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sabato 21 dicembre 2013

Ombre - 202

È il primo papa Francesco, e anche il primo papa delle multinazionali. Del denaro. Quattro appalti, dunque, il papa argentino ha già dato. Il primissimo a Ernst & Young, di cui è direttrice Francesca Chaouqui, sua consigliera personale: esplorerà le “attività economiche”. Uno a McKinsey, sul miglior uso dei media vaticani. Uno alla Promotory Financial, per la gestione del patrimonio apostolico e dello Ior. E uno alla Kpmg, per aggiornare i criteri contabili alle procedure globali.

Nella chiesa della Minerva a Roma, nella cappella del’Annunziata, il pittore Antonio Aquili, detto Antoniazzo Romano, che Roma celebra a Palazzo Barberini con una grande mostra, ha una “Vergine Annunziata (che) consegna la dote alle fanciulle povere presentate dal cardinale Torquemada”, il torturatore. C’è una tradizione, dunque – questa è mancata agli avvocati di Berlusconi.

Vent’anni fa mancarono 1.300 miliardi di lire. Rubavano tutti, dagli Agnelli agli amministrativi. Dieci anni fa si trovò che rubava lo stesso Calabi che aveva denunciato quell’ammanco. Ora mancano 11 milioni  - almeno 11 - al raggruppamento Sport. Sempre all’interno della Rcs, la Rizzoli-Corriere della sera. Ci sarà un motivo. O c’è un germe della corruzione?

La libreria spagnola di piazza Navona paga mezza pagina di “Repubblica-Roma” e del “Corriere della sera-Roma” per salutare Renzi al vertice del Pd. Una libreria di monache – le avrà innamorate.

Renzi vuole abolire la Bossi-Fini. Che dunque c’è ancora. Dopo le centinaia, se non migliaia, di clandestini morti, le mafie schiaviste,  gli affarucci dell’accoglienza. Bossi è scomparso, con Fini, e anche Berlusconi: dopo di loro non c’è nulla?

Muore di tumore dopo dieci anni di sofferenze la moglie di Tremonti. Che nel 2007 aveva pronunciato un saluto di grande dignità al papa Benedetto XVI in visita al suo ospedale. Una presenza discreta che fa giustizia delle sordide insinuazioni della consigliera di papa Francesco, Francesca Chaouqui, su Tremonti. Che differenza, anche, tra il papa teologo e il furbo argentino. 

Una famiglia su tre è a rischio povertà, secondo l’Istat. Non sembra verosimile, tanto è – sarebbe - tragico. Ma non c’è scandalo, i giornali e anche la Rai parlano d’altro.

Berlusconi ha un sondaggio che dice la sua coalizione avanti di un punto, un punto e mezzo, su quella del Pd. Il Pd ha un sondaggio rovesciato: la sua coalizione è avanti di un punto, un punto e mezzo, su Berlusconi. Ma il sondaggio del Pd è pagato dalla Rai. Uno a settimana.

Hanno votato Renzi alle primarie i pensionati e i dipendenti pubblici – così riepiloga il voto “Europa”, uno dei quotidiani di Renzi. Il nuovo, cioè?

Questa volta la Juventus c’è, il giudice Salvini ha imparato come si fa scandalo nel calcio. Ora attendiamo il nome di Buffon - la Guardia di Finanza ha un grosso dossier. Con un altro della Juventus come falso scopo – il Criscito della cosa: Bonucci, Giaccherini… E uno del Milan di complemento (perché non Balotelli?). Non subito, tra il festival di Sanremo e le convocazioni per il Mondiale. Il copione è sperimentato.

Unioni civili, sfascisti: l’onnivoro Renzi si prende anche Pannella. Seriamente?

Nella rubrica domenicale su “Repubblica”, Scalfari mette Barbara Spinelli tra quelli che hanno perduto “il senso delle parole”. Per avere criticato Napolitano. Ti salvo, conclude affettuoso, solo perché “sei figlia di Altiero Spinelli”. Ma Altiero non era conformista – molto meno di Barbara.

La gentile Gabanelli è in pensiero perché ogni anno in Italia 130 mila processi “vanno in fumo”, 400 al giorno, “a causa” della prescrizione. Non le viene nemmeno in mente che la prescrizione è un principio di giustizia.
Non ha però la bava alla bocca. Anzi, sorride ironica: la barbarie è sempre piena di sé.

E perché tanti processi vanno in prescrizione? Perché si tagliano i fondi alla sicurezza: è trionfale su questo la gentile barbara. Evitando di dire che l’apparato repressivo è in Italia il più caro fra tutti i paesi europei. Oddio, fra tutti forse no, forse la Russia spende di più. 

Il partito ha bisogno di un capo

Un libro politico, ma con un fondo solido di sociologia - Calise è politologo all’università di Napoli, e autore emerito di un “Hyperpolitics”, nonché de “Il partito personale”. Ben argomentato cioè. Qui rigira il “partito personale”, di Bossi, Berlusconi e Grillo, nel partito senza capo, il partito Democratico - alla vigilia dell’ascesa di Renzi al vertice del Pd. Che sembra una buona cosa, ancora pochi mesi fa il leader Democrat alle elezioni di febbraio rivendicava: “Io non credo al partito di un uomo solo”, perdendo subito dopo elezioni già vinte. Calise non argomenta il contrario, come forse si dovrebbe, sull’autorità della migliore scienza politica del Novecento, ma documenta come, nell’assenza di una leadership, il Pd sia finito fuori gioco”. Nel caciquismo locale, del microvoto e dei micronotabili, e nelle correnti, in efflorescenza incontenibile.
Mauro Calise, Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader, Laterza, pp. 156 € 12

venerdì 20 dicembre 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (192)

Giuseppe Leuzzi

Per l’esordio a Milano alla guida del Pd, Renzi ha, tra le tante, questa battuta: “La Salerno-Reggio Calabria è costata all’Anas più della sonda Curiosity su Marte alla Nasa”. Così poco?

Cadono alcune teste della nuova mafia, l’antimafia. Ma sono di donne, calabresi. Sacrificate dalla vera antimafia. Quella che ci impone la mafia: la storicizza, socializza e illustra, quasi la sacralizza, benché fatta di brutti ceffi poco presentabili, anche alla vista.

Sempre più donne si arrestano capomafia. C’erano pure prima, ma la donna del Sud si voleva vecchia strega fuori dal mondo. Anche graficamente: vestita di nero, grinzosa. Se non altro il Sud ha questo di buono, che è una miniera da riscoprire. Alla porta di casa, senza bisogno di spedizioni esotiche. Magari di pietre, metalli pesanti, polveri, ma sempre riesce nuovo. Tanto è forte il pregiudizio.

Torinese, inviato del “Mondo”, il settimanale milanese di affari e finanza, Filippo Astone non ne può più. Ha scritto 400 pagine di corruzione, clientelismo e mala gestione, compresa la mala informazione, le ha intitolate “La disfatta del Nord”, poiché tutto si svolge al di sopra dell’Appennino tosco-emiliano, e le propone attraverso un primario editore, Longanesi. Silenzio totale: il Nord si assolve e non perdona.

