco meno di tre milioni di disoccupati (più 78,3 per cento); 2,7 milioni di occupati part-time non volontari (più 95,9 per cento); 705 mila non occupati in attesa di risposta ad azioni di ricerca (più 120,8); 1,4 milioni non occupati scoraggiati, che non hanno compiuto azioni di ricerca attiva (più 40,5). 

Cicerone tradito, anche dalla moglie

“Popolarità e potere sono entità separate”. Cicerone lo sperimenta, oltre che pensarlo, nella serie di disavventure che costellano la sua terza vita, in quest’utimo volet della saga su di lui centrata di Harris. Dall’esilio alla guerra civile, all‘ostracismo, alla fine tragica. Il racconto, il terzo delle trilogia ciceroniana, è di una serie di disgrazie, lutti e abbandoni, personali e dell’amata Roma. E tuttavia energetico, Harris fa questo miracolo.
Cicerone non è più il protagonista. Due volte in esilio.Non più autorevole al Foro. Contestato dal fido fratello, tradito dalla moglie, forse anche coniugalmente, col contabile, risposato turpemente – per debolezza e per la dote – a sessant’anni con una ragazza di quindici, che presto dovrà ripudiare, “orfano” inconsolabile dell’amata figlia Tullia. È il testimone del trapasso dalla repubblica alla dittatura, dall’aristocrazia del potere ai popolari, a opera di aristocratici demagoghi, Clodio e Cesare.  
“Dictator” si definisce un “thriller letterario”, ma è un libro di storia. Sarà questo il segreto di un best-seller su Cicerone, durevole ormai da alcuni anni - millecinquecento pagine, su un personaggio che non potrebbe essere più inappetibile. Ma sono piene di storia soppressa, e vive in quella cognita – l’assassinio di Cesare, la fine di Pompeo dopo Farsalo, la geografia e la toponomastica di Roma (impressionanti, quste, e veridiche al dettaglio, anche stagionale, anche quotidiano, delle luci e le ombre). Grazie a una vastissima bibliografia – senza un solo titolo italiano – dopo dodici anni di lavoro con le edizioni Loeb, quelle dei classici in inglese.
Si leggono cose vecchie-nuove sulla storia repubblicana di Roma, così violenta oltre che gloriosa, che finisce con l’incendio del Senato – come farà Hitler con la repubblica di Weimar. Sul classismo politico, vittima lo stesso “uomo nuovo” Cicerone, familiare, tribale, sociale, economico. Sui mondi altri, che pure esistevano nel costituendo impero, dalla Spagna all’Egitto e alla Cilicia. Sull’egotismo di Cesare, dittatore atipico, generoso e trucido, freddo, freddissimo, “criminale di guerra” nelle Gallie per lo strenuo repubblicano Catone, tutto fitness e aloofness, e simpatia.
Robert Harris, Dictator, Mondadori, pp. 401 € 22

giovedì 15 settembre 2016

Il mondo com'è (276)

astolfo

Ecumenismo – Era tema già del Quattrocento – prima che la Riforma introducesse ulteriori divisioni, dentro la stessa cristianità: Niccolò Cusano dedicò al tema un trattato, “La pace della fede”, tre anni dopo il giubileo del 1450, che avrebbe dovuto – e non ci riuscì – sancire la riunificazione delle chiese d’Occidente e d’Oriente, a seguito dei concili di Costanza e Ferrara-Firenze. Da teologo, Cusano vi sostiene “l’unità delle religioni di tutti i popoli diversi, nel presupposto di una fede comune al di là della diversità dei riti, delle cerimonie e della provenienza geografica” – nella sintesi di Graziella Federici Vescovini, che ne ha curato la traduzione e la riedizione.

Faziosità – Sarà il segno della politica italiana? Una forma di settarismo e di fanatismo. Nelle logiche di partito e di corrente dei vecchi partiti, sotto il segno oggi della trasparenza nel movimento 5 Stelle. Che dell’eguaglianza e del pluralismo si fa bandiera, mentre persegue ogni minimo scostamento -  da una “linea” peraltro indefinita, che si materializza nel culto del Capo, al coperto di finte consultazioni online, “democratiche” o “popolari”. La tradizione è per la faziosità estrema, da Dante a Machiavelli, al Tasso, al Foscolo, di proscrizioni e scomuniche, vendette anche. La storia d’Italia è in questo unita da molti secoli. Dei Comuni in lite tra di loro e al loro interno, delle signorie e tra le signorie, degli stessi movimenti ribellistici – compresi quelli rivoluzionari, giacobini o carbonari, fino al terrorismo brigatista degli anni 1970-1980: sempre settari. È specialmente la storia della Repubblica, segnata dapprima dalla guerra fredda, poi dal giustizialismo, una sorta di alluvione interminabile alimentato dall’invidia e dall’odio.
“È opinione comune”, scrive sulla “New York Review of Books” l’italianista Tim Parks, “che una delle più peculiari caratteristiche della vita pubblica italiana è la faziosità, in tutte le sue varie manifestazioni: regionalismo, familismo, corporativismo, campanilismo, o semplicemente gruppi di amici che restano in contatto dall’infanzia alla vecchiaia, spesso sposandosi, separandosi e risposandosi tra di loro…” Ma con effetti di peso: “Si può dire che per molti italiani il valore più importante è l’appartenenza, essere il membro rispettato di un gruppo che essi stessi rispettano. Solo che, disgraziatamente, questo gruppo raramente corrisponde alla comunità in generale, e spesso è anzi in feroce conflitto con essa, o con altri gruppi similari”.
Più spesso ancora il crudo interesse fa aggio sul sentimento dell’appartenenza.

L’uso del dialetto, privilegiato, il filologo Parks porta a riprova della faziosità imprescindibile: si parla di preferenza in dialetto, si fa la tara di chi non lo parla. Parks ricorda il fastidio di Manzoni, che pure volle riscrivere il suo romanzo in lingua, e lo ebbe anzi imposto a scuola di italiano, quando doveva interrompere la conversazione con gli amici milanesi o lombardi perché qualcuno era arrivato da fuori, da Venezia, Firenze o Napoli, e si doveva passare al toscano.
Una conferma si può dire lo stesso divieto di “insulti regionali” che i codici sportivi ora sanzionano. Divieto “abbastanza assurdo”, dice Parks, ma esso stesso segno di una coscienza divisa.

