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sabato 10 agosto 2019

Una crisi per l’Europa e per gli Usa


Salvini ha aperto la crisi di governo per un posto di rilievo nella Commissione europea e per la Tav, progetto europeo. Nonché per gli F-35 e per la partecipazione “volenterosa” all’eventuale blocco di Hormuz. Cioè, per l’Europa e per gli Usa. Una contraddizione col cosiddetto sovranismo. Per cui l’(ex?) ministro dell’Interno, era supposto essere contro la Ue e contro i legami preferenziali con gli Usa. E come tale viene tuttora presentato, dai media italiani, anti-Lega, ma anche dai corrispondenti europei e americani a Roma – questi lo dicono filorusso.
È un difetto dell’infomazione? Si potrebbe pensarlo nel caso dei media americani, che legano Salvini a Trump, e quindi egualmente lo vogliono anti-americano. Ma forse è un difetto dei concetti di sovranismo e populismo. Che sono equiparati a una sorta di isolazionismo, certo ridicolo per un paese inerme come l’Italia. 
Su tutto poi pesa la pregiudiziale anti-destra dell’opinione pubblica in Italia, col difetto capitale di generalizzare.

Problemi di base servizievoli e sociali - 501

spock


Muratorine belghe in minipants in Marocco: c’è la piena occupazione?

Si fa a fin di bene?

Una missione in Marocco: c’è stato un terremoto, c’è la lebbra?

Una bella vacanza, impegnata, pagata - dallo Stato belga?

“Arrestato l’imprenditore dei migranti” – un imprenditore dei migranti?

“Arrestato imprenditore dei migranti per evasione: tre milioni di euro” – tre milioni?

“Evasi tre milioni di euro”, in contributi e tasse – un affare da poco?

Si coopera per che, per chi?


spock@antiit.eu

Belli Milanese


Finita l’occupazione napoleonica, Belli si mette in viaggio, per aggiornarsi sulle novità. Nelle capitali della cultura, Napoli, Firenze, Milano. A Milano con più gusto. Dove ha scoperto Parini e, soprattutto, Porta. Nonché Manzoni – il romanzo è per il poeta romano il “primo libro del mondo”.
Nel 1817 è a Venezia e Ferrara – centri allora del purismo.Viaggerà poi per le Marche e l’Umbria, e nel 1822 è per la rima volta a Napoli. Nel 1824 passa l’estate e metà autunno in giro per le Marche, e da ultimo a lungo a Firenze. Dove frequenta il Gabinetto Vieusseux e colloquia con Pietro Giordani. L’anno successivo è di nuovo a Firenze.
Del 1827 è il viaggio rivelazione a Milano, su cui tiene il diario, prevalentemente in francese. Registra in più occasioni la lettura ammirata di Porta in dialetto, frequenta artisti e letterati legati a Porta e a Manzoni. Si chiarisce e s’impone in queste frequentazioni l’uso del dialetto, quella lingua viva che andava cercando a Roma tre le polemiche delle accademie che lui stesso creava e gestiva. L’anno dopo torna a Milano. Non si sente a suo agio a Napoli, città di “estremi”, dice. Di Firenze apprezza la misura, ma è sconcertato dalla mancanza di entusiasmo. Di Milano apprezza tutto: Specie la cultura senza pedanteria, e il “rispetto nel volgo”, che non è plebe. Di ritorno scriverà il primo sonetto in romanesco.Nel 1829 torna per la terza volta a Milano. Legge Walter Scott, madame de Staël, Stendhal.
A Roma, dopo il terzo viaggio a Milano, scrive sonetti romaneschi a ritmo impressionante. E fonda una “società di lettura” sul modello dela “cameretta” portiana – dove i sonetti vengono “degustati, ma non si pubblicano.
Giuseppe Gioachino Belli, Journal du voyage, de 1827, 1828, 1829, Editore Colombo, pp. 177, ill. € 17

venerdì 9 agosto 2019

Lasciate che la Destra sia

Più attacchi a Salvini, con dossier e scandali, più consensi – ora il voto anticipato dovrebbe portargli male, è sempre stato così, ma non è detto. Una lezione politica. Sulla inconsistenza della comunicazione, della pubblica opinione, quando è preconcetta.
Da tempo, in Italia da quasi quarant’anni ormai, c’è una voglia di destra. Anche da sinistra, molta parte vuole essere governata da destra: con meno vincoli, più flessibilità, più libertà d’impresa, anche individuale, e più spesa sociale - tanti socialisti e comunisti votano destra. La famosa destra sociale invece che dittatoriale.
Un po’ come in America con Trump ora, c’è stato il finimondo con Berlusconi, facendogli vincere tre  o quattro elezioni. E ora con Salvini, che certo è più “inadatto”, per dirla con “The Economist”, di Berlusconi - ma, a proposito: Boris Johnson è “adatto”?
C’è un isterismo di cui non si capisce  la ragione. Non porta più copie ai giornali. Non difende un’ideologia o un partito o un programma. Fa vincere le vittime dell’isteria. Si trincera con accuse di fascismo, a opera di giornalisti, specie della cronaca giudiziaria e politica, che sono nati e cresciuti fascisti del fascio. Cioè, è ipocrita. Ma a che fine?
Una vera strategia anti-destra non può basarsi sul vituperio - la destra non lo usa.

Keynes è (anche) di destra

Si parla di interventi pubblici di stimolo all’economia, del “fare”,  come di “ricetta keynesiana”. Con l’equivoco aggiuntivo, in Italia, che Keynes sia di sinistra, la sua dottrina della spesa pubblica produttiva essendo stata applicata per prima e con successo dal Labour in Gran Bretagna a fine guerra. E soprattutto perché è stato scoperto – tardi, negli anni 1960 – in Italia da economisti di sinistra, Giorgio Ruffolo, quando lavorava all’Eni, e Federico Caffè.
Keynes di suo è un liberale social-minded. E poi teorizzava un fatto: l’intervento pubblico anti-crisi  1933, in America il New Deal di Roosevelt, in Italia l’Iri e le opere pubbliche di Mussolini. Lo stesso New Deal in America gli storici hanno difficoltà a non classificarlo - per l’aspetto socialmente più rilevante, la Tennessee Valley Authority (su cui sarà modellata la Cassa del Mezzogiorno) - come dirigismo di tipo autoritario.
Si fanno male i conti con Salvini, ma l’anguilla non è lui, è la critica.

