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giovedì 14 febbraio 2008

Napoli attacca l'Italia anche sull'aborto

I guardiani della legge napoletani mettono le mani inflessibili anche sulla sanità, dopo la spazzatura, il calcio, il lavoro interinale a San Marino e in Calabria, e le sporchissime Mani Pulite. Non sulla malasanità di cui la città è la capitale, ma sull’aborto, sulla legge che regola l’aborto terapeutico. Sulla pace umana, familiare, civile e politica che su quella legge si è fondata per un trentennio. Nell’intento naturalmente non di distruggerla ma di salvare la legge.
Vista da Napoli la realtà dev’essere, malgrado tutto, divertente. La madre quarantenne che ancora non è sveglia dall’operazione e che deve giustificarsi di fronte a baffuti poliziotti di aver perduto un bambino altrove farebbe venire eczemi e conati di terrorismo. A Napoli è normalità, se c’è un rimpianto è che Eduardo sia morto e non possa farne una scena. La normalità dei procuratori della Repubblica, che, tutti napoletani, quando sono a Napoli sono eccezionali, fuori di ogni immaginazione.
Uno dice: perché i procuratori della Repubblica sono napoletani? Perché il concorso è nazionale, non si possono mettere delle quote. E questo è affascinante, che un paese di lunga tradizione qual è l’Italia si lasci dissolvere dalla sua parte peggiore, i paglietta venditori di fumo.

L'eugenetica dei nipotini di Hitler

C’è un che di macabro nella partita che si è aperta sull’aborto. Le partite sono un evento gioioso, ma non più come usa ora in Italia, che si svolgono in televisione, urlate e non giocate, con sospetti, sgambetti, e sputi ai giocatori. Si parla dell'aborto con una superficialità che è raccapricciante, tanto più per marchiare persone che si vogliono serissime, impegnate, compassionevoli, cultrici del bene pubblico, laiche. C'è un difetto di laicismo, come già nella polemica sul papa alla Sapienza, ma c'è anche di peggio.
C’è un che di gioioso però, accanto al macabro, e proprio là dove uno non se lo aspetterebbe, nei corridoi e dai balconi del Vaticano. Dove un papa intellettuale ha riportato la palla sul campo vero, ribaltando l’oscura ottica – o è un’etica? – abortista: dell’eutanasia dei malformati, e del puro e semplice controllo delle nascite. Un’ottica che poi oscura non è, è eugenetica. Basta vedere com’è praticata là dove non è stata dismessa dopo Hitler, in Svezia, in Olanda.
È macabro che la sinistra, dove pure ci sono tante anime pie, se non papaline, e compresi gli iperprudenti (ex) comunisti sempre attenti agli umori di Oltretevere, s’imbarchi nell’eugenetica. Non avendo letto, o forse non sapendo più concepire, cosa ne scrissero all’epoca della legge e del referendum sicuri laici, Bobbio, Calvino, lo stesso ministro Amato.

Merini, o la gioia del dolore

Alda Merini prosegue nel suo triplice sentiero di poesia ispirata, con pubblicazioni regolari di testi d’occasione per le plaquettes di Acquaviva, di testi religiosi per Frassinelli, con nota di monsignor Ravasi, e di raccolte tematiche o temporali di versi e prose. È una promessa che ogni volta non disattende, pur nella prolificità. Ed è un miracolo, il segreto forse della “pazza della porta accanto”, uno dei suoi titoli felici: una forte presenza, di una personalità molto strutturata. Alla narrativa così ben strutturata, nelle immagini, la storia, la teologia, della "personale cappella letteraria" (Ravasi) alternando il segreto felice della schizofrenia controllata, che sulla sensibilità del poeta innesta poesia: impressionante è sempre la freschezza, di ritmi, di sensazioni, di cultura.
Alda ha il dono della sensibilità poetica che può non essere sentimentale (morale). È l’effetto della malattia, questo superamento della sensiblerie? O è, semplicemente, una macerazione di cultura – il Weltschmerz è senz’altro una Zeitgeschichte? Ha il dono della parola come un pittore dei segni. O come uno scultore: pensa a se stessa di se stessa come il ricettacolo dei dolori del mondo, da vecchia adolescente, e invece scalpella tornito. E ha la capacità di scrivere, a volte, all’istante. Senza misure laboriose, e senza cancellature, senza ripensamenti. Su ispirazione anche procurata. Non avrà scritto “Francesco” in pochi minuti dopo una telefonata da Assisi dell’editore, Arnoldo Mosca Mondadori, come lo stesso editore asserisce, l'opera ha un filo narrativo sottile, studiato, ma certo è fertile.
La domanda si rincorre, se la sua non sia poesia oracolare, la reincarnazione del poeta vate, dello spirito profetico che la parola ne fa divina. Specie per le pièces di soggetto religioso, che scopertamente sono costruite su stilemi evangelico-biblici. L’“ispirazione” in realtà Alda costruisce sulle parole, chi ha pratica di Hölderlin lo stesso meccanismo ritrova ben collaudato. Non sul senso ma sul suono, da cui elabora assonanze, polisemie, piani di linguaggio. Ma il vocabolo, è questo il mistero, finisce per essere sempre appropriato, più spesso direttamente, senza vincolo ermeneutica, la parola è usata nel suo significato giusto. Si può dirla la Sibilla di Eraclito: “La Sibilla con bocca folle dice, attraverso il dio, cose senza riso né ornamento né unguento”. Dice cose.
Alda Merini, Canto Milano, Manni, pp.110 €12
Francesco. Canto di una creatura, Frassinelli, pp. 142 € 14
Rose volanti, Acquaviva, pp. 70 € 9