Si può anche dire come Astone, già autore di un “Senza padrini”, sugli imprenditori del Sud che non pagano il pizzo,  lo dice nel blog di Beppe Grillo. “Le banche non erogano più credito alle aziende”, nonostante un prestito europeo di 50 miliardi. Le aziende devono “chiudere o finanziarsi dagli usurai”. La criminalità, forte di un circolante di almeno 100 miliardi, è pronta a qualsiasi richiesta. “Stiamo salvando le banche e consegnando le imprese alle mafie”. Nell’attesa, qual è la mafia usuraia?

Vittorio Pisani, già capo della Mobile di Napoli, è assolto dopo due anni di persecuzione. L’ultimo calabrese vittima di Napoli - troppo bello e gentiluomo per la città? E cacciatore di camorristi, che arrestava in serie.
Vittima della Procura di Napoli, che così ha bloccato gli arresti. Non è da tutti venire e capo della città.

Resurrezione
Livia, la moglie di Augusto, al testimone che vide l’imperatore morto risorgere e ascendere in cielo, risolvendo prima che cominciasse il processo di beatificazione, diede un grosso vitalizio. Così è dei pentiti: più e più a lungo denunciano, anche a vent’anni dai fatti, più sono pagati e protetti. Si può dire la loro un’autodivinazione, per legge, senza bisogno di un Senato per essere riconosciuti (beatificati). E una resurrezione ripetuta, costante.

L’acqua è dell’Aspromonte
L’acqua torna in auge da qualche anno, e anzi è imposta (“beva due litri di acqua al giorno”, che nessun medico beve), dopo essere stata a lungo proibita. Era pedagogia nordica, ma ferma nelle famiglie, una delle poche forme non contestate, che l’acqua faceva male. Rousseau aveva insegnato nell’“Emilio” che bisogna imparare a tollerare fame e sete, e l’ammonimento era preso sul serio dai padri, allora addetti nella famiglia alla disciplina. E dai medici: i pediatri sconsigliavano e anzi proibivano l’acqua, come superflua e anzi nociva. A lungo, fino a recente, un italiano ha dovuto soffrire in Inghilterra, Germania e Francia per la mancanza dell’acqua a tavola – in Inghilterra anche del pane. Da richiedere ogni volta con lunghe spiegazioni. L’acqua che era col pane, in montagna e anche in campagna, il solo alimento, questo forse un po’ condito, col companatico. L’Aspromonte non ne ha mai perso il culto, in grazia forse delle tante sorgenti.
“L’acqua buona, da bere, è lassù, sull’Aspromonte”. Massimo Alvaro così ricordava il padre Corrado nel n. 22 del periodico “Calabria”. Col culto dell’acqua: “Mi basta ripensare a quanto tenesse all’acqua da bere; doveva essere pura, limpida, leggera”. Al figlio raccontava che “dai paesi, la gente va a prenderla alle fonti, alle sorgenti”. È vero, succede anche ora. In qualsiasi stagione. Ognuno ha la sua sorgente preferita – che spesso però cambia. Che sa di castagno, di “roccia viva”, di faggio, di muschio…. E spende tempo, fatica, e ora benzina per riempirsene tanniche, damigiane, bottiglie.
“L’acqua pura e limpida”, ripete Massimo Alvaro del padre: “Quando si faceva qualche gita, mio padre s’informava dell’acqua, chiedeva da dove veniva, l’assaggiava con raccoglimento dopo averla guardata attraverso il bicchiere come se fosse un vino d’annata pregiata”. Andava volentieri al mare all’Argentario, opina il figlio, per “una certa acqua che vi si beveva - veniva dall’Amiata con l’acquedotto del Fiora e la portava un contadino”, nella damigiana sopra una carriola, anni 1930. Ancora in guerra, nella seconda, il ricordo di Corrado Alvaro era alle trincee della prima guerra, al bisogno di acqua: “Mi raccontava come i calabresi sentissero particolarmente nella vita di trincea la mancanza dell’acqua, e le loro invocazioni, quando, feriti, chiedevano da bere, erano fatte a mezza voce, con tono di preghiera, quasi a chiedere il più grande dei beni”.
Alla “complessa simbologia e «religione dell’acqua» tracciate da Corrado Alvaro” Vito Teti ha dedicato una relazione, alla giornata di studi alvariani del 30 ottobre 1986: “Memoria dell’acqua e acqua della memoria nelle opere di Corrado Alvaro”. Dell’acqua che in Aspromonte è distruttrice oltre che rigeneratrice. E più in generale come simbolo di vita: “L’acqua come segno di penuria, distruzione e fuga, ma anche come ricerca, cammino, nostalgia, memoria, salvezza per erranti sradicati esiliati, pellegrini, emigrati, inquieti che caratterizzano l’opera di Alvaro”. Ma è lo specchio della Calabria, della società calabrese, che Teti scopre nel riflesso dell’acqua.

Autobio
Abbiamo imposto al ginnasio dai salesiani negli anni 1950 alcune parole nuove nel vocabolario, che da Messina esportavamo nei viaggi culturali estivi nelle città del Nord. “Tamarro” la prima, “togo” la seconda. Avevamo anche “cugino”, per il “fratello” negro-americano, ma si è spento negli anni Sessanta. Adesso Bossi e suo figlio, insieme con i giornalisti del “Corriere della sera”, ci mettono in scuole di serie B e C: non possiamo competere con le loro scuole del Lombardo-Veneto. Poi dice che la storia va avanti: in alcuni posto no.
Per anni cantavamo “Alici kunz’at”. Per Kunst-Art, arte in tedesco e in inglese. Introdotto come urlo di segnale di un “palo” in un’operetta gialla di cui non ricordo il titolo. Derivato dall’“alici cunzati” delle  bagnarote, le donne di Bagnara, ambulanti del minuto commercio nelle aree interne, scalze, muffole di lana al polpaccio, sette gonne, pare, sovrammesse, con una larga cesta tonda in testa, ondulante sopra uno spesso cercine, con cui si facevano valli e monti fino agli anni 1960, quando  vendevano le alici sott’olio, di cui si faceva la provvista per l’inverno -  insieme col tonno sott’olio, che era normalmente un palamidino, o un’alalonga. Tonno e alici si compravano anche freschi, chi aveva l’automobile per andare fino al mare.

“A Bova la salamandra è chiamata «simamidi», dall’ebraico «semamit»”, spiega Franco Mosino, dotto e preciso, sull’ultimo numero di “Calabria Sconosciuta”, gennaio-giugno 2013. E dunque da dove veniamo, noi che ci professiamo colonia greca di Bova da qualche migliaio di anni? Anzi di Bova Marina, anch’essa a sua volta colonia greca, ma dove la lingua ebraica era sicuramente in uso, se non altro nei riti della locale sinagoga – recentemente riemersa in contrada San Pasquale. Si spiega che non sappiamo chi siamo e da dove veniamo. 