Impero – Quello romano fu riluttante – così come quello americano oggi. Non s’impose e non si allargò per progetto ma in risposta alle sfide. Dei Galli a più riprese, i Celti, i Sanniti, i Latini con gli Etruschi, Pirro, Gerone, la Macedonia, Cartagine, i Celtiberi, i Germani in lite, i Parti a più riprese, la Britannia, la Tracia, la Dacia. L’unica azione offensiva fu quella di Cesare, che sterminò centinaia di migliaia di Germani inermi e pacifici, e attaccò senza ragione i Celti. Anche l’impero cristiano fu difensivo, il Sacro Romano Impero.
È con gli Stati-Nazione che il dominio del mondo si disegna e s’impone. Da Colombo in poi, come disegno di civiltà. Nelle Americhe, in Africa, in Asia, India compresa, e poi la Cina. Con la Francia post-rivoluzionaria e napoleonica nel primissimo Ottocento, e  con la Germania nel primo Novecento, fin dentro l’Europa, fino ad allora governata dal trattato di Westfalia, 1648, dell’equilibrio delle potenze.
L’impero riluttante si faceva però con i saccheggi e le depredazioni, nel fervore della battaglia e a freddo. Allo stesso modo poi come le guerre coloniali.
L’impero moderno, per converso, benché aggressivo è stato “contrattualistico”. Da legalizzare in qualche modo, in ogni sua forma. A partire dalla Raya, la linea di demarcazione con cui papa Alessandro VI Borgia divise nel 1493, su loro richiesta, fra i regni di Spagna e del Portogallo il commercio atlantico che si apriva, e quindi la colonizzazione dell’America – allora la chiesa di Roma aveva giurisdizione universale.

Islam – È reazionario: espelle cultura e storia. Lo è diventato, non lo era fino a recente. Non sono molti anni che numerose capitali islamiche erano centri di arte, soprattutto di poesia e musica, e di pensiero innovativo, dal Senegal allo stesso Afghanistan, e all’islam indiano. Il Cairo, Teheran, Damasco, Beirut, perfino il Pakistan oggi ferocissimo, erano focolari di progetti sociali e politici innovativi e aperti sul mondo.    
La reazione data dall’avvento del khomeinismo. Che, partito dal progetto di fare dell’islam un centro di potere moderno, presto lo confinò in un’ortodossia che trova ancora difficile definire e delimitare – l’ortodossia si vuole definita, “legale”. Il khomeinismo ha presto provocato la reazione del più vasto mondo sunnita, che si è voluto concorrente sullo stesso terreno della “purezza” o radicalizzazione della religione. 

Italia - Si lamenta, specie a destra, che l’Italia non ha avuto una rivoluzione: non Lutero, non la ghigliottina. Ma notava Stendhal, quando arrivò con Napoleone, che “non c’erano in Italia abusi odiosi, la nobiltà non vi godeva privilegi eccessivi, non c’erano contrasti clamorosi tra la realtà e l’opinione pubblica”. Due secoli di storiografia progressista hanno cancellato questa realtà.
Solo un paese arretrato come la Francia, sempre secondo Stendhal, poteva dare tante teste alla ghigliottina e a Napoleone tanta carne da macello. Questa è un’opinione e non un fatto, però di buona logica. È “Napoleone”, nota Stendhal”, che “ha reso il basso popolo proprietario, gli ha insegnato l’orgoglio e gli ha tolto il vizio di rubare”, in Francia.

Lo stesso per la Riforma, si può arguire: l’Italia non aveva bisogno, per pensare, che un monaco sfidasse Dio, rubandogli la grazia.

Napoleone - Impose al duca di Parma, presa Piacenza, il regalo di venti quadri, primo caso nella storia, per il costituendo museo che la rivoluzione aveva decretato a Parigi, il Louvre. Il duca offrì due milioni per tenersi almeno il San Girolamo del Correggio - era già il ducato del formaggio, se non ancora del prosciutto e del pomodoro in scatola. Bonaparte, secondo Stendhal, fece rispondere: “Dei due milioni presto non resterebbe niente, mentre un tale capolavoro”, ora attrazione minore del Louvre, “ornerà Parigi nei secoli, e genererà altri capolavori”. Spiegando d’un colpo la sua diversità dagli altri generali francesi, benché Stendhal ne ribadisca nell’occasione “il carattere italiano”.

Roma – Due terzi – tre quarti? – dello scaffale che la libreria dedica all’antica Roma è di studiosi anglosassoni, il resto è di francesi, tedeschi, olandesi, finlandesi. Poca roba è italiana. È anglosassone anche il filone dei best-seller da banco, di Harris et al.. È americano quello dei film, i peplum o kolossal. Il rifiuto di Roma fa parte del rifiuto italiano dell’Italia. 

astolfo@antiit.eu 

Il mondo arabo finì con i turchi

Tra ebrei e arabi c’è sempre il semitisimo: un’unità religiosa e culturale, anche parecchio razziale. L’unità è ora finita nell’odio. L’arabista ebreo non lo dice, non fece in tempo a misurare l’abisso, essendo morto cinquant’anni fa, ma ne vede i presupposti. E tuttavia il giudaismo dice ancora semita, in linea con la comune origine storico-tribale, anche se non del tutto.
Dopo l’esilio, gli ebrei “non possono considerarsi Semiti puri sotto l’aspetto antropologico”. Anche per “la parte che gli Ebrei, non in quanto popolo o comunità religiosa ma in quanto classe sociale, hanno o sono ritenuti avere nella società contemporanea”. Ma sono pur sempre parte del mondo semitico: “L’isolamento nel quale i Giudei si sono mantenuti rispetto ai popoli circostanti dall’esilio di Babilonia in poi e lo zelo religioso che ha conservato riti, credenze e forme di pensiero antichissime hanno fatto sì che anche nella mentalità ebraica contemporanea si possano constatare dei riscontri singolari col tipo semitico primitivo”.
Ma il titolo dice solo una parte del ricco volume, un’antologia del grande orientalista del primo Novecento. Una larga introduzione del curatore, Fulvio Tessitore, inquadra lo studioso in posizione eminente nell’orientalismo italiano – scienza ora in disuso. Gli studi vertono sull’islam e il mondo arabo, e sulla storia religiosa d’Israele: le caratteristiche dei pooli semitici, la concezione di Dio in Israele, la figura di Meometto, ebraismo e cristianesimo, la storia dei califfati, il coloniasmo e la formazione degli Stati arabi un secolo fa.
Il saggio sulla “Decadenza dell’Arabismo” spiega una verità troppo dimenticata del mondo arabo. Che la sua decadenza imputa all’Occidente, al colonialismo – la polemica islamista esecra “i crociati”, ma intende le potenze coloniali. Mentre questo fu l’esito della decadenza araba, e non la sua causa. Il mondo arabo era già finito con i turchi: “La conquista ottomana segna non soltanto la fine della funzione degli Arabinella storia mondiale, ma anche quela della loro funzone di creatori e promotori di civiltà”.
Il saggio prosegue ipotizzando, sulla base della realtà di allora, il futuro quale poi si è materializzato. Il mondo arabo entra “in un periodo di stasi, paragonable per molti aspetti all’età bizantina, nel quale i valori di base non sono negati né perduti, ma sono soltanto gelosamente conservati senza essere accresciuti; nel quale lo slancio vitale, la ricerca appassionata del nuovo, la libera critica delle verità ufficiali vengono meno, e subentra l’età del conservatorismo tradizionalistico, della formulazione dogmatica, dell’imitazione e del compendio meccanici; principî e metodi ai quali s’ispirano così il pensiero scientifico come la fantasia artistica”.:  
Giorgio Levi della Vida, Arabi ed ebrei nella storia, Guida, pp. 380 € 24

