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sabato 6 dicembre 2014

Visco for president

Non è Draghi, è Visco “la persona di peso negli affari internazionali” tra i papabili di Renzi per il Quirinale. Una sorpresa per molti ma non per chi seguito le vicissitudini dell’Italia negli ultimi tre anni, dagli stress test andando indietro verso lo spread. Un sicuro europeista ma uno che sa come vanno le cose in Europa da qualche anno. A spese dell’Italia. E sa probabilmente come arginare l’offensiva, senza sterili vittimismi.
Di Ignazio Visco Renzi ha memorizzato l’intervista con cui puntualizzava, il 7 luglio del 2012, otto mesi dopo la sua nomina a governatore, la posizione dell’Italia - registrata da questo sito sotto il titolo “La veritààà sullo spread”:
Lo spread esagerato è “come se la Germania ricevesse un sussidio dagli investitori internazionali”. Non solo: “Ciò crea una grave forza centrifuga nell’area dell’euro”. Un circolo vizioso: più spread più spread - il fenomeno si autoalimenta, la Germania gongola, e non ringrazia. Il secondo punto è che se lo Scudo anti-spread “fosse dotato di capacità d’intervento adeguata la sua stessa esistenza aiuterebbe a non usarlo”. È la virtù degli accordi di stabilizzazione: essere convincenti. Che il Fondo europeo o Meccanismo di stabilizzazione non ha avuto per la micragnosità della Germania: “Un altro luogo comune da sfatare, che sia la Germania a pagare per tutti. Un falso”. Ma è vero che l’Italia non ci sa fare: “A fine anno (2012, n.d.r.) saranno stati versati dall’Italia (per i salvataggi) circa 45 miliardi di euro, e non ci si è agitati tanto. La Finlandia, che pesa per meno del 2 per cento, si è fatta sentire di più”.
Sempre prudente, Visco dice ora che dalla Bce non c’è da attendersi niente. Non lo dice, lo fa capire. Prudente non tanto, però: Visco è uno che le cose le dice, ma con rispetto della politica. Sembra in effetti l’identikit del presidente che Renzi cerca. Di prestigio, affidabile e anche giovane – sessantenne, ma “fuori dai giri”.

Letture - 195

letterautore

Alvaro – Lo scrittore forse più cosmopolita del Novecento si vede acculato alla Calabria di origine, fino a doversene fare, suo malgrado, vestito e anzi corazza. Abbondando nelle narrazioni autobiografiche,  sia di viaggio che critiche e narrative - seppure da lontano, i ritorni sono rari e non grati. “Scopritore” di Proust, che tradusse per primo, di molti russi e della Sezcession, viaggiatore instancabile, ma non a casa, se non per causa di forza maggiore, finisce lui stesso per dedicare alla Calabria, al calabrese, alla calabresità, ovviamente indefinibile, il maggior numero di pagine ella sua pur vasta produzione.

Benjamin – Ha scritto su Baudelaire più di quanto probabilmente Baudelaire stesso ha scritto, in versi e in prosa – tolte ovviamente le traduzioni, e la copiosa corrispondenza, con la mamma e altri. Il volumone che Giorgio Agamben ha compilato un paio d’anni fa con Barbara Chitussi e Clemens Carl Härle, “Charles Baudelaire. Un poeta lirico nell’età del capitalismo avanzato”, ha oltre mille pagine. In gran parte appunti – più alcuni saggi a tema già editi. Sono i manoscritti di W.Benjamin che Agamben ritrovò nel 1981 alla Bibliothèque Nationale di Parigi, degli ultimi suoi due anni di vita. Un lavoro incompiuto a spese di un altro lavoro che per questo resterà voluminoso e incompiuto, i “Passages di Parigi”: al momento di parlare di Baudelaire, Benjamin aveva fermato il lavoro sui “Passages” e si era assorbito interamente sul poeta. Un caso del critico più invadente dell’autore.

Un fatto che bizzarramente non si mette mai in luce è che la Parigi del Secondo Impero, il cui abbattimento nel 1870 consacrerà la Prussia al centro e a capo della Germania, era invece vista in Germania, dai liberali e dai regni del Centro-Sud, negli anni successivi al fallimento della Costituente di Francoforte nel 1848, come una possibile protezione contro il predominio prussiano. Come patrona di una unità della Germania sul modello delle guerre di indipendenza italiana. Ne parla Engels ancora molti anni dopo, a fine 1886, nell’abbozzo di capitolo che si proponeva di aggiungere ai tre capitoli sulla “Teoria della violenza” della seconda sezione dell'Anti-Dühring, di dieci anni prima, per compilare un volume dal titolo “Il ruolo della violenza nella storia”. Il capitolo doveva ricapitolare la storia della Germania dopo il 1848, e della “violenza bismarckiana”, fino a tutto il 1888.  Questa storia dell’unificazione rimase allo stadio di appunti e progetti, ma abbastanza da far emergere uno stato di fatto nell’opinione tedesca, e anche nella diplomazia, poi rimosso.
Secondo Engels, la guerra del 1859 aveva reso espliciti gli obiettivi del Secondo Impero, e tra essi, principale, “la riva sinistra del Reno”, in anticipo sulla Prussia. Con l’accordo della stessa Renania, timorosa dell’assolutismo di Berlino e da tempo aperta all’influenza francese, per gli apporti della rivoluzione dell’Ottantanove e delle stesse conquiste napoleoniche, e per antiche connessioni finanziarie: “Nei contadini e nei piccoli borghesi si risvegliavano i vecchi ricordi dei tempi dei francesi, che effettivamente avevano portato la libertà; tra i borghesi, l’aristocrazia finanziaria era già profondamente intrecciata” con la finanza parigina, ”specie a Colonia” (lo era anche a Francoforte, n.d.r.), “e reclamava a gran voce l’annessione”.
Il quadro d’assieme era anch’esso favorevole alla Germania renana, se non francese: “L’Austria e la Prussia estraniate più che mai l’una dall’altra a causa della neutralità prussiana nella guerra d’Italia, la piccola genia principesca, parte timorosa e parte desiderosa, che occhieggiava a Luigi Napoleone quale protettore di una rinnovata Confederazione renana: questa era la posizione della Germania ufficiale”.