Flaiano flaianeggia

“È il cinema, solo cinema, che fa la realtà ordinate, preordinata”.
“La castità è il miraggio degli osceni”.
“Offrire il fianco al ridicolo è norma ottima. Il ridicolo può uccidere nelle società colte o aristocratiche. Nelle società arriviste e democratiche è la condizione necessaria allo sviluppo della Fama”.
“L’offesa ingrandisce sempre chi la fa”.
“La prostituzione ci interesse perché è la nostra condizione, il delitto perché è la nostra aspirazione”.
Flaiano da ultimo era diventat flaianeo - “Un volta il rimorso veniva dopo, adesso mi precede”.
Con molti sberleffi alla “vita sociale” romana: “C’erimo io, Jacovacci e Liliana….”. E una serie di lapidi. La prima,, 1959, che potrebbe essere indirizzata a Pasolini, molto cruda. Altre, cattive, non amichevoli, a Pasolini, qui nominato, a Moravia, e Arbasino. Altre invece ammirate per La Capria, Wilcock, e Arbasino.
Nella sezione “Lamenti e canzonette”, il “Rondò della stampa indiscreta”: “Il vero che diventa verosimile\ questo è il fine dell’imparzialità.\ Per ottenere un risultato simile,\ noi dobbiamo inventarne la metà”.
Una serie di “lettere” non inviate chiude la raccolta, nemmeno ispirate.Cesare Garboli in un’affettuosa dettagliata avvertenza, racconta un Flaiano attivissimo negli due anni dopo il primo infarto, nel marzo 1970. Che vole morire solo, nel residence “Tevere” a via Isonzo, dietro la via Po sede storica de “L’Espresso”, al quale collabora assiduo. E destinato a “vivere in morte”, come i tre Grandi del Novecento, Gadda, Debenedetti “esemplari inarrivabili”, o “supremi campioni come Delfini”.
Garboli ha curato la scelta, con tre raccolte minime, intitolate come Flaiano stesso prevedeva, con apposite e separate cartelline, “Autobiografia del blu di Prussia”, “Taccuino del marziano” e “La valigia delle Indie” – le altre cartelline hanno fatto libro a parte, “Ombre bianche” e “La solitudine del satiro”.
Ennio Flaiano, Autobiografia del blu di Prussia, Adelphi, pp. 177 € 12


giovedì 8 agosto 2019

Verde marcio - Appalti, fisco, abusi (156)

Le lucciole erano scomparse con Pasolini cinquant’anni fa. Poi sono rìtornate. E ora ci sono in città libellule e cicale. Ma la fine del mondo è sempre più vicina.
Un terzo dei gas serra è causato dall’agricoltura, in crescita esponenziale da tre decenni. E crescerà con la crescita del reddito diffusa nel globo.
L’inquinamento atmosferico è l’effetto della circolazione automobilistica. Un conto è l’auto per tutti per 400 milioni di persone, tra Europa e Stati Uniti, un altro per due o tre miliardi, col migliorato tenore di vita dei Bric, di Cina e India, del Sud-Est asiatico.
Si propaganda l’auto a batterie solari, che ingombra il doppio di una berlina di lusso equivalente, e costa 150 mila euro.
La macchina comoda, più larga, con più bagagliaio, più pesante, per la sicurezza naturalmente, che consuma tre e quattro volte il carburante di una vecchia berlina, ingombra (consuma spazio) il doppio e il triplo, e solleva più polveri.
Si magnifica l’auto elettrica per incentivare il rinnovo del parco macchine. Che elimina, si argomenta, le polveri sottili da combustibile esausto, mentre invece le accumula nei luoghi di produzione delle batterie, in quelli di produzione dell’energia elettrica, e  poi nello smaltimento delle batterie, una volta esauste. E non elimina quelle di attrito, viaggiando su gomma, su asfalto.
Il trasporto su gomma, anche elettrico, che l’ecologia preferisce al treno, creatore e stramoltiplicatore delle polveri sottili
I tanti prodotti bio strapieni di zuccheri, amidi, grassi
Le acque “minerali” – l’acqua potabile dev’essere “minerale”
Le plastiche per le “minerali”
Le plastiche biodegradabili
Il fotovoltaico
Le pale eoliche
L’industria delle fonti di energia rinnovabili, che l’utente paga a carissimo prezzo, massima inquinatrice della politica: un torta da 16 (sedici) miliardi di euro l’anno, pagata dagli utenti in bolletta come investimento di ricerca, a vantaggio di piccoli e micro produttori “amici degli amici” – circa 800 operatori.
Un’industria che inquina l’informazione
Si moltiplicano gli sciacquoni di origine californiana a doppia vaschetta, una per la pipì, una per la cacca. Per tacitare le coscienze e anzi renderle ecofriendly. Per nessun risparmio di acqua – un litro? L’acqua non si risparmia e si rigenera.

L’ecologia è il business del momento, con molti sovrapporezzi, e molti danni all’ambiente, per lucrare sulla buona volontà – attraverso il terrore: si fa un uso dell’ecologia come arma terroristica a fini di profitto.


Non ci resta che Dio

“Con l’eccezione di alcuni casi aberranti, l’uomo non inclina a Dio”. Colpa di Dio. Il bene, “tutto prova la sua insostenibilità; è una grande forza irreale, è il principio che è abortito in partenza”.
Cioran rifà le bucce a Dio. Ma più alla carne:, “La carne si estende sempre più come una cancrena alla superficie del globo”. Arrabbiato come al solito. Non salva i credenti, e nemmeno gli atei: “Si fanno di Dio la stessa idea dei credenti” – “dovrebbero essere meno orgogliosi”. Senza il rigore del ragionamento, come al solito, ma provando con l’irrisione.
Che fare? Niente, “rimetterci a un altro Creatore”. Alla fine, un atto di fede: “È facile passare dall’incredulità alla fede”. Non è vero, ma lui sì, avendo fatto senza soddisfazione il cammino inverso, per l’imprinting da vecchio credente: “L’inferno, è la preghiera inconcepibile”. Perché non ci resta che Dio – “Perdersi in Dio”, privilegio dei credenti. In fatto di sette e settatori, “il solo da cui ci ripugna separarci è questo demiurgo, al quale ci legano i mali stessi di cui ci pesa ch’egli sia la causa”. Anche perché “non serve a niente sostenere che non esiste, quando i nostri stupori quotidiani sono là per esigere la sua realtà e proclamarla”. Alla fine degli “strangolamenti” non ci resta che la preghiera: “Non c’è vera solitudine che là dove si sogna all’urgenza di una preghiera - di una preghiera posteriore a Dio e alla Fede stessa”.
Con un centinaio di “pensieri strangolati”, che hanno più cultori del “demiurgo”. Cose come:
“Si è finiti, si è morti viventi, non quando non si ama più, ma quando non si odia più. L'odio conserva” Che si leggono col punto interrogativo – anche come pointes lasciano perplessi.
Che cos'è un «contemporaneo»? Uno che ci piacerebbe ammazzare, senza sapere bene come”. “La raffinatezza è segno di vitalità deficiente, in arte, in amore e in tutto”. “L’intelligenza va avanti solo se ha la pazienza di girare in tondo, cioè di approfondire”. I “biglietti della fortuna” , queli che una volta il pappagallo pescava dalla cassettina alle fiere, che ora vengono con i biscottini finali al ristorante cinese.