mercoledì 14 settembre 2016

Ombre - 333

Renzi incorona Milano “capitale”. Ha perso la bussola? Pensa che i milanesi per questo lo voteranno in massa? Non sa che è in Lombardia che perderà – può perdere – il referendum.

A tre mesi dalle elezioni, Sala firma col governo un patto per Milano, sovvenzioni, investimenti, corsie preferenziali, Raggi non sa nemmeno fare una giunta - la fa e la disfa. Il nuovo che avanza fa sfracelli.
Si potrebbe anche dire Raggi un capolavoro del perfido Berlusconi per fottere Roma. 

Di Maio accumula castronerie: bugie, scemenze (“Renzi è Pinochet”, che lui non sa chi è), ignoranza. Ma questo non si dice su “Repubblica” e “Corriere della sera” – si dice, ma alla centesima riga di inappetibile articolessa, non nel titolo come si dovrebbe. Cairo è per Di Maio? O i resti della gloriosa dirigenza para-Pci? E De Benedetti?

L’unico è “il Messaggero”: “Giramondo Di Maio fa strage di geografia”. Si può dire tutto, non volendo fare l’agitprop, con ironia, con garbo.

L’allenatore del Chievo Maran è squalificato perché “chiaramente inquadrato dalle riprese televisive mentre proferiva espressione blasfema”. Non udita, ma ricostruibile, dal labiale senza margini di ragionevole dubbio”. Ragionevole?
Fermato per un turno anche Mihajlovic “per aver calciato una bottiglietta”. Dove andremo a finire, a mani giunte?

Atlete americane autorizzate a doparsi, con la scusa di problemi medici. Tra esse Simone Biles, che ha vinto tutte le medaglie della ginnastica a Rio. E anzi le vince dal 2012, da quando Wada l’ha autorizzata a doparsi per la salute. Ma la notizia non fa scandalo. Lo scandalo è che a documentarlo siano degli hacker. Per di più forse russi.

Wada non nega. Ma fulmina: “Un atto codardo e spregevole”. Non lo dice “falso”. Ma anche questo non si fa notare.  

Che l’Agenzia mondiale anti-doping sia un cesso – di corruzione e servizi segreti – non è effettivamente una notizia. Ma un po’ di scandalo, pro forma?

Hillary (forse) si ritira, l’smbasciatore americano critica il no al referendum, Di Maio scambia Pinochet per un generale venezuelano, ma la notizia del giorno, al Tg 1 e a Sky tg 24, sono le due sindache  di Torino e Roma, giovani, che mandano bacetti dal balcone del Campidoglio sul Foro Romano. Non si dice nemmeno che Raggi si è fatta aspettare da Appendino, arrivata da Torino appositamente per farle visita.

Anche la pubblicità si adegua. Emirates ha già un’offerta “Volare Insieme”, con una sosia della sindaca Raggi.

“Sono fascista, non sono di destra”, assicura il papà di Di Battista secondo Fabrizio Roncone sul “Corriere della sera”. Più chiaro di così.

Grillo scrive al “Corriere della sera” per rivendicare, tra le altre cose, di aver “ritardato l’arrivo, di nazisti, fascisti e leghisti”. Ci ha portato in cambio il Grande Fratello.

Grillo che fa il Savonarola non è credibile, essendo uno che gode la vita. In politica anche perché è strafottente: i fascisti e i leghisti, dichiarati, ce li ha portati lui, in Parlamento, e al governo delle città – e forse anche qualche nazista.

Oscena manifestazione di Grillo a Nettuno. Sguaiata, dopolavoristica, nelle dilettantesche esibizioni di Di Battista e Di Maio. Col capocomico dietro a chiamare gli applausi e dare il tempo, Di Maio sgrammaticato, e una forte sovraeccitazione, anormale senza sussidi. Ma non ce n’è traccia nei resoconti, pure numerosi.
Grillo fa paura? Gli inviati non ci sono andati?