D’Annunzio - È abruzzese. Non solo per nascita. “L’ho detto”, si giustifica Corrado Alvaro girando per l’Abruzzo, che pure non vorrebbe “definire sullo schema di D’Annunzio”. E poi si toglie d’un fiato il sassolino D’Annunzio subito per intero: “Ma che D’Annunzio abbia portato nell’arte sua molte cose  radicate profondamente nel suo popolo, è chiaro, e sarebbe chiarissimo se si dicesse che il suo svagare, il suo fantasticare, colorire, incantarsi su sequenze interminabili di parole, è tutto al fondo popolare abruzzese”.
Non ne resta fuori molto. Alvaro dice “l’architettura di Gardone”. Ma anche a quella, neoclassica o barocca che si voglia, “postmoderna”, l’Abruzzo ancora oggi non può dirsi estraneo.

Destra-sinistra – Sergio Luzzatto pubblica la raccolta dei suoi articoli per “Il Sole-24 Ore” con Manifesto-Libri.

Hamsun – Hamsun era molto combattivo, prestante anche fisicamente, e “giovane”. Sulla sua figura si proietta quella del dramma, e quella dei suoi scritti autobiografici del dopo-1945, come di un vegliardo sordo, col bastone e poco senno, anche quando aveva venti, trenta e quarant’anni. Mentre anche allora era ben eretto e combattivo. Quando scrisse lode a Hitler morto, che purtroppo suona tanto bene, aveva 86 anni

Morbidezza. - È termine italiano in tedesco (Jünger). E assonante, d’uso più ampio, in inglese.

Sade Imbalsamato da Man Ray, in quello schizzo di “Les mains libres” che non ha nulla a che vedere con mani e lo pietrifica nella Bastiglia, nella forma del bastione. Immobile, appesantito. Mentre era sicuramente molto mobile, e probabilmente magro e nervoso, come tutti i “folli”. Anche perché si sa che privilegiava le ore di libertà, di camminata e attività fisica - un anticipatore della fitness. Questa pietrificazione è stata la prigione del Sade riscoperto dal secondo Novecento, anche per i pensatori che vi si sono attardati, da Klossowski e Blanchot a Foucault, Lacan e Deleuze.

Flaubert ne ha copiato interi passi, dalla “Storia di Giulietta”, tentando di rifarlo, seppure esoticamente – l’esotismo consentiva la crudeltà – in “Salammbô”.

Terra di mezzo – Non ci cita l’ovvio Tolkien nell’operazione di questo nome contro la mafia der Cupolone. Che è la prima notizia per una settimana ormai e richiede varie pezze d’appoggio per tenerla su nei giornali, retroscena, precedenti, misteri, indiscrezioni, analogie, etc. Ma di Tolkien nessuna traccia. O è già dimenticato dalla “generazione di mezzo”, post-1968. Oppure la memoria giornalistica ormai è corta, cortissima.

Tragedia – La tragedia per eccellenza, quella greca, è un canone politico. Nel 335 a.C. Licurgo decise per decreto la creazione di un corpus ufficiale di tragedie ateniesi. Decidendo anche chi doveva farne parte: Eschilo, Sofocle e Euripide. La raccolta era uno dei pilastri di una politica di recupero culturale, e quindi di relativa autonomia, di Atene nei confronti della soverchiante monarchia macedone. Ma creò così un canone, escludendo ogni altro autore. Che Aristotele subito dopo fissò, privilegiando il testo scritto e da leggere, senza musica, senza coro, senza rituali, senza altre manifestazioni visibili e connaturate alla rappresentazione. Che venne limitata alla declamazione, e in luoghi appositi, teatri solenni in pietra, costruiti dalle autorità.
Due costituzioni di identità come riduzioni. Di Atene nei drammi dei tre tragediografi, rinunciando al vasto florilegio precedente, contemporaneo e successivo. E della tragedia nel canone ristretto a asfittico di Aristotele. Senza peraltro che queste restrizioni riducessero il teatro ad Atene: che continuò a farsi occasionalmente, informalmente, e precariamente, senza strutture fisse.
Aristotele nella “Poetica” sancisce l’operazione. Limitando ulteriormente il potenziale espressivo con le unità di tempo, luogo e azione.
Una terza identità riduzionista si è avuta alla riscoperta del teatro. Che avvenne peraltro grazie alla pratica di un teatro neolatino, che dalla monaca Roswitha in poi ci è stato conservato. Nel Cinquecento si scoprì che anche Seneca poteva essere rappresentato. E con Seneca si capì che anche gli stranissimi codici di Eschilo, Sofocle e Euripide si potevano rappresentare. Un fenomeno che fece appena in tempo a schiudersi che fu subito re incardinato: l’idealismo tedesco fece del teatro tema filosofico, la “Poetica” di Aristotele imponendo come testo canonico d’interpretazione. “La nostra lettura della «Poetica» è essa stessa un artefatto del secolo XIX”, può sostenere a ragione Florence Dupond, “L’Antiquité, territoire des écarts”.

letterautore@antiit.eu

Baudelaire contemporaneo, con Proust

Per cultori della materia e per profani, grazie anche al corredo fotografico. Francesco Cappa e Martino Negri hanno ritradotto saggi “Un’immagine di Proust” e “La Parigi del Secondo Impero in Baudelaire”  e ne mettono in risalto la novità, o modernità, che Benjamin vi rileva, da sociologo della letteratura. Un accostamento meno incongruo dell’apparenza, nel segno in realtà di Benjamin, che attraverso i suoi due scrittori di culto – di più Baudelaire – contrassegna la sua lettura della contemporaneità.
Cosa ci trova Benjamin? Nulla che il lettore non trovi consenziente. L’ossessione della storia; la tecnica del “vedere”, vivendo l’uno la fotografia l’altro il cinema; l’arte, letteratura compresa, al tempo del mercato; l’eros sempre più liberato; perfino il gusto della natura, la flora, gli spazi, il tempo meteorologico, il tempo in divenire, il paesaggio. Due scrittori che furono anche anticipatori, contemporanei.
Walter Benjamin, Proust e Baudelaire, Neri Pozza, pp. 270 ill. € 16

venerdì 5 dicembre 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (228)

Giuseppe Leuzzi

In Calabria, dove il voto è clientelare, per il presidente della Regione, che controlla la Sanità e una spesa miliardaria, si muove solo il 44 per cento degli aventi diritto. Si può consideralo un buon segno,: solo quattro calabresi su cento coltivano il posto.