Zero al complotto che si esibisce

Un film dallo stesso titolo Chiesa, infaticabile europarlamentare e blogger, ex funzionario Pci e sovietologo, sempre ben accreditato a Mosca, ha in preparazione con Claudio Fracassi: il complotto lo vuole esibito, non genere per voyeurs segreti. Il libro raccoglie saggi achigiovisti. Per la parte italiana di Franco Cardini, Lidia Ravera, Claudio Fracassi, Enzo Modugno e Gianni Vattimo. Da Augias il 31 gennaio il libro ha animato una serata del delirio, nel contesto della crisi colossale, da vuotaggine, della politica italiana in quei giorni. Chiesa si basa su una cosa che chiama “la prova di Gödel”, che “la quantità di proposizioni non dimostrabili è infinita”, e su questa “prova” costruisce il fastello dell’11 Settembre incognito, i.e.prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, dello strapotere e della strafottenza Usa, che arriva, non l’avreste mai pensato, a perdere una guerra in casa in un’ora o poco più con Osama Bin Laden.
Secondo il giovane Engels “i complotti sono non solo inutili ma dannosi”. Ma la teoria è vecchia, c’è un galateo stagionato del golpe annunciato. E si può pensarla fine a se stessa, inoffensiva, come la argomenta Josef K., personaggio eponimo dei complotti, che Kafka nel “Processo” fa accusare di un delitto ignoto: “E ora il senso, signori, di questa grande organizzazione? È di far intentare dei processi senza ragione, e in gran parte pure, è il mio caso, senza risultato”. È che così c’è più suspense: la democrazia è come i “Promessi sposi”, non vi succede mai nulla.
Il complotto è, come il giallo, genere democratico: ognuno è un detective, e basta poco per creare golpe a diecine, ordinari. È insomma un gioco, ha ragione Kipling. Divertente anche, se non ci fossero i morti. Senza disprezzare il fenomeno secondario: indurre la credenza pubblica, il regime politico è ancora elettorale. Ma sui segreti non bisogna indulgere. Il complotto è oggi realtà per apporti plurimi. Per essere il ricamo della storia, la traccia dell’antichista e del filosofo, la partita a scacchi che ricostruisce e disegna la trama. L’ipotesi è la cosa più sicura, tutto il resto è cao-s-uale. È la causa di Heisenberg - o ne è l’effetto. Il principio d’indeterminazione, Wittgenstein vi s’imbatté senza riconoscerlo: criticare è perturbare, analizzare è trasformare, riflettere trasforma il problema. È come in artiglieria, molto influisce l’osservatore. E il percorso: i venti, le ondulazioni del terreno, gli effetti ottici. Per l’impossibilità accertata di subordinare la verità di un enunciato al suo assetto formale. Ci sono tante verità quanti sono i percorsi per arrivarci. Lo sa per primo lo scrittore, l’ha sempre saputo prima di Gödel, la cui opera varia per le stesse condizioni materiali dello scrivere, oltre che per il suo stato di salute e l’umore. Freud, dice Auden,“in nome suo viviamo ormai vite diverse” – anche se, Woody Allen l’ha scoperto, a tenerlo su è l’industria dei divani.
Un percorso è l’irriducibilità del caso o del disordine. E poi? Niente, non si esce dall'unitas multiplex, il complotto eccolo qua. E si creano martiri, non per la causa, per il nemico. È straordinario. Con la parallela riscoperta del tradimento libertino, vicendevole, il tradimento fra traditori. Dalla coppia che fa l’amore pensando ognuno ad altro partner, al doppiogiochista, il traditore che porta qualcuno a tradire, e poi lo tradisce. Che, è evidente, non è un gioco intellettuale. “Sono le idee più che gli interessi a dominare il mondo”, ha ben spiegato Lord Keynes, miglior marxista di Marx. Compresa l’idea di un amico nemico, infiltrato, spia. Karl Liebknecht, eroico socialista tedesco, oppositore lineare della guerra del kaiser, divenuto la bandiera dei servizi d’informazione francesi, cioè di disinformazione, passò in Germania per nemico del popolo.
O sia il complotto la storia vista dai camerieri. Per cui Lenin è un generale tedesco, Hitler è, anche questo si sa per certo, il papa Pio XII, e la regina Elisabetta Churchill dimagrito - ci si è sempre chiesti che fine avesse fatto Churchill. È narrazione sempre avvincente. La Stazione Finlandia è un bel plot, verrebbe un bel film, con Lenin nel vagone piombato della Wehrmacht, protetto dai marescialli tedeschi per fare la rivoluzione. Il vagone piombato è un avanzamento: nel prece-dente della storia il principe Ferdinando, pretendente al trono di Bulgaria, era rientrato a Sofia da Vienna nel 1913 nascosto nei gabinetti del treno, anche se si trattava dell’Orient Express, allora lussuoso. Un altro tipo di storie vede l’oro manifestarsi in piombo, il piombo tramutarsi in colomba, e la colomba uscire candida da una pozza putrida, tutto in un soggetto e anzi in una persona, spesso in unità di tempo e luogo. Alcuni schemi logici aiutano, del tipo “da una parte...dall’altra”, oppure “o...o”. Sono logiche povere, messe a punto da francescani e domenicani alle prese con l’Inquisizione, alla portata di chiunque. Alla fine non si stringe nulla, ma se piace è divertente. È come allo stadio: si canta, si urla, ci si accoltella pure, senza guardare la partita. Non è dunque la storia dei camerieri disprezzabile, come Hegel voleva, e il conte Tolstòj, che metteva le mani avanti - “non si può essere grand’uomo per il servo, perché il servo ha un altro concetto della grandezza”: si può essere camerieri e eroi.