“U catoju” con le bestie in casa è uno dei ricordi ritornanti di Simonetta Agnello Hornby a Palermo. Il basso. No, le bestie non erano in casa (a meno che a Palermo lo fossero), ma sotto casa. Il catoju era un seminterrato  dove si tenevano pecore più spesso, o capre, una o due, oppure anche il porco, le galline, l’asino. Per l’uso domestico. Non senza igiene. Lo chiudeva una porteja, una porta alta e larga, per lasciar passare l’animale ingombrante, il mulo se del caso, l’asino, o la mucca. La portella era divisa in due, la metà di sopra potendo restare aperta quando l’animale era dentro.
Si tenevano le bestie sotto casa anche per sicurezza, contro l’abigeato. Ma relativa. La porteja si chiudeva col mandali, un fermo di legno che gira attorno a un chiodo, niente di più. E restava aperta nella parte superiore col bel tempo anche se la gente di casa era fuori.
Non si chiamava con un  nome greco, ma la stalla – non più per uso domestico – sotto casa era in usa anche nelle Alpi. La memoria estiva degli stessi anni 1950 è di posti remoti nelle Api, ma non tanto, Borca per esempio vicino a Cortina, dove la mucca occupava la stalla la notte, normalmente più d’una, segno di opulenza, o le pecore. Più numerose erano le bestie sotto casa, più alto il cumulo di concime naturale nell’aia, purtroppo non sempre sopravvento, più rispettabile era la casa. Solo la memoria è diversa. Nel Veneto è nostalgica, noi ce ne vergogniamo. Per l’igiene e per il complesso dell’igiene. Forse per questo non si costruisce niente. Non si costruisce senza o contro la memoria, non c’è fondamento. O sarà un destino rincorrere, perpetuamente. Ma che cosa? chi?

Siamo guardoni. Venendo da un mondo arretrato, il Sud. Dall’ultima regione del Sud arretrato. Dall’ultimo, più isolato, selvaggio posto dell’ultima regione del Sud. Nati liberi in un posto libero, nemici di ogni prepotenza. E sudditi.

Fuori, in Italia, soffochiamo. Non sappiamo nuotare, non sappiamo nemmeno stare a galla – e sì che la materia è densa, di verità e ipocrisie. Mentre viviamo bene fuori acqua, fuori d’Italia, senza carta d’identità, se non quella dei denti bianchi e la fronte alta. Personalmente sono a mio agio anche nel più remoto villaggio africano, sempre stato, come a New York. Dappertutto ci trovo fiori e frutta, e tanta aria da respirare, con radici, nella tecnologia e nella tradizione, nella perplessa lentezza dei tempi immemorabili e nella rapidità interminata. Dappertutto dove l’umanità è ancora senza riserve, non infetta dalla superbia degli essere inutili.

leuzzi@antiit.eu

Heidegger si confronta con Jünger

Heidegger subì una fascinazione ultraventennale, dal 1932 al 1954, del “Lavoratore”, e anche di “Foglie e pietre” (“Sul dolore”) e “Un cuore avventuroso”, tre opere pur discontinue di Ernst Jünger. Su di esse, soprattutto sul “Lavoratore”, ha riflettuto per oltre quattrocento fogli di glosse, appunti, progetti, che ora prendono un volume delle opere compete, il XC, e vengono proposti da Marcello Barison con l’originale a fronte. Non ne ricavò un corso, né organizzò i materiali, come per Nietzsche, Hölderlin, Parmenide, Eraclito, non se ne “liberò”, se non in minima parte nel breve dialogo “Oltre la linea”, ritornandoci anzi su ripetutamente.
Nel 1953 se ne staccherà condensando le riflessioni nella conferenza La questione della tecnica, la cui pervasività riconduce al ritorno della metafisica (suo rovello costante, tra Platone e Kant) attraverso la volontà di potenza, ridotta però a soggettività, che si vuole misurabile, concretamente impiegabile, anzi progettabile. Finisce così col rifiuto, in una sorta di voluttà reazionaria, l’avventura di Heidegger con Jünger. Ma prima è come un suo alter ego: con lui si confronta sui temi più sensibili. Attratto, forse più che dalla materia del titolo, da quella del sottotitolo del “Lavoratore”: “Dominio e forma”.
L’identificazione è anche politica, benché non detta, nella rivoluzione conservatrice di cui Junger è capofila. Nella sfida della rivoluzione conservatrice all’innominato socialismo, che è il fondale di scena di entrambi – non si riflette mai abbastanza a quanto ha cambiato la storia della Germania il 1989, la caduta del Muro, e a quanto ha pesato prima, per settanta e più anni. Jünger sembra dapprima servire a Heidegger per agganciare l’intellettualità che ricostituiva la Germania nazionale, nella repubblica di Weimar internazionalista o degli “adempimenti” di guerra, sottomessa cioè a Versailles, alla sconfitta. Ma gli si rivela un punching ball stimolante per molteplici questioni. La scoperta della Forma, o Gestalt (§§ 122-134) – la forma mentis, poi sempre più immagine: “Il concetto di Jünger è diverso non soltanto nel «che cosa» (soldato, combattente), ma anche nel come in quanto forma (non classe)” (§ 102). La soggettività, da Jünger derivata da Nietzsche, a giudizio di Heidegger, e ampliata – come Nietzsche - in volontà di potenza. Di contro al realismo, che definirà infine lapidario, tra i tanti andirivieni, come “competizione del pensiero con l’essere” (§§ 69-75): “Prendere piede nell’essere. Ma come? In quanto attuazione della soggettività”. E al fondo sempre la curiosità per il rigurgito metafisico costante, da Nietzsche a Jünger, in ragione sempre della soggettività.
Un dizionario politico di Heidegger, in particolare, ci troverebbe ottimo materiale. Al § 110: “Per nulla soggettivo – anzi troppo oggettivo – l’essere della moderna soggettività. Psicoanalisi modernamente convertita in forma di dominio e modificata in chiave poetica. Lo straniamento rispetto alla storia, perché non presagito e perché vittima della ricerca: ossia storiografia”. Con una curiosa difesa del “borghese”, che Jünger rappresenta sfavorevolmente (“unilateralmente”) a fronte del lavoratore. Non per riflesso condizionato ma per solida articolazione, attraverso il concetto di “dominio”, al § 103: “Dominio apparente significa non soltanto che si trattava di un dominio non effettivamente realizzato, bensì che l’essenza del dominio non veniva affatto esperita e non poteva essere esperita. Jünger pone il borghese in una prospettiva di confronto che questi fin dal principio non riconosce come tale”. E una rivalutazione del “ceto” invece della “classe”, anch’essa articolata – al § 104: “La lotta tra i ceti  non sconvolge mai la società nel suo insieme e non attacca mai il «principio» della sua costruzione”. Il lavoro (§§ 94-95), l’“elementare” (§§ 107-114),  la guerra, la libertà (§§ 135-148), il progresso (149-153). La volontà di potenza, su cui si registra (il lungo § 175) un primo distacco da Jünger, che Heidegger áncora a una concezione “romantica”: “Secondo Jünger.... la  «volontà di potenza» indica un  «atteggiamento», in cui giunge ad espressione un  «senso di mancanza».... Questa è una assurdità.... Volontà di potenza significa comandare la potenza (ossia attuazione del dominio) - dominare la sua attuazione”. C’è perfino Dio, al § 120: “Il mondo come «immagine» (Bild) – forma (Gebilde), caso ammaestrato – essenziale solo là dove il caso s’installa”.
Una conferma delle inesauribili capacità analitiche di Heidegger – specie a fronte della relativa indigenza delle proposizioni su cui si esercita (il proprio di Jünger è l’esposizione-narrazione, con l’occhio dell’entomologo curioso, ma escludendone la precisione, fuori quindi di ogni coerenza: la sua immagine è dichiaratamente creativa, non ragionativa: evocativa, anche vaga). Riflessioni però anch’esse a fini di verità e non di sistema, di dimostrazione – anticipando la “svolta” di fine guerra, quando Heidegger pretenderà a un pensiero non sistematico, sul linguaggio, la poesia, la verità.
Singolare è la fascinazione che Jünger - uno scrittore, quando non era entomolog - esercita su Heidegger. Il non detto della raccolta è la sintonia sul nazionalismo. Fino al nazismo, o alla sua anticamera - da sopracciò, più che da critici: da intellettuali snob, Jünger per costituzione (formazione), Heidegger per posa. Uno storico del nazismo ci troverà molti riferimenti, evidenti anche se non dichiarati, comuni a Heidegger come a Jünger: sulla volontà di potenza, le necessità del dominio, la diversità (razzismo) spirituale. Insieme a un curioso, ripetuto, accenno a una sorta di fratria segreta, di cenacolo ristretto di uomini superiori.
Martin Heidegger, Ernst Jünger, Bompiani, pp. 871 € 35