La gioia della conoscenza dell’inconoscibilità

Animatore dei Concili della rinificazione con l’ortodossia, Basilea, Ferrara, Firenze, per sei anni agli studi a Padova, segretario del cardinale Orsini, legato papale nella sua natia Germania, amico del futuro cardinale e futuro legato in Germania Giuliano Cesarini, teologo e geometra, sacerdote tardo, a 32 anni, recensore da ultimo del “Corano”, “De Cribatione Alkorani”, e del gioco della palla, “De ludo globi”, metafora del vivere umano alla ricerca di Dio – dopo essere stato il teorico del Dio anscosto, che tanto più si rivela quanto più rimane inaccessibile, e quindi della “dotta ignoranza”, nonché della morotea “coincidenza degli opposti”, Nicola Cusano era versatile. Qui arguisce la sapienza dell’idiota, in quattro libri, ancorché brevi. Persuasivo, anche nella lingua – per quattro secoli e mezzo si sono letti questi dialoghi come di Petrarca, il Cusano non essendo altrettanto bravo in latino.
La sapienza, dice il saggio di Cusa (Cues, presso Treviri), viene da sapore: è qualcosa che si gusta, e si può assaporare in tutte le cose. Meglio che ascoltando “i suoni di parole”. E la conoscenza è sempre “del più e del meno”, congetturale, perfettibile: la sapienza divina è la verità assoluta, la nostra conoscenza ragionevole è la verità dell’“immagine”, degli idola.
La mente, in sé, non spiega niente, e anzi complica. La mente, quando conosce, “assimila”. Divaga, e ogni tanto si contrae. La mente più che altro è misura, inventa proporzioni e comparazioni, è il “luogo delle proporzioni”. Dispersiva: “La sua vove risuona perché abita nelle regioni altissime”, ma “la sapienza grida all’aperto nelle piazze”.
E tuttavia l’indefinitezza non è un limite ma piuttosto una pienezza. Il perché è tortuoso, ma non tanto: “Dolce è per ogni spirito ascendere senza fine all’origine della vita anche se è inaccessibile… L’inaccessibilità o l’incomprensibilità dell’infinità della sua vita è la comprensione che egli desidera… Questa conoscenza dell’inconoscibilità è comprensione gioiosa e oltremodo desiderata… è la comprensione gioiosissima dell’amante quando comprende l’amabilità incomprensibile dell’amato”.
Uomo enciclopedico, del Medio Evo benché vissuto nel Quattrocento, si scorre in questa traduzione, di Graziella Federici Vescovini, che l’ha dtata di un’ampia introduzione,  come un contemporaneo. Il Medio Evo non era così brutto – o la contemporaneità è medievale?
Nicola Cusano, I dialoghi dell’idiota, Olschki, pp. LII-102 € 15,


martedì 13 settembre 2016

Fisco, appalti, abusi (92)

Sia scaduto l’abbonamento a Norton e voi abbiate deciso di non rinnovarlo, garantiti da altre protezioni, malgrado i martellanti solleciti. Subito il computer rallenterà, ammorbato dal phishing. Dapprima poco e occasionalmente, poi a lungo e stabilmente. Si rianima quando avete rinnovato l’abbonamento. Dopo 24 ore, come dice Norton. Ma non saprete mai, nessuna Autorità si pone il problema, se il phishing si è immediatamente diffuso per la mancata copertura di Norton, o se Norton lo abbia diffuso.

Si porta l’eta del pensionamento a 67 anni, e poi la si riduce a 63, ma in quota ridotta e in forma di mutuo, pagando un interesse alla banca e un premio all’assicurazione. Sembra uno scherzo e invece sarà una legge dello Stato. Benedetta dai sindacati. 
Si dovrà rimborsare un mutuo ventennale per ripagare i quattro anni di pensione anticipata. A un costo del 10 per cento della somma erogata.

Roma ha fontanelle a ogni incrocio, nel centro e nei quartieri adiacenti – quelli costruiti fino al 1939. Molte le ha divelte o tappate, alcune sostituendole con mirifici “erogatori d’acqua”, la stessa dell’acquedotto: capanni di ferro e ghisa, enormi, da 100 mila euro l’uno. Un appalto lucroso, per chi?

Dopo mezzo secolo di resistenza alla lobby immobiliare dei pianoterra e seminterrati, forza trainante delle “isole pedonali”, cioè dei mercatini, con pizze a taglio e gelati, Roma si arrende con i 5 Stelle. La sindaca Raggi vuole pedonalizzre il rione Monti – vuole sfrattare Napolitano? Roma 1, l’unica circoscrizione rimasta al Pd (insieme con i Parioli) l’ha giocata in anticipo pedonalizzando il ghetto. Via il residuo commercio dei romani per oltre un secolo: dopo Bises (tessuti di aredamento) e Cucciollo (elettrodomestici), sono in sofferenza Limentani (casalinghi e stoviglie) e Longo (tessuti), con le mercerie che ancora conoscono il mestiere, e resistono malgrado tutto.
Ma il ghetto “liberato” rimane squallidamente vuoto. .

Si chiude a Roma il ghetto e si svuota, ma non si sanitarizza il Portico d’Ottavia o Piazza, il suo asse centrale, dai ratti e dai cattivi odori. Il sabato sera si mandano i vigili a multare “tavolino selvaggio”. Non per multarlo, che non si può, per farlo dire ai giornali. La grande politica vuole infatti che la Piazza rimanga vuota – che tutte le piazze rimangano vuote, si dice a Roma come altrove.
È una certa politica, stupida? Non può essere, la frase fatta copre sempre una magagna. La piazza deve rimanere vuota finché gli esercizi “non pagano”, alle autorità e agli immobiliaristi?

Si moltiplicano coi 5 Stelle e le isole pedonali a Roma gli appalti dei pilomat. I pilomat sono le colonnine retrattili, che danno accesso solo a chi ha uno speciale permesso. Ogni pilomat costa 150 mila euro. A che fine non si sa. Né si sa se sono appalti 5 Stelle oppure Pd?  
O sono bipartisan?