Il complotto è esercizio logico prima che paranoico, e unisce tutti, quelli che convergono dall’isolamento. Tutto vi è ineluttabile, una volta recisi i ponti con l’esperienza, e con gli studi: come la gelosia, il terrore si nutre di sé. Altra cosa dalla solitudine, dal dialogo con se stessi, che prepara all’incontro con gli altri e la vita. Ma, per questo stesso motivo, dei misteri non c’è un repertorio esauriente, non può esserci. La scienza è alle elementari: dell’acqua solo sa che è idrogeno e ossigeno. O dell’amore che è una reazione chimica, direbbe Ninotchka. Si continua a dire che il sole sorge e tramonta alcuni secoli dopo Copernico, il quale spiegò che a girare è la terra. L’uomo è inconciliabile con la realtà, la natura? In parte sì, per la percezione anteriore. Sarebbe diverso se potesse sapere tutto ciò che si dice a parte o si pensa, o vedere a 360 gradi, in orizzontale e in verticale: scomparirebbero forse allora alcuni tormenti non intelligibili, destra-sinistra, amico-nemico, elevato-ignobile. Non resta che Heidegger: “La curiosità per cui niente è segreto, la chiacchiera per cui niente è incompreso, danno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria di una vita veramente “vissuta””.
La paura, direbbe Hume, l’“ansiosa preoccupazione”, è il principio delle religioni. Ma non bisogna averne paura: l’idea del complotto prospera quando non c’è vera paura. Quando negli Usa si scoprì che Lee Oswald era stato a Mosca, era tra gli Amici di Cuba, ed era in odore di mafia, il presidente Johnson ordinò a Earl Warren di smontare il complotto. L’ipotesi mafia avrebbe scardinato l’assetto politico. Mentre il complotto comunista avrebbe reso la guerra necessaria, e al primo colpo quaranta milioni di americani sarebbero morti, Johnson si fece un rapido calcolo. Si dice complotto per dire. Lord Cromwell, una roccia, scopriva un complotto ogni due mesi. Mentre un famoso complotto ebreo e socialista, come si sa, tenne la Germania alla fame nei quindici anni dopo la sconfitta del 1918.
Piace sapersi in mano a forze segrete – la negazione, in realtà, della politica. Bisogna credere all’inesausta capacità di male Bisogna tornare a credere all’eterno, al diavolo. L’uomo non è polvere, o gas, o quello che materialmente è. E dentro il Complotto, avendo una guida appropriata al male, si può riconoscere agevolmente questo o quel complotto. “Che bella occupazione prepararsi un segreto”, dice Kierkegaard brillo, “che tentazione goderselo”. Il complotto si lega non al sospetto ma all’ermeneutica. La teoria del complotto deve trovare i significati delle espressioni letterali, o delle forme o eventi apparenti. L’ermeneutica è stata a lungo scienza di giurisperiti, oltre che dei teologi amanti della Bibbia, e a lungo dei materialisti storici. Si fonda sulla lettura dei significati impliciti. Il complotto è femmina per il barone di Verulamio, la ribellione maschio. Ma “fra tutte le imprese degli uomini nessuna è grande come la Congiura”, scrive l’abate di Saint-Réa, lo stesso della “Congiura degli Spagnoli contro Venezia”, allievo dei gesuiti: “(Sono) questi i luoghi della storia più morali e istruttivi”. Non si può dismettere il complotto, anche i bolscevichi presero il Palazzo d’Inverno entrando alla spicciolata da una porta secondaria dimenticata aperta.
E tuttavia non c’è nulla da dire al complotto, se non tirarsene fuori. Il complotto non è onorevole, la vecchia sindrome della “reazione in agguato”. Popper argomenta che uno che vede complotti dappertutto o è un dogmatico o è un totalitario.
La “prova di Godel” che “Zero” manca (pour cause?) è che il complotto è nella fattispecie materia iraniana. Elaborato a Teheran, è stato diffuso da Teheran dopo la guerra all'Iraq per dimostrare che i sunniti non possono essere gli autori dell'11 settembre, ne sono incapaci, e sono anzi traditori, al soldo degli americani, con tutte le “prove” che si sono lette e viste in internet, Osama e al Zawahiri al soldo degli Usa. Con le code note: “Al Jazira” oltranzista, che ha periodicamente da sette anni e in esclusiva i video di Bin Laden, e li trasmette a due passi dalla base americana più grande del Mediterraneo e del Medio oriente, per aprire la quale l'emiro del Qatar ha fatto un golpe contro suo padre, è creatura e proprietà del medesimo... Oppure: non sarà la Zeromania un altro trucco della Cia (l’avete notato? la Cia è scomparsa...).
Forse non è cattiveria, piccola speculazione editoriale. C’è in questi contributi di gente riflessiva – c’è pure Gore Vidal – il segno di una delusione. Un rimprovero, più che l’accusa di aver montato la vicenda, a seguito di una delusione: la fine della storia, l’impero pacifico, la sconfitta del male, tutto bruciato in pochi minuti dentro la fortezza stessa del mondo bell’e sistemato, se non del paradiso restaurato.
Un appunto ci sentiremmo però di fare, pro bono: e il petrolio? Chiesa ha mancato il petrolio a cento dollari. Il petrolio a cento dollari sono guadagni immensi per l’Arabia Saudita, patria di Osama, per la famiglia Bush, e per il Texas, feudo dei Bush. Coraggio, bisogna osare.
Giulietto Chiesa (a cura di), Zero, Piemme, pp.417 €17,50

