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sabato 23 aprile 2016

Ombre - 313


“Lo stile maschile riporta in auge normalità e semplicità”, promette “Io Donna”: blouson Armani € 1.100, polo Paul Smith € 550, T shirt senza marchio € 132, camicia in popeline di cotone Hermès,  camicia in seta e pantaloni Prada non hanno prezzo

Vanno tutti a Londra da qualche tempo: Boschi, Di Maio, chi capita.  Per “incontrare la City”, he non s’incontra, è una piovra, e per entrare ai Comuni – come qualsiasi comune cittadino curioso. A carico dello Stato, accampando doveri di rappresentanza istituzionali – sono tutti presidenti o vice di qualche commissione.

Ma c’è di peggio: i presidenti di qualcosa e i vice presidenti vanno a Londra, o a Parigi, o a New York, per “uscire sui giornali”: i giornali infatti mobilitano i corrispondenti per l’evento, e anzi mandano inviati al seguito. A carico dello Stato?

Fare il giornalista per seguire Di Maio in gita a Londra? Devono essere gravi le colpe del giornalismo per punirlo così. Duramente.

Per ogni euro di credito incagliato, le quattro banche fallite, e quelle in crisi come il Monte dei Paschi, si calcola ora che potevano recueperare un cinque per cento in più: tra i 20 e i 25 centesimi, e non i 17.35 calcolati a novembre. Si rifanno i calcoli sulla base dei dati delle nuove gestioni delle banche fallite. Ma allora il conteggio delle sofferenze, “che è costato all’Italia dieci miliardi”, secondo Federico Fubini e la Banca d’Italia, fu fatto da valutatori europei e dalla stessa Banca d’Italia, dalla gestione commissariale. Non c’è difesa?

Outing di Fausto Bertinotti in Comunione e Liberazione. Per carità, le conversioni ci sono sempre state, specie in limine. Ma allora: aridatece la religione? O quantomeno la compagnia delle Opere.

Serie incalcolabile di errori dell’arbitro Jon (Jonathan) Moss nella partita Leicester-West Ham. Tutti gravi e inspiegabili. Ma tutti indirizzati a un pareggio. Impossibile non credere che avesse scommesso sul pareggio, molto ben pagato data la previa performance del Leicester. Ma l’Inghilterra gli dà ragione: siamo inglesi, non siamo corrotti.

Celia Luca Bottura (“Rosiconi”) sul “Corriere della sera: “Dopo l’indagine su Potenza, nuovi guai per il vicepresidente di Confindustria, Lo Bello: pare che tempo fa abbia regalato un rigore alla Juve”. I due Lo Bello arbitri, Concetto e Rosario, padre e figlio, erano in effetti anti-Juve professi. Concetto, milanista, e poi deputato Dc, si vantava a Montecitorio di aver “fottuto” di Agnelli anche la moglie. Il giudice italico è equanime.

Il papa ridà la Comunione ai divorziati, pronto Berlusconi si presenta. Alla Fiera del Mobile, che non si faccia che non si vede.

“Trivele, ha votato il 34,7 per cento dei romani. Avrebbe vinto il Sì con l’88,7 per cento” – “Corriere della sera-Roma”. Allora è vero che un italiano su due non mastica la matematica?
Ottomila scrutatori (tre mila erano supplenti), un esercito in lunghe file si è presentato alla Fiera di Roma domenica per scrutinare il voto degli italiani all’estero. In 1.261 sezioni. Un immenso hangar è stato appositamente costruito dalla Protezione Civile per gli ottomila, al costo di un milione e 250 mila euro - un ottimo appaltino, facile facile. Per un milione di voti? Forse meno.

La Ferrari dietro la Red Bull. E un pilota Ferrari che sperona il compagno di scuderia alla partenza. Lo spettacolo non è mancato all’ultimo Gran Premio: erano cosa  erano ancora da vedere.

L’ennesimo record negativo della Ferrari targata Fiat, sicuramente non l’ultimo. I migliori piloti del momento, Alonso, Raikkonen, Vettel, strapagati e spremuti, senza succo. Per macchine e organizzazione di squadra non competitive. Si sarebbe tentati di dire il morbo italico: dove non c’è Marchionne, che è canadese, niente funziona.

O è l’incapacità di Fiat, padrone di Ferrari,  a pensare alto. Il gruppo ex torinese è stato bravissimo con la Chrysler, con a quale guadagna molto, mentre la la Merrcades ci stava arrivando al fallimento. Ma evidentemente non ci sa fare col lusso.

“Volevamo arrivare in Germania”, dice onesto Rashid, uno dei tra capi famiglia che il papa ospita in Vaticano, “ma adesso che siano qui a Roma tutto sommato ci piacerebbe restare”. Volevano andare in Germania per nessun motivo specifico, giusto perhé l’Europa è Germania, è il Nord Europa: il Mediterraneo, che è la metà dell’Europa, “non esiste” più.

Decenni di polemiche sulla veletta che le signore dovevano portare in visita al papa, milioni di colonne di giornale, poi Federica Mogherini va a Teheran e si presenta con lungo e voluminoso chador. Non davanti al papa, che nell’islam non c’è. E neppure davanti a un ayatollah, ce ne sono anche di non mondani, ma davanti a un laico, ininfluente ministro degli Esteri.  Mogherini è ben l’Europa, troppo furba.

Il Fondo per le Infrastrutture F2I ha “investito” 240 milioni nelle cliniche per anziani di Kos, l’azienda di De Benedetti - tessera n.1 del Pd. Che così liquida il socio uscente Ardian, con una lauta plusvalenza. Che poi si dividono? 


Ma l’aiuto Ue alla Turchia per i migranti sono 3 o sono 6 miliardi? Sono 6: tra il lusco e il brusco sono raddoppiati. Ma nessuno ci dice niente, anzi si meraviglia. Generosità? Paura di Angela Merkel?

Si sa pure che gli aiuti alla Turchia non vano ai migranti quanto al mercato dei migranti: polizia e

esercito turchi, onlus locali, rivenditori autorizzati (catene di supermarket) nei campi profughi, liberi ora di raddoppiare e triplicare i prezzi della disperazione. Ma non si dice, che notizia sarebbe?