Il cacciatore che ha ritrovato il corpo del bambino ucciso nella campagna di Ragusa viene esposto dai giudici e dagli inquirenti come l’assassino. Si fa sapere che è stato interrogato “per tutta la giornata”, che “la sua auto è stata sequestrata”, etc. Perché i giudici e la polizia colpevolizzano sempre  i testimoni al Sud? Per poter dire poi che c’è omertà e che nessuno parla?

Fu un dossier “Mafia & Affari”, afferma il generale le Mori, a procurargli dal 1991 l’odio inesausto della Procura di Palermo. Il Procuratore Capo era allora Pietro Giammanco, che aveva vinto la gara per il vertice della Procura contro Falcone, forte dell’appoggio di Mario D’Acquisto, presidente della Regione Sicilia nel nome di Andreotti. Dov’è la mafia?

Testimone unico dell’accusa al processo Stato-mafia è Angelo Siino. Un mafioso.

Milano
È guerrafondaia. Il “Corriere della sera” s’è inventata l’Ucraina nella Nato, e il segretario della Nato che minaccia la guerra alla Russia per l’Ucraina.

L’Inter è di Thohir – pare – che è un indonesiano. Ma il cuore è senz’altro milanese: Thohir non ha fatto nient’altro che licenziare un allenatore, Mazzarri, per prenderne un altro, Mancini, che era stato licenziato prima. In linea col principio: la colpa è sempre degli altri.

Massimo Moratti, eponimo di milanesità e interismo, ha licenziato in quindici anni diciannove allenatori. Tra essi Lippi, uno che vince dappertutto. Alcuni li ha licenziati dopo che avevano vinto: Simoni, Zaccheroni, Mancini, Benitez, Leonardo. Alcuni li ha riassunti, per un totale di ventuno cambi di allenatore.

Moratti ha licenziato anche i suoi migliori assistenti, da Valentino Mazzola a Oriali.

Piove e alcuni quartieri di Milano come sempre si allagano. Il problema? “L’Italia è fragile”.

La città che consuma più cocaina pro capire in Europa, e probabilmente al mondo, non manda dentro un solo trafficante di droga. I mafiosi la Procura Antimafia insegue fuori Milano, per piccoli traffici, d’influenze, appalti minimi, usura, estorsione. Con cui i giornali si colmano e la città. Che non sono creduloni.

A un certo punto, nel Seicento, san Sebastiano fu sostituito da san Carlo Borromeo quale protettore contro la peste. E la peste in effetti è quasi scomparsa. Che potenza!

C.Alvaro, “Itinerario italiano”, p. 241: “L’Opera è padana, come è padano il romanticismo, e il futurismo”. E il fascismo – ma allora, 1933, non si poteva dire. Id., 243: “Sotto una vita semplicissima, c’è un potere di infatuazione per tutto quanto è assoluto”, s’impone o viene imposto.
Ma Alvaro, calabrese, non era settario: “C’è uno spirito italiano proprio della pianura”, aveva premesso: “Facile ad accendersi, curioso di tutte le novità, e nello stesso tempo capace della più stretta regola e ortodossia”. Di costruire, mattone su mattone – “anche il cattolicismo prende qui forma di organizzazione: ai due estremi della pianura padana si rispondono la testa esatta di don Bosco e quella bollente del Savonarola”. Grandiloquente: “Fino a Milano, l’aggettivo grande è il più significativo: grandi palazzi, gran di torri, grandi f rutta, grandi coltivazioni”.

Ne avrà trovato Alvaro, per primo e nell’essenza, la natura? Nella stessa raccolta scrive, p. 273 segg.: “Si parla di Milano in Italia in vari modi, ma una cosa è certa”: che “più che un’immagine”, un’architettura, un pittogramma, è “un modo d’essere, un costume”, di una comunità cresciuta per concrezioni e adattamenti, duttile e costante. “Una città industriale suppone un’espansione nazionale e mondiale; una città commerciale vive già della continua ascesa dei suoi bisogni e della capacità d consumo dei suoi stessi abitanti”. Una società mobile, attaccata “alle mode delle merci di maggior consumo, ai bisogni di una giornata e di una stagione”. Ma “questo è il terreno più adatto alla formazione di quella moderna borghesia che solo in apparenza è materialista ma è pur capace di slanci e di vibrazioni morali altissimi”.
È difficile riconoscerla venendo dalla “città nostre dell’Italia centrale”. Ma “a scendervi da Berlino” sì, immediatamente, e cioè “da città commerciali moderne: si scorgono i caratteri, si riconosce quel colore tutto speciale di Milano di cui gli stranieri parlano con una viva impressione delle differenze, pur ponendo questa città fra quelle della media Europa”.
E “le differenze” sono una: “Milano conserva in grado eminente alcune qualità che paiono fuggite alle società moderne, e son la semplicità, la naturalezza, la credulità, la fedeltà”. Che attraggono e accolgono: “Migliaia di persone d’ogni parte d’Italia, dalla Sicilia al Veneto, ne costituiscono ormai il fondo”. Avendovi acquisito “le stesse doti di entusiasmo, di piacere di vivere e di agire, e quella, invidiabilissima, di costituire il pubblico più attento, più curioso, più disposto ad ammirare e fare da spettatore”.