Anime a Genova – o del carcere inutile

Don Paolo, il cappellano del carcere di Marassi, è convinto che Gagliano, il serial killer evaso armato, sia un  convertito (ognuno ha i suoi pentiti): “L’uomo è intelligente”, dice a Battistini sul “Corriere della sera”: “Parlavamo molto, mi stuzzicava sempre su papa Francesco, la Chiesa dei ricchi e dei poveri”, “Si sente ingannato?” “No. Stupito”. Con la t?
E lo psichiatra Giovanni Nuvoli?  “Sapevamo che avesse un’importante storia criminale alle spalle, ma i suoi erano solo problemi lievi, qualche episodio d’ansia”. Non vedeva l’ora di stuprare qualcuno e poi ucciderlo.
E la giudice Daniela Verrini? Il permesso a Gagliano per la fuga era “legittimo, è stato il caso più studiato da questo tribunale”. Di ripetenti?
Ora che l’evaso è stato ripreso, si può pure scherzare. Ma chi ha detto che i cartoni animati (ma più giusto sarebbe dire anime, o hentai come dirà il giapponese, è una storia porno) sono piatti?. Quelli di Genova sono tridimensionali. Parlano come Qui, Quo, Qua ma mandano la parcella, hanno lo stipendio, magari l’auto blu, il direttore di Marassi fa pure l’opinione, illuminato sempre. Questi, anzi, sono illuminatissimi: confermano che il carcere è inutile.

Come i camorristi furono “liberati” a Napoli

Non è “Ocean’s Eleven”, la sorpresa è all’inizio e non alla fine – forse per questo “Repubblica” la relega in una breve, e il “Corriere della sera” nella cronaca locale. Ma è pur sempre una storia inattesa: come la giustizia protegge i camorristi a Napoli. Processando quello che si era specializzato nella caccia ai capi camorristi.
Non una grande trovata, per la verità. Ma è una giustizia che può farlo, e anche farsene titolo di merito. Che non è, letterariamente, neanche questo un grande plot, è roba da repubblica delle banane. Ma sì se si paluda di diritto, con auguste toghe e rispettabilissime cariche, negli alti palazzi dei più rispettati poteri.
Il processo e l’assoluzione di Pisani, il capo della Mobile di Napoli, non avranno seguito, e questo dice tutto sullo stato della giustizia. O meglio dell’apparato repressivo. Niente a carico dei giudici che hanno inquisito Pisani senza fondamento. Niente a carico della Dia napoletana, e dei “colleghi” napoletani di Pisani che hanno raccolto le “prove” contro di lui. Che poi si riducono, Dia, colleghi e prove, a uno: un “pentito”. Uno talmente falso, in tutte le fasi dell’inchiesta e del processo, che ci si chiede come abbiano potuto produrlo.
Il processo ha un solo senso. Ha bloccato, e ha disconnesso, la caccia ai capi camorristi. I giudici accusatori, Sergio Amato e Enrica Parascandolo,  che avevano chiesto tre mesi fa quattro anni e rotti per l’ex capo della mobile, questo l’hanno ottenuto, di allontanarlo da Napoli. Seminando veleni che impediranno a lungo alla repressione a Napoli di funzionare. Irritualmente, il non ingenuo Amato ha infatti ringraziato gli uomini della Dia, la Polizia speciale (“si è cercato di buttare fango su di loro”), e gli uomini della Squadra Mobile “con la schiena dritta”,  per la “leale collaborazione”.
Perché nessuno paga per questo? Perché i fedifraghi non sono perseguibili? Si permettono di giocare a carte scoperte: per quale protezione?

giovedì 19 dicembre 2013

Il mondo com'è (157)

astolfo

Augusto – L’occupazione dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero prepararono le celebrazioni di Augusto nel 1937, dell’Italia in veste imperiale e di Mussolini come il novello Augusto? Non in questa sequenza, non così ridicola, ma l’effetto fu quello. Mussolini non fu sconfitto in guerra, il fascismo si era già perduto negli anni del consenso, con l’impero, le sanzioni, l’isolamento. Nello stesso 1936 Mussolini s’ingolfava in Spagna a fianco di Franco. Ma le due imprese non ebbero lo stesso effetto. Fu l’impero a lasciarlo isolato, senza più scelta, in balia di Hitler.

Caetani  - Il palazzo Caetani a Roma condensa una serie di tragedie. Di fronte a uno dei suoi portoni fu abbandonato il cadavere di Moro nella R 4. Uno degli ultimi suoi abitanti, il maestro Igor Markevic, è adombrato da Fasanella e Rocca come il Grande Vecchio del terrorismo brigatista (“Il misterioso intermediario Igor Markevic e il caso Moro”). Nella biblioteca del palazzo Stendhal avrebbe trovato negli anni 1830 gli scartafacci degli orrendi casi di cronaca con cui intessé i racconti, “Cronache italiane”, di tradimenti (“passioni”), pugnali, veleni, decapitazioni, squartamenti. Il palazzo sorse a opera della famiglia Mattei, a fine Cinquecento, a chiusura del ghetto ebraico che si andava murando. E fu subito teatro di una delle più cruente faide cui i Mattei si lasciavano spesso andare. Diventò Antici Mattei nel primo Ottocento, quando l’ultima Mattei sposò Carlo Teodoro Antici di Recanati, zio materno di Giacomo Leopardi. E nell’inverno del 1822 ospitò il poeta, che fu consacrato dalla Roma che più s’illustrava negli studi di filologia – Niebuhr, Bunsen.
Lo spirito dei luoghi? È il luogo che attira la nomea, per una qualche fattura? È la nomea che caratterizza il luogo? Il Caetani è uno dei palazzi storici più aperti e variamente utilizzati. A volte le storie si trovano scritte – iscritte nei luoghi, ma perché la memoria è pigra.

Guerra – Nel 1914 scoppiò improvvisa, per l’attentato di Serajevo, ma era preparata da tempo, e a Berlino in primavera si dava per scontata, tutte le preparazioni erano state fatte. Apprezzato a Londra per il sense of humour, il kaiser spiegava al Daily Telegraph, in un’intervista a puntate, che le sue forze armate erano sul piede di guerra, ma contro il Giappone. Per la Cina.
Nel 1939 la guerra era attesa, anzi risaputa, ma non fu preparata. Nel 1939 il British Council commissionò a Britten e altri due musicisti inglesi una composizione per i 2.600 anni della dinastia imperiale giapponese – Britten propose la “Sinfonia da requiem”, che fu rifiutata. Si può anche dire che l’Europa si dissolveva fingendo di giocare di sponda sul Giappone.

