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sabato 20 maggio 2023

L’Europa entra in guerra e non lo sa

La piega sorridente del presidente Biden, che potrebbe leggersi come un ghigno (i dermoplastici sono cinici), manda gli europei alla fornitura degli F-16 all’Ucraina. Per smaltire le scorte e obbligare poi i partner a rinnovare il parco caccia, con beneficio di Lockheed, Northrop Grumman e altri fabbricanti (gli Stati Uniti da tempo hanno smesso di armarsi con gli F-16, un caccia di cinquant’anni fa, e fra un paio d’anni non li utilizzeranno nemmeno, cercano compratori di seconda mano, Pakistan, Brasile, Indonesia, etc.). E per mandare l’Europa in guerra, né più né meno.
L’F-16 non è più da tempo un caccia intercettore. È un caccia multiruolo, compreso il bombardamento. Armato anche di missili aria\suolo, una dozzina, e di una quantità di bombe, in caduta libera e a grappolo. Fa male.
Le fornituire americane ed europee all’Ucraina sono state finora analoghe al Lend Lease Act del 1940, tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, all’accordo che consentì alle forze armate britanniche di rispondere all’aggressione tedesca grazie ai rifornimenti di materilie e mezzi Usa. Non del tutto analoghe:  ora gli armamenti vengono non da oltreoceano ma da paesi limitrofi ai contendenti. Una differenza capitale - ma anche allora, dopo due ani di Lend Lease, gli Stati Uniti furono coinvolti nella guerra. 
Il caso non è analogo anche perché la Russia non è la Germania di Hitler. La sua è una guerra d’aggressione, e l’Ucraina va quindi difesa. Ma l’Ucraina è una nazione che ha una storia di persecuzione delle minoranze. E l’America punta a una sconfitta della Russia, non a una pace onorevole: “Non basta che l’Ucraina vinca, la Russia deve perdere”, è l’assioma strategico degli Stati Uniti.
Questo fa capire che la Russia dovrà combattere fino in fondo, con Putin o senza. E con tutti i mezzi.
Che la Russia combatterà a fondo e con tutti i mezzi è dato per scontato, anche questo, dai piani militari americani. Solo gli europei non lo sanno.


Parisi matematico (non) per tutti

“Un trattatello per principianti volnterosi” è il sottotitolo. Ma non è una lettura, è un libro di testo, per studiosi e studenti - che Cambridge University Press ha in pubblicazione insieme con Zanichelli. Anche se, assicura il matematco di Stanford Persi Diaconis, “è un affascinante distillato degli aspetti più utili della probabilità e della statistica”.
Il Nobel della Fisica 2021 e i suoi collaboratori, fisici matematici, hanno scelto un linguaggio, anche quando affrontano argomenti sofisticati, di “elegante essenzialità”, sempre a giudizio di Diaconis. Una serie di appendici sono state elaborate per consentire riscontri pratici agli strumenti matematici di base. Con esempi di stime su questioni e dati attuali – varie argomentazioni confluiscono nell’analisi  dei dati della pandemina da covid.  
Luca Leuzzi-Enzo Marinari-Giorgio Parisi,
Calcolo delle probabilità, Zanichelli, pp. 418, ill,. € 48

venerdì 19 maggio 2023

Il mondo com'è (461)

astolfo


Adam Gannibal – Originario del lago Ciad, la sponda oggi Camerun, fu il bisnonno materno di Alexander Puškin, che ne ereditò alcuni tratti somatici, quasi da mulatto, il colorito scuro e i capelli neri crespi. La famiglia Puškin era di antica nobiltà. Ma il bisnonno materno era africano: un bambino rapito  a otto anni e venduto come schiavo a Costantinopoli, dove l’ambasciatore russo Raguzinsky, un mercante serbo, lo acquistò,  per poi farne dono allo zar Pietro il Grande. Il quale ne apprezzò la vivacità di spirito, se ne fece padrino, ne curò l’istruzione ( a 22 anni lo mandò a Parigi), lo sposò in una famiglia di bojardi, e lo portò con sé nelle spedizioni militari, promuovendolo presto al grado di generale.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato, ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte. La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II, suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del capitano”.  Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del capitano”.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato, ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte. La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II, suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del capitano”.  Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del capitano”.
 
Leopoli – Oggi parte dell’Ucraina, fu sempre polacca, dalla fondazione. Il voivodato di Leopoli figura parte del Regno di Polonia alla fondazione, nel 1265. Poi della Confederazione Polonia-Lituania, col nome teutonizzato di Lemberg. E come voivodato polacco nell’impero austriaco e poi austro-ungarico, alla spartizione della Polonia. Parte della Seconda Repubblica di Polonia al crollo dell’impero, 1919-1939. È diventata ucraina con l’avanzata dell’Armata Rossa nel 1944-45.
All’ultimo censimento austro-ungarico, nel 1910, che tracciava religione e lingua, il 51 per cento della popolazione della città si dichiarava cattolico romano, la confessione dei polacchi, il 28 per cento ebreo, e il 19 per cento della Chiesa greco-cattolica ucraina. Come lingua, l’86 della popolazione si esprimeva in polacco, l’11 per cento in ucraino.
 