Parliamo tanto di donne, f.to Stendhal

“Oggi si è golosi, e ci se ne vanta. Al tempo di B. (Stendhal) un uomo ambiva soprattutto all’energia e al coraggio”. La storia è pigra, si può dire di oggi come del 1850. Quando Merimée celebrò Stendhal. Non è la sola “novità”. Stendhal, dice Mérimée, era certo di essere spiato. Anche lui, a Civitavecchia, vice-console, ultima ruota del carro, se non era dismessa in garage: per questo firmava le lettere con nomi inventati, le datava da Abeille invece che da Civitavecchia, iniziava con frasi peregrine (“ho ricevuto le vostre sete gregge. E le ho immagazzinato in attesa dell’imbarco”), e si riferiva agli amici con “nomi di battaglia”.
H.B. è Henry Beyle, “Stendhal”, di cui Mérimée fu l’amico di una vita, compagno di pettegolezzi e scherzi. Il suo ritratto dell’amico, scritto a otto anni dalla morte, e pubblicato per i soli 25 happy few, non è nel canone stendhaliano – è uno dei motivi per cui Mérimée viene escluso da ogni canone? Scaraffia nell’introduzione lo demolisce, come i tanti altri canonici prima di lui. E invece questo “H.B.”, episodico e umorale, che lo stesso Scaraffia dota di note succose (oltre che di una riedizione di “H.B.”, di cinque anni posteriore, intitolata “Note e ricordi”, per il primo volume della corrispondenza di Stendhal), è molto stendhaliano: non è fatto per piacere ai classificatori, e anzi li disturba, ma Stendhal era uno irregolare, molto, tanto più per essere un funzionario pubblico, di Napoleone come della Restaurazione. Sainte-Beuve, venuto dopo, assicura che Stendhal era agitato dal timore di passare per sciocco, ma non è vero: l’egotista non aveva, fortunatamente, faglie.
L’aneddoto della Pietragrua, sua amante in titolo dal 1811 al 1815, che lo tradiva ogni giorno con un uomo diverso, uno per giorno della settimana, non è possibile ma è “vero”, ed è un groviglio di risate – compresa la malinconia (depressione) che a lungo, dopo la scoperta del trucco, sopraffece lo scrittore, così si curava di dire. E non è in realtà in urto col “Dell’amore”, e la famosa cristallizzazione, ciò che Mérimée ne riferisce in fatto di donne: “B. mi è sempre sembrato convinto dell’idea, molto diffusa sotto l’Impero, che una donna può sempre essere presa d’assalto, e che è un dovere per ogni uomo provarci: «Possedetela; è quel che le dovete per prima cosa», mi diceva, quando gli parlavo di una donna di cui ero invaghito”. E non è finita: “Una sera, a Roma, mi raccontò che la contessa gli aveva dato del voi invece che del lei, e mi chiese se non avrebbe dovuto violentarla”. Ma era uno scherzo di “vecchi ragazzi”: “Lo incitai vivamente a farlo”, conclude Mérimée. La contessa è Giulia Prosperi Buzi, sposa allora ventenne del maturo conte Filippo Cini, uno dei grandi amici di Stendhal: fu la sua fiamma negli anni romani, 1820-1830, dello scrittore, che la chiamava “contessa Sandre” (Cini >Cinis, cioè cenere,>Cendre, francese per cenere,>Sandre alla romana), o anche Earline, ma senza fortuna, assicura Massimo Colesanti – che opina invece per un rapporto più strtetto della giovane contessa con Filippo Caetani, l’altro grande amico romano di Stendhal, conte anche lui e acquarellista, che sarebbe stato il vero padre di alcuni dei figli della coppia Cini.
Mérimée non solo è devoto dell’amico, infine riconosciuto grande scrittore - dopo morto: erano in tre al funerale. Ma ne condivide gli umori e il linguaggio, e la presa diretta. Si raccontavano le peggiori turpitudini, e non si facevano illusioni, né su di sé né sulla Francia. Merimée l’aveva incontrato a 18 anni, quando il futuro Stendhal ne aveva 28. E da allora erano stati complici. Non tanto di avventure, ma di battute, invenzioni, confessioni. Mérimée fu il beneficiario di uno dei 24 testamenti di Stendhal. Che apostrofa sempre “Beyle”, militarescamente. È vero che le loro conversazioni erano da caserma, “di donne” prevalentemente, ma che gusto c’è a negarlo?
Le lettere partono da Swift impotente, e per questo soprattutto interessato a smosciare i suoi lettori: è tutta qui la cattiveria del ritrato di Delia che finisce con “But Delia pisses and Delia shits”. Questo è il tono, e questi saranno, più o meno, gli argomenti della corrispondenza. Altra lettera illustre è quella in cui Merimée protesta con l’amico: “Vi prego, lasciatemi scrivere couillons e non cuyons come vuole il vocabolario: deriva da couille, come lucus a non lucendo”. Che potrebbe allora essere l’una o l’altra delle parti basse, o entrambe, il lucus e il non lucendo. Ma non è ingegnosa, la luce che viene da posti dove non prende mai il sole - Heidegger ci argomenterà sopra a lungo?   
Le lettere di Stendhal sono perdute, un po’ per la mania di Mérimée di non tenere “roba inutile” e un po’ per l’incendio che nel 1871 ne distrusse gli arredi e i libri. Ma una resta, conservata per altri versi, e chiude la raccolta, in cui Stendhal descrive il babilanismo, termine italiano, dice, per impotenza. Babilan e babilanisme sono misteriose “parole italiane”, a detta di Stendhal e Mérimée, qualcosa che ha a che fare con l’impotenza dei mariti. Ne avevano la fissazione, da sodali segaioli – è tutta qui la forza che condividono di creare donne mirifiche. E tuttavia si lega la parola, tra Babele, Babilonia e babil, o eccesso di suoni infantili, a Milano, al suo san Babila che non esiste. Anche perché il concetto di potenza, o impotenza, non si esaurisce nel sesso. Almeno finché si è in vita. Nel mezzo , il consiglio è di “fottersene del colera”: l’importante è “non fornicare dopo pranzo e tenere il ventre al caldo”. 
Prosper Mérimée, H.B.
Lettres libres à Stendhal, suivi de H.B., Arléa, pp. 115 € 11,69

lunedì 12 settembre 2016

Secondi pensieri - 277

zeulig

Ambizione – Vizio o virtù? La virtù del vizio: la molla dell’esistenza – la curiosità, la proiezione all’esterno, la volontà – nasce o convive con una desiderio di affermazione.

Crisi – È lo stato dell’epoca. I migranti, un tempo pieni di silenzio, raccontano in dettaglio infiniti malanni. Pure le giovani del Nord, oltre alle insegnanti del Sud, hanno nozioni patologiche estese, e quanti non sono i dolorini alla schiena. La crisi è coltivata, è l’ansia del ricco per l’erosione delle rendite: pesa più degli infarti, i tumori, gli incidenti, le epidemie.
Non si parlava mai della morte, non in letteratura, neppure nelle trincee, o nei lager, e sembrava buona norma, ora si fa con diletto. Non per carità, al contrario, è buttare il mondo infetto addosso all’interlocutore, una cosa da untori.
Una scelta? Imposta.