Internet – “Non crede che la rete, rendendo tutto uniforme, possa diventare un pericolo per la cultura?” “No, penso che internet sia prima di tutto un canale di distribuzione”. La domanda è di Massmo Sideri, per “La lettura”, la risposta di Jacques-Antoine Granjon. Il creatore in Francia di Vente Privée, il sito di e-commerce secondo, benché a distanza, dietro Amazon. Granjon sa quindi di che si parla. Ed è – è nato – uomo di cultura: i profitti li ha investiti nel Théâtre de Paris.
Si dirà che gli albori democratici di internet, di cui ancora stiamo beneficiando, sono stati un bengodi?

Socialismo Resta anatemizzato, la parola come la cosa, in Italia, nella sinistra politica. Non se ne fa la storia, non si rievoca, anche i novant’anni della scissione nel 1921 sono passati in sordina, per non dire del fallimento del comunismo. La parola usa ancora nelle storie per il mondo socialista, o le repubbliche socialiste, o il socialismo scientifico, cioè per sovietismo che fu la sua negazione - di cui il comunismo vorrebbe non avere colpa, santificandosi sempre immacolato, seppure alla memoria. Altrimenti è taciuto. Per dire che qualcosa di positivo si fa nel suo nome si dice “socialdemocratico”. S’illustra perfino un “compromesso socialdemocratico”, quello della decontrattualizzazione e dei salari zero del cancelliere Schröder. Il compromesso storico, che pure passa di sconfitta in sconfitta, ora anche alle primarie, è invece sempre saldo nei cuori. O le dirigenze dei media (informazione, libri), come delle università e delle Procure, sono sempre in mano ai travet nostalgici.

TQ – Sono i trenta-quarantenni. Generazione X, anche Nerd, le generazioni giovani si qualificano per sigle. Come una comunità, cioè, di anonimi. Un derivato delle comunità che fanno la Rete. Senza spessore, senza storia, vittime volenterose del lager telematico: involontario, istintivista, libertario a livello elementare, basta l’alfabetizzazione basica, e perciò rivoluzionario. Di un protagonismo inerte, da scemi di paese, liberi d’impazzare in piazza.
La storia non è una freccia, e il ricambio generazionale non è un balsamo. Ma non è insignificante.

La storia di questo dopoguerra è breve, schematica: siamo stati l’“uomo funzionale” di Kertész, bene o male combattenti, seppure ignoti, del’ideologia gridata, siamo l’uomo fungibile della grande bonaccia (il mercato) del Millennio, uomini e donne.

astolfo@antiit.eu

L’Italia affondata dal Nord

Torinese, inviato del “Mondo”, il settimanale milanese di affari e finanza, Astone non ne può più.
Solo fare l’elenco delle malefatte di questi ultimi vent’anni nella Padania gli prende quattrocento dense pagine. C’è di tutto: corruzione e concussione, grandi affari e micragnose ruberie, abusi di ogni tipo, perfino lo sfruttamento furbesco della cassa integrazione, di cui è maestra la Fiat, e una “classe” politica, quella che ha governato l’Italia nel ventennio, che dire incapace è poco – anche perché è stata capacissima di lavorare per se stessa.
Il fatto in realtà non è ignoto. Ma vedere elencate le turpitudini l’una di seguito all’altra fa impressione. L’Italia si dice in crisi perché ha il peso morto del Sud. E il Nord? Il Sud non  ha impedito all’Italia di diventare il quinto, o quarto, paese più industrializzato, anzi ha contribuito molto col lavoro. È il Nord – politico oltre che economico, Astone avrebbe fatto bene a sottolineare anche questo aspetto - che ha portato l’Italia alla stagnazione ormai da un quindicennio, e ora alla crisi.
Filippo Astone, La disfatta del Nord. Corruzione, clientelismo, mala gestione, Longanesi, pp. 409 € 18,80

Recessione – 12

Tutto quello che dovreste sapere ma non si dice:
 Una famiglia su dieci non riesce a quadrare i conti (a “finire il mese”): sei milioni di persone. Una famiglia su tre è a rischio povertà.

L’economia in nero cresce esponenzialmente: si stimava al 17-20 per cento del pil, ora sarebbe al 25-28 per cento. Senza oneri sociali ma anche senza tasse.

Cinquemila filiali bancarie chiuse in cinque anni, il 16-17 per cento del totale – erano 28 mila nel 1008.

Più di tutti chiudono le filiali i gruppi bancari che più si sono prodotti in acquisizioni, Intesa e Unicredit – Monte dei Paschi le chiude per la necessaria ristrutturazione. Il boom bancario non era proprio una benedizione. Ma si chiude anche per una riduzione degli attivi. Che per ora non viene comunicata.

Le “sofferenze” bancarie (i crediti inesigibili) sono aumentate di oltre il 20 per cento nel 2103, da 120 a 147 miliardi. Si calcolavano in 47 miliardi nel 2007.

Non si fanno prenotazioni a Capri, Taormina e in Sardegna per le vacanze di Capodanno.

Il Titanic delle buone intenzioni

Le buone intenzioni non scusano. Non c’è solo Befera, che dall’alto del recupero crediti fiscali doveva finanziare il lavoro dipendente, e non ha incassato un euro. L’Agenzia delle Entrate è brava solo a controllare gli scontrini i giorni di festa, per pagarsi lo straordinario raddoppiato, per il resto si sa che è inetta – diciamo così. O Saccomanni, che toglie l’Imu e la rimette con un altro nome. O la riduzione del costo del lavoro, che sta a cuore a tutti, e slitta sempre. A volte le buone intenzioni non sono nemmeno ipocrite, solo ridicole.
Si prenda la Tobin Tax. Doveva tassare la speculazione. “Riportare sulla terra una parte sia pure assai contenuta della ricchezza mondiale”, nella magistrale sintesi di Marco Panara (“Tobin Tax cronaca di un flop annunciato”, su “Affari & Finanza” di lunedì). Che fluttua nell’etere “a velocità vorticose con l’obiettivo di moltiplicarsi”. E un anno fa ammontava “a 902 mila miliardi di dollari, più o meno dodici volte e mezzo il prodotto lordo del pianeta”.  Risultato? Zero, anzi negativo. L’Italia l’ha subito adottata, impoverendo “il mercato finanziario nella sua parte più sana mentre è cresciuta quella che non lo è, però inonda di commissioni le banche e la Borsa stessa”. Insipienza? Forse.
Non si finisce di fare il conto dei disastri indotti dal governo Monti. Conto che, però, non viene fatto, e anzi è taciuto. È questa la misura della gravità della crisi: la stroncatura dei lavoratori e piccoli risparmiatori sotto l’ideologia dei sacrifici, del rigore, del risparmio. Mentre il debito cresce. Cioè la spesa. Improduttiva.