Faustina Maratta – Figlia bastarda, poi riconosciuta, di Carlo Maratta, il pittore romano marchigiano di cui Sgarbi propone da tempo il recupero, fu protagonista di una “fuitina” nella Roma del Seicento, e di un aneddoto faceto dell’abate Galiani; “Fatto invaghire di sé il cavaliere romano Cesarini, fu da costui rapita e portata fuori Rima. La famiglia Cesarini, temendo che la tresca finisse in matrimonio chiede l’aiuto del papa. Che fece ritrovare i due e li riconsegnò alle rispettive famiglie. Beninteso di matrimonio non si parlò più; ma per Roma si diffuse un motto scherzoso: «Carlo Maratta ha fatto il quadro, Cesarini la cornice, e il Papa l’ha indorata»”. Il padre ne aveva da poco sposato la madre, Francesca Gommi, nel 1698, alla morte della moglie legittima, quando Faustina aveva diciannove anni.
Il “cavaliere” Cesarini, Giangiorgio Sforza Cesarini, era in realtà il figlio cadetto di Federico Sforza Cesarini, duca di Genzano, la località dove Carlo Maratta si era ritirato con la figlia. Non ci fu una “fuitina” ma un tentativo di rapimento. Nel 1703, quando Faustina aveva quindi 24 anni. Mentre andava a messa con la madre e le domestiche. Nei pressi del Quirinale, dove il papa allora risiedeva. Faustina si sottrasse all’agguato, ma rimediò una ferita alla tempia destra, che le lasciò una cicatrice. Il papa intervenne, ma per punire il duca, che per sfuggire alla prigione fuggì a Napoli, come era l’uso, e poi in Spagna – dove morì non molti anni dopo.    
Faustina era di suo poetessa, apprezzata e corteggiata – si è meritata una distesa “Vita” nella raccolta “Italian W omen Writers. A Bio-Bibliographical Sourcebook”, a cura di Rinaldina Russell, pubblicata dal Q ueens Colege a New York nel 1994 ” (una distesa “vita”, a opera di Serena Veneziani, figura ora nel “Dizionario Biografico degli Italiani” della Treccani). Provò anche la pittura: a lei si attribuisce un ritratto di papa Clemente XII ora all’Ambrosiana. Il padre la raffigura, in un quadro ora alla Galleria Corsini a Roma in atto di dipingere, con in mano pennelli e tavolozza dei colori.
 
L’Accademia dell’Arcadia la elesse suo membro l’anno dopo l’agguato di Cesarini, accogliendola col nome di Aglauro Cidonia. In Arcadia fece la conoscenza di Giambattista Felice Zappi, avvocato imolese e poeta già rinomato, col nome d’arte di Tirsi Leucasio.
  Che sposò l’anno successivo, nel 1705, e col quale convisse poi felicemente (ebbero cinque figli) – il matrimonio, è vero, fu combinato dal papa, Clemente XI Albani, per il quale il giurista e amministratore Zappi lavorava. Faustina tenne a Roma e a Albano col marito un salotto rinomato – tra i frequentatori si ricordano i maggiori arcadi, Gravina e Crescimbeni, con personaggi di passaggio, Händel, Domenico Scarlatti e altri.
Zappi morì presto, nel 1719. Faustina, malgrado le tante proposte, rifiutò di riposarsi. Nel 1723 pubblicò una raccolta di “Rime”, sue e del marito. I suoi componimenti, 38 sonetti in tutto, celebrano le grandi figure femminili della latinità, ispirate ai dipinti del padre, Lucrezia, Porzia, Veturia, Tuzia, Virginia, Claudia, Cornelia, Arria, Ortensia. O gli affetti familiari, specie per la scomparsa del figlioletto Rinaldo.
Dopo la morte del marito, viaggiò molto, a Imola, da dove il marito proveniva, Bologna e Venezia.  Si occupò dei figli - degli studi e dei matrimoni. Intrattenne corrispondenze con vari letterati. Intrattenne anche una relazione con una abate, membro dell’Arcadia, Vincenzo Parravicini, di lei più giovane.
Dal 1728 la sua vita cambiò. Da un lato la famiglia Albani (papa Clemente XI) le procurò dal re di Polonia un diploma nobiliare, il titolo ereditario di marchese. Dall’altro il Paravicini se ne allontanò. E un giovane di Albano, di cui resta il nome, Francesco, reputato figlio naturale del suo fallito rapitore, le fece causa di riconoscimento. Il processo durò quasi vent’anni: Faustina morirà nel 1745, appena dopo essere riuscita a provare che la pretesa del querelante era falsa. La ricorda la lapide tombale al San Carlino alle Quattro Fontane.
 
Massacro della VoliniaOggi dimenticato, fu negli anni 1943-45 uno degli eventi che più fecero notizia: la caccia e l’eliminazione sistematica dei polacchi del voivodato della Volinia – e, con molte meno vittime, della Galizia orientale, della Polesia e attorno a Lublino. Una serie di stragi di massa compiute dai tedeschi, e dagli ucraini di Stepan Bandera, il creatore e capo dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, un gruppo politico filo-tedesco, nonché del braccio militare dell’Organizzazione, l’Upa, o Esercito Insurrezionale Ucraino. Le stragi, perpetrate col sostegno anche della popolazione ucraina, si presume abbiano fatto circa 100 mila morti.
Il più gran numero di morti si ebbe all’inizio dei massacri, nel luglio-agosto 1943. Vittime soprattutto donne e bambini – i maschi polacchi erano ai lavori forzati o nella Resistenza esercito interno polacco).
Nelle prime ricostruzioni dopo la guerra, la Polonia denunciò torture e stupri, e anche metodi più radicali, quali lo smembramento o il fuoco. Ancora nel 2008 l’Istituto della Memoria polacco denunciava  i massacri come “genocidio”, e con questa qualifica il Parlamento polacco li rubricava con atto legislativo nel 1956.
La Volinia, sotto amministrazione polacca all’interno dell’impero austro-ungarico, fu attribuita alla Polonia, all’indipendenza dopo la guerra, tra il 1921 e il 1939. Pur essendo di nazionalità ucraina. Al censimento 1921 del rinato Stato polacco furono registrati nel voivodato 1.437.907 abitanti. Così suddivisi per etnia dichiarata: ucraini 983.596 (68,4 per cento), polacchi 240.922 (16,8), ebrei 151.744 (10,6), cechi (cosiddetti Cechi di Volinia) 25.405 (1,77), tedeschi:24.960 (1,74), russi 9.450 (0,66%)
Il voivodato, termine e istituto originariamente medievale, feudale, era a metà tra la provincia e la regione, un distretto amministrativo.
 