La voglia di Lega mantiene intatta, da un quarto di secolo, costante nell’incostanza. Tra infiammazioni per Berlusconi, lunghe, e per Monti e Renzi, brevi e brevissime. Appena può, smaltite in fetta la corruzione e le ridicolaggini di Bossi e la sua famiglia, si è riappesa alla Lega, ora di Salvini ma sempre di Bossi.

leuzzi@antiit.eu 

Allegro con Hitler

Inquietante. Non “gelido” come lo voleva Magris – “gelido catasto dei giorni deserti e dell’assurdità delle cose” – né desertico, e non un “diario dell’effimero e della vanità”. O forse sì, vanitoso Hamsun lo è sempre stato, e di più naturalmente invecchiando, ma non assurdo: è come era sempre stato, ha ragione lui. Anche in questa memoria, scritta tra il 1945 e il 1948, quindi tra gli 86 e gli 88 anni, del confino in un ospedale in disuso, in una casa per anziani, in una clinica psichiatrica, e poi di nuovo nella casa di riposo, in attesa di un processo per collaborazionismo e apologia del nazismo che non si sa o non si vuole fare e si rinvia di tre mesi in tre mesi – alla fine si farà, e per tutta pena dell’accusa di tradimento Hamsun avrà un’ammenda, anche se salata. Una prosa più che altro esilarata. E esilarante, c’è poco da dire – l’editore spende Hemingway nella fascetta, “Knut Hamsun mi ha insegnato a scrivere”, e non fa un abuso: un po' tutti nel Novecento hanno appreso da lui a raccontare dialogando.
Hamsun non si era macchiato di nessuna colpa specifica durante l’occupazione tedesca della Norvegia. Ma si voleva un tedesco di provincia, e la Norvegia vedeva un distaccamento nordico della Germania. Inoltre amava Hitler, credeva in lui. Aveva approvato l’invasione. E sapeva della persecuzione degli oppositori, carcere, torture, esecuzioni, benché non ne denunciasse nessuno. Non sapeva dello sterminio degli ebrei, dice, ma era possibile non saperlo.
L’autodifesa di Hamsun, quando infine la cosa fu dibattuta in tribunale, fu semplice, così come qui la racconta con la trascrizione che ne fu fatta tra gli atti: “Non ho fatto parte di Nasjonal Sambling”, il partito filonazista. Ma: “Io ci credevo”. A che cosa? “Eravamo stati allettati dalla prospettiva che la Norvegia avrebbe occupato una posizione elevata, predominante nella società mondiale pangermanica che si stava preparando e nella quale tutti credevamo, in misura diversa, ma ci credevamo tutti”. Che retrospettivamente è folle, ma così era – la cosa non si contesta, semplicemente non se ne parla. E più “nella neutrale Svezia”, Hamsun aggiunge che gli veniva fatto notare regolarmente da “certi tedeschi relativamente altolocati”. Poteva emigrare, Hamsun insiste, non se la sarebbe passata male, ma ha voluto servire la patria, “usando la mia penna per la Norvegia, che avrebbe occupato una posizione di primo piano tra le nazioni germaniche. Fin dall’inizio mi sentii attratto da quel pensiero. Di più, esso mi entusiasmava: ne ero posseduto”. E non è finita: “Coloro che oggi godono della mia umiliazione, poiché hanno vinto, hanno vinto esteriormente, in superficie”.
Hamsun credette a Hitler anche dopo morto. Il 7 maggio 1945 volle rendergli pubblico omaggio con un ditirambo, che inizia con un “non sono degno di parlare solennemente di Adolf Hitler”: “Era un guerriero, un pioniere dell’umanità e un apostolo del vangelo del diritto di tutte le nazioni. Era una figura di riformatore di altissimo rango”. Qui riduce a macchiette i suoi giudici, e quelli che incontrandolo si voltano dall’altra parte. Un rivolgimento non da poco: giudice dei suoi giudici, di cui mette senza remissione in berlina l’ipocrisia. Cabarettistici i tentativi di usare contro di lui la moglie, la “seconda” moglie, che per questo tennero a lungo chiusa in prigione. Con una giustificazione non da poco: “Silvio Pellico, rinchiuso in un carcere austriaco, scriveva del piccolo topo che aveva addomesticato. Il suo topo adottivo. Anch’io scrivo qualcosa del genere”. E si scopre un gallo giovane, che non sa di essere gallo in mezzo alle galline, e quando comincia a capirlo “una mano lo afferrò e nel buio lo portò”. Avendo lamentato: “Ero una persona sana e mi hanno ridotto come gelatina”. A sé unicamente rimproverando la pubblicazione di un libro di poesie, un cedimento alla vanagloria. Sfacciato, ma simpatico. Forse perché veritiero - la verità è che la guerra di Hitler fu bella per molti.
A lungo questo Hamsun è stato rimosso. Non i romanzi per i quali è famoso, “Fame”, “Pan”, “Misteri” e altri, ma questa sua memoria veridica. Tradotta praticamente alla macchia da Ciarrapico, senza data - ma era il 1962. Col titolo "Io traditore". In una collana, “I classici della controinformazione”, che sarà successivamente diretta da Marcello Veneziani, che pubblicava i “maledetti” dell’estrema destra. Sulla stessa materia il commediografo tedesco Manfred Horst ha basato il dramma “Era glaciale”, nel 1973. “Lacerato dall’acre sapore della sconfitta e tanto più trascinato dalla logica sociale quanto più s’illudeva di esserne libero, Hamsun si volge, nel suo ultimo libro, al nichilismo autodistruttivo dell’uomo ferito che solo sa reagire, esasperando le proprie posizioni  - sulle quali viene spinto a forza dal processo storico – per gratuito amore della provocazione e degradandosi per dimostrare il suo disprezzo. Anche a Hamsun, come aveva scritto lui stesso in un altro romanzo, la vecchiezza non aveva portato la maturità, bensì soltanto e nient’altro che la vecchiezza”. Magris vuole così Hamsun in questo finto diario - in un saggio peraltro pieno di intuizioni: un rimbambito che non sa quello che fa. Ma a leggerlo non si direbbe. Si voleva anzi assolto. Quando la Cassazione confermò la condanna, pur dimezzando la pena (una multa pecuniaria), decise per protesta di non scrivere: “San Giovanni 1948”, sono le ultime parole: “Oggi la Corte di Cassazione ha emesso la sua sentenza, e io non scriverò più”. Morirà tre anni e mezzo dopo.