mercoledì 18 dicembre 2013

Una, cento, mille patrimoniali

Ci accaldiamo sulla mini-Imu sulle prime case, che è un caso insigne di insipienza, è vero. Ma trascuriamo l’iceberg che sta sotto. Le tasse sulle case. Compresa l’Imu prima casa, ora Tasi. Ridotta di poco, dal 4 al 3,5 per mille, e più che compensata dall’Imu sulle altre pertinenze, portata all’1,16 per centoDi valori catastali ovunque quasi raddoppiati. In aggiunta alla patrimoniale sulla Tares, l’imposta sui rifiuti: 30 centesimi a mq allo Stato e 7 alla Provincia. Un piccola patrimoniale c’è anche sull’acqua. C’è una patrimoniale sul conto corrente in banca, che pure è obbligatorio, 25 euro. E una sul deposito titoli, 35 euro.Una nuova patrimoniale, la Robin Tax, si annuncia sui consumi di luce e gas. C’è perfino una patrimoniale sulle pensioni, non in senso tecnico ma di fatto: il mancato adeguamento, sia pure parziale, al costo della vita, che tutte le polizze previdenziali private contemplano.
L’Italia affonda pezzo a pezzo. Senza sembrare, ma affonda. Le patrimoniali non sono una , sono tante. E tutte insidiose: non sono una tantum, come una vera patrimoniale, ma un prelievo costante e rinnovato. Non sono a fini antievasione: le patrimoniali colpiscono il dichiarato. E non sono a fini di giustizia sociale, anzi al contrario: queste patrimoniali colpiscono tutti, e quindi, in proporzione, chi meno ha. S’intende per patrimoniale una tassa che colpisca i grandi patrimoni, le tesaurizzazioni: immobiliari, in titoli, in arte, in gioielli, in oro. La ricetta Monti è stata di colpire tutti.
Non sono solo antidemocratiche, queste patrimoniali colpiscono soprattutto il risparmio. Ciò che permette di crescere, cerare lavoro e reddito. Monti ha colpito il risparmio passato, e ogni progetto di risparmio. Anche qui con effetti distorsivi: a favore dei ricchi, anzi degli speculatori, contro i “cassettisti”, i risparmiatori considerati. È l’effetto della Tobin Tax. Che doveva dare un  miliardo di introito fiscale e invece ha dato solo 200 milioni. Una tassa sui piccoli risparmiatori, banche e speculatori se ne sono esentati, senza difficoltà. 

Come fu che i Mongoli liberarono l’Europa

Era di Leigh Fermor originariamente - di un suo personaggio, il conte Jëno Teleki - l’idea di far derivare gli ebrei ashkenaziti dai Khazari, la fantomatica tredicesima tribù convertitasi dal paganesimo all’ebraismo. Confidata a Koestler a pranzo in una taverna di Atene, è divenuta un anno dopo “La Tredicesima tribù” dello stesso Koestler.
Su Patrick Leigh Fermor, l’ultimo animatore dei luoghi, gli entusiasmi ultimamente si sono raffreddati. Il pettegolezzo, cui indulgeva, gli si è rivoltato contro dopo la morte nel 2011, a 96 anni pieni. Con la biografia che ora tiene campo di una sua amica e anzi familiare, Artemis Cooper, che indulge sullo snobismo dell’uomo e cerca lo scandalo – Leigh Fermor? un gigolò per aristocratiche ricche. Ma il narratore c’è sempre, anche se meno irresistibile del dittico greco per cui è famoso, “Mani” e “Roumeli”. Migliore anzi della prima tappa del lungo viaggio che rimemora, “Tempo di regali”.
“Fra i boschi e l’acqua” completa la memoria di un memorabile viaggio a piedi da Londra a Costantinopoli, a vent’anni, dal 1934 al 1937. È una memoria scritta, a mezzo secolo dal lungo viaggio – questa seconda parte l’ha completata nel 1986, la prima, “Tempo di regali”, nel 1977. Alla maniera di Goethe e del “Viaggio in Italia”: una memoria sedimentata. Qui il suo talento di far rivivere il nulla, luoghi scomparsi, parole, usi in disuso, appare svogliata. Ma le vette del narrare breve, su cui Leigh Fermor ha costituito la sua setta di seguaci, anche in un capoverso, o in una frase, sono numerose. La storia del Filioque, che tuttora alimenta inimicizie acerrime tra il Vaticano e l’ortodossia, è magistrale in mezza pagina. È però anche vero che parla molto di baroni, conti e duchesse.
Ci sono anche errori: Mattia Corvino alla liberazione di Otranto dai turchi, o le guerre di successione al trono di Polonia. E ripetizioni e imprecisioni nel calderone della Transilvania, tra le tante orde che fino ai turchi presero possesso a ondate dell’Europa latina. Mentre ritorna tre volte la storia dei mongoli che nel Duecento avevano conquistato il mondo, dalla Cina all’Ucraina e all’Ungheria. In un anno, o poco più. Ma all’improvviso, essendo morto nel Karakorum Ogoda, il successore di Gengis Khan, i capitribù voltarono i cavalli per correre alla successione. Dopodiché si scordarono di tornare. E questo è forse augurale, se al posto dei mongoli si mettono i cinesi invasori dell’Unione Europea.
Patrick Leigh Fermor, Fra i boschi e l’acqua, Adelphi, pp. 290 € 19

martedì 17 dicembre 2013

Cosa non fa Napolitano

Angela Merkel gli ha imposto il governo Monti che ci ha rovinati. Il giudice Esposito, in flagrante molteplice conflitto d’interessi, gli ha azzoppato la parte politica che lo ha rieletto. La Corte Costituzionale gli ha reso ingestibile il Parlamento eletto. La Procura di Torino gli ha azzoppato il ministro della Giustizia, con perfidia nemmeno mascherata, e la metà del programma per cui il governo Letta era nato. Letta e Renzi gli hanno cambiato il programma di governo, e lui dice che è lo stesso di prima. Lui, il presidente della Repubblica. Che Barbara Spinelli - in aggiunta a Grillo, Travaglio e gli altri miracolati della povertà della politica - ora accusa di eccesso di potere. Ma quando mai?
Non si può parlare male di Napolitano. In ragione dell’età, perché no, dell’assoluta morigeratezza, oggi bene assoluto, e dell’impegno, le buone intenzioni. Ma non è diverso oggi da quello che è stato una vita: uno che pensa giusto, e si astiene dal praticarlo. Ha vissuto male, come tutti gli onesti, gli scioglimenti arbitrari del Parlamento da parte di Scalfaro, ma senza entrare nel merito. Né allora, nel golpismo poco meno che dichiarato del Quirinale. Né poi, nelle false indagini su Prodi e Mastella che lo portarono allo scioglimento del 2008. Così ora: disteso sulla linea dell’imbelle Corte Costituzionale di Scalfaro che cancella il Parlamento, e insieme impegnato a far durare questo Parlamento che invece è ingovernabile, con tre gruppi politici equivalenti tra loro ostili – malgrado la deprecatissima supermaggioritaria legge elettorale. Finendo per consolidare l’astensione e la protesta - se un 50 per cento del voto diventa irrecuperabile, che democrazia è? Sulla giustizia non c’è niente da dire: che il presidente della Repubblica si faccia irridere dal giudice Montalto a Palermo è terribile per tutti.  