Emil M. Cioran, Il cattivo demiurgo, Adelphi, pp. 162 € 12

mercoledì 7 agosto 2019

La Lega dei prefetti


La Lega delle Autonomie è il partito dei Prefetti. A lungo con Maroni e ora con Salvini. Al centro e in periferia, incidendo pesantemente sulle autonomie locali.
Un partito di potere. Ma di fatto a questo punto centralista, Il partito dei prefetti. Con l’abolizione delle province. Col dominio dell’Interno sulle autonomie locali.
Si può definire la Lega ex delle Autonomie un partito centralista anti-meridionale. Che ha reso automatico lo scioglimento dei consigli comunali del Sud, specie in Calabria e in Sicilia. Per le carriere delle prefetture. E per il disastro delle comunità meridionali: la disamministrazione dei tre commissari (tre, per comuni di due-tremila abitanti...) per due lunghi anni, con macchina di servizio e scorta, a costi abnormi per gli amministrati, che devono pagarli.
Salvini è senatore in Calabria – di cui non sa nulla e non si occupa - per aver monopolizzato il vecchio voto fascista, da partito dei Prefetti.

Fanfaneide

Spiega il fisico Zichichi a “la Nazione” come ottenne, da presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, il laboratorio di fisica delle particelle sotto il Gran Sasso: “Ci penso io”, disse Fanfani, in uno dei suoi, seppur brevi, governi. Si stava realizzando il traforo sotto il Gran Sasso per l’autostrada abruzzese, e Fanfani ottenne dalla ditta appaltatrice che facessero un po’ di gallerie in più “dove avremmo localizzato il centro”.
Fanfani, di cui nessuno parla, sarà stato l’uomo politico più produttivo della storia della Repubblica. Fino al voto ai diciottenni, e ai decreti delegati (le famiglie a scuola). E compresa la “piccola liberalizzazione” universitaria del Fanfani III, 21 luglio 1961, assortita del “presalario” universitario ai meno abbienti, del Fanfani IV, 14 febbraio 1963.

La serie di realizzazioni di Fanfani, che pure, nel complesso, ha governato poco, quattro anni e sei mesi, e a capo di governi quasi tutti di brevissima durata, è sorprendente, nell’Italia delle burocrazie. Questo sito ne ha tentato alcuni elenchi:
“Fanfani – È il grande rimosso della storia della Repubblica. Perché è quello che ha fatto di più – praticamente tutte le cose su cui la Repubblica ancora si regge. Fanfani è all’origine di tutto ciò che si è fatto nell’Italia repubblicana: la riforma agraria, il piano casa, la liberazione delle campagne dalla mezzadria, i piani verdi, che finanziano l’agricoltura con risultati ottimi, i rimboschimenti, le autostrade, la Rai, l’Eni, l’edilizia popolare, la scuola media unificata, superba istituzione, coi libri gratis, la refezione, il doposcuola e gli edifici scolastici, di cui metà degli ottomila Comuni d’Italia non disponeva, si andava a scuola dove capitava, il centrosinistra, il centrodestra, il quoziente minimo d’intelligenza per i diplomatici, che ne erano privi, la moratoria nucleare, la nazionalizzazione dell’elettricità, seppure a caro prezzo, le regioni, idem, la direttissima Roma-Firenze, col treno veloce, il referendum popolare, gli opposti estremismi, e i dossier, di cui montò il primo, lo scandalo Montesi, contro il venerabile Piccioni. Infine l’austerità, che dal 1974 ci governa, prontamente adottata da Berlinguer, e dal papa Polo VI alla finestra - “Affrontiamo l’austerità conanimo sereno””.
“Fanfani - Fu un innovatore in tutto, e sempre fu sconfitto dal suo partito, dai potentati Dc. Una volta gli fecero fare il governo per un solo giorno. Con più ragione fu avversato nel suo partito dopo il referendum: se ne liberarono labellandolo aspirante dittatore.
Questo in parte è vero: lui si dichiarava per la purezza della razza al tempo del Puzzone, mentre gli altri ghignavano in privato. E poi si sa che i brevilinei vanno veloci: anche Stalin era 1,60, Lenin, Napoleone”.

Montalbán non è Montalbano

“Carvalho si sveglia stanco di dormire”: è la chiave. Carvalho
nasce in questo primo racconto della serie come divertimento, per
“scommessa etilica”. Un racconto in folle, disinvolto e pieno di
parole, e di inverosimiglianze: luoghi e personaggi, Carvalho
compreso, che terrà banco per una lunga serie, sono finti. Solo
Barcellona sembra autentica, ancora non igienizzata per il turismo
– la “fritturina di pesce” è “eccessivamente infarinata e unta”,
Una brutta copia del suo ammiratore Montalbano. Tutto affettato,
una scena diversa a ogni capitoletto, un gioco impaziente. Alla fine
senza carattere – senza personaggi, nemmeno sorprese.
Manuel Vázquez Montalbán aveva altre ambizioni – come Camilleri. Per queste si era fatto pure un anno nelle carceri franchiste. Nel 1975, mentre Franco moriva, se ne è uscito per riposo col suo strano detective, che poi lo ha incastrato, come Camilleri. E qui finiscono i richiami. Si legge Montalbán pensando a Montalbano, inevitabile, ma non hanno nulla in comune. Camilleri ne è complice giusto da “vecchio comunista” e nient’altro.
Manuel Vázquez Montalbán, Tatuaggio, Feltrinelli, p. 181 € 9,90 (in panino con altro titolo Feltrinelli)


martedì 6 agosto 2019

Ombre - 473

D’estate India e Cina ribollono, minacciando guerre. La globalizzazione si dà per scontata, il motore della felicità perpetua, mentre ha fondamenta di argilla-cedevoli – la storia non c’è per niente.

Tre articoli di tre giornali di tre diversi gruppi editoriali dicono le stesse cose di Alberto Sitoni, il regista dei “Montalbano” defunto, nello stesso ordine. Il testo dell’agenzia Ansa probabilmente, cioè il comunicato dell’ufficio stampa Rai. Non un accertamento nemmeno minimo, una telefonata, la lettura di wikipedia. Dire per esempio che è il regista anche di una “Monaca di Monza”, di un “Pinocchio” con Bob Hoskins. Oltre ad avere inventato la “Sicilia” di Camilleri-Montalbano.