Knut Hamsun, Per i sentieri dove cresce l’erba, Fazi, pp. 165 € 16

Il contenimento della Russia

Le sanzioni contro Putin si radicano negli eventi di vent’anni fa, quali allora si potevano registrare – cinque anni dopo ci sarà la guerra alla Serbia, con la creazione dal nulla di un Kossovo indipendente
“Questa settimana ha cambiato tutto in Jugoslavia: è nata la Grande Serbia.  Dopo ottant’anni esatti da Sarajevo. E cambia tutto l’assetto europeo:
- la Russia si rincuora con questa grande vicina, la cui causa fa l’unanimità nel suo popolo,
- la Russia non ha più bisogno di Washington e di Bruxelles, né della benevolenza Nato, ma può di nuovo ambire da potenza a quello che non ha avuto: pari dignità,
- la Serbia è un paese militante, cioè efficiente, al contrario della vecchia Urss, che era una comunità eminentemente civile, e i golpe miserevoli dei suoi generali e marescialli lo hanno dimostrato: potrebbe essere anche un esempio di efficienza per la Russia, sia per la società civile, che si sta disintegrando, sia per i militari sbandati,
- l’area intermedia dell’Europa orientale avrà un altro polo di attrazione, che potrebbe influire su Macedoni, Bulgari, Ucraini,
- la Germania, anche se la governa il super-europeista Kohl, dovrà tenerne conto: prima o poi finirà la politica cui Adenauer ci aveva abituati per quasi quarant’anni, di una Germania dentro l’Europa e l’Occidente, e tornerà il vecchio gioco di bascula tra Occidente e Oriente,
- che ne sarà dell’Unione Europea?
- e della Nato? Gli slavi saranno abbastanza flessibili (furbi) da tentare ora un appeasement?”

Le mani sporche

Vent’anni fa, dopo il golpe di Borrelli e Scalfaro, col “Corriere della sera”, contro il governo eletto (“il Monaco” è da intendersi il presidente Scalfaro):
“L’appello di Mario Baldassarri, con corteggio di Modigliani, Prodi, Sylos Labini e altri luminari della scienza triste, tutti galantuomini, per salvare la finanziaria dopo due mesi di scioperi, manifestazioni e violente proteste che gli stessi gravemente avallavano, è di una disonestà intellettuale che se non fosse vera sarebbe incredibile.
“È anche vero che il fronte anti-Berlusconi tace da dieci giorni. Le indiscrezioni infamanti sono durate solo tre giorni. Ha bloccato tutto l’altolà del Vaticano e dell’“Avvenire” - del cardinale Ruini capo dei vescovi? Il primo giorno dopo l’annuncio dell’avviso di reato si dice che Berlusconi è accusato da quindici pentiti. Il secondo giorno che è accusato dal fratello Paolo e dal contabile Sciascia. Il terzo giorno Berlusconi ha il conto segreto in Svizzera (uno solo?). Non si dice, si fa scrivere, è il solito canovaccio della disinformazione: c’è sempre in ogni redazione un giornalista dei servizi.
“Il taglio delle pensioni è necessario, in un modo o nell’altro (età, rendimenti, cumulo), e prima si fa meno sarà duro da digerire. Si fosse fatto con la finanziaria 1986, con la proposta De Michelis di una previdenza solida – e un’assistenza solida! – non avremmo tanti lutti. Converrebbe anche – sarebbe convenuto? – che lo facesse un governo di centro-destra, al quale sarebbe politicamente e costituzionalmente agevole strappare garanzie, a salvaguardia dei diritti minimi. Ma gli ex Pci, con i sinistri ex Dc, sono sempre quelli del tanto peggio tanto meglio. Che sempre gabellano per la rivoluzione. Ora contro Berlusconi, perché no. E il peggio di tutto è che ci credono.
“Si sarà fatto uno sciopero politico a nessun fine perché in realtà non c’è altra ricetta salva pensioni. Si farà fra dieci-quindici anni quello che si poteva fare oggi. A un costo non indifferente: il debito sarà cresciuto di un altro milione di miliardi.
“Borrelli e Paolo Mieli hanno affossato il governo per dare tutto il potere al Monaco. Che ha già stroncato la la finanza pubblica e l’economia: il debito è cresciuto fra settembre e novembre di 25-30 mila miliardi. Fra dieci anni, anzi fra tre, l’Italia sarà fuori dal circolo virtuoso dell’economia: si trascinerà nella crisi e anzi nella depressione. Adesso siamo nel boom perché viene tollerata la svalutazione della lira. Ma non si può pensare che un’economia di tipo sudamericano, con svalutazioni competitive a catena e senza una politica del debito pubblico venga tollerata indefinitamente dall’Unione Europea. E non soffochi, con gli alti tassi d’interesse e l’alto costo delle materie prime, l’industria “buona”, quella che investe, migliora la produttività, sa vendere, crea il futuro.
“La storia di questi due anni di virtù legale sarà stata infernale: la giustizia appropriata dai lestofanti”.

Un presidente di prima di Scalfaro

Non sarà necessariamente donna, ma sarà un presidente notaio. E non sarà un ex Pci o laico di sinistra, ma dell’area di centro se non confessionale, per l’alternanza prevista dalla cosiddetta Costituzione materiale.
Renzi non ne ha ancora sottomano uno che vada bene a tutti, ma vuole riportare con l’elezione del successore di Napolitano la presidenza della Repubblica al ruolo costituzionale che aveva prima di Scalfaro. Sul quale condivide il giudizio negativo del presidente dimissionario.
Un ruolo costituzionale, cioè di rappresentanza. Con i poteri legali formali previsti dalla Costituzione, e col ruolo politico limitato alla persuasione morale. Possibilmente di esperienza o rilievo internazionale. Non sarà un ritorno agevole – Renzi ne è convinto – di fronte ai poteri acquisiti in questi venti anni dalle istituzioni non elettive: magistratura e burocrazie, civili e militari. Ma è su questa base che pensa alle “larghe intese”, per superare presto e senza intoppi lo scoglio e riprendere la navigazione politica, sulle “cose da fare”.  
Renzi non è il solo, con Napolitano, ad auspicare una presidenza nell’alveo della Costituzione. L’esperienza di Scalfaro raccoglie ora giudizi prevalentemente negativi presso gli stessi costituzionalisti. A lui anzi si fa risalire  la responsabilità maggiore delle disgrazie dell’Italia. Per aver scavalcato lo spirito e la lettera della Costituzione, sciogliendo le Camere a piacimento. E aver aperto le dighe all’improntitudine delle Procure e alla giustizia politicizzata.
La memoria di Scalfaro non è buona anche perché risalgono ai suoi anni, e in qualche modo alla sua azione, inibitiva o decisiva, le disgrazie dell’Italia. Scalfaro  presiedette all’attacco alla lira e alla più colossale opera di disgregazione dell’economia, con 1,7 milioni di licenziamenti tra il 1993 e il 1994,  con la delocalizzazione selvaggia e il blocco degli investimenti. Dissolse i Parlamenti per suoi disegni politici. Impedì la riforma delle pensioni nel 1994, quella che poi Monti e Fornero dovranno fare 18 anni dopo, a un costo estremamente oneroso per la finanza pubblica. 