Destino – È sempre “manifesto”, dichiarato. È familiarmente qualcosa a cui non si sfugge, seppure a intervalli. Ma nella propria prospettiva, personale, di memoria e di attesa, di scongiuro anche. Impersonale ma personale, dramma o commedia che sia.
È l’ipostatizzazione di tutto ciò che fuoriesce dal possibile, a volte dall’auspicabile, ma è solo e tutto soggettivo. Una forma di ipersoggettivazione: dell’io, della patria, della stirpe, elevati a forme di irrealtà, in ambito iperuranico. Fausta altrettanto quanto infausta - si dice allora, cioè ex post, di qualcuno che “corre al suo destino”, che sarà stato quello che è avvenuto o si è voluto.
Si veda dal tedesco, che ne fa largo uso. Secondo Mittner l’attesa in cui tutti i membri della frase sono tenuti fino all’ultimo conferma che “con accurata regolarità il tedesco tende a un fine inatteso ma inesorabile, il destino”. Ma è il destino che il parlante si foggia: in tedesco quando uno inizia a parlare deve sapere già cosa dirà. Il tedesco non va incontro al destino, ma al contrario se lo crea.
Da qui anche, si può dire della “filosofia tedesca”, l’esclusione dell’inatteso, con gli attrezzi minimi della grammatica. Della grammatica che però rimbalza sul pensiero, coi noti effetti (il)logici (in)attesi, divaganti – un circolo vizioso aperto.

Il destino è anche sociale, e delle epoche storiche. Oggi, “epoca di crisi”, sembra che, cessando il bisogno, si sia perduto il giudizio, e ogni stimolo al lavoro ben fatto. Ma anche questa specie di destino necessita di una proiezione psicologica, di un’introiezione, un’induzione alla cultura della crisi.

Dittatura – È oggi dell’opinione, più che mai, indubbiamente. Più che dei cannoni, le torture e gli sfollagente.
Le formazioni sociali sono vuote, e non per mancanza di volontà, è come cantare col naso. La pubblicità e la propaganda lo hanno saputo e ne fanno un impero.
Di tale banalizzazione sono specchio perfino la letteratura e la filosofia, gonfie di falsità: melasse, concettismi, oltraggi, tutto coltivato e insulso – di falsità senza paletti o contraccettivi, criteri critici.
Non sono fantasia –proiezione - le malattie, i debiti, la fame, la fine cruenta dei miliardi di uomini non memorizzati nelle scritture, le pesti e i terremoti. Ma allora si entra in un’altra dimensione, della condizione umana, di tutti gli uomini..

Essere – Si può – bisogna? – non essere per essere? Come Heidegger, che non si sa - lui non ha voluto - chi e cosa fosse, in famiglia, all’università, in patria e negli amori. Come Stendhal, o Rousseau, con la stessa gioia della sorpresa, e la furberia dell’eterno adolescente.

Heidegger – Esaurita la curiosità con i primi due volumi, con le note sugli ebrei, niente più “Quaderni neri”, la traduzione si è fermata in Italiano e in inglese, ai “Ponderings” (titolo dell’edizione inglese) II-XI, 1931-1939 – in francese non è stata fatta. Curiosa la sua difesa da parte di Roger Berkovits, il direttore dell’Hannah Arendt Center for Politics and the Humanities
di New York, insistita: Heidegger è uomo pieno di risentimenti, e quindi anche razzista, ma, insiste Berkovits, “non  ho visto, e non vedo, nessuna prova, che la sua filosofia sia in qualche modo infetta di antisemitismo”.  Nemmeno in forma privata: nel 1933 “Heidegger abbandonò molti dei suoi amici ebrei e condivise stereotipi e pregiudizi antisemiti, ma lo fece mentre aiutava a difendersi e perfino a salvarsi altri ebrei”.

Lucus a non lucendo”, l’unico latinorum di Heidegger, ha sinistra parentela con lykos, che in greco è lupo.

Lutero – Altrove, viene spontaneo pensare, sarebbe stato un Montaigne, il dottor Johnson, uno scrittore eloquente. Fu ribelle e mestatore in una società conformista, contro il conformismo dei suoi prima che di Roma – così come l’umanista e teologo francese Calvino diventò ribelle in Svizzera (si dice per la tolleranza, ma Ginevra era intollerante ancora ai tempi di Rousseau, Settecento inoltrato). La proposta radicale attecchisce in una società senza continuità, magari compatta ma grezza, senza attenuazioni, chiaroscuri, elasticità, saldezza.

Matrimonio – Quello a tempo, in uso in Iran e nella comunità mussulmana sciita, detto sigheh o mut ‘a, in sospetto altrove nel mondo mussulmano e spesso proibito, come una forma di prostituzione, ha l’effetto di liberare le donne – in Iran ovunque, anche nei posti più remoti, serene e piene di sé. Si pensa il sigheh trucco maschile, e invece sta comodo alle donne, le libera dalla soggezione sessuale e dalla famiglia.
Il matrimonio a tempo lo studiavano nei salotti la marchesa di Rambouillet e Madeleine de Scudéry a Parigi nel Seicento. Perché, inutile girarci attorno, il matrimonio lo inventò l’uomo per assicurarsi che i figli della donna, possibilmente maschi, fossero i suoi, in vista dell’eredità, quando il possesso s’impadronì del mondo.

Odio – È il risentimento a muovere l’odio e non l’onore? L“odio impotente” è categoria stendhaliana sottovalutata -  non c’è testo di qualche ambizione in cui il “barone” non ne parli, “Il Rosso e il Nero”, “Leuwen”, “La Certosa”, perfino le “Memorie di un turista”.
Stendhal l’odio dice di quelli che detestano chi sa quello che loro non sanno: nulla indispettisce tanto i mediocri quanto l’intelligenza. Un punto di vista. Ma l’odio “sociale” è innegabile, nell’opinione, nella politica e nella giustizia, un’ondata di melma per un debordare dei rifiuti sotto il pretesto dell’uguaglianza e dell’innovazione (ricambio, rigenerazione). C’è della logica nella follia, anche tra i brutti e gli scemi.