Operazione Albania – Rubricata anche come Operation Fiend dalla Cia, o Operation Valuable dai servizi inglesi (l’MI 6, il controspionaggio), fu il primo tentativo di sovversione organizzato dalla Cia, con i servizi inglesi - prima di quello riuscito poi in Iran, 1953, contro Mossadeq. Un avvenimento dimenticato, che fallì, con alcune centinaia di morti tra le spie angloamericane, e innumerevoli tra gli albanesi. Lo ricorda in una noticina John Le Carrè, nelle memorie “Tiro al piccione”, a proposito della defezione di Kim Philby, uno di capi dell’MI 6 che faceva il doppio gioco per i russi. “Un tentativo fallito dell’MI 6 e della Cia nel 1949 di rovesciare il governo albanese, finito con la morte di almeno 300 agenti, e di innumerevoli arresti ed esecuzioni tra il popolino locale”, è la nota di Le Carré – con l’aggiunta: “Kim Philby era uno degli organizzatori”.
La “contro-rivoluzione” in Albania fu il tema di una proposta del ministro degli Esteri inglese, il laburista Ernest Bevin il 6 settembre 1949, alla prima riunione Nato a Washington. Ma l’operazione era già in atto, organizzata e finanziata dalla Cia. Col supporto degli agenti britannici nel Mediterraneo, in Italia, Grecia, Libia, Albania. E col contributo dei servizi italiani e greci. Una dozzina di albanesi erano stati addestrati in Libia a pilotare un aereo. E insieme alluso di armi, codici, radio ricetrasmittenti, e alle tecniche di sabotaggio e sovversione. Un altro piccolo gruppo, chiamato affettuosamente i Pixies (folletti), era stato trasportato a luglio dello stesso anno al Fort Bingemma a Malta, per l’addestramento allo spionaggio e alla mobilitazione. Il 26 settembre i Pixies, nove in tutto, furono imbarcati su un vascello della Royal Navy che li portò nell’Adriatico, dove, dopo una sosta a Brindisi, furono trasbordati su un caicco greco, da pesca o da cabotaggio, per essere sbarcati a sud di Vlora, dove la cosiddetta Resistenza albanese aveva terreno amico. Furono intercettati all’arrivo e uccisi o dispersi – in Grecia. Altri addestramenti e altri sbarchi analoghi furono organizzati ancora per tre anni, fino alla Pasqua del 1952, data dell’ultima incursione, anch’essa fallita – le milizie albanesi sempre aspettavano gli sbarchi. Uno dei sopravvissuti dichiarerà: “Eravamo usati per un esperimento. Eravamo una piccola parte di un grande gioco, pegni da sacrificare”.
L’Operazione Albania è stato uno dei segreti Nato meglio custoditi. È solo nel 2006 che se ne è avuta notizia, dai documenti declassificati sulla base del Nazi War Crimes Disclosure Act, una legge americana.      
 
astolfo@antiit.eu

Puškin osceno

Tre poemetti scurrili del “primo Russo”, il primo poeta, Puškin. Di sicura attribuzione, a Puškin giovane.
Lo pseudo-Puškin è un genere molto praticato, rilevava già negli anni 1920 Tynjanov – ancora nel 1989 ne veniva inventato un “Diario segreto”, frutto malsano della perestrojka. Questi, per strano che possa sembrare talmente sono spinti, sono di Puškin. Giovane goliarda, ma già con letture a largo spettro, accerta il curatore, Cesare G. De Michelis, della letteratura licenziosa francese del primo Settecento.
“L’ombra di Barkov” è una serie di amplessi, “all’ombra”, come parodia, di un Barkov che circolava sottomano a fine Settecento in Russia. “La Gabrieleide” è l’ennesima parodia dell’Annunciazione, un po’ prolissa, interminabile, con personaggi e intrighi da Toledoth Yesu ebraiche – questo poemetto è stato sempre pubblicato, con attribuzione a Puškin, nella Russia sovietica e dopo: la Vergine se la fa con gli angeli, Gabriele e il Demonio. “Zar Nikita e le sue quaranta figlie” è una “fiaba”, la prima delle fiabe per cui Puškin sarà poi famoso.
“Zar Nikita” è però una fiaba piuttosto volgare, ala lettura in chiaro. Le zarevne, le quaranta figlie dello zar, belle, flessuose e tutto, mancano di “passera”. Che una fattucchiera remota procurerà. Ma il curatore spiega che la lettura canonica è a chiave: una composizione satirica di riferimento massonico, sui nemici della massoneria di cui Puškin era fresco eletto.
Non manca nulla del genere. C’è anche una lotta, per i capelli, nel fango, tra i due angeli, Gabriele e il Demonio, per le grazie della vergine. Ma una letteratura desueta, dopo l’avvento del pornohub. Che si segnala per la traduzione eccellente (a fronte dell’orginale), ritmata, eloquente, in linguaggio filato, corrente, perfino un po’ coatto, opure paludato (il Diavolo-Serpente della “Gabrieleide”), di un distinto accademico. E per il contrasto con la presentazione dottissima dello stesso De Michelis, con rinvii alle teorie letter arie e semiologiche più preziose (ardue). tenne. Divertenti comunque le oscenità, pensandole opera libera di tanto poeta. 
Aleksandr S. Puškin,
Operette licenziose, Voland, pp. 135 € 12