Il giudice sbirro

C’è il giudice che interpreta e applica la legge, e c’è il giudice sbirro. Qualcuno, il più famoso, anche in senso proprio - uno sbirro, cioè, che si è fatto giudice. Il dottor Davigo in senso figurato, non essendo stato questurino, ma con lo stesso animo. Di quando beninteso gli agenti di Ps erano questurini e sbirri, che ora non è possibile e non usa più – quando in caserma creavano i delinquenti, col carcere e la frusta. Il dottor Davigo si definisce per le simpatie politiche d’origine, ma non è necessario rivangarle, basta e avanza da solo.
Benché ripulito, illuminato, inquadrato sempre bello, per farne uno statista, e il conduttore Floris spalla accomodante, già al debutto a La 7 non era stato rassicurante, anzi. E appena il “Corriere della sera” gliene ha dato lo spazio, è tornato quello del pedalino rivoltato – “abbiamo rivoltato i partiti come un pedalino”.
Furbo come sempre. A Floris aveva premesso: la politica è la politica, la giustizia è la giustizia, e ognuno faccia il suo dovere. Subito dopo chiedendo beffardo i giorni fasti e quelli nefasti, per “sospendere la giustizia”. La moltiplicazione delle intercettazioni. La moltiplicazione dei reati invece della semplificazione. La messa in mora della politica. Rapido, o come si dice “tagliente”: da applausi, uno ogni venti secondi, record de La 7 e probabilmente di ogni tv. Ma non c’era bisogno del servilismo della rete di Cairo per capirlo: l’uomo è sempre quello, che oggi rappresenta tutti i giudici italiani.

L’amore libero, nel Duecento

Un “segretario galante” precoce, 1190-1195, per la corrispondenza e per il colloquio ravvicinato, con tutti i trucchi della seduzione, da parte di lui e da parte di lei, benché in forbito latino – ma sulle tracce di Ovidio. Per il “prima” e per il “dopo”. E un manuale dell’amore libero. Che Venere stessa da ultimo, con fraseologia dai “Salmi” e altre parti della Bibbia e dai Vangeli, decreta aperto a tutte, le monache non escluse: “Le signore provvedendo da sole, le monache e le vedove con il pretesto della religione, le sposate con l’aiuto delle signore, delle madri e delle ancelle, le fanciulle con l’aiuto di tutte quelle elencate”, al fine di “divertirsi in tutti i modi”. Condannando “i Sardi e tutti i gelosi” – i Sardi Boncompagno ripetutamente in varie opere dice in fama di gelosi. Inframezzato da forbite discussioni di arte della retorica, Boncompagno la insegnava a Padova: sulla metafora, il canone, l’indizio, il segno.
L’unico problema è la metafora: l’uso della metafora è facile ma anche rischioso – può avere effetti contrari, sia per “prima” che per il “dopo”. Ma non se ne può fare a meno: la metafora è necessaria agli amanti perché l’amore è inconoscibile perfino a chi lo prova. Sembra di leggere l’incipit di “Amoris laetitia”, l’esortazione apostolica del papa l’altro mese.

Un libretto che fu molto diffuso, benché in latino, e anche tradotto, in franco-provenzale. Prodromo del primo Boccaccio e perfino, pare, della “Celestina” tre secoli dopo. Nel fosco Medio Evo il letterato si divertiva, non era triste e acrimonioso. Anche tra il clero, che allora dominava le università: la sessuofobia doveva ancora venire – stava per. Liberandosene, il papa Francesco in fondo non fa che recuperare una tradizione.
Boncompagno da Signa, Rota Veneris, Salerno, remainders, pp. 101 € 3

venerdì 22 aprile 2016

Secondi pensieri - 259

zeulig

Adorno – È il solo superstite della ditta con Horckheimer, che resse la Scuola di Francoforte e produsse la “Dialettica dell’illuminismo”. I cinquant’anni della traduzione della “Dialettica” sono passati inosservati – così come i settant’anni: la “Dialettica uscì a Amsterdam nel 1944, e rivista nel 1947.  Ma recupera a ampie falcate il discredito che si era abbattuto sulla Scuola, a opera della filosofia heideggeriana della “autenticità” o del “profondismo”, e sua personale per il rifiuto del Sessantotto, di cui si può dire vittima.  Era pazzo d’Ira von Fürstenberg, e invece gli mostravano per spregio, le ragazze all’università, tette grinzose. E non ha retto.

Adorno suona bene in italiano. In qualche regione è un uccello, nello Stretto di Messina è il falco pecchiaiolo. “Freddy” ha avuto il dono dell’amicizia, che è generosità, pensava per gli altri, le mezze calzette sociologhe dell’Istituto, compartecipava le sue idee, approfondiva le loro, geniale e infantile, e ha salvato Benjamin. Dalla povertà, dalla facile disperazione, e soprattutto dall’inesistenza. Fino a un certo punto – ha passato sei settimane a Lourdes, Walter Benjamin, inutilmente, prima di morire. Disgustava i compagni perché senza ipocrisia, era marxista e anticomunista. Lo dissero per disprezzarlo spia e omosessuale, amante per questo delle donne alte e robuste, e non per essere piccolo e tondo. Gli preferirono il religioso Horkheimer, anche per l’eleganza, racée nel cristiano contro quella dell’ebreo, ovviamente atteggiata, e il liberale Habermas. Aveva una moglie, Greta, che era Felicitas per Benjamin e gli amici. E questo è un danno, si prendono brutte abitudini.
I tedeschi non perdoneranno agli ebrei l’Olocausto, ha ragione chi lo dice. E hanno fatto schiattare Adorno , che ebreo non era ma loro volevano che fosse - aveva un padre ebreo, forse, non proprio. Il filosofo rotondetto cui piacevano le donne giunoniche – dopo Kracauer e altri amichetti di gioventù, pure lui – e dell’arte ha trovato che “la normatività consiste nel sorpassare la normatività”. Adorno era Paolina, l’alta e formosa amante genovese di Anton van Dyck, che per il vestito del ritratto spese più che per un palazzo. Adorno era la madre, col cui nome il filosofo, secondo i forti contestatori, la rivoluzione in Germania si vuole irriverente, ha tentato di camuffarsi sotto Hitler. Mentre questo non è vero, semplicemente. Ma è vero che a Hitler ha retto, alle tette esibite no.
Non amava il jazz, e questo lo limita, era il tipo ottocentesco residuale che ancora s’interpella, s’interpellava, N.H., Nobil Huomo, ma ha ragione, la civiltà borghese non c’è, non c’è stata e non c’è più, ha passato la mano alla cultura di massa. E amava la bellezza: fu felice a Lucca, tornò a Venezia prima di morire.
Gli si rimprovera pure la superbia, questa in un certo senso a ragione. Adorno, con Horkheimer e Mannheim, ha animato l’Arbeitersakademie di Münster e poi di Francoforte. La Scuola di Francoforte era di lavoratori, all’opposto delle Volkshochschule di Partito, benché in ditta con Arthur Rosenberg e Sombart, personaggi inquietanti. Una scuola per lavoratori conservatori, teutoni integrali, high tories, di snobismo imbattibile qual è al fondo del marxismo. È lì il focolaio dei NN. HH., i borghesi proustiani, thomasmanniani. Ma ne sapevano di più: meglio ha indagato Adorno il totalitarismo, meglio di Arendt, nelle radici che stanno nel cuore. Il potere è nel cuore degli uomini: l’imprinting, l’istinto, l’abitudine. Non nelle aquile di fureria, neanche nei tipi topini. Ma non sono ammesse più aristocrazie, neppure dello spirito, le avanguardie anzi vanno abbattute per prime, prima dei padroni, la democrazia si vuole intollerante.
Lui questo lo sapeva. E un filosofo non può barare: il terrore è nato ad Atene, con la democrazia. Platone la critica perché l’ha sperimentata: è la democrazia che ha messo a morte Socrate. Anche Aristotele sta in guardia, avendone scoperto la natura di governo dei nullatenenti, “quale che fosse il loro numero”.