Tutto funziona negli Usa, paghe in aumento, disoccupazione al minimo record del 4 per cento, utili e mercati ai massimi, tassi ancora in diminuzione, il più lungo ciclo ininterrotto di crescita della storia, 110 o 120 mesi, ma Wall Street da una settimana vende e svende. Si dice per i nuovi dazi minacciati da Trump – prima si era detto per il taglio Fed ai tassi, “troppo poco” (in una situazione di boom perfino eccessivo…, quasi una bolla). Ma sono fra poco tre anni che Trump minaccia “nuovi dazi”, senza conseguenze. È difficile dare una ragione ai “mercati”: le Borse sono strumenti di pochi.

Va a processo il presidente della Regione Calabria Oliverio per aver finanziato con 100 mila euro della Regione il talk show di Paolo Mieli al festival di Spoleto 2018, in cui ha avuto un rapido “passaggio”, due minuti in immagine. Tutto rigorosamente Pd, il talk-show, la Hdrà Talk, società produttrice intestata a Mario Luchetti “allo stesso Mieli riconducibile”, Mieli, Oliverio, la Rai Tre, destinazione promessa dell’intervistina. Tra Raffaella Carrà e Ennio Fantastichini, valeva la spesa?   

Il patrocinio di Oliverio a Mieli includeva l’acquisto di 500 copie dell’ultimo libro dello stesso. Ma il rinvio a processo non specifica se con i 100 mila euro ora contestati o in aggiunta.

Cannonate in batteria ogni giorno del “Corriere della sera” contro Salvini. Poi sabato Pagnoncelli pubblica il sondaggio settimanale che porta Salvini sempre più su.  

Ivan Scalfarotto, che una volta, pochi anni fa, voleva diventare segretario del Pd, non va a trovare la vedova del Carabiniere assassinato, a un mese dal matrimonio, va in carcere a consolare i due assassini. In crisi di astinenza da visibilità, ovvio. Ma questo dice lo stato del Pd: niente oltre la visibilità.

Insistono alcune firme del “Corriere della sera”, forse alla rincorsa della scatenata “la Repubblica”, sulle colpe dei Carabinieri nell’assassinio del brigadiere: che ci faceva lì, perché non aveva la pistola (perché doveva averla?), eccetera. Di uno – un carabiniere che nel tempo libero faceva volontariato, per i senzatetto - assassinato con undici coltellate. Firme di una cronaca, la giudiziaria, che vergine non è per definizione.

Si moltiplicano sui giornali le false piste sull’assassinio del vice-brigadiere dei Carabinieri a Trastevere: perché i Carabinieri non erano armati? perché erano fuori zona? Tutte sciocchezze: i Carabinieri non vanno di solito armati, e non ci sono “zone di indagine” – recinzioni, confini. Giusto per fare scandalismo. Dalla parte degli avvocati.

Muore Paolicchi, che è stato a lungo amministratore delegato della Rai, muore quando si celebrano con paginoni decessi di figure minori della Rai, e non ha un rigo di cronaca. Non per distrazione, perché era del partito Socialista. Vige sempre nei media la “velina” compromissoria. 

Non bastano le indiscrezioni, “la Repubblica” mette sul tavolo un carico da undici: le testimonianze dei pusherIncredibile ma vero: i grossi calibri della cronaca hanno scovato e proposto la verità dei pusher, Angeli, Tonacci e Mensurati. “Testimonianze” raccolte senza contraddittorio né cautela. Il giornale, si dirà, dello spaccio libero?
C’è sempre una nicchia, la storia è accogliente, ma i De Benedetti tra i pusher?

Muoiono i delfini nel Tirreno toscano da Orbetello a Viareggio, compresa l’isola d’Elba: 25 sono finiti in spiaggia nelle ultime settimane, a motivo dell’inquinamento. Ma questo non si dice: le spiagge da Orbetello a Viareggio e oltre sono bandiere blu: vecchio riflesso condizionato di Legambiente, anche se la costa toscana ora vota a destra.

Strage di delfini nel primo trimestre del 2019 nel mare della Costa Azzurra francese, soffocati dalla pesca a strascico. Che pure la Ue proibisce. Di questo non abbiamo avuto nemmeno notizia.

Molti soldi e molti reati, per una sorta di presunzione d’impunità, nell’agonia de “l’Unità”, il giornale ex del Pci. Aumenti di capitale finti. Creditori privilegiati a dispetto di altri. Moltiplicazione dei debiti – a fronte di crediti inesigibili. Con pagamento a carico del governo, 107 milioni di euro, grazie a una leggina di Renzi che ha sfilato il Pd dalla responsabilità in solido. Insomma, non solo i soliti imbrogli. Ma sono cosa locale: il processo si fa a Pisa, e non se ne parla fuori – anche a Pisa se ne sa poco.