 


giovedì 18 maggio 2023

Letture - 520

letterautore


Walter Benjamin a Sanremo
- Dora Sophie Kellner, giornalista e scrittrice austriaca attiva in Germania, riemigrò nel 1933, alla presa del potere da parte di Hitler, in Italia, a Sanremo. Era stata la prima moglie di Walter Benjamin, col quale aveva intrattenuto un rapporto sentimentale fin dal maggio 1914, dal primo incontro, e aveva creato una convivenza due anni dopo, dopo aver divorziato dal primo marito, Max Polak. Il 17 aprile 1917 Dora Kellner e Benjamin si erano sposati - in Svizzera, dove Benjamin si era rifugiato per sfuggire all’arruolamento, con un referto medico di ischemia. In Svizzera ebbero anche un figlio, Stefan. Il matrimonio era durato fino al 1930. A Sanremo l’ex moglie d Benjamin lavorò dapprima come cuoca all’hotel Miramare. Per poi rilevare Villa Emily, o Villa Verde, che gestì in proprio come pensione – la vecchia residenza di Edward Lear, l’illustratore londinese più noto come scrittore, di viaggi (in Calabria) e di limerick.
Con l’avvento di Hitler Dora e Walter Benjamin avevano riallacciato i rapporti: tra novembre 1934 e gennaio 1938 Benjamin soggiornò a Sanremo, a Villa Verde (dove nel 1935 anche Stefan si era trasferito) almeno cinque volte, anche per lunghi periodi – nell’inverno 1934-25 per cinque mesi. Come spiega la monografia illustrata “rororo” di Uwe Naumann. Visite intervallate da soggiorni a Ibiza, ospite di Jean Selz, lo storico dell’arte francese, nelle estati del 1934 e del 1936 a Skovbostrand, ospite di Bertolt Brecht, e spesso in Francia, soprattutto a Parigi, dove era rifugiata la sorella Dora, e dove poteva frequentare la Bibliothèque Nationale. A Villa Verde Benjamin scrisse due capitoli di “Infanzia berlinese intorno al Millenovecento”, e parti dei “«Passages» di Parigi” e dei lavori su Kafka.
 
Cia
- “Sono stato a Mosca solo due volte”, è l’incipit del § 17 delle memoria di Le Carré, “Tiro al piccione”: “La prima nel 1987, quando grazie a Mikhail Gorbaciov la vita dell’Unione Sovietica stava finendo, e tutti eccetto la Cia lo sapevano”.  
 
Fraülein
- Era d’uso, fin ben dopo la Grande Guerra, per le giovani aristocratiche. Lo spiega la germanista Rita Svandrlik, introducendo Schnitzler, “La signorina Else”, di Giunti.
 
Giornalisti
– “Alla fine, siamo agenti doppi. O tripli”, spiega a Le Carré (“Tiro al piccione”, 32) il giornalista francese Jean-Claude Kaufmann, che è stato ostaggio per tre anni di Hezbollah in Libano, di carcerieri incappucciati: “Dobbiamo empatizzare con altri per capire ed essere accettati. Poi tradiamo”.
 
Incoronazione
– Tutti gi ingredienti di Shakespeare, i nomi ridondanti, il principe riottoso e traditore, la regina pretendente, molti fantasmi incombenti, e invece è stato un evento pubblicitario. I personaggi sono gli stessi ma la scena è cambiata.
 
Male oscuro
– Di ritorno da un premio letterario in Europa a fine anni 1980, narra la biografia (il Prix Mondiale Cino Del Duca, a Parigi, nel 1985, un premio alla carriera, n.d.r.), William Styron torna al successo di pubblico, che lascia tramortita la critica, col racconto della sua – di una sua – crisi depressiva. Un racconto che intitolò “Un’oscurità trasparente”. L’idea, spiegava, gli era venuta  da un’intervista letta sette anni prima. Di Berto, che “Il male oscuro” aveva pubblicato nel 1964? Con analogo travolgente successo di pubblico che aveva tramortito la critica – tuttora non sa “sistemarlo”.
 
Yvette Pierpaoli
- Yvette Pierpaoli, francese figlia di emigrati eoliani, è solo ricordata da Le Carré nelle memorie, “Tiro al piccione”, § 10. Che rivela in lei il modello del suo romanzo “Il giardiniere tenace”. E poi, dopo morta, l’ha ricordata sul settimanale “The Observer”. Donna d’affari nella ex Indocina, e poi indomita operatrice umanitaria in Cambogia e altrove. Da ultimo in Kossovo, dove è morta, alla frontiera con l’Albania, in un incidente d’auto.
 
Russia
– “Ciò che la psiche collettiva russa teme di più è il caos; quello di cui più sogna è la stabilità; e quello di cui ha il terrore è il futuro ignoto”, John Le Carré, “Tiro al piccione”, § 17, “Il cavaliere sovietico sta morendo dentro la sua armatura”. Una paura che Le Carré giustifica: “E chi non lo avrebbe, in una nazione che ha dato venti milioni delle sue anime ai giustizieri di Stalin ed altri trenta a quelli di Hitler?”
 
Scrivere
– “Spiare e scrivere romanzi sono fatti l’uno per l’altro. Entrambi richiedono un occhio allenato alle trasgressioni umane e ai molti volti del tradimento”. Se lo dice Le Carré, la spia tourné  romanziere, aprendo le memorie, “Tiro al piccione”. Ma sull’autorità di Graham Greene. Benché, alla fine, con non benevola ironia: “A riprova non dobbiamo cercare più lontano di Graham Greene, a proposito di quanto si racconta sull’autoimposto gioco dei furbi con l’Fbi…. Per tutta la sua tarda vita Greene, romanziere ed ex spia, fu convinto di essere nella lista nera Fbi dei sovversivi filocomunisti. Ne aveva ragione, date le sue numerose visite in Unione Sovietica, la sua continua e dichiarata fedeltà all’amico e compagno di spionaggio Kim Philby (un agente doppio poi rifugiato in Russia, n.d.r.), e i suoi inutili sforzi di conciliare la causa romano-cattolica con la comunista. Quando il Muro di Berlino crollò, Greene si fece fotografare da lato sbagliato, mentre diceva al mondo che sarebbe stato meglio di là che di qua. Anzi, l’avversione di Greene contro gli Stati Uniti e la sua paura delle conseguenze delle sue critiche radicali raggiunse tali altezze che insisteva a tenere gli incontri col suo editore americano dal lato canadese del confine”. Finché non vennero declassificati i documenti che lo riguardavano: “Il file Fbi di Greene conteneva una sola voce: che si era accompagnato con la politicamente erratica ballerina Margot Fonteyn, quando questa combatteva la causa persa del suo paralizzato e infedele marito, Roberto Arias” (erano accusati di aver e introdotto armi in Panama, il paese di Arias, dove risiedevano, per un golpe – Panama era sotto controllo americano stretto, contro la sovversione in America Latina).  