Deismo – Ritorna diffuso, il “Dio orologiaio” di Voltaire  anche il “Dio non gioca a dadi” di Einstein. Di Dio come trickster della complessità, poiché non troppo ragionevole – confusionario e anche dannoso (il “problema del male”). Non è il teismo dei teologi, pur essendo l’antitesi dell’ateismo – né quello di Omero, “che tutto quel che accadeva nella pianura davanti a Troia costituiva soltanto un riflesso delle molteplici cospirazioni tramate nell’Olimpo” (K.Popper, “Congetture e confutazioni”).
È una vecchia categoria, Settecento, che torna in circolo. Allora come oggi alternativa, a una fede. Allora in chiave ascendente, acquisitiva, oggi - al tempo della crisi – di ripiego, consolatoria. Non fideistica: il suo fondamento è che non si può dimostrare l’esistenza di Dio e non se ne può dimostrare la non-esistenza. È l’esito di chi riconosce una “religione naturale” e vi s’identifica, non ritenendo risolto scientificamente, razionalmente, il mistero della vita.
Il vecchio deismo aveva argomentazioni più agevoli perché il mondo era privo del darwinismo. Il nuovo ne tiene conto, così come i vecchi deisti tenevano conto della fisica di Galileo e Newton, ma non se ne soddisfa.

Il vecchio deismo si basava sulle “prove” a posteriori, o degli effetti. Che Kant ha sistematizzato nelle due categorie delle prove cosmologiche e le prove fisico-teologiche. Le prime partono dalle limitazioni del mondo – contingente, condizionato, e quindi dipendente – per risalire a un principio necessario, incondizionato e assoluto. Le prove fisico-teologiche trovano Dio nella bellezza e l’ordine , tutto sommato, del mondo: un creatore artigiano, abbastanza intelligente e abbastanza benevolo. Anche se l’“abbastanza” implicherebbe un ordine superiore.
Le prime si inscrivono nell’esigenza della causalità, nella necessità logica di bloccare la regressione all’infinito. Le seconde sfruttano l a razionalità della finalità: la necessità di raccordare i fenomeni a un disegno, oggi si direbbe, intelligente. Entrambe le prove promanano dal principio o esigenza della ragione sufficiente: di spiegare ciò che esiste e come esiste, necessariamente. Il deismo si rifaceva nel Settecento – come del resto oggi, nel revival – alle “prove” fisico-teologiche. Allora non c’era la selezione-evoluzione, ma allora come oggi l’inspiegato Big Bang resta per il deista una sorta di “prova”, pur nello scetticismo o voglia d’incredulità.

Diderot, “Suite de l’apologie de l’abbé de Prades”, ne dà una definizione restrittiva: “Il teista è quello che è già convinto dell’esistenza di Dio, della realtà del bene e del male morale, dell’immortalità del’anima, delle pene e delle ricompense avvenire, ma che attende per ammettere la Rivelazione che gliela si dimostri. Il deista al contrario, d’accordo col teista soltanto sull’esistenza di Dio e la realtà del bene e del male morale,  nega la Rivelazione e dubita dell’immortalità dell’anima e delle pene e ricompense avvenire”.

Empietà – È tornata in auge, ma fuori dell’Europa, del cristianesimo. Tra le diverse confessioni ebraiche e, di più, tra quelle mussulmane. Anche il cristiano è empio in Asia. Per il cristiano invece, anche per quello che non è impegnato - o non ci crede - nel dialogo delle fedi, l’empietà non ha più corso. Non per convinzione, non c’è ripudio formale del concetto di empietà. Ma per prudenza, tanti delitti essendo stati commessi per delitto di empietà – come di eresia. Dal punto di vista etico e religioso la categoria resiste ma senza effetti pratici. Non si vuole essere relativisti, ma si è.

Un passo avanti però c’è, su due secoli fa. Ancora al tempo della sua prima maturità, 1746, Diderot sentiva “gridare da tutte le parti all’empietà: il cristiano è empio in Asia, il mussulmano in Europa, il papista a Londra, il calvinista a Parigi…”. Al punto da doversi chiedere: “Che cos’è dunque un empio? Tutti lo sono, o altrimenti nessuno”. Empio è chi è fuori della tribù? 

Esoterismo – La squalifica è recente – e ancora: R. Barthes si interrogava sui segni delle stelle, anche se Adorno li aveva già sradicati.  Ancora nel primo Novecento i positivisti facevano spiritismo.  Cartesio, il razionalista per eccellenza, andò in Germania in cerca dei Rosacroce. San Tommaso peraltro non escludeva un qualche potere degli stregoni.

Francoforte – La Scuola di Francoforte, in realtà, più che chiudersi negli snobismi, anti-massa, anti-profondismi, anti-dinsiformacija, aprì l’università nuova, appena creata (1914), e la stessa filosofia alla quotidianità, all’indagine dell’ananke. Ne ampliò l’oggetto, i perimetri, i punti di osservazione e gli esiti. Non in esclusiva, era l’aria del tempo: un’applicazione della fenomenologia, ma in modo brillante, e anche a ogni oggetto. Unificare la vita e il pensiero, fino ad allora ben separati, non è evento da poco. La distinzione soprattutto abbattendo tra l’alto e il basso, tra ciò che è rilevante – il pensiero – e ciò che non lo è – la tecnica, il modo di vita, il modo di essere. Non per semplificare e ridurre ma per allargare l’area della verità.

Linguaggio – Può parlare sia delle cose scomparse che di quelle inesistenti, come diceva Abelardo – “nulla rosa est”. Ma con un senso (grammaticale, logico). A opera di un parlante-pensante.

Purezza – È risorta come odio. Nel leghismo e nel neo germanesimo – nell’etnicismo - ma non solo. Fomite di passioni per lo più lutulente, di abominio e sterminio. La legittima difesa dei valori propri travalica nell’esclusiva, dell’io e il mio Dio.
È un revival del Cinquecento, della sangre limpia? È all’origine del razzismo, che nasce nel 1492 in Spagna, dopo la conversione imposta agli ebrei: non contando più la professione religiosa, per distinguere gli ebrei si compilarono Libri Verdi sulla limpieza de sangre – della quale Ignazio di Loyola fu oppositore lucido, tanto più per essere isolato.

Relativismo – Si rifiuta nel mentre che si pratica, per un ossequio dovuto, o un dovere alla totalità. Relativamente: in certe culture cioè e non in tutta la contemporaneità – alcune culture anzi sono oggi più radicali ed esclusive che mai, perfino razziste. E più nelle culture dell’Occidente, che per questo è sempre meno concreto e più inafferrabile, che si vogliono per programma allocentriche. Il che è impossibile, implicando la dissoluzione del soggetto.
È l’aggiornamento della tolleranza, altro concetto dell’Occidente. Che rimane labile e inafferrabile in una col declino politico e culturale dell’Occidente stesso – più politico (potere) che culturale. I valori sono di cultura o civiltà.