Farsi una risata con la filosofia

Fare la filosofia con le barzellette è cattiveria, e questo libro lo è. Ma è anche una classica storia della filosofia, molto precisa e molto chiara, seppure sintetica, dai presocratici a Saul Kripke, il criterio ordinativo è rispettato.
Inutile discutere se la filosofia non sia una barzelletta – il tema è discusso, non manca nemmeno questo, alla pagina 141. Ma la metafilosofia che imperversa, il discorso sul filosofare, non dovrebbe privarsi dell’argomento: anche questo è un libro di metafilosofia, seppure divertente. Briosamente tradotto e opportunamente ambientato da Chicca Galli.
Thomas Cathcart e Daniel Klein, Platone e l’ornitorinco, Rizzoli, pp.190 € 12

L'America "inconsumata" di Borgese

Aprendo a caso, alla pag. 143, si trova “una realtà inconsumata: l’America”. Si spiega che un libro di viaggio vecchio di ottant’anni sia ancora vergine. L’America inconsumata, massimamente in questa Italia vedova del Muro, dice la lontananza dell’America, l’estraneità. E ne dà occulto il senso della potenza. Borgese cinquantenne, critico letterario e romanziere di successo, siciliano e fiorentino, allora si poteva, inventore dei crepuscolari, poliglotta, sposato e padre, cerca in America una nuova vita nel 1931, e per il “Corriere della sera” scrive contro “l’idea volgare che si ha dell’americanismo” (p.252).
Borgese giornalista ha molte sorprese, e punti di vista sorprendenti. Gli Usa sono le donne, “non più schiave e non più tiranne” (p.23), che hanno abolito il litigio familiare. Il West non è Occidente: è un po’ Sud e un po’Oriente (p.106). Il viaggio dalla California a New York circumnavigando l’America attraverso Panama (p.130 segg.). Incrociando Einstein in senso inverso. Con una istantanea dell’Avana. Un paese tutto elettricità, benzina e carta. Con un vocabolario di 408 mila parole (nel 1931, oggi il Webster ne elenca un milione). E una società egualitaria, la più egualitaria al mondo, e anarchica, che è conservatrice: “Non esiste al mondo società più conservatrice di questa” (p.253).
Borgese è, anche se è stato dimenticato, scrittore di sensibilità insorpassata - perfino abnorme se si pensa allo stato dell'editoria nella Repubblica (nel 1929, in pieno fascismo, sul "Corriere della sera", scoprì i primi libri di Soldati ventitreenne e Moravia ventiduenne, i racconti di "Salmace" e "Gli indifferenti", tragressivi anche oggi). Il senso dell'"Atlante" resta anch'esso attuale: cos’è l’America, cos’è l’America per noi. L’antiamericanismo è fascista all’origine, nazionalista, reazionario. È passato a sinistra con la Guerra Fredda. Finita l’Urss, resta a sinistra, e anche a destra, a coprire il vuoto. “Qui e in nessun luogo è l’Europa”, dice Borgese (p.31), echeggiando il Lotario di “Meister” di Goethe, del suo “Atlante americano”. Non è vero: l’Europa è oggi ricca, popolosa, antica, malgovernata. È cioè asiatica. Ma era vero: era stata inventata l’Atlantide per mascherare l’ovvio fatto che l’Europa è una coda dell’Asia, il continente sprofondato tra l’Europa e l’America, dieci o dieci milioni di anni fa. È che nessuna realtà è mai consumata. Si spiega così l’antiamericanismo di fondo, “oggettivo”: è impossibile per un europeo essere americano, malgrado i tanti che negli Usa sono emigrati e ci sono rimasti, di aderire all’ideale di libertà e di fortuna individuale. Non possiamo non dirci occidentali, come gli americani, e tuttavia siamo asiatici, la coda dell’Asia.
G.A.Borgese, Atlante americano, Vallecchi, pp. 270, €12

Melazzini, l'anti-Welby senza trombe

Come vivere attraverso una malattia mortale. Vivere con una “qualità della vita”, come dicono i medici, adeguata. Insomma normale, con storie d’amore e di separazioni, dalla moglie, dai figli. Se poi questo malato è un medico, che sa “dall’interno” cosa gli succede, l’esperienza è sicuramente da raccontare. È il segreto della riuscita di questo libro altrimenti terribile. Con l’aiuto di Marco Piazza, il dottor Mario Melazzini, primario di oncologia alla Fondazione Irccs del Policlinico San Matteo di Pavia, racconta la scoperta della Sla, Sclerosi Laterale Amiotropica, o Morbo di Gehrig, o Malattia di Charcot, che in pochi mesi l’ha immobilizzato, e il suo lento, sofferto, adattamento. Marco Piazza, il responsabile della comunicazione di Telethon, giornalista con una unga esperienza di volontariato fra i malati di distrofia muscolare, evita il facile effetto di fare di Melazzini l’anti-Welby, d’incorrere nella spettacolarizzazione della sofferenza che sul caso Welby si rimprovera ai radicali di Pannella. Ma costruisce, seppure con toni lievi, senza trombe, un personaggio e una vicenda per più aspetti emblematici.
La Sla è una patologia che lascia al massimo tre anni di vita. Melazzini, oggi cinquantenne, l’ha contratta sei anni fa, nel 2002. Continua la sua attività di primario a Pavia, e ha preso la presidenza dell’Aisla, l’associazione dei suoi compagni di destino. “A volte può succedere che una malattia che mortifica e limita il corpo”, riflette lo stesso Melazzini, “anche in maniera molto evidente, possa rappresentare una vera e propria medicina per chi deve forzatamente convivere con essa senza possibilità di alternative”. Se solo mantiene il controllo delle facoltà mentali. Ci sono i sani che vivono eternamente malati, ipocondriaci si diceva una volta, oggi perlopiù depressi, il masochismo nelle società opulente è merce da supermercato, e ci sono malati che invece pensano da sani.
Sulla malattia pesa troppo l’ideologia, si vede anche dal dibattito orrendo che si sta facendo sull’aborto. La razionalizzazione a basso voltaggio derivata da Foucault. Che invece era un teorico, o analista, del potere (si capisce che, in questa volgarizzazione del filosofo, si facciano partiti pro o contro l’aborto). Nonché il vezzo guelfi-ghibellini, l'antico partito preso. Riflesso anche dalla sorte di questo libro, apprezzato dagli ambienti confessionali, ostracizzato dai laici. Ma allora, questo laicismo è veramente eugenetico, vuole solo la morte dei vecchi, malati e malformati?
Mario Melazzini, con Marco Piazza, Un medico, un malato, un uomo, Lindau, pp.144 €12