Università
– Walter Benjamin fallì l’abilitazione all’università di Francoforte nel 1924 col saggio “Il dramma barocco tedesco” – che dopo la pubblicazione quattro ani dopo da primario editore era già un classico della letteratura critica. 


letterautore@antiit.eu

Il racconto felice della vita amata

Il tema dei ladri di bambini, in una narrazione dettaglista, lunga, e avvincente. Due “mediatori (broker) di buone azioni”, di affidi-adozioni illegali di neonati, abbandonati dalla madre o d’accordo con la madre stessa, un giovane che è stato orfano in orfanotrofio, e un lavandaio in età cacciato di casa dalla moglie e indebitato con la mala, recuperano davanti a una “ruota degli esposti” un neonato abbandonato per terra. È l’occasione di un affare ghiotto, si possono spuntare molti milioni, e un’odissea si avvia, dei “mediatori di buone azioni” col neonato, con la madre del neonato che in qualche modo si aggrega, e con un ragazzino del vecchio orfanotrofio del ladro giovane di bambini. Sotto il controllo occhiuto della polizia, nella specie di due sbirre che s’ingozzano di cibo e odiano il mondo, ma devono aspettare il momento in cui ci sarà la proibitissima vendita. Finirà male, con la condanna inevitabile di tutti, i due ladri di bambini e la madre. Ma con la più durra delle sbirre che terrà in caldo il neonato e lo farà crescere fino a che madre e ladri non escono tre anni dopo in libertà.

Un racconto anticonformista, fuori e contro l’anti-maternità, il diritto all’aborto, e “femmina è bello”. Che sarà apparso una provocazione a Cannes un anno fa, al festival reduce dalla fresca Palma doro a Ducournau, per l’horror “Titane”, in cui la lap dance per soli uomini si fa in amplessi con le automobili, e una specialista di questi amplessi uccide col fermacapelli chi attenta alla sua verginità – il festival si è fatto perdonare premiando il prim’attore, il ladro anziano di bambini, Song Kang-ho. Dal lato della vita - i cinque protagonisti si dicono reciprocamente “grazie per essere in vita” la notte prima dello scompaginamento poliziesco, del politicamente corretto.

Un film perfino troppo buono. Non c’è cura di un infante che si possa immaginare più attenta e calorosa dei due ladri-padri, del vecchio come del giovane. Ma ben scandito, e per questo pure convincente. L’esito è un inno alla vita, anche della madre degenere, anche delle polizie, anche delle organizzazioni imprenditoriali degli orfani.   

Hirokazu Kore’eda, Le buone stelle - Broker, Sky Cinema

mercoledì 17 maggio 2023

Il debito del Terzo mondo è con l’ex Terzo mondo

Il “World Economic Outlook” del Fondo Monetario Internazionale cambia la geografia dei prestatori mondiali: l’ex Terzo mondo ha rapidamente preso il sopravento in in trent’anni, anche meno. Una parte del Terzo mondo ora finanzia il Terzo mondo residuo, principalmente in Africa, con diramazioni sparse in Asia e America Latina.
Nel 1996 al Club di Parigi (Europa occidentale, ma con dentro la Russia, Stati Uniti, Canada, Australia, Israele, Corea del Sud, Giappone) faceva capo il 39 per cento del debito estero bilaterale. Oggi la sua quota è ridotta al 12 per cento. Mentre la Cina, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, cui nel 1996 faceva capo l’8 per cento del debito estero, ora ne controllano il 22 er cento. Ed è raddoppiata la quota del debito pubblico estero detenuto da soggetti privati, dall’8 al 16 per cento.
La quota restante fa capo alle istituzioni multilaterali: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale, banche regionali o settoriali per lo sviluppo.
La Cina è il primo creditore singolo. Specie dei paesi in via di sviluppo, con i quali vanta circa mille miliardi di dollari di prestiti - la “Via della Seta” si è rivelata una formidabile rete finanziaria.

La Cina non è a corto di braccia

“La Cina diventerà vecchia prima di diventare ricca” è la nota – di giubilo – che accompagna da qualche tempo la scoperta che ci sono in Cina più morti che nascite, che la popolazione comincia a diminuire. Con corredo profetico a quindici e trenta anni, di una popolazione con pochi giovani e molti vecchi, e gli aggravi che questo cambiamento comporta, per sanità, pensioni, finanza pubblica, e quindi ricchezza. Ma non è così semplice.
La spesa sociale è cresciuta in Cina di quasi tre volte in dieci anni. Anche a causa dell’invecchiamento, ma non solo. La Cina ha riserve enormi di forza lavoro. Può elevare l’età del pensionamento, oggi anacronisticamente ancora a 55 e 60 anni. Ha un serbatoio ancora ampio di forza-lavoro rurale che può urbanizzarsi per la produzione moderna. Ha un mercato del lavoro ancora ridotto: è stato calcolato che se il tasso di occupazione fosse in Cina come quello del Giappone, tra diciotto anni ci sarebbero 40 milioni di lavoratori in più, una Germania. E molto è possibile recuperare tra i più giovani, che non hanno un preciso disegno di cosa fare: la disoccupazione giovanile è ancora al 17 per cento.