Fisco, appalti, abusi (62)

La lite continua del sindaco di Roma Marino con  i partiti, compreso il suo Pd, si può leggere anche come una lotta tra il chiaro e l’oscuro, tra il bene e il male. Alla luce del’inchiesta sulla mafia degli affari, e anche al di sotto di essa:

La gestione puramente fiduciaria della spesa assistenziale del Comune: per senzatetto,  immigrati, portatori di handicap, drogati.

Il mercato dei permessi al personale, dei comandi, degli incarichi ad personam, fuori dai ruoli, le anzianità, le competenze.

Le assunzioni a pagamento, specie nelle aziende comunali: fino a 15 mila euro per un posto di spazzino, fino a 25 mila per un posto di autista Atac.

I software comprati a prezzi dieci e venti volte superiori a quelli di un  normale negozio. Per favorire uno o più fornitori legati a questo o quel partito o politico locale.

I Vigili Urbani nella loro gestione fiduciaria del territorio. Multe stradali, comminate e levate, contravvenzioni, concessioni: tutto materia negoziabile, nel quadro della malversazione e la corruttela, quella ordinaria.


Marino ha concordato col ministero dell’Economia un piano triennale di rientro del debito, pari a 408 milioni. Debiti quindi accesi senza necessità.

Fa gli esami a Marino il prefetto. Che aveva a disposizione Carabin ieri, Polizia, Guardia di Finanza, e doveva sapere molto più del sindaco. Ma non ha denunciato nulla e nessuno..

giovedì 4 dicembre 2014

La Repubblica in pericolo causa Sgarbi

L’appello contro Sgarbi dei 120 di Bologna non è un novità, quell’uomo è un pericolo costante, come tale registrato già vent’anni fa, giorno più giorno meno:
“Giancarlo Caselli va dall’estetista prima di venire in televisione. Fa bene, è opportuno distendere i nervi.
“Ma poi viene, e solennemente, leggendo, dice che la Repubblica è in pericolo a causa di Sgarbi.
“Ma che mafia ha conosciuto questo cotonatissimo giudice? Che pure è stato dai salesiani: non gli hanno insegnato nulla?”

Lo spread di Scalfaro vent’anni fa

Lo spread inflitto all’Italia nel 2011 aveva avuto un precedente vent’anni fa di questi giorni, autoinfilitto dal presidente della Repubblica Scalfaro (“il Monaco”) in odio al governo, anche allora di Berlusconi:
“Ma quanto ci costa, questa crisi annunciata via “Corriere della sera”, quante diecine di migliaia di miliardi? In aggiunta a quelli che il Monaco ci ha già costretti a pagare prima delle elezioni con le sue esternazioni, e con quelle dell’inviolabile Violante, con le perquisizioni a valanga della sua protetta Principato, provocando la più colossale fuga di capitali della storia? Il conto è semplice e si può fare in molti modi: quanto paga lo Stato, quanto paga la lira, e chi opera sulla stabilità della lira, quanto i consumatori attraverso il rincaro di benzina, caffè, carta e altre materie prime.
“Prendiamo quanto costa allo Stato. Il differenziale con i tassi d’interesse tedeschi, sui titoli di Stato e sui tassi creditori, è stato portato a quattro punti (oggi si direbbe a 400 punti base, n.d.r.). Quattro punti in più sullo stock del debito a termine breve-medio del debito pubblico fanno 70 mila miliardi. Consideriamo pure che due punti siano – ma non lo sono – un differenziale ”normale” tra liretta e supermarco, restano due punti: cioè 35 mila miliardi di interessi.
“È incapacità? No, l’affossamento della finanziaria ha padri nobili fra gli economisti: Andreatta, Prodi, Spaventa, Sylos Labini e molti altri”.  