Tribù – È l’antidoto alla razza: la tribù nei fatti smantella la razza. È il fatto tribale religioso che tormenta l’Irlanda, non quello etnico. Ottantacinque musicisti in quindici generazioni di Bach non è un fatto di razza teutonica, non c’è un Dna nazionale della musica, ma di ascendenze familiari. O i Melani di Pistoia, sette musicisti su nove fratelli, dal maggiore Jacopo, autore della “Tancia”, la prima opera buffa, al minore Alessandro, che musicò il primo don Giovanni, l’”Empio pentito”. O i sette Scarlatti, sorelle, fratelli, figli e nipoti di Alessandro. Storicamente si può sostenere che il razzismo nasce quando si conculca il tribalismo.

zeulig@antiit.eu 

Il giallo del niente - postmoderno

Il prototipo – il capolavoro? – del citazionismo, del post-modern. Scritto, anzi programmato, con questo taglio – Eco si vuole uno scrittore di scritture, le sue storie sono scritture – e chissà recepito. Lo stesso Panza ne presenta la riedizione in edicola come la summa del Postmoderno, cioè del tutto e niente. In sé è un romanzo storico, confezionato come un thriller. Ma è vero che c’è tutto Eco, siamo nel 1980. È già come una sintesi, di una lunga elaborazione, sistematica se non perfetta. “Nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi”. “Ma c’è una magia che è opera divina, là dove la scienza di Dio si manifesta attraverso la scienza dell’uomo”. Col riso – il ridicolo – anche nel sacro. San Lorenzo sulla graticola che, secondo Prudenzio, invita i carnefici a girarlo dall’altra parte. E anche secondo sant’Ambrogio, che aggiunge un invito cannibalesco: “Manduca, jam coctum est”. O in Geremia, dove Dio dice a Gerusalemme: “Nudavi femora contra faciem tuam”, ti ho mostrato le chiappe. Mentre i cluniacensi accusano i cistercensi, delitto supremo, di non portare brache. Lo scherzo insomma, che un tempo si diceva goliardico. La “Postilla”, celebrerà “il pensiero compositivo che pensa anche attraverso il ritmo delle dita che battono su tasti delle macchine”.
Eco si diverte? No, è Eco. La “Postilla”, uscita su “Alfabeta” n. 49, del giugno 1983, fa aggio su qualsiasi altra esposizione: Eco vi spiega cosa ha detto e cosa ha voluto dire. Ma è anche propositiva o progettuale. Eco si ascrive al post-moderno, che trova già caratteristicamente (sempre primo, battistrada, scopritore, lettore segugio) in John Barth, “La letteratura dell’esaurimento”, 1967 – lo stesso Barth, aggiunge, che ha ripreso il tema nel 1980, ma sotto il titolo “La letteratura della pienezza”. Una postilla che fa molto il romanzo del romanzo, a difetto di volere o sapere narrare, godendo della narrazione.
Il progetto è il complotto. Che c’è già qui, ma non teorizzato, nemmeno invadente. C’è già l’ossessione del segreto - la voglia di segreto - coniugata all’orgoglio di saperne la verità. La verità, ossia il “segreto vuoto” delle tante interviste che accompagneranno “Il pendolo di Foucault”. Con un protagonista, Guglielmo di Baskerville, a metà tra Guglielmo di Ockam e Sherlock Holmes. Per un’esigenza “democratica”, di fronte alla stessa conoscenza – e più, certo, alla politica: qui è della politica della conoscenza che è questione.
La politica della conoscenza è alla base dell’invadenza del segreto, del complotto. Ma Eco invece la viveva come un anticorpo a quella che nella conversazione con Le Goff per “Il pendolo”, raccolta da Jacques Anquetil (“Le Nouvel Observateur” dell’8-14 febbraio1990), chiama la “gnosi eterna” e definisce come “l’esigenza, il bisogno che si dà l’umanità di trovare dei superuomini che non hanno il destino degli altri e sono ritenuti possedere segreti iniziatici”.
Il titolo riprende il “nulla rosa est” di Abelardo. Che si può parafrasare anche: del parlare sul niente, sul vuoto – di ciò che non esiste, o non significa.
Umberto Eco, Il nome della rosa, Corriere della sera, pp. 618 € 9,90

giovedì 21 aprile 2016

Il mondo com'è (258)

astolfo

Caro petrolio – Si continua a leggere che il ribasso del petrolio danneggia l’economia. Anzi, non si legge altro. Mentre è vero il contrario, almeno per le economie europee continentali, forti importatrici di idrocarburi. Del caro petrolio hanno beneficiato, oltre ai paesi Opec, la Russia e gli Stati Uniti – con il Canada. L’industria nordamericana degli scisti bituminosi, dai quali si estrae, ad altissimi costi, anche per l’ambiente, il petrolio greggio. I paesi Opec hanno beneficiato di una rendita gigantesca, moltiplicata all’improvviso per mille. Compresi, curiosamente, gli Stati Canaglia dell’amministrazione americana, l’Iran, la Libia di Gheddafi e ora delle bande tribali, e l’Iraq di Saddam. Ma il greggio a 40 dollari è sempre un prezzo imposto, nulla a che vedere con un mercato. Fortemente iugulatorio per l’Europa.

Guerra civile – È sinonimo di (ha rimpiazzato la) rivoluzione. Non si parla più di rivoluzione, di cui si è parlato quotidianamente per mezzo secolo dopo la guerra – in antitesi a riforma, spregiativamente, oppure in solitario, come esito necessario e non alternativo. La rivoluzione non si fa più, politica, nazionale, tribale, si fa la guerra civile.
Qualunque guerra, sia pure tra forze nucleari, quindi con spregio totale dell’umanità. Anzi, soprattutto questa: la guerra all’ultimo respiro è guerra civile, sacrificio supremo, per un qualche diritto umanitario.

È dizione onnivora, poiché ha fagocitato la stessa guerra coi cannoni, la guerra tradizionale. Ma è parte del rinnovato fervore per la guerra, quasi in senso futurista – “sola igiene del mondo” – dopo un secolo e molte guerre catastrofiche. Non c’è più quel fanatismo – che non era solo di Marinetti, si estendeva ai migliori spiriti, D’Annunzio, Thomas Mann, perfino Kipling, e Bergson. Ma l’impegno sì, dai papi (Giovanni Paolo II) in giù. L’Europa è in “guerra civile” da un quarto di secolo, dacché non ha più avuto paura dell’Urss.