Il miraggio di Dante islamico

Si ripropone la stessa traduzione di Asìn Palacios del 1993, con la stessa introduzione di Carlo Ossola già riproposta dal Saggiatore-Net dieci anni fa. Secondo Umberto Eco, una della sue ultime “Bustine di Minerva” sull’“Espresso”, una riedizione opportuna: “Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati”.
Senz’altro una bella lettura, piena di cose. Ma non, come si era detto, di una specie di Dante plagiario. Mentre è altrettanto vero che “viaggi nell’aldilà” usavano nei secoli ex bui anche nella  tradizione cristiana – qualcuno scovato dallo stesso Eco, che li ricorda nella “Bustina”. Ora si tende a dire che anche questi erano copiati dai musulmani, ma questo Asín Palacios non dice, sapendo che il contrario può essere vero. I due mondi non vivevano separati, ecco, questo sì.
In realtà Asìn Palacios non identifica “analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica”, come Eco comincia col dire – né “è ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia”, come dice il sommario. “Influenza” è parola ambigua: Dante sapeva di molte cose, quante fonti non ha? Ma faceva le differenze. Le faceva nette, era uomo di dottrina, e di parte. Soprattutto metteva da parte la conoscenza e la carità di fronte a un nemico politico, uno armato – non si può dire, è inutile, a uno che ti taglia la testa, ti disintegra con una bomba, ti spara col kalashnikov, “siamo fratelli”, “ci conosciamo”.
Eco invita  “a non dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale”. Mica per colpa di Dante. Il problema non sono le fonti arabe, o catare, o ellenistiche, di Dante, il problema è usare queste fonti per dire che l’islam non ci è nemico, quando proclama la guerra santa. Asín Palacios è stato rimesso in circolo negli anni 1990 per questo. E ha promosso così tanti studi – Maria Corti soprattutto – in questa ottica.
Lo stesso Eco purtroppo si colloca in quest’alveo: “Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Dante aveva copiato, ma era un vezzo, un peccato veniale: “Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale”.
Questo assolutamente non dice il prelato spagnolo, filologo arabista. Che non scopriva nulla e non lo pretendeva, solo sapeva di più della cultura araba e portava altri esempi – non, per esempio, “Il libro della Scala di Maometto”, riscoperto successivamente.
Il suo titolo era onesto: “La escatologìa musulmana en la Divina Comedia”. L’uso che ne fece strumentale, da gesuita di maniera. Si volle Dante improvvisamente islamico per il sesto centenario, nel 1921, a ridosso del revival ispanoislamista del primo Novecento, rispolverando la “Escatologia”, pubblicata originariamente nel 1919. Una novità tale da offuscare ogni altro contributo alla ricorrenza, di cui finì per monopolizzare l’attenzione, in Italia e fuori. Anche se completamente “fuori tema”.
Asín Palacios lega il viaggio di Dante a quelli oltreterreni di Maometto, i mi’rāg, un genere di favolello popolare di cui riporta varie redazioni – hadīţ, detti - sebbene tutte apocrife. E alle dottrine neoplatoniche e mistiche del filosofo mussulmano Ibn Masarra, il fondatore della “filosofia ispanomussulmana”, di cui il gesuita egli era lo studioso. Già nei suoi lavori su Masarra Asín Palacios aveva sottolineato, dice qui, “la stretta relazione di somiglianza” dell’ascesa di Dante e Beatrice nel Paradiso con quella di un filosofo e di un mistico descritta da un discepolo del filosofo, il sufī Ibn Arabi, in un’opera intitolata “Futūhāt”.
Asín Palacios trascrive vari hadīţ dei mi’rāğ di Maometto, tutti svelti, alcuni di poche righe, con l’arcangelo Gabriele. In uno di questi Maometto incontra, dopo gli usurai, “alcune donne appese per i capelli”: sono “le donne che non nascosero il loro viso e la loro chioma agli sguardi degli estranei”. Ci sono anche i “bevitori di vino” e le “cantanti”, e quelli che non fanno le “abluzioni rituali”. Il trattato fu corredato nel 1924 da un volume di “Storia e critica di una polemica”, di polemiche e contro polemiche, che sarà aggiornato nel 1943.
Un’opera e un’operazione col sapore di altri tempi: il religioso arabista, l’autoelogio, la patria comunque, e il duca d’Alba. È “per generosa iniziativa dell’eccellentissimo duca d’Alba” che il libro è tradotto in inglese, per diffonderne il messaggio nel grande mondo angloamericano – il XVIImo duca d’Alba era mezzo inglese, Jacobo Fitz-James Stuart y Falcò (il XVIIImo duca, la sua figlia Cayetana, si è risposata sette o otto anni fa, a 85 anni, con un giovanotto, una maschera irrigidita di plastica, dopo essere stata a lungo famosa come suocera del torero Ordoñez). L’appendice di polemiche e contropolemiche registra 50 favorevoli, contrari 20, di cui 15 italiani, incerti 3 (tra cui un P. E. Pavolini - Paolo Emilio, il dotto poeta filologo padre del fascistissimo Alessandro). I favorevoli Asίn Palacios dice “una settantina”, alcuni li conta doppi o tripli. L’arabista Giuseppe Gabrieli è censito con cinque interventi, di cui tre favorevoli e due contrari. Come allo stadio: l’accoglienza critica è quella dei tifosi alla partita.
Il libro è ponderoso, ma non dimostra niente. I mi’rāğ, ascesi – il miraggio è originariamente ascesi, salita dell’anima al cielo - nell’oltretomba sono tutti più o meno a somiglianza di quello di Dante, cioè sono uno schema ricorrente. Non c’è naturalmente, non ci può essere, raffronto poetico, di linguaggio o anche soltanto di personaggi, eventi, “materiali”. Ibn Arabi, il più  analizzato da Asín Palacios, l’islamista Gianroberto Scarcia dice “estatico rappresentante massimo dell’«anacreontismo mistico»”. Anche se si deve a lui in particolare, più articolata tra i tanti, “la dottrina di un Dio «femminile», e l’idea della donna come rappresentazione della Bellezza divina” (introduzione a “Poesia dell’islam”, Sellerio, 2004). Quanto al neoplatonismo, se ne è ritrovato talmente tanto nella patristica, smaltita la sbornia scolastica, molto prima del concilio di Firenze e di Gemisto Pletone, da riempire intere filosofie ispanomussulmane. Il Mediterraneo, nell’avvertenza non perenta di Pirenne, era unitario. Lo è stato fino all’insorgenza islamoturca, parallela allo spostamento del baricentro europeo al Nord con la Riforma. Senza contare che, quando se ne farà la storia, il regno di Granada alle cui fonti Asίn Palacios attinge fu un mondo a parte nel mondo islamico, se non già una sorta di Atlantide.
Carlo Ossola, in una densissima prefazione (settanta note per tredici paginette di testo ) esalta Asίn Palacios (e Maria Corti) smontandolo. Asίn Palacios è confermato dal “Libro della Scala”, spiega, che però fa capo alla Bibbia, sulla quale si è innestato un vasto immaginario medievale. Fra le “simmetrie di struttura… vivacemente segnalate da Asίn Palacios e accolte da Maria Corti”, della “Commedia” coi mi’rāğ, manca “il lascito funzionale più consistente”, il contrappasso, che caratterizza la “Commedia” e che Dante menziona proprio al canto di Maometto e Alì: “La dichiarazione dantesca del contrappasso (“Così s’osserva in me lo contrappasso) è hapax che sigilla proprio il canto XXVII dell’Inferno, ove si s’accampano appunto le figure di Maometto e di 'Alī”. Ossola non si lascia sfuggire una bella trovata - è autore anche di un “Dante, poeta del Novecento” – ma con juicio.
Miguel Asín Palacios, Dante e l’islam, Luni, pp. 740 € 32


lunedì 5 agosto 2019

Problemi di base di guerra freddi - 500

spock


Gli Usa hanno imposto le sanzioni alla Russia perché la Russia aveva falsato il voto in America. Poi la cosa si è dimostrata falsa, ma le sanzioni restano: gli Usa se ne sono dimenticati?

E l’Ucraina, da che cosa dobbiamo difenderla: dalla Russia? Dai ladroni ucraini? Dagli ucraini?

L’Ucraina, che è mezza russa, deve cancellare i russi, il russo, e la chiesa russa: per la purezza, etnica?

O per la democrazia, compreso il colpo di  Stato democratico del 2014?

Le sanzioni americane sono contro la Russia o contro l’Europa?

E l’Ucraina ucrainizzata?