Sade innamorato

A luglio del 1772 Anne-Prospère s’impegna a fondo, con la sorella maggiore Renée-Pélagie,  moglie di Sade, per salvarlo nel processo per avvelenamento da cantaride di alcune prostitute. Il 3 settembre Sade è condannato a morte col servo Latour, alla decapitazione rispettivamente e all’impiccagione. Ma è già partito per Venezia, con Latour e la cognata. Che firma l’impegno di cui al titolo. Ma subito dopo fuggirà da Venezia senza nemmeno portare con sé il bagaglio, sconvolta dai facili tradimenti del marchese con dame del luogo.
Un amore implausibile. Anne-Prospère non era bella né di spirito. La sua attrattiva fu forse la gioventù, se aveva diciotto anni quando “andò incontro” al cognato, che ne aveva ventinove. Ma forse anche lei ne aveva sei di più, o otto. Seppure ancora vergine. Maurice Lever, il suo scopritore negli archivi sparpagliati dei tanti rami discendenti dal marchese, la vuole la “preda vergine”. Ma nemmeno questo sembra sia avvenuto, a leggere bene le lettere.
La Bnf, la biblioteca nazionale di Francia, repertoria Anne-Prospère seccamente: “Spesso presentata come canonichessa (e talvolta come canonichessa benedettina, che non ha senso), ma la sua carriera ecclesiastica sembra ridursi a dei progetti, acquisire una prebenda al capitolo secolare Saint-Denis d’Alix (Rhöne) o, più tardi, entrare in un monsstero benedettino in Auvergne”. Di identità incerta, con tre nomi, Annee-Prospère o Jeanne-Prospère, e Cordier de Launay o Montreuil de Launay. E data di nascita incerta: 27 dicembre 1751 secondo i registri di famiglia, 1743 o 1745 per altre fonti – la famiglia avendo interesse a ringiovanirla in vista di un matrimonio. Insomma, una larva. Della storia peraltro non c’è traccia, nei rapporti epistolari intensi tra Sade e la moglie. Però c’è stata: Anne-Prospère infiammò il marchese. Come ogni preda al momento della foja, s’immagina.
È sempre più Sade festival. Iin prossimità del bicentenario della morte, il 2 dicembre, ma già da tempo. E non per il sadismo ma per “chiara fama”, per sfruttarne il nome come un brand. A Lacoste, il suo ex feudo, Pierre Cardin organizza festival Sade perenne da una quindicina d’anni, di opera, danza, teatro, canto, con Puccini, Tchaikovskij, Nathalie Dessay, “Amleto”, “Moi Colette”,  “Ça swing chex Maxim’s”, e naturalmente Sade con Casanova, “Gli amanti del secolo dell’Illuminismo”, spettacolo musicale. Questa estate si sono fatte in suo nome feste di beneficenza a favore dei bambini con handicap. E si tirano fuori sorprese. Magari già edite e passate inosservate, perché anonimi, o perché nessuno lie ha lette.
Il personaggio è romanzesco, e dunque alettante per i biografi. Ma gli appigli non mancano, ben reali: condanne, carcerazioni, lettere. Anche, come queste, d’amore. Beffardo sempre, anche con se stesso. Tanto biografismo, però, sempre meno dilettantesco, lo sta facendo uscire dalla leggenda nera: vittima di una vendetta familiare tanto quanto colpevole di abusi su prostitute, peraltro tardivamente pentite, è dopo tutto ciò che diventa teorico sfrenato del male inevitabile – e dunque da redimere, perché no.
Je jure au marquis de Sade, mon amant, de n’être jamais qu’à lui…, Le Livre de Poche, pp. 127 € 5

mercoledì 3 dicembre 2014

Meglio a quattro zampe

Il negozio di abbigliamento per bambini ha chiuso tre anni fa. Al suo posto G.E. ha aperto un negozio per animali domestici, molta alimentazione, molto diversificata e sofisticata, e giocattoli, abbigliamento, gadget. Questo commercio, in un angolo della via Poerio che aveva cambiato più volte esercizio, è andato bene. G. ha anche allargato le vetrine, e ha  abbellito gli ingressi con piante. Il negozio di giocattoli della piazza Rosolino Pilo, la piazzetta del quartiere, che aveva sostituito quello dell’adiacente via Mario chiuso quattro anni fa,  ha chiuso questa estate. Un negozio per animali domestici lo sostituisce, anch’esso con buon avviamento.
Anche su “Striscia la notizia”, i cani hanno sostituito le veline.

Il mondo com'è (197)

astolfo

Aggiornamento – È  la forma cattolica, vaticana, del defunto revisionismo storico marx-leninista.
Più spesso acritico, anzi incantato e disarmato, è peraltro una  forma di asservimento: l’atteggiamento dell’ecclesiastico che si aggiorna è confinante col penitente.

Invasioni – Vanno da Nord a Sud, da Est a Ovest. Da sempre e fino al West. Non per un disegno “cardinale” della storia, ma perché si va dal meno al più. Ciò contraddice l’antropologia del nomadismo, se si creano dei punti fermi, a Ovest, a Sud,  “superiori” agli eterni migranti – più ricchi, più intelligenti e colti, più sociali. Contraddice anche lo spirito del nomadismo, che si vuole indomabile, a pena devitalizzazione se stanzializzato. Ma è un fatto: nelle invasioni è il fattore forza che prevale, e si esercita per impadronirsi di qualcosa che sente ed è un di più. .   
Si dice l’Italia terra di tutte le invasioni, e di una storia interminabile di invasioni, dall’impero romano fino al 1945, per la divisione e la debolezza degli italiani. E certamente è vero che gli italiani non pensarono mai di invadere l’Austria, il Ticino o la Savoia.  Quando ci provarono, con le repubbliche marinare, anche questa puntarono a Sud, in Dalmazia, in Grecia, a Creta, a Cipro, sul Bosforo. Un affare, in questo caso, di colonialismo, poiché l’Italia vi portava un di più, di ricchezza (integrazione in un mercato ricco) e di cultura.

Islam – Il generale Haftar, che in Libia cerca di opporsi alla jihad, all’islam violento al governo in molte zone, si chiede: ma come mai gli Stati Uniti, l’Occidente, ci impongono i Fratelli mussulmani? Ce li impongono anche a noi, arabi, islamici. La risposta è palese: perché gli Usa hanno abbandonato il bonapartismo e puntano, da un ventennio a questa parte, sul partito di massa confessionale. Un po’ come avevano fatto nel dopoguerra, e gli era riuscito bene, in Italia, col partito confessionale democristiano. Con esiti assurdi, perché le due confessioni non sono in nessun modo analoghe. Soprattutto si differenziano per il centro religioso ispiratore, che in Italia era unico: gli islamici non hanno nulla di analogo, un centro unico e una gerarchia bene o male unica. Anzi, tendenzialmente si dividono, sul principio del settarismo. È l’esito di una malintesa dottrina clintoniana dei diritti civili. O, sempre a partire da Clinton, di un asse politico-economico tra Usa e potentati della penisola arabica basato sul caro-petrolio e l’islamizzazione dei governi. Che doveva essere moderata, ma nell’islam non è detto.
Clinton ha rivoluzionato il rapporto degli Usa col Medio Oriente, che si era basato dall’inizio, dal 1956, per oltre un trentennio, sul bonapartismo, la gestione militare della cosa civile, in una specie di socialismo di Stato. Così si era ribattezzato il nasserismo, grazie al quale gli Usa si erano impiantati nel Mediterraneo con la guerra di Suez nel 1956, a protezione dell’Egitto del colonnello Nasser contro la Gran Bretagna e la Francia. Col patrocinio del modello bonapartista nasseriano si erano poi rapidamente imposti in tutto il Medio Oriente e il Nord Africa, a spese della Gran Bretagna sempre e della Francia, delle loro zone di influenza ex coloniali: in Irak (Gran Bretagna), in Siria (Francia), in Tunisia e Algeria (Francia) e infine in Libia (Gran Bretagna). In Irak e in Siria al coperto di un partito socialisteggiante, Baas, di cui i militari si prendevano la leadership.