Nazismo –  Non è tanto morto come si dice, a meno del gas, antiecologico - il nazismo si vuole ecocompatibile, e anzi è per i fiori,  per la purezza del giglio. Ha solo perso la guerra, come un incidente di percorso. È sopravvissuto alla sconfitta senza complessi, se non quello della rivincita. Non c’è solo Heidegger che non si dà per vinto. Nei “Quaderni neri” che ha voluto pubblicati oggi, come se li avesse scritti oggi: i suoi motivi sono gli stessi che la Germania rivive oggi, in una pubblicistica estesa e in una rete vasta, anche se l’ufficialità pretende di marginalizzarla. L’insorgenza politica da ultimo in Germania si può anzi dire solo un sintomo: la constituency è larga e radicata, non è una reazione di rabbia, o l’opportunismo politico di chi cavalca l’onda. L’appeal è a un vasto seguito, in Germania e fuori.

Dopo tanta storiografia resta incerto, e anzi non esplorato, nei suoi fondamenti. Solo l’antisemitismo è accertato, indubitabile. Che però è il fattore che più lo ha popolarizzato, avvicinato alla gente (Volk). Anche per i benefici economici, non indifferenti e anzi cospicui e alla portata di molti – molte famiglie (parliamo di milioni) si appropriarono senza costi dei patrimoni degli ebrei.
Il nazionalismo? La forza nel diritto - il destino tedesco? Questo era parte del radicalismo conservatore tedesco, da Jünger a Thomas Mann, e lo è ancora. Sciovinista, come già il nazismo storico, e ora in confronto-combutta col suo nemico, il fronte islamico. I due fronti concorrono in “idem sentire”: entrambi .basati sulla purezza. È la loro ossessione, in mezzo a passioni lutulente, anche senza il gas.

Attrasse intellettualmente, come mito e forza, e sempre facendo astrazione dalla Soluzione Finale, intervenuta a posteriori, soprattutto fuori della Germania. In Germania di nomi eccellenti annovera Heidegger, per di più postumo, e Carl Schmitt, di poco impatto nel nazismo imperante, e poco più. Personalià comunque da specialisti, non popolari.  Mentre fu forte l’impatto del pur meteorico hitlerismo presso Céline e metà degli scrittori francesi, Hamsun, Pound, come è noto, ma anche Evola, i giovani della gioventù fascista Giaime Pintor e Pier Paolo Pasolini. Nonché, sempre a Parigi, i tanti scrittori, commediografi, teatranti che si godettero i primi due anni di occupazione tedesca, quando Hitler aveva vinto la guerra, prima del suicidio in Russia.

Profughi – Sono come una morsa che stringe l’Europa, azionata dagli Stati Uniti e dalle petromonarchie, i potentati della penisola arabica. Il Libano ospita quasi due milioni di profughi siriani, la metà della sua popolazione. La Giordania oltre un milione. I potentati arabi, dal Kuwait in giù, nessuno. Che sono quelli che hanno voluto la guerra civile in Siria, organizzando, finanziando e armando le varie opposizioni, anche le più estremiste. Dopo aver voluto lo stesso esito in Libia – dove la popolazione per fortuna è inferiore, e non urbanizzata. E sono ora in prima linea a sabotare  l’ipotesi di pacificazione che si delinea.
Naturalmente non è così,. Cioè non c’è un piano o programma per invadere l’Europa. Ma è come se. Come se Bush jr. e Obama avessero lavorato per assediare l’Europa, dopo che col caro petrolio, con l’invasione arabo-islamica.

Radio islam - Dopo le continuate proteste della “Nazione-Resto del Carlino”, il quotidiano di Firenze e Bologna, che aveva visto una sua redattrice minacciata sul sito, radio.islam è stata oscurata. Un errore del furbo sito, che si distingue per denunciare “il complotto ebraico”? O una delle tante manovre di servizi segreti? Il giornale fiorentino ha dovuto fare un campagna di molti giorni, prima che la polizia postale si muovesse. E si è dovuto basare su una minaccia non legata all’antisemitismo ma individuale, alla persona.
Era il sito legato ai servizi segreti, per snidare gli islamisti radicali in Italia? Può darsi. È possibile anche che nasconda una confraternita neo nazista al coperto dell’islam radicale, poiché gli adepti continuano a comunicare malgrado l’oscuramento del sito. Quale che sia la sua “verità”, la storia di questo sito, che nacque vent’anni fa da Radio Islam, una radio pubblica svedese, è legata all’antisemitismo. Dichiarato, non coperto alla maniera del neo nazismo, non camuffato. E ai servizi segreti iraniani.
Radio Islam era nata dieci anni prima, nel 1987, come foro per l’inculturazione della comunità islamica di immigrati in Svezia. Gestita da un cittadino marocchino, Ahmed Rami, arrivato a Stoccolma nel 1973 dal Marocco, che si definiva un ufficiale dell’esercito in fuga dopo il fallito attentato al re marocchino Hassan II nel 1972. Sia pure stato un oppositore della monarchia marocchina, Rami era – è – un antisemita. Una deriva che, da sciita, ha irrobustito subito dopo l’avvento di Khomeini in Iran, e ha manifestato subito su Radio Islam. Pochi mesi dopo l’avvio dell’emittente, infatti, è stato condannato in Svezia per odio razziale. E altre condanne per lo stesso motivo ha subito successivamente. Senza però che fosse dichiarato indesiderabile. E nel mentre che allargava la sua attività. Da pubblicista di violenti pamphlet, e con il sito, attivo anche in Italia. Col supporto finanziario, riconosciuto, dell’Iran.
La letteratura antisemita più violenta è all’origine non wahabita-salafita, saudita per intenderci, quella di Al Qaeda e dell’Is, ma hezbollah “libanese”, cioè sciita iraniana. Dell’Iran di Khomeini e poi di Ahmadinejad, responsabile indirettamente di molto terrorismo in Europa in anni non remoti, a Parigi in special modo, nel 1986 e nell’estate del 1995, e anche in Italia con alcuni assassinii. A Roma il 16 marzo 1993 fu ucciso per strada Hossein Naghdi, mite oppositore del barbuto imam.

astolfo@antiit.eu

Stupidario classifiche

In Italia il maggior numero di poveri in Europa: sette milioni.

Lo stipendio dei docenti nelle scuole pubbliche italiane è tra i più bassi in Europa.

La Fondazione Italianeuropei di Massimo D’Alema è fra le quaranta migliori fondazioni di partiti politici secondo un Think Thank Index Report dell’università di Pennsylvania. Di quale partito?

“In Italia più di un milione di bambine, bambini e adolescenti vive in condizioni di  povertà assoluta. In condizioni di grave deprivazione”, Save the Children.

Non c’è libertà di stampa in Italia - Reporter senza frontiere. Ce n’è di più nella Moldova. In Nicaragua. In Azerbaigian. Molta di più in Giamaica, e in Costa Rica. LItalia è al 77mo posto, con Benin e Guinea Bissau...

Solo in Finlandia la stampa è proprio libera, e in genere in Scandinavia – paesi di buoni cristiani: bisogna essere indulgenti con  se stessi (anche in Irlanda).

L’islam si vuole forte e minaccioso, perché offenderlo?