Dice la Crimea: gli affaristi ucraini volevano cacciare i russi, e i russi si sono presi la Crimea. Ma perché la Crimea ha plebiscitato la Russia e nessuno se ne è pentito?

L’autodeterminazione dei popoli si ferma a Kiev?


spock@antiit.eu

Primo Levi si scortica vivo

Settanta poesie, sotto un titolo derivato da Coleridge, “Since then, at an uncertain hour”, dopo di allora, ad ora incerta, sul passato che ritorna indelebile. Più una ventina pubblicati su “La Stampa”, tra il settembre 1984 e il gennaio 1987. Variate, qualcuna anche distesa. E le traduzioni: da Heine, dal “Buch der Lieder”, con “L’envoi” di Kipling, l’addio, e la ballata scozzese “Sir Patrick Spense”, su una partenza e un ritorno. Il titolo è di un verso, ma Levi lo riprende nel breve scritto introduttivo. E lo spiega: delle “cose come le nuvole”, cioè “difficili da spiegare”.
“Tu forse non l’avevi mai pensato,\ Ma il sole sorge pure a Crescenzago”, sono i primi versi della raccolta. Un Primo Levi ilare, quale era di carattere – “napoletaano” nel seguito: “A Crescenzago ci sta una finestra,\ E dietro una ragazza si scolora,\ Ha sempre l’ago e il filo nella destra,\ Cuce e rammenda e guarda sempre l’ora….” Perfino spensierato nelle traduzioni. Anche in rima  (in –uzzo…), e in ottonari, alla Vispa Teresa.
Nel 1943, prima della persecuzione, Primo Levi è un altro: lettore di Rabelais, amante degli spazi aperti, socievole, amichevole. Subito poi si passa a fine 1945, alla liberazione da sopravvissuto e allo strazio della memoria, in una sinistra rima baciata: “Lunga la schiera nei grigi mattini,\ Fuma la Buna dai mille camini”. E appresso, il 10 gennaio 1946, sotto il titolo “Shemà”, l’avvio della preghiera serale degli ebrei pii, il passo celebre, che lo segnerà: “Considerate se questo è un uomo,\ Che lavora nel fango\ Che non conosce pace\ Che lotta per mezzo pane\ Che muore per un sì o per un  no”.
È un poeta cauto, Primo Levi, “in media non più di una volta l’anno”, ma costante, quasi obbligato. Forse per il dna: la poesia “è nata certamente prima della prosa”, premette a mo’ di scusa per avere osato, “a quanto pare, è inscritta nel nostro patrimonio genetico”. Con una concezione della poesia come lievito, o espressione “naturale” – innaturale, per Levi, rispetto alla ragione dominante. Sicuramente come condanna: condanna della storia, per un insopprimibile, malgrado il forte civismo, rigurgito di rifiuto. Con molti apologhi o parabole, in cui a parlare sono animali (elefante, corvo, formiche, talpa, dromedario, topo, chiocciola), alberi (ippocastano, agave), il ponte, la polvere, la partita a scacchi. Di stratificata cultura, con elementi familiari della tradizione ebraica, molto Dante, molto Novecento. Di malinconia sommessa, dietro il garbo. Mesta anche la celebrazione, fra tanto ripudio letterario nella tradizione ebraica, degli “Ostjuden”, gli ebrei orientali, poveri e ignoranti – una sorta di rivendicazione totale, da assimilato respinto nell’ebraismo (insensibile al sionismo, anche per le forme che ha preso in Israele, Levi si è fatto un dovere, “dopo”, di recuperare la storia e la religione nelle quali non era cresciuto). Non liriche, di un poeta che parla con se stesso, ma riflessioni e moniti.
Il pessimismo è anche degli apologhi, di animali o cose, di un pessimismo radicale, seppure rassegnato, non aggressivo – “e i cieli si convolvono perpetuamente invano” (“Stelle nere”). Cita Rabelais, “A vous parle, compaings de galle”, agli ebbri “di parole,\ Parole-spada e parole-veleno \ Parole-chiave e grimaldello,\ Parole-sale, maschera e nepente”. Ma in orizzonte chiuso: “Il luogo dove andiamo è silenzioso\ o sordo. È il limbo dei soli e dei sordi”. Recupera Catullo, “Possano i soli cadere e tornare…”, ma a fine del “Tramonto di Fossoli”, il primo campo di concentramento. Il canto è del corvo. Lo irritano pure i vecchi partigiani, “diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi”, e nemici di che?, “ognuno è nemico di ognuno”.
Un grido: “Ma che cosa pretendete da noi?” Ma un corpo a corpo con se stesso, in realtà, specie nelle poesie degli ultimi mesi. Con gli elementi, con la storia, ma sempre con se stesso. Mai disteso, si direbbe col “male di vivere” - anche se dice in una lettera coeva di non apprezzare, se non disprezzare, Pavese, l’opera e l’uomo. Con un conto sempre aperto. Con i viventi e con i morti. Succede a Primo Levi come a tutti i salvati, di restare prigionieri della memoria: “Era in fuga, e nessuno lo inseguiva”, in “Fuga”. E nel successivo “Superstite”, l’impossibiità di esserlo, pur senza colpa. Una costante, pagina per pagina, un’ossessione. La persecuzione dell’elefante – la memoria dell’elefante, ma senza sorriso, “per noi quando si cade non c’è salvezza”. E: “l’avvoltoio che mi rode ogni sera\ ha il volto di ognuno”. Contro Carducci, ma solo apparentemente: “Inaudita violenza\ la violenza di farmi nonviolento”.
Cesare Segre, nella lettura che accompagna la raccolta, rileva “un di più” di disperanza nell’elemento parenetico”, esortativo, ammonitorio (retorico): “Levi, così sobrio nel giudicare e restio a parlare, in  queste poesie si spinge più avanti”.Un di più rispetto alle poesie anteposte a “Se questo è un uomo” e a “La tregua”, e all’altra riportata come canzone di un Martin Fontasch, in “Se non ora quando”. Di un pessimismo più che leopardiano, avvolto nel dolore. Nei racconti oltre che nelle poesie. Segre ne scova in tutta l’opera: “Più volte Levi arieggia con terribile scherzo leggi fisiche o principi filosofici, per esprimere questa terribile onnipresenza del dolore”.Tanto più che “oggi poi la scienza”, nella quale Levi era versato, “ci sottopone misure temporali immense, cataclismi cosmici che nessun mito antico osò concepire” – qui riflessi in “Le stelle nere” e in “Nel principio”.
Sono terribili i “14 versi” di auguri alla moglie Lucia Morpurgo, cui poi la raccolta sarà dedicata, per il sessantesimo compleanno il 12 luglio 1980: “Abbi pazienza, mia donna impaziente,\ Tu macinata, macerata, scorticata,\ Che tu stessa ti scortichi un poco ogni giorno,\ Perché la carne nuda ti faccia più male”. Una condizione ipocondriaca che dovrà quanto alla convivenza? Con un “Autobiografia” molto tiresiano, nel senso di Camilleri al teatro Greco di Siracusa - composto peraltro, nel 1980, nel nome di Empedocle a Agrigento.
Di tutt’altro tono, e di qualità, le “traduzioni”: da Heine, da Kipling (“L’envoi”), e la ballata scozzese”Sir Patrick Spens – più due, da Rilke e da von Berggruen, incluse tra i versi propri. Fortini le dice “versioni da testi che non esistono”, se non per “alcune strutture,  sequenze, architetture della sintassi, figure”. Ma la resa è fortemente coinvolgente, e in tono con gli autori.
È la riedizione della raccolta rifatta da Garzanti, il primo editore, nel 1990, dopo la morte di Levi. Che rispetto all’edizione originaria, del 1984, comprende quindi le composizioni successive, dal settembre 1984 al gennaio 1987. Rimpolpata come nel 1990 con le letture critiche di Segre, Fortini e Raboni. 