La regina di Saba sposa la massoneria - gelida

Un tentativo di riscrivere Nerval. Dopo la pubblicazione in volume del “Viaggio in Oriente”, Nerval diede al quotidiano “Le Pays” da pubblicare a fogliettone il penultimo capitolo della raccolta, la “Storia della regina del mattino e di Solimano il principe dei geni”. Solimano essendo il Salomone della Bibbia. La storia è messa in cornice alla maniera del “Decamerone”. In un caffè di tutti uomini, un po’ oppiati, che fanno corona al cantastorie. Il quale scandisce il suo racconto in mezzore invece che in giornate. Ma seriamente.
Il racconto Nerval sottotitolava “Una leggenda in un caffè”, in una delle “Notti del Ramadan”. Giovanni Mariotti la riedita al femminile, nel presupposto che Nerval ne sarebbe stato infine felice – Balkis, la regina di Saba, era lei la prima delle “Figlie del fuoco”, opina. La restaura anzi. Anche se con modestia: “Cambiare titolo e eliminare le bavures, le sbavature che pendevano dagli orli, è stata un’operazione troppo semplice perché si possa parlare di restauro”.
Ma c’è poco da fare: il racconto resta tutto biblico, nomi, fatti, significati, in chiave massonica. Protagonista Adoniram, cioè Hiram, l’Architetto, rafforzato con Adoni, che costruisce il Tempio, per i begli occhi della regina di Saba. Una lettura di rara noia, senza colpa di Mariotti. La rivolta contro Dio di tanto Nerval è snervata in un’oleografia biblico-esoterica forse dottrinaria ma di nessun lievito.
Il racconto è dell’Architetto e non della regina, non dispiaccia a Mariotti. Intorno a un vuoto che è il cristianesimo. La storia d’amore è posticcia. È vero che Balkys-regina di Saba, o del Mattino, è viva: è sorprendentemente moderna e anzi contemporanea, una grande attrice in un grande film americano, ma anch’essa annega nella teosofia. E poi porta male: muoiono tutti, o tradiscono.
Il viaggio in Oriente usava alla “culla della cristianità”, da sempre e fino poi a Flaubert. Nerval invece evitò Gerusalemme. Qui attinge alla Bibbia in abbondanza e correttamente, ma come materiale pronto. Senza spirito, senza vita. Se non come  storia antibiblica – ma più anticristiana, in parallelo con  l’altro romanzo del “Viaggio”, la “Storia del Califfo Hakem”, sul vuoto dell’islam.
Gérard de Nerval, La regina di Saba, Adelphi, pp. 200 € 14

lunedì 16 dicembre 2013

Dio è scettico

Forse l’opera più riedita degli ultimi vent’anni – in catalogo agli Editori Riuniti, Einaudi, Laterza, Melangolo, Pgreco. In forma di dialogo, che il filosofo usa quando vuole mettersi in mostra (ogni filosofo è più intelligente dei precedenti,  e quando vuole esibirsi fa un po’ di teatro). Già questo è una spia: il superintelligente superscettico Hume credeva in se stesso – cioè in che cosa?
Filone-Hume fa fuori dapprima l’aristotelica Causa Prima: nulla è certo (“questa cosa” non è questa e non è cosa…), il concetto di causa è solo umano. Darwin dissentirebbe, ma Hume è già passato a demolire il Dio del Disegno. Appoggiandosi all’incolpevole Galileo: Galileo ha osservato il moto tra i pianeti, e poi lo ha ipotizzato per la terra, coi possibili nessi causa\effetto, noi invece dove altro abbiamo visto Dio?  Credere per intuito, o senso comune, è solo voglia di credere, o  misticismo, e “i mistici non sono che atei”. Poi Filone-Hume anticipa Odifreddi. La materia si adatta - chissà mai per quale istinto, ma l’evoluzione è salva. E il mondo è disordinato – salvando anche il Big Bang. Quindi Hume si assicura il trionfo ripetendo Epicuro: perché Dio se c’è il male, e c’è la morte?
Hume non riteneva la ragione scevra da passioni, e anzi ve la assoggetta – “la ragione è, e dovrebbe solo essere, schiava delle passioni”. L’uomo ritenendo non diverso da ogni altra specie di natura vivente. Ma quando parla di Dio no, la ragione riduce all’algebra. Succede che le ipotesi diventino assiomi nello scetticismo. È inevitabile del resto che l’ateista si divinizzi: primo ateo professo, Hume è lui stesso il Faber e l’Arbiter.
David Hume, Dialoghi sulla religione naturale, Bur, pp. 430 € 12

Ma come parla la Rai?

Yazmina canta questa sera a Milano, domani a Firenze, invece venerdì a Roma. Invece di che? Come parla la Rai? Il quadro politico si rafforza, si consolida, si divide - un quadro mobile? tridimensionale? E il governo rassegna le dimissioni – le mette in lista? Quando non fa la lotta senza quartiere – in nessun posto? Sul fronte – con trincea? – delle indagini, dei prezzi, della mafia, della corruzione e dell’evasione fiscale. Mentre la situazione precipita. La polemica esplode. La sanità è alla paralisi. L’ottimismo è inguaribile. Il pessimismo pure. E molti scompaiono, quando invece muoiono - immobili, ben presenti. Con la piaga della povertà, la piaga della mafia e la piaga dell’usura – le piaghe, perlomeno, sono bibliche.
Facendo un passo indietro – ma da dove? – sale la tensione nel Medio Oriente. Ogni giorno, ogni ora, da settant’anni ormai – sarà evaporata? I giudici celebrano il processo – con torte, fuochi d’artificio? L’economia – donna gentile? arcigna? – esce dal tunnel. E in campo, le due squadre si affrontano a viso aperto - si tolgono le maschere? Balotelli non inquadra lo specchio della porta – lo specchio per la allodole? Quando non insacca - si capisce che è sempre scuro. O infila Buffon, De Sanctis, Marchetti – che vorrà dire? Magari dopo un contropiede micidiale – col kalashnikoff? O se ci sono gli estremi del calcio di rigore – o non piuttosto la sostanza? gli estremi ci sono sempre.
Eco, “Il costume di casa”, li dice sintagmi sclerotizzati. Da alzheimer, senza rimedio? Ma non hanno nulla di irrimediabile. Che ha da farsi perdonare la Rai? Che ci nasconde?

domenica 15 dicembre 2013

Secondi pensieri - 159

zeulig

Amore - È una camicia di forza, linguistica. Tutto ciò che gli sottostà costringendo ai limiti di una parola. Si può dirlo vittima per eccellenza dei limiti del linguaggio. Tante “cose” (sentimenti, passioni, disposizioni), vissute in modo non uniforme da individuo a individuo, costringe in una parola.

Fede – È amore, dicono i papi Bergoglio e Ratzinger. Con i limiti dunque del termine amore. Tanto molteplice quanto chiuso.

Felicità – È la filosofia. La riflessione, l’arte di ragionare. Anche quella della disperanza, altro esercizio a suo modo voluttuoso dell’arte della ragione.
“L’esercizio della saggezza”, la diceva Aristotele. “L’elemosina che si getta ai mendicanti”, la dice Schopenhauer – con altrettanta saggezza?

Si definiva il Bene Supremo, e lo è , se non il fine di ogni esistenza. Di volta in volta, piacere, virtù, ragione, ascesi. E ora, nella filosofia della crisi, la superiore saggezza. O non è l’esito della sospensione del giudizio? Il “passeggiatore solitario” Rousseau si dice felice quando, disteso in barca, si lascia alla deriva sulle increspature dell’acqua.  Anche dell’attività febbrile, prometeica, se la sua mancanza (età, malattia, ristrutturazione) manda molti oggi in depressione.
È una pausa.  