L’islam è complesso e contraddittorio, il mondo che vi si ispira. Tra Coca-Cola e jihad, tra niqab e Gucci, tra califfi – o non più semplicemente rais? – e internet. E perciò non minaccia nessuno, non potrebbe. A differenza del turbocapitalismo, ben occidentale, che ci sta dissolvendo.
Vero, in un certo senso. Se cioè si vuole fare una polemica giornalistica - anche giustificato: per un medievista il giornalismo dev’essere acqua di sorgente. È vero pure in altro senso: il mondo mussulmano è polimorfo, e quello mediorientale peggio, è diviso, in guerre acerrime. Di più, va detto che il popolo mussulmano non è militarizzato, non c’è nessun sultano o califfo che organizzi una conquista. Mentre è incontestabile che il turbo capitalismo ci sta distruggendo, nella crisi senza precedenti e senza sbocchi che l’Europa vive – che non se ne abbia coscienza, si può aggiungere, è parte del turbo capitalismo, che sottomette con la convinzione.
Ma la demografia è anch’essa un fatto. E il nazionalismo o revanscismo islamico pure. Tanto più radicato - anche nei semplici, quelli che esultano spontaneamente agli 11 settembre - e radicale quanto è impulsivo, e diffuso, generale, quasi una seconda natura. Insomma, l’assunto di Cardini è anch’esso falso, a metà – come quello che combatte. Un islamico sorriderebbe alle sue argomentazioni.
Franco Cardini, «L’islam è una minaccia» (Falso!), Laterza, pp. 216 € 10

mercoledì 20 aprile 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (283)

Giuseppe Leuzzi

Eco non è razzista. Ma considera Milano non leghista, parlandone con Aldo Cazzullo, “I ragazzi di via Po” sul finire degli anni 1990 – dopo cioè vent’anni di leghismo trionfante a Milano 1 e dintorni (Bocca, Cederna, lo stesso Eco, etc).: “Non so se i miei amici siano milanesi, e nessuno si chiede mai se il vicino di casa è milanese o non lo è”. Bossi sarà stato un’allucinazione.

Ceronetti, fantasista sin da ragazzo, si propose da Torino corrispondente alla “Gazzetta del Sud”, racconta a Cazzullo in “I ragazzi di via Po”, “che si stampa a Messina. Mi ero presentato come esperto di Sudamerica, in quanto figlio di padre italiano e madre india, discendente dei Bororo del Paranà, una tribù studiata da Lévi-Strauss. Mi smascherarono subito, ma continuarono a pubblicare i miei pezzi”. Fosse successo l’inverso, che un ragazzo di Messina si fosse proposto non alla “Stampa” ma alla “Gazzetta del popolo”, o altro piccolo giornale torinese?

La non appartenenza
Unbelonging”, la non appartenenza, dopo quasi mezzo secolo  di “radici”, rovescia le identità: non la persistenza, non i caratteri originari, ma la varietà e i caratteri acquisiti privilegia. Col tempo, con l’esperienza, con gli eventi. “Unbelonging” essendo da intendersi non come il disadattato, misfit, ma come il non appartenente: un’esistenza di esperienze e caratteri plurimi, di mentalità e anche di linguaggio.
Le radici si sono affermate col successo del libro di Alex Haley e dell’omonima serie tv quarant’anni fa. Rivoluzionari per l’America, una grande paese fin’allora prevalentemente nomade, se si escludeva il Nord-Est, il New England, la vecchia-nuova Inghilterra. Ma si radicavano, è il caso di dirlo, un una affermata tradizione di pensiero. Di cui era stata la summa “L’enracinement”, il saggio che Simone Weil scrisse a Londra nel 1943 e fu pubblicato nel dopoguerra – in italiano come “La prima radice”. Perfino esclusivo – troppo, a parere di molti, al limite del razzismo: nella passione della guerra, del nemico invadente, riduceva l’esistenza alle sue radici tradizionali, corroborate dal passato. Come modo mentale di un gruppo umano anche numeroso ma ristretto all’Europa, e più al Sud Europa. Lunbelonging si propone in un quadro sociobiologico che privilegia di nuovo l’innesto: il meticciato, la misgenation. Anche se l’esito personale, prima generazione, è più spesso, e non può non essere, il disadattamento: di chi vive tra due mondi e con due lingue, ma con l’impressione di non possedere né l’uno\a né l’altro\a, confuso.
La categoria è stata elaborata in ambito letterario. Per gli scrittori e artisti che con la patria, o luogo di nascita, perdono anche la lingua e la cultura. Indossandone un’altra: un fenomeno molto cospicuo in Francia e in Inghilterra da molti decenni, già nel secondo Novecento, e ora esteso anche in Germania e in Italia. È il paradigma, in senso evocativo ma anche in senso proprio, dell’emigrato intellettuale del Sud, non per bisogno ma per curiosità o vocazione. Che è chiamato a indossare panni non suoi e a riconoscervisi. Sia alla partenza, nel mondo nuovo di trasferimento, sia nell’eventuale ritorno, estraneo al vecchio mondo, di chi è rimasto – e anche degli altri che fossero partiti, per altre esperienze.
L’accumulo delle esperienze è esercizio arduo.

Cosa nostra è il governo
Gli economisti Alberto Alesina (Harvard), Salvatore Piccolo (Cattolica Milano) e Paolo Pinotti (Bocconi) pubblicano uno studio, “Organized crime, violence, and politics”, sugli omicidi degli amministratori locali negli ultimi quarant’anni, 1974-12013

I numeri sono significativi solo in tre regioni, Sicilia, 39, Campania, 35, e Calabria, 30. Che non hanno speciale propensione per gli omicidi, malgrado le metastasi mafiose, ma per quelli degli amministratori locali sì. Altrove i numeri scendono molto: 7 in Sardegna, 6 in Lombardia e in Puglia, 3 nel Lazio, due o uno nelle restanti regioni, zero nelle Marche e in Emilia Romagna.
I numeri in sé sono già una conferma che le mafie pesano molto sulla politica. Ma di più vanno in questo senso le indicazioni che gli studiosi traggono dal “dopo”. Cioè dopo una campagna elettorale con morti, come dopo Portella della Ginestra, la strage di lavoratori del Primo Maggio 1947 da parte di “elementi reazionari in combutta con mafiosi”, secondo la relazione dei Carabinieri, cioè di Salvatore Giuliano, autore della strage con la sua banda. “Dopo” si parla molto meno di mafia, negli atti pubblici, consigli comunali, commissioni parlamentari, e i partiti antimafia riducono drasticamente i voti.