Primo Levi, Ad ora incerta, Garzanti, pp. 145 € 15


domenica 4 agosto 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (399)

Giuseppe Leuzzi

La Lombardia come paradiso terrestre – la stessa che ora fugge venerdì a pranzo, in Provenza e in Riviera, in Toscana, a Panarea o Pantelleria. Così la vedeva, senza dirlo, Stendhal nella sua stagione felice. Così la dice Soldati in “La messa dei villeggianti”. Il Ticino, l’Ossola e la Valsesia, ora ricordate solo per i terroristi, e i laghi, Maggiore, d’Orta, etc., servirono a Butler per “Erewhon”, luoghi della utopia.
Anche questo fa la differenza.

Raccontando a suo modo “I promessi sposi” per “La Lettura” domenica scorsa, Francesco Piccolo ci trova molta camorra. Nel modo di essere e di parlare di don Rodrigo, e nel suo rapporto con l’Innominato: “Dalle prime pagine si deduce subito che oggi don Rodrigo sarebbe un camorrista - e la scena dei bravi che fermano e minacciano don Abbondio sembra essere una scena della serie tv Gomorra”.
Era così: i “bravi” erano decine di migliaia a metà Seicento, e infestavano i lombardi di soprusi di ogni genere.

Nello scandalo delle ammissioni truccate alle migliori università americane, si è scoperto che a Chicago molte famiglie ricche davano i figli in affido a famiglie povere al momento dell’iscrizione, per farli rientrare nelle quote riservate. Ovunque era diffusa la pratica di iscrivere i figli ai test di ammissione per disabili, anche solo per dislessia o altra “disabilità invisibile” (deficit di attenzione, iperattività), che hanno più tempo e prove  semplificate. Napoli perde anche questo primato.

Il Gattopardo antisemita
Carlo Ginzburg premiato a Santa Maria Belice, luogo di Tomasi di Lampedusa, col premio intestato allautore del “Gattopardo”, per l’ultimo suo libro, “Nondimanco”, nel discorso celebrativo taccia  Tomasi di antisemitismo. “Nelle lettere ai cugini, riporta alcune agghiaccianti stereotipi antisemiti”, dice. Inoltre, accusa, ebbe e mantenne un rapporto stretto col giurista Giuseppe Maggiore, di cui utilizzò tra le fonti del “Gattopardo” il romanzo “Sette e mezzo”, sulla rivolta a Palermo nel 1866, autore a suo tempo di “un saggio spregevole: «Razza e fascismo»”.
Maggiore fu uno dei tanti professori universitari che considerarono peccato veniale il sostegno al fascismo e si riciclarono agevolmente nella Repubblica. Lui però con più difficoltà: fu reintegrato solo nel 1952, due anni prima della morte, a 72 anni. Era stato l’ultimo presidente, nei primi mesi del 1943, dell’Istituto Nazionale di Cultura Fascista. Rettore di Palermo nel 1938-39. Collaboratore de “La difesa della razza”, uno dei 360 professori universitari che nel 1938 sottoscrissero il “Manifesto della razza”, in preparazione alle leggi antiebraiche. Allievo di Croce, poi di Gentile, magistrato, Procuratore del Re a Palermo nel 1922, dal 1924 professore universitario, prima a Siena poi a Palermo. Fu reintegrato nel 1952 quale fondatore della “scuola penalistica palermitana”. I familiari istituirono un borsa di studio a suo nome.
Nel libro premiato col Tomasi di Lampedusa, una raccolta di saggi su Machiavelli, sulle sue radici aristotelico-scolastiche e sulla sua ricezione nel Seicento (Pascal, Galileo, Campanella), Ginzburg aveva aggiunto un’appendice complice, perfino affettuosa, sul “Gattopardo”. In omaggio a Francesco Orlando: l’italianista che era stato allievo di Tomasi di Lampedusa aveva ipotizzato Machiavelli come probabile radice del messaggio gattopardesco, “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. Ginzburg ne dava le coordinate, nei “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, I, XXV, mostrando i tanti passi in cui Lampedusa si rifà a Machiavelli.
Un volta in Sicilia, ha cambiato registro: l’isola non si ama.

La rivincita del Sud, letteraria
“Di solito si sente dire che i romanzi italiani che gli stranieri leggono più volentieri sono quelli d’ambiente molto caratterizzati localmente, specialmente d’ambiente meridionale” - Italo Calvino. “Tradurre è il vero modo di leggere un testo”, una conferenza del 1982. Uno pensa a Sciascia, “Ferrante”, Camilleri. Ma Calvino non è d’accordo: “Credo può darsi che questo sia stato vero ma non lo è più oggi”, anni 1980.
Calvino aveva abbandonato il primitivo rifiuto, 1956, del “localismo, “regionalismo”, provincialismo e della “tradizione dialettale”, contro Verga e gli epigoni, con la scoperta qualche anno dopo del mondo delle fiabe, localissimo. Ma non aveva rinunciato al pregiudizio – “il romanzo non può essere geografico”. Per due motivi: “Primo, perché un romanzo locale implica un insieme di conoscenze dettagliate che il lettore straniero non sempre può captare, e secondo perché una certa immagine dell’Italia come paese «esotico»  è ormai lontana dalla realtà e dagli interessi del pubblico”.
Un ragionamento evidentemente sbagliato. Come se non si leggessero con interesse i romanzi “inglesi”, anche non gialli, o americani del Sud, o della California, della California meridionale e di quella settentrionale, come una volta del New England, e ora di Brooklyn, anche non ebraici – o di “Macondo”, o della “contea di Yoknapatawpha”. O come se uno di Montebelluna dovesse sapere  di più della Calabria, o della stessa Roma, di uno della Cornovaglia. In più, non c’è la domanda di nipoti e bisnipoti degli emigrati, curiosi di sapere, specie quelli del Nord America, i meglio integrati, con le scuole cioè e le professioni, e del Centro Europa?