Perduti nella giungla, a caccia del tesoro

Due mezzi film, che non ne fanno uno? Il primo è di una scrittrice in crisi, dopo la morte del marito, archeologo celebrato. Una scrittrice di romanzi Hamorny conditi con un pizzico di Indiana Jones (avventura) – al gusto del marito defunto. Con un modelo palestrato e cafone, col quale l’editore ha identificato in copertina l’avveturiero dei suoi romanzi. Due personaggi che interagiscono bene. Se non che si trovano poi – cambio radicale di scena - in una caccia al tesoro nella giungla, nella quale la scrittrice viene  impegnata da un improbabile riccone, che l’ha rapita a questo scopo, convinto che sia la chiave per poter mettere le mani sul fantastico tesoro del Città Perduta.
Il primo è una commediola agra, ben registrata tra battute e repartee. Il secondo una satira del genere Indiana Jones. A cui la minuscola scrittrice e il gigantesco modello si prestano fisicamente, ma senza effetti godibili.
Aaron e Adam Nee, The lost City, Sky Cinema

martedì 16 maggio 2023

Appalti, fisco, abusi (226)

Gli azionisti (i piccoli azionisti) salutano il passaggio ai paradisi fiscali come se la questo migliorasse redditività delle loro aziende. Mentre migliora solo la redditività delle holding (dei padroni delle aziende), che normalmente emigrano con le aziende. Sull’azionista (il piccolo azionista) invece si carica una seconda fiscalità, per quanto benevola. È di moda l’Olanda, a cui l’azionista italiano dovrà pagare sul dividendo una ritenuta del 15 per cento, in aggiunta a quella che paga all’Agenzia delle Entrate, del 26 per cento.
 
La Fiat emigra in Stellantis, che emigra in Olanda, e la finanziaria di famiglia Exor, padrona di Fiat, anch’essa di diritto olandese, si paga il dividendo intero, o poco meno. Il comune cassettista paga invece la ritenuta d’acconto e anche quella olandese.
Il passaggio a un paradiso fiscale modifica le condizioni reddituali non solo, ma anche di prospetto. Ma per la Consob è come se nulla fosse.
 
La bolletta della luce di marzo-aprile è più che raddoppiata rispetto a un anno fa. Benché al netto degli “oneri di sistema” (la tassa a favore del business delle pale eoliche e dei pannelli solari), e con pochissime “spese per il trasporto” (la tassa di Terna, cioè dello Stato). E il prezzo del gas, con cui l’elettricità si fa, sia da tempo ai minimi storici. Senza che l’Arera, l’Agenzia di controllo dele utilities enegetiche, abbia da eccepire.
La tariffa è in “libero mercato”, certo. Ma non c’è la possibilità  di spuntare un prezzo minore con un altro operatore. Senza che ci sia cartello, ovviamente. Almeno a giudizio dell’Arera – i “cartelli” sono proibiti. La bolletta elettrica pesa per più della metà del carovita, ma si fa finta di nulla.
 
Aruba intima ogni cinque mesi il cambio di password, pena la decadenza dello spid. Per ragioni di sicurezza? No. Per arrivare al rinnovo dello spid, tramite un tuttofare, per pochi euro è vero, ma con perdita enorme di tempo. Non converrebbe pagare un piccolo fee annuo a Aruba e contendenti, ed essere lasciati in pace – come si fa a cambiare identità ogni poche settimane?

Capitalismo di Stato made in Usa

Il liberismo americano, che viene imposto al mondo attraverso il Fondo Monetario e la Banca Mondiale (le “riforme”) si coniuga negli Stati Uniti a un massiccio intervento pubblico. Per infrastrutture non solo, molto di più per quello che viene detto politica industriale, incentivi e contributi alla produzione. Non solo nelle crisi, come è stato nel 2007-2008 per prevenire il collasso bancario e salvare i depositi, ma come vere e proprie sovvenzioni alla produzione.
Si dibatte ora al Congresso sull’innalzamento del tetto al debito pubblico, che in America è fissato per legge. Ma non è una  novità: ogni pochi anni questo limite viene innalzato - serve da freno non da ostacolo alla spesa pubblica, specie quando è produttiva, un aiuto alla produzione.
Questo aviene con le amministrazioni democratiche come con le repubblicane, teoricamente più liberiste. La presidenza liberista per eccellenza, quella di Reagan, con la semplice Strategic Defense Initiative, il programma militare spaziale, effettuò investimenti massicci nella ricerca scientifica e tecnologica del comparto militare-industriale – vantando ricadute su tutto il sistema produttivo. Di molto maggiore impatto è ora la politica industriale di Biden, con le due leggi di un anno fa, Inflation Reduction Act  (Ira) e Chips and Sciencce Act.
La presidenza Biden fa valere, nel dibattito in corso con il Congresso sull’innalzamento del tetto all’indebitamento, che esso è necessario per contrastare il capitalismo di S tato cinese. Che opera senza vincoli di bilancio. Ma Biden viene dopo Obama, anch’egli trasgressivo ai limiti di legge, che veniva dopo Bush jr. e le sue guerre, che veniva dopo Clinton, uno scialacquatore, che veniva dopo un dodicennio repubblicano non molto virtuoso.