La donna del Sud – o il paradiso delle donne non è al Nord
Nuto Revelli è sorpreso dalle donne che incontra nella sua inchiesta “L’anello forte” quarant’anni fa, mogli per procura dei contadini piemontesi che nessuno voleva più – le ragazze da marito della provincia subappenninica preferivano la fabbrica e la città – nei  cosiddetti “matrimoni misti”: “La donna del Sud è animata da una grande carica di rivincita sociale”, conclude il centinaio di pagine di presentazione della ricerca: “È viva, ambiziosa, intraprendente. Ha accettato e subìto tutti gli inconvenienti imposti dalla coabitazione”  con suocere, cognate, cognati. “Ha svecchiato l’ambiente, ha preteso un’abitazione civile più per i figli che per se stessa”. E non si meraviglia che tutte vogliano tornare: “A tutte le mie testimoni ho rivolto questa domanda: «Sarebbe disposta a ricominciare dall’inizio, a rivivere l’esperienza che l’ha portata al Nord?» . Poche, ma proprio poche, mi hanno risposto affermativamente con un «sì» schietto!”
La storica Anna Rossi-Doria lo rileva nella postfazione all’edizione tascabile della ricerca: la subalternità della donna nelle campagne piemontesi di Alba è minore nei “matrimoni misti”. Le donne venute dal Sud sono variamente le più indipendenti, benché handicappate dalla lingua, dall’estraneità, spesso dalla scarsa alfabetizzazione. Hanno anche un orizzonte familiare più aperto, meno cupamente chiuso nella fatica quotidiana: la famiglia, la natura, le relazioni sociali.
Nuto Revelli è – era quarant’anni fa - ottimista sull’integrazione: “Se dovessi tentare un bilancio dei «matrimoni misti» non esiterei a dire che è positivo. Su dieci matrimoni, sei sono riusciti, tre più o meno resistono, uno è fallito. I «matrimoni misti» hanno ringiovanito il nostro mondo contadino, dove un male peggiore della fillossera”, l’abbandono, “aveva spento ogni speranza”. Con un ma: “Ma il mio ottimismo si ridimensiona se includo nel bilancio il prezzo altissimo pagato dalle donne del Meridione. Ancora una volta è il nostro Nord che ha stravinto!”.
Un effetto localizzato – ma forse impropriamente – è che il nesso-divaricazione Nord-Sud si ripercuote in Piemonte - oltre che negli assetti familiari, dei “matrimoni misti” quasi da colonia - nel rapporto campagna-industria. Nel Piemonte industriale la campagna quarant’anni fa era arretrata, e per lo più povera. Prima di diventare ricca.
È un bilancio positivo da tutti i punti di vista, quello di Revelli in Piemonte a metà degli anni 1970. Dell donne calabresi o campane trapiantate come spose. Senza complessi, specie non da parte dei campagnoli piemontesi.  Il complesso è venuto dopo, col razzismo leghista, prima implicito nel lombardo-veneto, poi esplicito.
E non c’è il rifiuto del Sud, l’odio-di-sé. Tutte le intervistate rivalutano i paesi e i luoghi d’origine, al di là della nostalgia, anche le meglio sistemate. Tengono i contatti con casa. Non rifiutano le origini e anzi le vantano. La più giovane, Maria Carmela Morano, di Gerace, 34 anni, una figlia e una situazione solida malgrado la fatica: “Io partirei anche stasera per andare a vivere in Calabria”. “Adesso il mio paese è bellissimo”, le fa eco Maria, che viene dalla Campania. Carmela, “nata in Calabria,”, anche lei di 34 anni, analfabeta, già vedova, deve lottare con la suocera e le cognate per difendere i due figli, “sennò loro vendono la terra e restiamo senza niente” – “se non avessi avuto i due bambini sarei tornata in Calabria”.
La condizione femminile era peggiore al Sud? Secondo le interessate no, ma anche leggendo Revelli. “Quando ero ragazza mio fratello pretendeva che non parlassi con nessuno, era geloso”, questa una delle tante (centinaia) di testimonianze di contadine delle Langhe che Revelli ha raccolto: “Mi faceva picchiare da mia madre se parlavo con un giovane, ed io che stavo senza mangiare pur di andare a ballare tanto che mi piaceva… Ma poi piangevo sempre, e Rosetta dell’osteria mi ha detto: «Io se ti vuoi sposare c’è uno che le piaci». Allora mi ha fatta incontrare con lui, uno che non osava parlare. Rosetta mi ha chiesto: «Allora, ti piace?» «Mah», le ho risposto. In otto giorni ci siamo presi e sposati. Io ho pensato: per stare lì a farmi picchiare da mia madre e mio fratello tanto vale che mi sposi”.

leuzzi@antiit.eu

Quando Torino era capitale della Repubblica

Un omaggio alla Torino capitale ancora d’Italia, economica, tecnologica e culturale, nei primi venti-venticinque anni della Repubblica. Dalle “tote” nubili che mandavano avanti l’amministrazione delle aziende, fedeli fino alla morte, dai nomi familiari ora desueti: Ebe, Virginia, Margherita, Eugenia, Maria Cristina, Emanuela. Ai potenti e sapienti: il mondo della Fiat naturalmente, della Olivetti a Ivrea, a 50 km., del design industriale, dei salesiani, della Einaudi, col corollario delle tante altre editrici innovative, da Boringhieri all’Adelphi, dei primi cantautori, della prima televisione, dopo avere tenuto a battesimo il cinema e il telefono, dove Eco, Vattimo e Furio Colombo fanno le prime prove, da neolaureati subito dirigenti (Vattimo ancora nemmeno laureato), e quello dell’università, molto fertile - e Cazzullo limita il periscopio a palazzo Campana, a Lettere e Legge, senza il Politecnico. Col comunismo virulento, in Fiat e fuori, e un anticomunismo altrettanto virulento, di Edgardo Sogno – che Umberto Saba tanto ammirava - e troppi altri. In una città che in vent’anni triplica la popolazione, fino ai due milioni. Molto laica, ma anche molto cattolica, anzi in modo preminente – di Eco e ancora di più di Vattimo, del cardinale Pellegrino, della Fondazione Agnelli.
Una dozzina di nomi che hanno fatto la cultura dell’Italia nel secondo Novecento, che tutte operavano a Torino negli anni 1950-1960, della maggior parte dei quali Cazzullo ha raccolto e sintetizzato le vive testimonianza, amarcord molto godibili: Bobbio, Benvenuto Terracini, Getto, Pareyson, Alessandro Passerin d’Entrèves, che Hannah Arendt poneva a capo della Scienza politica dell’epoca, Tullio Regge, Abbagnano, Pietro Chiodi, Vattimo. E di letterati che hanno lasciato un’impronta: Calvino naturalmente, Magris, da antologia, con una serie di racconti vivacissimi, Eco, Sanguineti, Ceronetti nato irrequieto, Citati, Arpino, il giramondo Fruttero. Nonché Bocca, Pansa, Furio Colombo. E molti comprimari: Élemire Zolla, torinese resto in esilio volontario, Raf Vallone, un Marco Pannella in servizio militare, liberale. Un “annale” estremamente convincente – la migliore fonte documentale è il brio della ricostruzione.
Aldo Cazzullo, I ragazzi di via Po, Oscar, pp. 296 € 11 