Le migrazioni hanno un senso
Pasquale Villari, che più non si ricorda, fu autore nel 1862, subito dopo l’unità, di “Lettere meridionali” che ne rilevavano i guasti. E a fine secolo di “Scritti sull’emigrazione” che ancora oggi si rileggono con interesse. A lui Pascoli, fra i tanti, dedicava un panegirico in nota ai “Nuovi poemetti” di Castelvecchio: “Un gran vecchio”. E: “Quanto tempo è che egli segna la via, e indica il male e mostra i rimedi! Di lui si può ripetere ciò che di Mazzini disse Garibaldi: quando tutti dormivano, egli solo vegliava. Il gran vecchio che parla alto nel silenzio di tutti”.
Villari analizzava le cause dell’emigrazione di massa, dal Nord e dal Sud dell’Italia. E indagava sui problemi del ritorno. Sull’incapacità dell’emigrato che fosse riuscito a risparmiare, di mettere a frutto il suo piccolo capitale. Il motivo trovava semplice: l’ignoranza. “Il suo desiderio di possedere la terra è così ardente, così febbrile; la fiducia che egli ha di poterla fecondare con le sue braccia è tale , che la paga il doppio, più spesso il triplo del suo valore”. Al vecchio padrone, dal quale era fuggito.
Villari ne faceva una colpa al villico, non al Sud: “Questo è un fatto generale, notissimo, che segue su larga scala così nel Nord come nel Sud”. Ma al Sud la pratica durava ancora un secolo dopo, come testimonia Carmine Abate in tanti suoi racconti del marchesato di Crotone, e nello studio “I Germanesi”, sui migranti di ritorno dalla Germania.
Che fare
In uno degli scritti, “L' emigrazione italiana giudicata da un cittadino americano”, Villari mostrava come si affrontavano allora i problemi, pur in presenza di un‘ondata immigratoria molto più massiccia di quella attuale in Europa. Anche se controllata e controllabile, per i visti d’ingresso necessari – l’Atlantico è largo. Ma non si faceva finta di nulla, una volta che “le braccia” erano assicurate ai campi o alle fabbriche.
“Il problema della emigrazione, specie della nostra emigrazione meridionale negli Stati Uniti d'America, che va così vertiginosamente crescendo, comincia a richiamare l’attenzione di tutti, ad essere studiato sotto i suoi molteplici aspetti. Né solo in Italia, ma anche in America. Se infatti a noi importa assai conoscere quali possano essere fra di noi le possibili conseguenze di questo strano movimento delle popolazioni agricole del Mezzogiorno, che abbandonano in massa il loro paese nativo, e lasciano i campi senza braccia per coltivarli, un altro e non meno grave problema si presenta agli Americani. Quali saranno cioè fra loro le possibili conseguenze di questa crescente immigrazione? Una volta immigravano principalmente popolazioni della Germania, della Scandinavia, della Gran Bretagna, che erano omogenee ed assai facilmente venivano assimilate. Oggi la immigrazione non solo è stranamente cresciuta, ma si compone in prevalenza di sangue latino, sopra tutto d'Italiani del Sud. Quali saranno le conseguenze di questa larga infusione di sangue eterogeneo in un paese che ha già nel suo seno da nove a dieci milioni di negri, che non potrà mai interamente assimilare? Per rispondere ad una tale domanda, dicono gli Americani, è necessario, innanzi tutto, sapere che cosa veramente sono questi uomini che continuamente a diecine di migliaia sbarcano a Nuova York. E però la Confederazione inviava quest' anno una Commissione a studiare il problema in Italia. Ed oltre di ciò anche alcuni privati si mossero e vennero fra di noi allo stesso fine. Nello scorso maggio io seppi che una Rivista filantropica americana (Charities) aveva mandato un suo redattore nell’Italia meridionale a fare le stesse indagini. E ciò anche con lo scopo di meglio conoscere che cosa poteva utilmente farsi per aiutare materialmente e moralmente gl’Italiani arrivati in America.
New York italianizzata
Un amico, che ha grande esperienza della nostra emigrazione negli Stati Uniti, mi scrive: “Vedo con piacere che finalmente in Italia vi occupate del vasto problema della emigrazione. Mi sembra però che lo esaminiate sotto l’aspetto economico, trascurando troppo il lato morale della questione, che è gravissimo. Se Voi pensate che nella sola Nuova York sono agglomerati più di 400.000 Italiani, gran parte dei quali contadini del Mezzogiorno, che vivono insieme, separati dal resto della popolazione americana, voi capirete facilmente che qui si forma un mondo, una società sui generis, che merita di essere studiata. Anche le altre centinaia di migliaia che arrivano ogni anno a Nuova York, e si diffondono negli Stati Uniti, sono in maggioranza contadini del Mezzogiorno; vivono a gruppi, e fino a che non riescono, dopo due o tre generazioni, ad essere americanizzati, formano più o meno parte di quella stessa società. Bisogna tener presente che questo nostro emigrato, quando sbarca negli Stati Uniti, è generalmente un uomo robusto, lavoratore, affezionato alla famiglia ed al suo paese, dotato di una certa bontà elementare, soggetto però a scatti impetuosi di gelosia o d’ira, che possono facilmente condurlo a delitti di sangue. Ma, quello che soprattutto bisogna tener presente, egli è privo di ogni vera istruzione, di ogni educazione, di ogni saldo principio, che possa difenderlo dall’azione corruttrice del nuovo ambiente in cui si troverà.
I compari e lo sfruttamento
Quando una volta s'è imbarcato, tutti i consigli che ha ricevuti in Italia, tutti quelli che può ricevere sul battello, per metterlo in guardia contro i pericoli cui va incontro, contro le persone che possono ingannarlo, non valgono a nulla. Egli ha già deciso a chi si deve rivolgere, appena arrivato a Nuova York. Sarà il parente, l’amico, sopra tutto il banchiere compaesano, che egli preferirà al Banco di Napoli. Per esso, mediante retribuzione, avranno già fatto propaganda, nel paese stesso dell’emigrato, il prete, il segretario comunale, il segretario della Camera di lavoro, un altro agente qualunque. Anche le associazioni, fondate a suo benefìzio, in Italia o fuori, non possono far molto per lui. Appena sbarcato, l’emigrato è circondato da gente che tenta sfruttarlo in tutti i modi”.

leuzzi@antiit.eu