Potere – È un tema – fissazione – a doppio taglio? Della riflessione per escludere il fatto, allontanarlo, totemizzarlo. È l’opinione di un letterato, Stendhal, in un’opera minore, “Metastasio”, ma non peregrina: “Che ridicola trappola è quella che ci fa occupare dei problemi del potere, e solo dei problemi”. Trappola doppia, solo dei problemi: “È come abitare una casa occupandosi in continuazione della sua stabilità. La soddisfazione che possiamo trarre dalla maniera in cui il potere è distribuito non è gran cosa: può nuocerci ma non può procurarci piacere”.

zeulig@antiit.eu

Il genio di Tina che la politica spense

Ribelle, ma non del tutto. Irretita nella nota scandalosa solitudine della passione politica divorante. “Il mio stato mentale”, scrive nell’ultima lettera, nel 1930, “ non è molto piacevole. Se solo avessi qualcuno con cui parlare di tutti i miei guai, voglio dire qualcuno che mi comprendesse, come te, Edward” – Edward Weston. Conscia probabilmente dell’impasse in cui s’era imbucata come attivista del Pcus, il partito Comunista sovietico, anche se non tenterà di uscirne, malgrado le tante morti e i tradimenti, fino alla sua proprio morte nel 1942, a Città del Messico, sola. “Mi viene spesso in mente la bellissima frase di Nietzsche che mi hai citato”, così chiude l’ultima lettera a Weston: “Quel che non mi uccide mi rende più forte. Ma ti assicuro che il periodo che sto vivendo mi sta quasi uccidendo”. Peccato, come nota Cappellini: “La fotografia autentica possiede semrpe qualcosa di sovversivo e rivoltoso”.
La plaquette è una scelta delle lettere di Tina Modotti a Edward Weston, curata da Francesco Cappellini, con una presentazione e una nota biografica. Un ritratto a tutto tondo del personaggio, e della sua speciale arte di fotografare, in poche pagine illuminanti, anche per la scelta delle foto, una trentina.  
Weston fu compagno di Tina e suo maestro di fotografia a Hollywood. Dove Assunta Adelaide Luigia Modotti, ragazza fatale, era protagonista nel 1920, a ventiquattro anni, di film dimenticati. Dopo una prima esperienza americana a San Francisco, dove nel 1913 aveva raggiunto diciassettenne il pade inquieto migrante, dal nativo Friuli. I due viaggeranno a lungo anche im Messico, tra le rivoluzioni. Fino a che Weston se ne ritornò negli Stati Uniti da solo, non condividendo l’impegno “organico” della compagna nella politica, e la coppia si romperà a fine 1926.
In Messico Tina approfondì l’arte delle sue “nature morte”, fotografie semplici di complessità. A Berlino, nel 1928, proverà anche a farsi fotografa di strada. Ma la politica la divora, e l’anno dopo abbandonerà la fotografia – che quindi ha esercitato per un quinquennio, peraltro poco applicata, lasciando in tutto un paio di centinaia di cliché. Finirà amante di Vittorio Vidali, uno che ne aveva molte, “compagno di vita ma soprattutto di missioni più o meno segrete”. Per lo più non onorevoli, benché per conto del Partito: dalla mattanza degli anarchici in Spagna all’assassinio di Trockij. Sempre, come dice Cappellini, “fiduciosa nell’onestà del suo lavoro”. Che però non è più la fotografia ma la propaganda del Komintern, l’organizzazione di Stalin.
Tina Modotti, Irrecuperabile ribelle, Via del Vento, pp. 42 € 4

domenica 11 settembre 2016

Obama distante dal M. Oriente – o gli Usa

Celebrazione fredda dell’11 settembre. Come se Obama avesse abbandonato il Medio Oriente, o gli Stati Uniti. Che ne sono stati e sono la potenza condizionante.
Obama non ha chiuso i due conflitti, in Afghanistan e in Irak, come aveva promesso, e ne ha aperti altri due, in Libia e in Siria. Non ha distrutto Al Qaeda, malgrado la morte di Osama bin Laden, e non ha bloccato e non sconfigge l’Is, benché sia indifendibile presso le stesse masse arabe, a differenza della formazione di bin Laden. Non ha praticamente rapporti con Israele. È insoddisfatto e distante sia dalla dinastia saudita, che ha fomentato il fondamentalismo sunnita, sia dal regime egiziano di Al Sisi, che della Fratellanza mussulmana filosaudita è il giustiziere.
Tutto lascia supporre che la gestione disattenta e controproducente del Medio Oriente sia dovuto a Obama. Sulla questione palestinese era partito dalle posizioni arabe. Vicino a Chicago agli intellettuali palestinesi, Edward Said, Alì Abunimah, il cofondatore dell’Intifada Elettronica, fautora di uno Stato Unito israelo-palestinese, dello storico Rashid Khalidi. Aveva esordito alla presidenza chiamando tra i primi il presidente palestinese Mahmud Abbas – con sorpresa di quest’ultimo. Il giorno dopo nominando un Inviato Speciale per la Pace nel Medio Oriente, il senatore George Mitchell, autore di un rapporto che chiedeva il congelamento immediato delle nuove colonie israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme. Quattro mesi dopo, nel corso della visita a Washington di Abbas, Obama ne f ce una proposta ufficiale. Subito dopo partì in vista nel Medio Oriente, ma evitò Israele, e al Cairo in un grande discorso disse. “La situazione per il popolo palestinese è intollerabile”. Ma al ritorno si adoperò per fare accettare ai palestinesi i nuovi insediamenti israeliani. Senza per questo riprendere i rapporti col governo di Israele.
Obama non è però per questo sotto critica negli Usa: c’è come un consenso su un disimpegno.

Perché negare l’inflazione

L’Europa non cresce perché distrugge reddito. Favorendo una redistribuzione all’inverso, contro i più a vantaggio di pochi, pochissimi, e che siano maghi della finanza.
L’Europa cresce poco, non ha ripreso i livelli pre-crisi, pre 2007, e non ha in programma di farlo. Per un motivo che è evidente ma purtroppo non si dice: la crisi finanziaria del 2007 è caduta in Europa su uno strato di debolezza, in un sistema economico continentale che da un venticinquennio soprattutto distrugge reddito, e capacità di spesa.
Questo è soprattutto evidente in Italia, che pure ha, malgrado tutto, fatto “più riforme” di ogni altro – per “riforme” s’intende la liberalizzazione del lavoro, e l’Italia ha il record europeo della flessibilità, più della Germania e di ogni altro paese euro. Uno stipendio, un lavoro bastava fino a due generazioni fa per mantenere la famiglia, acquistare casa, cioè pagare il mutuo, e anche risparmiare. Si facevano anche vacanze lunghe, non una settimanella scappa e fuggi. Oggi non bastano due stipendi, e comprare casa è affardellarsi per tutta la vita attiva. Il reddito è taglieggiato. La capacità di spesa è cronicamente ridotta, da un carovita tanto elevato quanto negato – deflazione è la parola d’ordine. Il reddito è taglieggiato in due modi, alla fonte e nella spesa, come potere d’acquisto.