La solitudine del maschio cuccù

Kechiche fa tesoro di attori eccezionalmente espressivi e aggredisce lo spettatore con una diecina di piani sequenze in primi piani, due ore e mezza senza fiato. Per dire la vita ordinaria degli arabi, pensa alla fine lo spettatore, che è uguale a quella di qualsiasi francese della costa mediterranea – l’ordinarietà è oggi tesoro fra gli orrori degli arabi, lo spettatore deve pensare politicamente corretto, addolcisce la diversità. Ma non è questa la storia, Kechiche non ha redatto un elzeviro. Ha fatto un dramma dell’ordinario. Con una storia polimorfa, quindi, e non univoca. Ma profondamente antifemminista, sottilmente.
Lo spettatore pensa il contrario, affascinato dalla capacità delle attrici, i protagonisti sono soprattutto donne. Il personaggio che tiene le fila dei piani sequenza, uomo onesto, parco, lavoratore, simpatico, uno che si occupa di tutti, figli, mogli, figliastra, si ritrova senza lavoro, senza mogli, senza figli, e senza l’indispensabile motorino della sua vita di samaritano. Scene di bravura, il pranzo di pesce che l’uomo ha preparato restandone escluso, gli amici musici, la nuora russa vilipesa dalla Grande Madre, la Figlia Madre che ne prende per mano le attività, la danza del ventre della stessa che ne sostituisce il veglione, lo fanno sembrare un film femminista, e invece è il contrario. Le donne vi sono capricciose, protettive, castratrici, superficiali, sempre piene di sé, mai generose. Il titolo del film, in origine anodino, “Le grain et le mulet””, gli ingredienti del cuscus di pesce, diventato “Couscous” nella versione italiana, si vuole letto in francese, essendo le due sillabe separate, cou-cou, cuccù e cornuto, forse non involontariamente.
Abdellatif Kechiche, Cous cous.

Un Sessantotto togliattiano

Il Sessantotto, quando se ne potrà fare la storia, risulterà la prima vera democratizzazione italiana. Insufficiente (restano sempre umbertino-fasciste la polizia, la giustizia, il fisco, le poste)ma molto più ampia di quella riuscita alla Resistenza - che anzi, quando se ne potrà fare la storia, quando si potrà farla anche della Resistenza, ha del tutto fallito la democratizzazione: nel 1968 ancora si sparava sui lavoratori in sciopero. Si fatica perciò a riconoscere il Sessantotto in queste testimonianze, si capisce che il ricordo, dopo quarant’anni, sollevi feroci malumori: è una storia togliattiana che se ne fa, proprio ciò che il Sessantotto aborriva. Personaggi che sicuramente c’erano, Pancho Pardi (“par di…”), Staino, Dandini, Lerner, Ravera, ne danno in questo speciale di “Micromega” testimonianza o personale (generazionale) o ideologica, oggi più insulsa che mai. Mentre si sa, lo sanno tutti, che il Sessantotto sta per anni Sessanta, quella tremenda spinta al cambiamento che in Italia per la prima volta incrinò lo Stato autoritario che si nasconde dietro lo Stato etico: “sbloccò” uomini e donne, diede la parola a ognuno, riconciliò con la natura e il vecchio paese, con le radici, e rivoluzionò il diritto di famiglia, il diritto del lavoro, la condizione della donna, i rapporti umani, l’abbigliamento, il gusto, le vacanze. E se non disarmò la polizia in servizio di ordine pubblico, tuttavia le impedì di uccidere. Negli anni di Moro, non bisogna lludersi, e del piano Solo, poi delle bombe, molto peggiori quindi degli attuali, e tuttavia pieni di energia. Sessantotto sta per gli anni in cui tutto sembrava possibile, anche costruire la libertà – senza droghe. Praga, Valle Giulia, il Maggio ne sono epitome, e in certo senso il culmine, come la conquista della Luna, anche se non fu figurata.
Confuso, e condannato, con l’Autonomia, il Sessantotto ne è invece l’opposto. È fantasia, intelligenza, saperi, libertà, tanto quanto l’altra è torva, stupida, e contenta di esserlo (le ope legis, tutti uguali per decreto ministeriale), violenta. Il “pentimento” ne è la raccapricciante prova: il Sessantotto non ha nulla di cui “pentirsi”, da denunciare, da confessare. Una rivoluzione per certo. Anche per la prova del nove inoppugnabile: la mediocrità di chi se ne proclama autore, che la memorialistica documenta in modo tragico – la rivoluzione, si sa, quando si dichiara già c’è stata. La presunzione di appropriarselo è ridicola al punto di fare propria la critica di carrierismo che sempre insegue il Sessantotto. Mentre nessun leader politico ne è potuto emergere, e i pochi che si sono fatti un nome lo devono alla violenza (Rinaldi) o al democristianesimo di complemento (Lerner, Liguori, Annunziata, Riotta).
Il Sessantotto propriamente detto è il Movimento studentesco, e in quanto tale ha perso. L’università è, con la giustizia, l’istituzione meno democratizzata d’Italia, senza avere le garanzie, le risorse, il potere contrattuale (di ricatto) della giustizia. Dopo le ope legis è tornata alla sua vecchia struttura umbertino-fascista, semmai peggiorata. Ma il Sessantotto è anche un profondo mutamento, dai capelli fino alle autoriduzioni e perfino agli espropri proletari, una gigantesca presa di coscienza della società, del suo modo di essere e del modo di essere di ognuno in essa, dei diritti se non dei doveri, che è sicuramente democratica. E per l’Italia una scossa quale non se ne trovano in tutta la sua storia precedente.
Il Sessantotto ha rivoltato la cultura dell’Italia. La società, se non la psicologia. Ma anche, parzialmente, questa. Ed è il suo lato deteriore, collegandosi la psicologia ai comportamenti: generazionalmente, quelli del Sessantotto sono dei sopraffattori, per la troppa energia liberata. La gerontocrazia che in questo secolo si prende ancora tutto, le vite dei figli bamboccioni, e le pensioni, presenti e future, la vita di lavoro prolungandosi con diritto di cumulo. La società che ha liberato, il Sessantotto ha poi contribuito a distruggere, goloso di tutto, fissandosi nella possessività che per un periodo l’ha distinto, le famose okkupazioni, specie nelle professioni formative, la scuola, dall’asilo all’università, il sindacato, la magistratura. Ognuna di questa funzioni la generazione ha affossato con l’etica dei diritti o dell’irresponsabilità, tutte in modo grave. Il sindacato ha minato la grande azienda e i servizi, specie la sanità pubblica e la previdenza. La scuola non dà più nemmeno l’alfabetizzazione primaria. La magistratura ha amplificato il vizio dell’autoritarismo: è l’unica istituzione ancora corporativa, fascista nei riti e nella prepotenza.
“Micromega”, Sessantotto: mito e realtà, supplemento a “Micromega” 1\08, i due fascicoli € 14