Se non è massoneria – se la scelta Usa non è di grandi Logge. Il dubbio viene in Turchia, un altro paese dove il modello bonapartista – autoctono questo, impiantato da Kemal Ataturk trent’anni prima di Nasser – è stato all’improvviso abbandonato a favore dell’islam moderato. Che però subito è evoluto anch’esso in senso radicale, senza nessuna opposizione da parte della vecchia classe dirigente laica, militare e civile. Compreso il suo leader Erdogan, un moderato politico sicuro non credente che è finito a patrocinare l’islam conservatore, fino a ergersi a protettore dei Fratelli Mussulmani nel mondo arabo. Lo stesso che il papa argentino si è precipitato a visitare, dopo aver omaggiato Scalfari e Odifreddi.

È la terza forza della globalizzazione. Ma arcigna e vendicativa, invece che conquistatrice. La sfida è anche non credibile: tra la superiorità tecnica dell’Occidente, e quella commerciale, manifatturiera, e ora pure finanziaria, dell’Asia, l’unico punto di appoggio dell’Islam resta la religione. Per di più intesa in senso sovversivo, quale nemica del mondo. Con effetto inevitabilmente  boomerang sul mondo islamico e la religione stessa.
Per un malinteso senso democratico e delle pari opportunità, il radicalismo si consente che sia di massa in Francia e in Gran Bretagna. E sul presupposto che non sia terrorista ma una manifestazone d’opinione. Forse non è terrorista perché è militare, se i volontari dell’Isis sono tra 1.500 e 4 mila in Francia e “qualche migliaio” in Gran Bretagna. Ma senza nessun rispetto delle regole d’ingaggio, anzi con tecniche e condotte banditesche.
Le risposte democratiche sono inadeguate, sia di polizia che politiche e sociali. Si vede in Turchia, il rovesciamento intervenuto in pochi anni, di un paese laico nell’oltranzismo. Con straordinario parallelismo con l’Iran dello scià. Quando la borghesia, essenzialmente mercantile, passò col fondamentalismo khomeinista. E i militari, anche in Turchia come già in Iran, da colonna del kemalismo sono passati al wait-and-see, in posizione agnostica, in attesa degli eventi. Anche a Istanbul come a Teheran la borghesia delle professioni, che è urbana e laica, si sente traballare, non più protetta dal potere, sul flusso sotterraneo del confessionalismo.

Italia - Gentile o Pareto, o Gramsci, l’Italia è “Machiavelli dopo Marx”, direbbe Noventa, liberale e socialista pentito.

Marx - Fra le cose che Lucio Colletti ha capito al momento dell’abiura, uscendo dall’ermeneutica dei funzionari del Pci, è che “Il Capitale” aveva un sottotitolo, “Critica dell’economia politica”. Lo ha sempre avuto, ma Lenin aveva detto che bisognava leggere “Critica dell’economia politica borghese”. Non aveva torto, Marx critica l’economia politica come scienza in sé borghese, cioè contabilistica. Molto rivoluzionario, ma è von Hayek, meno palloso. Il feticismo delle merci, l’alienazione nella vita e nel lavoro, questo lo eccitava, la condizione umana, è tutta qui la teoria del valore. Il plusvalore è la “realtà capovolta” rispetto agli elementi originari della produzione, la terra, il capitale, il lavoro, ma è realtà non disprezzabile, se non invenzione miracolosa. Quanto al popolo, non è a Marx, è all’intellettuale che piace, creatura del romanticismo fumoso, che pensa di farsene guida – la volontà del popolo. Gramsci lo sapeva: “In Italia il marxismo è stato studiato più dagli intellettuali borghesi, per snaturarlo e rivolgerlo ad uso della politica borghese, che dai rivoluzionari”.
Marx sarà stato grande in questo, che ne rideva, già in anticipo – su Lenin, e Colletti con Togliatti. Ma, Croce ha ragione, “Marx non tanto capovolge la filosofia hegeliana quanto la filosofia in genere, ogni sorta di filosofia, e il filosofare soppianta con l’attività pratica”. Che, se si sta in pantofole, non è attiva né pratica. Patrizi e plebei si diceva a Roma dei primogeniti e i cadetti della stessa famiglia, i privilegiati e i non, ma tutti erano aristocratici, ne avevano lo spirito. Marx ne è parte, patrizio o plebeo che si voglia, non è invidioso, non cattivo: non è schiavo ma libero. La sua democrazia fa grande, universale, ciò che a Roma era circoscritto. Ma il resto della storia non è onorevole.

Natura – Supplisce l’arte, in questo revival? Che è più mentale che fisico o fattuale. L’arte, che si è voluto cancellare, è stata a lungo l’alternativa alla natura. La città si chiudeva alla natura, per clemente che fosse. Volendo respirare vita umana e civile, dell’intelligenza che supera la natura, e solo per svago la ricostituisce, in ville e parchi, in ordine. Il ritorno alla natura, che si vuole artistico, si ferma ai campi da golf e alla vigna in filare, meglio se piccola, altrimenti è faticosa e\o costosa. Alla natura pettinata, al giardinaggio, agli innesti e incroci, e agli ogm. L’Expo 2015 sulla natura mette a frutto il lato business che è cospicuo. Le energia naturali vogliono molti manufatti, e tutti poco ecologici, brutti, fastidiosi e anche pericolosi, nonché corrotti (drenano enormi risorse pubbliche a fondo perduto): dighe, pale eoliche, pannelli solari mangiaterra. Mentre a Parigi si fanno sfilare greggi di pecore, per protesta contro i lupi.

Occidente – Fatica a perdere il suo posto nella globalizzazione, a restringersi. I suoi araldi, filosofi, letterati, psicoanalisti, pedagoghi, continuano a confonderlo con l’umanità, mentre ne è visibilmente ora una parte, non grande, e comunque residuale. È il segno più evidente della depressione, pensare che tutto il mondo è depresso, e noi stiamo meglio perché lo sappiamo.

astolfo@antiit.eu