“La ricerca della felicità distoglie dalla felicità”, argomenta Pascal. La ricerca dev’essere obliqua: si punta a essa con un falso scopo - facendo dell’altro, magari gravoso. Non residuale ma tangenziale.

È la corsa e non il traguardo. Per questo irraggiungibile.
È “l’unica cosa al mondo”, dice Aristotele, che si vuole per se stessa. E non come falso scopo per altro beneficio. Si può dire anzi che tutta l’azione umana è concertata a questo scopo, seppure illusorio – direbbe Leopardi. Anzi no: sfuggente. Una meta retrattile. Un traguardo che balugina, della consistenza del miraggio – che non ama essere toccato.

Più spesso è definitiva, e per questo perenta. La felicità viene al culmine della saggezza, per Budda e non solo, ma si vuole un compimento. E in questo si cancella, per riproporre la sua propria ricerca.

Giustizia – È il perno della vita sociale, della sua costituzione. E della sua esistenza: ne è la linfa. Lo spirito di giustizia.
È un senso, seppure non fisiologico. Si esprime dal basso, e prima o dopo gli ordinamenti. Somma ingiustizia è la giustizia degli apparati (ordinamenti) ingiusta, nelle sue istituzioni e\o nelle sue azioni.

Linguaggio - Limita indubbiamente, nel mentre che ordina e scopre – apre porte e frontiere. Apre ordinando – e più nella filologia più avventurosa e astrusa, sempre infine classificatoria. Nel senso che può dire Bergson, “Saggio sui dati immediati della conoscenza”: “Il pensiero resta  incommensurabile col linguaggio”.
Per Bergson il linguaggio fa di peggio: comprime e limita là dove è più espressivo o significante: “La parola dai contorni ben definiti, la parola brutale, che immagazzina ciò che c’è di stabile, di comune, e per conseguenza d’impersonale nelle impressioni dell’umanità, schiaccia  quantomeno ricopre le impressioni delicate e fuggitive della nostra coscienza individuale”. Questo vale pure per Barthes, che ne ha finemente ampliato le articolazioni e analizzato le potenzialità.

Suicidio - Il tema è l’irrazionalità del suicidio. È passare a miglior vita? È atto ostile? Contro chi: se stessi, gli altri, Dio - la vita, la natura? E quali altri? Il gesuita Johannes Robeck si annegò quando ebbe completata la ponderosa “Exercitatio philosophica de morte voluntaria philosophorum et bonorum virorum”. Philipp Mainländer s’impiccò il giorno in cui ebbe la prima copia della sua “Filosofia della liberazione”. La virtuosa Basilò, di cui in Callimaco, “posto il fratello sulla pira, non sopportò\di vivere”, di vivere più del fratello morto. Re Mida si soffocò col sangue di bue, stanco di lucidare ottoni perché sembrassero oro. Arunzio si uccise per fuggire l’avvenire e il passato. Cleombroto d’Ambracia si buttò, secondo Callimaco, nel buco dello Stige per nessun altro motivo che l’aver letto Platone sull’anima, ricavandone gran desiderio della vita futura. Platone fu fatale pure all’Uticense, ma quella è un’altra storia. Lukàks giovane, quello dei saggi vivi, “L’anima e le forme”, “Teoria del romance”, voleva suicidarsi per amore di Irma Seidler, che lo ispirava, e glielo annunciò in una lettera mai spedita, anche perché poco dopo fu lei a suicidarsi. L’amore, lo dice Ovidio, non conosce limite né pace se non nella morte, ma di chi?

Dickens pare abbia detto: “La vita ci è stata data a patto di difenderla con coraggio fino all’ultimo respiro”. Che sembra sentenza di significato univoco e profondo e invece è vaga. Sempre, beninteso, è questione di vita e di morte. Il padre di Šklovskij, ebreo battezzato, che la moglie abbandonò col primo figlio, si trafisse da parte a parte con una daga, sopravvisse, si risposò, ebbe Viktor, e dopo una trentina d’anni s’accorse, insieme con la seconda moglie, che si amavano. Una legge di Enrico Morselli lega i suicidi alle nascite: tanto più crescono quelli, tanto più si moltiplicano queste. Ma un’unica legge o causa non c’è. Secondo Marguerite Duras gli uomini hanno inventato il suicidio come il canto e la divinità, contro la vita, per tedio. Può anche mancare il coraggio. Oppure la vita può essere tolta agli uomini malgrado tutto, giacché viene loro data.

Vuoto – Non esiste in politica, si dice. Ed è vero: ogni spazio lasciato è subito occupato, in meglio o in peggio. Non esiste nella storia, anche quotidiana. Non esiste in memoria. Il vuoto di memoria è occupato da altre memorie, per quanto incongruenti. Anche lo zen, arte di fare il vuoto, richiede applicazione costante. Non siamo mai soli.

zeulgi@antit.eu

C’è rimedio alle violenze in famiglia

La scrittrice, avvocato di professione, ha inaugurato nel 1979 a Londra con Marcia Levy, a Brixton, quartiere di caraibici e mussulmani, il primo studio legale specializzato in violenze domestiche.  Ma può iniziare la sua narrazione partendo dalla fine. Dall’insieme di istituzioni e procedure che Patricia Scotland, avvocato di tribunale specializzato negli stessi casi, sua collaboratrice in gioventù, poi Pari d’Inghilterra e ministro della Giustizia, ha introdotto una dozzina d’anni fa – prima donna nera, cattolica per di più, nobilitata e cooptata al governo a Londra. Con risultati immediati, se i femminicidi nella sola Londra sono scesi da 50 a 5 l’anno.
Niente di eccezionale, ma una burocrazia capace, con regole semplificate, per interventi coordinati e mirati, rapidi il necessario, anche nell’arco di 24 ore per i casi urgentissimi. Senza aggravi per la spesa pubblica, e anzi con risparmi di spesa. Opera di una donna sempre elegante, curata, instancabile, assicura Simonetta Agnello, “prima donna nera” ovunque, in Cassazione, alla Camera dei Lord e al consiglio dei Ministri - ma dopo una carriera di lavoro e non prima, come funzionaria di partito designata a fare carriera a titolo di quote rosa, rottamazione, vedettariato e altre infamie.
La futura baronessa Scotland aveva iniziato con la ricerca dei dati: “Il costo sociale della violenza domestica per la nazione si aggirava intorno ai 23 miliardi di sterline annui; ne erano vittime 750 mila bambini e, nel corso della loro vita, 1 donna su 4 e 1 uomo su 6”. Con effetti anche a lunga scadenza: un altro studio voluto da Patricia Scotland spiega che la maggior parte dei detenuti vegono da famiglie violente o sono vittime di violenza domestica. La violenza, oggi concentrata sui femminicidi, parte da lontano, dai soprusi sui figli, nei quartieri popolari e anche in quelli dabbene: molte volte il violento è un disadattato, “violentato” nell’infanzia.
Poi comincia l’esposizione di Marina Calloni sui casi italiani: una serie di violenze e niente altro. A parte lo sdegno.
Simonetta Agnello Hornby, con Marina Calloni, Il male che si deve raccontare, Feltrinelli, pp. 191 €9