Arbasino si specchia in Gadda

Scrive Arbasino di Gadda per non scrivere di se stesso – curiosamente sempre da “nipotino”, pur avendo più anni di quanti Gadda ne aveva all’epoca. Anche perché, sempre curiosamente, di Arbasino, il decano a tutti gli effetti dei letterati italiani, nessuno scrive. Ma questa volta in modo più scoperto: è la terza o quarta volta che Arbasino ripropone il suo Gadda. Il testo embrionale è “I nipotini dell’Ingegnere”, 1959-1960, pubblicato allora sul “Verri”, che sarebbero Arbasino stesso, Parise e Pasolini. La prima metà dell’“Ingegnere in blu” è in “Sessanta posizioni”, del gennaio 1971 (Arbasino fa confusione ripresentando i testi a p. 41-42). Ripubblicata in “La Belle Époque per le scuole”, incluso nella riedizione di “Certi romanzi” del 1977. Rimpolpata, di sbieco, con la “Bantessa”, Anna Banti, e “Paragone”, cui molti devono molto, recuperando ottimi articoli evocativi di “Repubblica”.
L’assemblaggio è condito dalla nostalgia degli anni Cinquanta e Sessanta, della società letteraria di quegli anni, in una serie di elenchi rabelaisiani, di soprannomi, bon mots, personaggini. Tutto capitalizzando, le scemate, gli annusamenti, le gaglioffate, da cocktail party di trattoria. Compresi gli incontri con Gadda, che sono stati uno l’anno, forse, e di cui non abbiamo l’altra versione (a p.122 però Arbasino non se ne priva:”Voltato l’angolo del palazzo, diceva mio fratelloMario (anche lui interpellato per le sue abitudini “campagnole”), si toglierà la maschera e ci riderà dietro”). La Roma arbasiniana è a cavaliere della “Dolce vita”, di aneddotica “Involontaria”, da “Noterelle azzurrine” del Novecento, e poundiani “jokes”, per “una cert’aria del tempo andato” che purtroppo non è Gadda. E non è Roma - Arbasino amerebbe ripetere “l’alta conversazione mondana di Firbank e Huxley e Waugh e Connolly”, a Roma?
Gadda è un pretesto. Si può dire una sorta di “padre”, di cui Arbasino è adorante – come Anna Banti e una “madre”. Ma c’è di più, e di meno per l’Ingegnere. Con un unico momento di verità, fuori testo. Nell’ultimo ricovero in ospedale gli amici devoti andavano a turno a leggergli pagine dei “Promessi sposi”. Gadda, racconta Arbasino a Antonella Barina per “il Venerdì di Repubblica”, “ascoltava attento, sdraiato, imobile. Ma aveva uno sguardo spaventato”. Da Manzoni? Dagli amici?
I memorialisti del Gadda privato, che pure è un filone nutrito e quasi un genere, ne fanno una macchietta, cerimonioso, imbranato. Vittima dei colleghi alla Rai e dei giovani, Parise, che gli fa gli scherzi da prete, e Arbasino, che ne provoca la memoria. È un genere che si limita agli ultimi venti anni dell’Ingegnere, di riconoscimento e perfino di successo, ma non più in grado di scuoterne la sfiducia: questo può spiegare la stucchevolezza delle memorie. Ma i suoi critici affettuosi, bisogna dire, lo preferiscono così, “umorista cincischiato”, “eccentrico”, un po’ paranoico. Mentre è uno dei più vispi e vivaci autori del Novecento, in senso fisico, materiale, nei gusti, nelle frequentazioni, nella conversazione che, altrove che in queste birignate, è sempre diretta.
Gadda è uno scrittore realista, ancorato solidamente alla narrazione sociologizzante dei suoi anni formativi: la patria, la guerra, la piccola borghesia declassata, le vicende familiari. Di quando le madri impedivano ai figli di studiare il greco, e invece della letteratura imponevano l’ingegneria – non senza profitto per la letteratura, se Gadda saprà essere scrittore sintetico, essendosi fermato al latino e alla matematica. Il suo linguaggio è una bombarda contro questi minuti condizionamenti, che erano la sua – personale – realtà. Ma una bombarda che movimenta questi minuti eventi invece che sconquassarli. Allo stesso modo, con altro stile, diminutivo, di Palazzeschi. Come osservare le componenti dell’atomo impazzire ma non romperlo. È la piccola tragedia probabilmente dell’uomo, che lo rese alla fine scontroso, non essere uscito da quei limiti – l’appartamento, la badante, i pasti, la lavanderia, il risparmio (sul cinema, i viaggi, le vacanze, gli acquisti, anche di libri), la solitudine – che così fortemente avvertiva. Gadda è corposo, questo lo possono riconoscere anche i suoi critici benevoli. Specie al confronto dei "nipotini", tutti in vario modo bozzettisti - si parla delle opere: Parise della canzonatura, Pasolini del neo realismo, e lo stesso Arbasino, da troppo tempo costretto al deprecato birignao.