Putin apatico e distratto

Putin combatte una strana guerra. Era un presidente accentratore, controllava perfino le nomine intermedie a Gazprom o nelle gerarchie militari. Da quando ha voluto la guerra, che non si può dire guerra in Russia perché Putin non l’ha portata all’approvazione parlamentare, dell’Assemblea Federale, è diventato “un leader assente, solitario, e spesso indeciso”.
Un ritratto del presidente russo con fonti russe. “La decisione di invadere è stata di Putin, il risultato dei suoi cupi risentimenti contro l’Occidente, di fantasie complottistiche sull’Ucraina, e di una fiducia infondata nell’esercito”.  Pochi ne erano al corrente: “Pochi nella élite russa, per non dire del pubblico, volevano una guerra e neppure pensavano che stesse per scoppiare”. Putin l’ha voluta, chiamandola con un altro nome, ma poi “ha offerto pochi segni o spiegazioni di come il conflitto sta andando, e a che scopo”.
Putin è molto lontano dalla “caricatura di Putin, dell’uomo forte che prende al balzo ogni possibilità di conflitto con l’Occidente”. La polemica di Prigozhin, quali che sino i termini esatti che usa e l’estensione delle sue minacce alla stessa Russia, “ha comunque ripetutamente umiliato l’alta dirigenza militare e gettato un’ombra sull’intero impegno bellico russo”. Senza che Putin reagisca, in nessun modo. Allo stesso modo come non ha reagito agli attentati contro gli influencer suoi sostenitori, e ai droni spavaldamente fatti volare di notte sul Cremlino.
Joshua Yaffa, The Vanishing Acts of Vladimir Putin, “The New Yorker”, free online

lunedì 15 maggio 2023

Multilateralismo senza Europa

Il multilateralismo si rilancia, in funzione anti-americana, con esclusione quindi dell’Europa. A opera della Cina. Con inclusione della Russia – dopo una storica estranetà, inframezzata da conflitti, Cina e Russia si incontrano, all’insegna del multilateralismo. 
Al netto dell’invasione del’Ucraina (che però è una trappola in cui è caduta), la Russia è ora meno isolata di quanto lo fosse due anni fa: ha perduto i legamenti con l’a Ue ma è riuscita ad avvicinare la Cina, che a lungo se ne è tenuta distante, ed esce dall’isolamento col rilancio dei Bric (Brasile, Russia, India, Cina), dello Sco (Organizzazione per la cooperazione di Shangai) e del Ric (Russia, India, Cina). In ogni ambito all’ombra della Cina. Ma non iù isolata. E all’ombra del multilateralismo, in funzione anti-Usa.
Il multilateralismo era concezione e proposta politica di Kissinger nel1974, nel post-Vietnam. Gli Stati Uniti uscivano da una crisi grave, militare (Vietnam), economica (dollaro inconvertibile) e politica (dimissioni Nixon), e il segretario di Stato uscente proponeva un riequilibrio mondiale con più protagonisti. Ma con almeno due soggetti, Europa e mondo arabo-islamico, legati agli Sati Uniti. 
Il presidente cinese Xi rilancia il disegno in chiave di “contenimento degli Usa”. Come risposta preventiva alle provocazioni americane su Taiwan. Alle provocazioni del partito Democratico  americano, da Pelosi al presidente Biden - in realtà dei collaboratori e discepoli di Madeleine Albright: ad essi Biden ha confidato tutti i posti di politica estera.

Cronache dell’altro mondo – bellicose e non (233)

“Risolverò in un giorno il conflitto in Ucraina”, è quanto si sa della contestata intervista Cnn a Trump. Che è stato però specifico in alcune cose, al netto della pretesa che Putin, con lui alla presidenza, non avrebbe completato il gasdotto NordStream e non avrebbe attaccato l’Ucraina, con morti e distruzioni.
“Il problema è che noi abbiamo già donato (all’Ucraina, n.d.r.) 171 miliardi di dollari. Loro hanno donato circa 20 miliardi. Con loro da intendersi l’Unione Europea, che ha presapooco la stazza della nostra economia. Poiché noi siamo a 170 e loro a 20 ed è chiaro che loro sono più coinvolti di noi, senza bisogno di sapere troppo di geografia o di storia, loro devono fornire molti più soldi, giacché stanno sfruttandoci , allo stesso modo come ogni altra nazione ha fatto”.
Poi, pressato dalla conduttrice, ha ribadito a  più riprese che con lui alla presidenza “la guerra si concluderà in 24 ore. Non ragiono in termini di vincere o perdere, è necessaria una soluzione per impedire che si ammazzino tutti”.  

La signorina Else fa cent’anni – femminista, bassaniana

Il monologo interiore forse più celebre - dopo quello inaugurale dello stesso Schnitzler nel 1900 con “Il sottotenente Gustl”, poi ripreso da Joyce in “Gente di Dublino” - si può rileggere con una traduzione variamente rivista, e una introduzione che è un racconto a sé della germanista fiorentina Svandrlik. Sugli ebrei viennesi, come Schnitzler, che erano, ancora dopo la Grande Guerra e la dissoluzione dell’impero austro-ungarico, gli “unici veri patrioti”, quali li diceva Joseph Roth. Sugli ultimi anni di Schnitzler, “rattristati dalla separazione dalla moglie e dal suicidio della figlia (1927)”, come presentito in questo racconto. Sulla tecnica del flusso di coscienza.   
Un racconto in tempo reale, quattro-cinque ore, come solo è possibile nel “flusso di coscienza”.  Lieve, perfino banale, per l’incoscienza dell’età dell’incoscienza – anche se l’adolescenza è qui prolungata ai diciannove anni. E tuttavia ritmato, avvincente. Anche perché, nella ripetitività del lungo monologo, di grande varietà linguistica, e grammaticale. Il monologo che fa testo è sempre quello di Bloom, di Joyce, ma, seppure meno variato, anzi monotono, più formidabile, per un centinaio di pagine, è questo della giornata della signorina Else. Contemporaneo anche, nel viluppo di considerazioni, tutte ragionevoli e non, che portano spesso l’adolescente solitario a atti inconsulti.  
E di interesse storico: nell’identità ebraica sottolineata dei protagonisti marca la felice noncuranza degli ebrei al crollo dell’impero austriaco, all’ombra del quale avevano prosperato.