Nel caso dell’Italia è anche ridotto complessivamente. Nei quindici anni del Millennio tutti i paesi dell’eurozona hanno accresciuto il pil pro capite, perfino la Grecia, l’Italia l’ha diminuito. Di uno 0,4 per cento, che però significa una forte marcia indietro. Peggio è andata al reddito distribuito, che in termini di potere d’acquisto è fermo al 1996. Sull’Italia pesano fattori specifici, soprattutto l’ingovernabilità. Che un quadro europeo di debolezza però aggrava. 
Un venticinquennio di salari in calo, per inseguire la Cina su quel terreno impossibile. Scemano le retribuzioni, la fetta maggiore di distribuzione del reddito prodotto. In termini nominali, come valore medio, stante la moltiplicazione di contratti atipici e al ribasso. E in termini reali, in Italia e altrove, per effetto dell’inflazione. Mentre le pensioni, un terzo del reddito distribuito in paesi come l’Italia, la Germania, etc., sono sterilizzate per effetto della sterilizzazione dell’inflazione, in termini reale, e in Italia ridotte perfino in termini nominali.
Il “miracolo” tedesco nella crisi generale si alimenta di basse retribuzioni – più alte dell’Italia ma per un costo della vita più elevato - e in calo costante da dodici anni, perfino in termini nominali. Ma alla fine anche gli investimenti ristagnano, per la contrazione inevitabile della redditività: col reddito e i consumi in calo non c’è futuro – gli investimenti sono il futuro.
La deflazione che si lamenta è solo statistica – “ufficiale”. È il gelo della spesa e degli investimenti, ma per effetto del carovita, non di un crollo dei prezzi. Dove questo si produce, per alcune materie prime, non riguarda le nostre economie – semmai ne è un effetto, è un effetto della domanda depressa.
È la sindrome giapponese, del ristagno, da un venticinquennio a questa parte. Che nessun quantitative easing, nemmeno il credito regalato, riesce a smuovere, dopo che si è distrutto il sistema produttivo, della fiducia o affidabilità, “dalla culla alla tomba”, con l’insicurezza e il minor reddito relativo, o minore potere d’acquisto.
Tutti abbiamo visto che i prezzi sono aumentati tornando dalla vacanza tra agosto e settembre: la tazzina del caffè, la benzina, la luce e il gas, l’ortofrutta e l’alimentare in genere (pane, pasta). Ma l’Istat dice di no, e che anzi i prezzi diminuiscono, contro ogni senso comune. I rincari non vengono registrati: le metodologie statistiche europee sono mirate a sterilizzare i rincari. Il caso fu clamoroso quindici anni fa al passaggio all’euro, quando i prezzi raddoppiarono rispetto alle monete nazionali di sostituzione, la lira, il marco, senza che gli indici nazionali e europei lo registrassero in nessuna misura.
La malattia sta nella cura? A questo punto è evidente, anche se non si dice e non si cercano rimedi – Renzi non ha lo status per imporli. E si vede anche la cura dove è distruttiva. Con i tassi sottozero (in Germania, in Francia, in Olanda, anche in Italia) si distrugge risparmio. E con la liquidità tassata, non remunerata, e anzi onerosa.
 “La mancanza di crescita dell’economia tedesca, cioè la debolezza relativa”, confessa Daniel Gros a Francesca Basso, onesto economista tedesco direttore del Centro per gli Studi di politica europea, “resta per me un po’ un mistero. Tutti i capitali vanno lì, l’export va bene, eppure….”. Il mistero di Gros non è un mistero, anzi è palese: è nella decantata, dai liberisti fanatici e dai giornalisti conformi, “flessibilità” tedesca del 2006. Cioè nella liberalizzazione del lavoro, contratti e paghe insieme. Cioè nell’impoverimento relativo della massa della popolazione, che vive d redditi da lavoro, dal funzionario pubblico al manovale di fabbrica.
Tagli di spesa pubblica alla cieca - per il principio. Inflazione cancellata. Retribuzioni bloccate e in calo, in media e in totale (monte salari). Questa è l’Europa, che solo così si ritiene virtuosa. La povertà dilaga, ma non fa nulla. Non si accumula, non fa nulla. Non si investe, non ci sono prospettive, poiché l’economia ristagna: non fa nulla. Finita l’era delle ideologie politiche, quella della stupidità si è installata.

Stupidario romano bis

“Roma non piace ai romani” (“la Repubblica”): “lo rivela un studio dell’Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione Europea, Roma  la penultima fra 18 capitali europee”.
“la Repubblica “ ci sta in esilio.

“Roma sest’ultima fra le 28 capitali europee” (“Corriere della sera”) per offerta culturale: teatri, musei, sale concerto e librerie.
Musei e musica a Roma, teatri, librerie (solo Feltrinelli ne ha sei)?

La sindaca di Roma Virginia Raggi si fa bocciare dall’Autorità anti corruzione, con un quesito appositamente redatto, il capo di gabinetto che ha appena nominato (questa è vera).

Un onorevole 5 Stelle, vice-presidente della Camera, non aveva capito una lettera iin cui gli si comunicava che un assessore 5 Stelle della giunta capitolina è indagato (anche questa è vera, così dice lui: meglio fesso che colpevole - furbo sempre).

Un vice-presidente 5 Stelle della Camera, lo stesso di sopra, inanella in tumultuoso comizio una consecutio all’insegna del famoso “se mi avrebbero” (questa è senz’altro vera).

Infelice tra le donne

Un concentrato di malinconia, denso, lungo. Di un grigiore che Rossellini e “Umberto D.” avrebbero invidiato: neo realismo alla potenza, mai un barlume - più che altrove è triste il protagonista con l’amante. La storia di un pover’uomo, cardiochirurgo a tempo perso, capace s’indovina, in un paesaccio ex comunista che si suppone la Romania (ma pare sia la Bulgaria), di teppisti e delinquenti impuniti, che fa la spesa per la mamma, la famiglia, e l’amante, e passa al giornata dietro la figlia perché superi bene l’esame di maturità, per poter fruire di una borsa di studio a Cambridge: insistenze, raccomandazioni, subornazioni. Ma fallisce, ancora una volta, come tutto nella vita, anche se non lo sa: la figlia non vuole andare a Cambridge, e chissà che non si sia inventato un tentativo di stupro alla vigilia degli esami.
È – non voluto (inconscio) – il quadro di un uomo infelice tra le donne: madre, moglie, figlia, amante, e forse anche la caposala. Ma è consolazione da poco. Premiato a Cannes perché prodotto dalle tv francesi.  
Christian Mungiu, Un padre, una figlia