Ma solo Gadda se lo dice, nelle lettere: malgrado la fama postuma, Gadda parla ancora da solo di sé, un po' com'è costretto a fare Arbasino in vita. Gadda è realista alla stessa maniera di Arbasino, si potrebbe dire, il social scientist per eccellenza dell’Italia della seconda metà del Novecento, da “Fratelli d’Italia” a “Mekong”, “La caduta dei tiranni”, “Paesaggi italiani con zombi”. Che in vecchiaia però implode nei suoi manierismi, e li impone anche alla realtà rammemorata. Gadda si fa passare per antiquato residuo del piccolo mondo antico di zie e trisavoli mentre era il letterato più sveglio e realistico, ben contemporaneo, per gli interessi linguistici non solo, ma filosofici e politici, e con solide radici nella vita comune, collaboratore dell’“Ambrosiano”, del “Mondo” di Pannunzio e del “Giorno”, dei giornali più moderni e vivaci, uno che va a Firenze quando la letteratura si fa a Firenze, e poi a Roma quando la letteratura si fa a Roma. Su cui molto avrebbero avuto da dire i fiorentini, come Bonsanti, Piero Santi, Pannunzio, che meglio lo conobbero quando non era ancora traumatizzato dal mancato riconoscimento, solo affannato dalla fatica di farsi riconoscere scrittore. Uno che è a suo agio nel libro di Arbasino solo con Franca Valeri.
In alternativa Gadda è un nevrotico. Con più verità, ma non da poco. Arbasino lo fa dire a Bonsanti, che sul “Mondo” nel 1963 scrive: “Chi non conosce sufficientemente Gadda, non sa spesso come interpretare queste sue esibizioni di formalismi; rimane incerto se prenderle sul serio o considerarle invece l’aspetto più attenuato di un’insofferenza totale”. Gadda aveva più di un motivo per la nevrosi. Ma non al punto da vivere fuori della realtà. L’evento letterario che meglio lo inquadra Arbasino lo accenna, è la feroce polemica sul premio Strega del 1952. Che Gadda sperava l’avrebbe incoronato grande scrittore, andava per i sessant’anni, mentre celebrò e impose Moravia. Con una raccolta di racconti non nuovi, quindi fuori dal regolamento. Patrono di Moravia al premio era Pannunzio, giornalista ottimo ma non influente, l’altro console essendo l’improbabile Muscetta, il censore vetero-comunista. In siffatta combinazione ci voleva un miracolo e il Sant’Uffizio lo fece: mise i libri di Moravia all’Indice, per cui non ci fu gara. La reazione di Gadda ai veleni diffusi nell’occasione da Muscetta contro di lui, uomo di Andreotti e del Vaticano!, è ben realista (è il pezzo forte della corrispondenza con Contini, pubblicata nel 1988). Molto più sobria tuttavia e pugnace dell’invadente autogratificazione e l’ipocrisia con cui Moravia rievoca l’episodio nell’intervista biografica con Alain Elkann nel 1990. Di Moravia Gadda aveva tra i primi segnalato “Agostino” sul “Mondo”. Con Moravia poi andrà nel 1960 a presentare Arbasino, “L’Anonimo Lombardo”, al premio Strega.
Una sola cosa interessa a Gadda, nello sfarfallio di scrittori, poeti, osti, trattori, ristoratori, dame, attori, attrici, registi, nel quale Arbasino lo avviluppa, dopo Franca Valeri: l’Hilton, l’albergo. L’idraulica dell’Hilton, i serramenti, gli ascensori, le tubature. Arbasino lo vorrebbe interessato, oltre che ai repertori di sguaiataggini dell’epoca, a genealogie scomponibili per paginate, senza una minima interiezione dello stesso Gadda. È lecito presumerlo oberato dalla stucchevolezza del monumento che Arbasino si affanna a costruirgli-si.
Alberto Arbasino, L’ingegnere in blu, Adelphi, pp. 186 € 11