Bassani vi ha trovato spunti per “Il Giardino dei Finzi Contini”? La traccia è inesplorata – o allora ritenuta inconsistente. Ma per la noncuranza e altri aspetti, il tennis e non solo, più di un rinvio il racconto provoca ai “Finzi Contini”, più uno spunto o appiglio potrebbe avere dato a Bassani.
Questa Else è anche una figura femminile che non si ritrova molto nella scrittura femminile – quella che un tempo si diceva scrittura femminile, opera di scrittrici. Di donna abusata e colpevolizzata. Un secolo fa. Senza scandalo, una delle tante. Quante storie di donne, dal punto di vista femminile se non femminista, non sono opera, a volte “immortale”, di scrittori e poeti. Una storia della letteratura  al femminile ribalterebbe molto femminismo politico.  
Un dubbio emerge alla rilettura - alla rilettura in questa traduzione? Ma il caso è di un suicidio - il racconto è diventato eponimo del suicidio da adolescenti? Il veronal-barbital che Else ingerisce è abbastanza per ucciderla, ma i soccorsi stanno arrivando, e poi non è lei che ci racconta questa sua giornata convulsa?

Arthur Schnitzler, La signorina Else, Giunti, remainders, pp. 107, ril. € 2,00

domenica 14 maggio 2023

Cronache dell’altro mondo – razziali (232)

“Sono diventata Nera in America. Non è stata una scelta – la pelle color cioccolata vi predisponeva – ma una rivelazione”.
Per il decimo anniversario della pubblicazioni di “Americanah”, il romanzo che he ha fatto un’autrice americana importante, la scrittrice nigeriana Chimamanda Adichie si chiede nell’introduzione alla riedizione se ha fatto bene, a emigrare.
“Non avevo pensato mai prima di me come «Nera»: non ne avevo bisogno, perché seppure il colonialismo britannico ha lasciato in Nigeria molte brutte eredità, l’identità razziale non era una di queste”. Non come in Sudafrica. “In Nigeria ero Ibo e cattolica romana, e anzi nel gentile campus universitario entrambe le connotazioni non avevano rilievo significativo sul mio procedere nel mondo”.
La lista Adichie fa lunga dei problemi che la razza comporta in America. “Essere Nero in America è stato sentirsi schiacciato (bulldozed) dal peso della storia e degli stereotipi”, etc., - “essere Nero era sentire, in ogni circostanza, frustrazione, rabbia, irritazione, e ironico divertimento”.
In questa chiave, Adichie si dice grata all’America per avere scoperto una letteratura afro-americana, “storie piene di grinta e grazia”. Di questa letteratura pensa ora di fare parte, “ma obliquamente: come qualcuno che sta fuori della cultura americana, una persona Nera senza la storia degradata dell’America”.
“Americanah” era già sugli africani d’America: emigrati che ritornano e non riconoscono, affettano di non riconoscere, paesi, persone, lingue, abitudini.

Ci furono anche i cattolici, a fare l’unità

Ci sono stati i cattolici nella formazione dell’Italia unita, preti, suore, vescovi, organizzazioni, intellettuali. Sembra un’ovvietà, non possono non esserci stati, ma chi ne ha mai saputo nulla? C’è un interdetto? Lucetta Scaraffia prova a violarlo. Con risultati eccezionali – ovviamente, non poteva che esumare molto materiale. Ma purtroppo limitati al Piemonte –“Religiosi e cattolici piemontesi di fronte all’Unità d’Italia” è il sottotitolo – e anzi a Torino.
Da un punto d’interesse generale è rilevante il primo saggio della raccolta, di Andrea Pennini, “La religione nello Stato”, sulla normativa in materia ecclesiastica nell’Ottocento sabaudo, laico-massonico, dal Regno di Sardegna al Regno d’Italia. Con le prime cifre, seppure locali, di una storia economica della manomorta, l’appropriazione della manomorta ecclesiastica, che è all’origine della borghesia italiana, molto notabilare e poco imprenditoriale, e che pure non si fa.
Un capitolo a parte è di Oddone Camerana, che ricorda come “Le mie prigioni” uscirono a Torino, nel 1832 - “«Le mie prigioni», il libro più famoso scritto in Torino”. E che Pellico a Torino vivrà libero – ma solo nel corpo, uscì dallo Spielberg debilitato – dai marchesi di Barolo. Un altro capitolo di storia patria dimenticato: si collega al tema del libro perché i Barolo erano impegnati in opere di carità, con l’Istituto del Rifugio, e col Cottolengo, con la sua Piccola Casa della Divina Provvidenza e con i suoi Fratelli di san Vincenzo.
Cosa c’entra la carità con l’unità? Lo rilevava già nel 1862 Pasquale Villari, storico non certo di sacrestia, che stigmatizzava come l’immediata appropriazione dei beni ecclesiastici, il primissimo provvedimento del Regno d’Italia, avesse lasciato Napoli senza assistenza ai poveri, abitativa, alimentare, sanitaria. È a questo fine, l’appropriazione della manomorta, che si moltiplicava la normativa anticlericale, comodo grimaldello.
Scaraffia, “Il contributo dei cattolici all’unificazione”, lancia qualche seme di ricerca. I preti patrioti. L’istruzione, specie in ambito agreste. Il ruolo di don Bosco e dei salesiani, a Torino e in Italia. L’appropriazione della manomorta come primo atto di governo a Roma dopo Porta Pia – così come a Torino nel 1854 con le legge Cavour-Rattazzi. Con un beffardo paragrafo “Un’inaspettata emancipazione femminile” nella proiezione all’esterno, sociale, di congregazioni e conventi, delle Fma, Figlie di Maria Ausiliatrice (le salesiane), e di tante nuove iniziative.    
Lucetta Scaraffia (a cura di),
I cattolici che hanno fatto l’Italia, Lindau, remainders, pp. 251 € 11,50