martedì 12 febbraio 2008

Se Provenzano è un confidente

Il boss Provenzano confidente dei carabinieri? Si saranno voluti divertire in esclusiva con i “pizzini”, dato che molti li trovano molto divertenti, il genio siculo anzi ne ha fatto un genere letterario. Ma non è fantamafia per chi vive la mafia, ed è il filo della richiesta di giudizio il 4 febbraio per il prefetto Mario Mori, ex generale dei carabinieri, e il colonnello dei carabinieri Mauro Obinu. La richiesta del pm Di Matteo è la seconda o terza in tal senso della Procura di Palermo. La prima accusa, dei pm Ingroia e Prestipino, era contro Mori e il capitano dei carabinieri Sergio De Caprio (“Ultimo”) per la mancata perquisizione il 15 gennaio 1993 del covo dove Riina fu catturato. Per questa accusa c’è stato il rinvio a giudizio, il 18 febbraio 2005, ma derubricando il reato da favoreggiamento aggravato a favoreggiamento semplice, che consente il processo con un solo giudice, senza collegio giudicante. Il 18 gennaio il giudice monocratico ha fissato l’udienza per il 18 luglio, per la quale data il reato sarà prescritto.
Il nuovo procedimento si è aperto sulla accuse del colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che aveva apprestato a mezzo dei suoi confidenti la cattura di Provenzano il 31 ottobre 1995. Secondo Riccio, Mori e Obinu non arrestarono Provenzano né allora né dopo, né indagarono i due capi mafi che servivano da collegamento per Provengano, Giovanni Napoli e Niccolò La Barbera. La Procura gli ha creduto e dunque la verità è questa: Provenzano era un confidente migliore di quelli di Riccio, perché ha consentito la cattura di Riina. Per questo motivo il covo di Riina non è stato perquisito, per non trovate tracce che consentissero a Provenzano un’altra dozzina d’anni di aria.

Il "buco" c'è ma non è stato intercettato

Se c’è un “buco” in Finanziaria s’immagina sia una notizia. Anche se non fosse da sette miliardi, se fosse da sei, o da cinque, a maggior ragione da otto, come sarà. È tale comunque da obbligare a una nuova “manovra” (più tasse) di eguale ammontare. E dopo tanto parlare di extra gettito e tesoretto significa che Prodi e Padoa Schioppa hanno moltiplicato a dismisura la spesa pubblica. Ma la cosa non “fa” notizia. Perché? Perché, si spererebbe, i migliori giornali, oltre alla Rai, tifano per Veltroni, ci sono le elezioni in ballo, c’è la nuova sinistra, etc. Ma non è così, è peggio.
I giornali sono pieni, come è anche giusto, di anti-Veltroni, di destra e di sinistra. No, i grandi giornali, arcigne vestali della spesa pubblica, tacciono perché non hanno letto la Finanziaria, o non sanno leggerla: non ci sono intercettazioni sulla Finanziaria, né Almunia ha parlato, e quindi non si sa che dirne, giusto qualche breve, come si fa coi nuovi cantieri del lavoro italiano nel mondo. Né si parla della crisi, della produzione industriale che da un semestre va a rotoli: si lavora sempre meno in Italia, roba da crisi depressiva, o da moti di piazza. Anche perché l'Italia va male mentre l'Europa, e ancora gli stessi Stati Uniti, e l'Asia vanno bene.
Qualche giornalista che si prova a dirlo viene al più tollerato. Lo stesso “Sole 24 Ore” che ha scoperto il "buco" non ci crede: ha confinato domenica la ricostruzione di Luigi Lazzi Grazzini in settima pagina, senza neanche un richiamo in prima, tutta presa dai soliti Clinton-Obama e Yahoo-Microsoft. Ma qui il discorso forse è più largo: la Confindustria di Montezemolo ha concorso un po’ al “buco” e l’eccellente suo giornale non può tenerne conto - la Confindustria a lungo ha chiesto la riduzione del costo del lavoro, con meno contributi e meno fisco in busta paga, Montezemolo invece è di quelli che i soldi li vogliono in mani proprie, in incentivi, decontribuzioni, innovazione, ricerca. Sarà per questo che anche la crisi dell'industria è materia di segreto di Stato.

B. è il golpe della Fgci di Veltroni

“Detengo il record, non mondiale ma universale, di provvedimenti giudiziari subiti: 2.541 udienze e 93 procedimenti”, con qualche migliaio di perquisizioni: Berlusconi ha aperto sabato la campagna elettorale rivendicando questo primato. E bisogna cominciare a pensarci, dato che poi non lo condannano. è un macigno sempre più grosso davanti alla sinistra, e non si capisce perché. Anche perché non è il primo. Prima di lui un altro personaggio aveva avuto singolare fortuna politica nello sbarramento giudiziario di sinistra, Andreotti, anche se di procedimenti ne ha cumulati solo una quarantina. Per chi gioca la magistratura?
Stando ai fatti, la verità nel caso B. è questa: l’Italia deve un ventennio di Berlusconi al melomane Borrelli, perché possa farsi riverito le prima della Scala, e ai nipoti di Togliatti, perché possano evitarsi l’esame di coscienza, tenendo l’Italia sotto ricatto. Borrelli non solo, o Di Pietro, il monaco Scalfaro, Cossiga il folle, ma l’Italia tutta, con un meccanismo perfino semplice nei fondamentali, il controllo del Csm, della Rai e dei giornali di Lor Signori, immobiliaristi e banchieri, dove non c’è capo servizio che non sia passato dalla Figc, dei tempi di Walter Veltroni, e poi, a metà dei fatidici ani Settanta, dal suo ufficio di responsabile stampa a propaganda alla Federazione romana del Pci. Incarico che ha continuato negli anni Ottanta convenendo periodicamente a Botteghe Oscure i fiduciari nei giornali e nei tribunali. Con corredo dei poteri opportunisti: Montezemoli (Montezemolo propriamente detto, Della Valle, Moratti, Elkann), i banchieri cattocomunisti, gli speculatori miliardari, in euro.