L'Europa al guinzaglio

Non c’è scandalo, ma c’è dispetto, anche molto. La missione che Angela Merkel farà in Turchia a fine settimana, portandosi dietro il presidente dell’Unione Europea Donald Tusk, non va giù a molti. Non è una missione europea, a cui casualmente partecipa la cancelliera, ma una sua propria iniziativa, che si fa sponsorizzare dalla Ue – Tusk conta poco ma è pur sempre un figura simbolica. L’ambasciatore Sergio Romano difende oggi sul “Corriere della sera” la diplomazia solitaria di Angela Merkel, ma il governo e il ministero degli Esteri sono critici: prevaricatrice e superficiale, è il giudizio.
C’è risentimento per la forma e anche per i prevedibile esito della missione. Che il Consiglio europeo sia imbrigliato alle dipendenze di un “qualsiasi” capo di governo, sia pure quello di Berlino. E che l’Europa stia al carro di una diplomazia che i più ritengono sbagliata da parte di Angela Merkel.
I suoi interlocutori turchi già hanno rincarato la posta. “L’Ue ha più bisogno della Turchia di quanto la Turchia abbia bisogno dell’Ue”, ha voluto dire ieri, non richiesto, il presidente Erdogan. Mentre il primo ministro Davutoglu e il ministro degli Esteri Cavusoglu hanno posto all’ordine del giorno dell’incontro l’abolizione dei visti per i cittadini turchi nella Ue e non l’accoglienza ai rifugiati siriani. In Parlamento Cavusoglu è stato perfino sprezzante: “L’accordo che abbiamo raggiunto con l’Ue è molto chiaro: vogliamo che questa tragedia umanitaria finisca, che i nostri cittadini viaggino senza visto e che l’unione doganale venga aggiornata. Se l’Ue non mantiene la parola, cancelleremo tutti gli accordi, compreso quello sui migranti”.

Merkel appeaser vs. Böhmermann dantesco

La satira può essere letale in tribunale, come ha sperimentato D’Alema. Angela Merkel non è D’Alema, è il cancelliere più spregiudicato e anche più amato della Repubblica Federale Tedesca, con governi di sinistra, di destra e di sinistra. Ma ha fatto un errore diplomatico, se non politico, avviando la procedura contro il comico Böhmermann per offesa a capo di Stato estero: si è manifestata debole, arrendevole – nel gergo prebellico una appeaser.
La procedura non era obbligata, come la cancelliera ha sostenuto in conferenza stampa, ma discrezionale. Per un fatto che non è “offensivo”: il comico è eccessivo e ingiurioso volutamente, contro ogni verosimiglianza, e quindi fa satira politica e non un attacco personale – non si può dire il comico dantesco, a leggerlo qui sotto, ma per l’intenzione e l’impianto sì: la sua è una invettiva e non una offesa. Le parole e i toni sono pesanti, ma non c’è tv ormai che se ne salvi.
L’avallo governativo al deferimento è un gesto dannoso di appeasement. Verso un personaggio che ha infranto le leggi e la costituzione del suo paese, contro le minoranze, la libertà d’opinione e la libertà politica. Dannoso perché indebolisce e non rafforza la cancelliera nell’incontro in calendario sabato con l’uomo forte di Ankara.
La parola appeasement evoca Monaco, 1938, e Gaziantep non sarà un’altra Monaco, Merkel non è Chamberlain, Erdogan non è Hitler. Ma la legge vi è ugualmente calpestata, solo in forme diverse.

Böhmermann vs. Erdogan

Questo il “pesce d’aprile” di Jan Böhmermann contro il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, nella trasmissione satirica “Neo Magazine Royale” che il comico conduce sulla rete pubblica tedesca Zdf. La “Critica oltraggiosa”, che è costata al comico un’incriminazione per offesa a capo di Stato estero, è tradotta alla lettera, nei temi e nei concetti se non nei termini. Con le rime baciate e il ritmo canzonatorio dell’originale. Solo il quintultimo verso è modificato. L’originale è “Recep Fritzl Přiklopil”: Přiklopil è il tecnico elettronico austriaco che nel 1998 rapì a Vienna una ragazza di dieci anni e la tenne segregata per otto, fino a chela ragazza non riuscì a fuggire, in una cantina angusta.

Critica oltraggiosa (carme calunnioso)
Coglione, vile e inadeguato
È Erdogan il presidente nato.
Gli puzza il culo forte di kebab
Scoreggia meno un porco del nabab,
il gentiluomo che frusta le ragazze
Proteggendosi dietro le corazze.
Farsi le capre sopratutto gli piace
E le minoranze schiacciare rapace,
I curdi scalciare, i cristiani menare.
La notte passa invece di dormire
I montoni a centinaia a pompinare.
Sì, Erdogan è proprio vero
È un presidente a cazzo zero.
Si sentono i turchi tutti fischiettare
Quella porca troia ha le palle avare.
Da Ankara giù fino a Istanbul
Tutti lo sanno, è  un pigliancul,
pervertito, pulcioso e zoofilo,
Recep lo schiavista pedofilo.
La testa ha vuota come le palle
Stella d’ogni orgia a più martelli,
Fino a che il pisello gli viene ardente.
Questo è Recep Erdogan, il turco presidente. 

martedì 19 aprile 2016

Problemi di base - 273

spock

Perché la purezza vuole l’odio?

Perché guardare a sinistra e a destra prima di attraversare - se il destino non muta?

Perché la verità non sarebbe double face – duplice, invece che con un dritto e un rovescio?

“Nessuna vita giusta poggia sul falso” (Adorno)?

E il politico di successo, allora – Pericle?

E il falsario?

“La prima qualità di un onest’uomo è il disprezzo della religione” (Saint Bevin, di U.Eco, L’isola del giorno prima”)?

Si è onesti solo disprezzando?

spock@antiit.eu

L’islam presenta il conto

Interrogato da “Striscia la notizia” sulla repulsione verso i cani, l’imam della moschea milanese di via Jenner, che non sa una parola d’italiano, ha però le idee chiare: “Il problema non è il cane. È che il cane ha più diritti di una persona, se questa è islamica”. Lo stesso il ministro degli Esteri dell’Iran, che ha accolto a Teheran in successione Renzi e Mogherini: “I diritti civili sì, ma chiediamo reciprocità”. E non per escamotage: non per evitare la questione. Nonché senza chiedere scusa e senza sensi di colpa, anzi all’attacco.
Il ministro ha molto da ridire, parlando con Paolo Valentino del “Corriere della sera”, “sull’alienazione delle comunità islamiche in molte società europee, o su come la libertà di espressione venga abusata per dissacrare i valori dell’islam”. Di più: “Ci allarma che quelli che tagliano teste innocenti in Siria o Iraq parlino perfettamente inglese o francese”. Il sottinteso è che lo stesso terrorismo è colpa dell’Occidente. Che non è furbizia da ayatollah, il ministro Zarif è un diplomatico.
Non c’è solo il wahabismo sunnita dell’Is, alimentato dall’Arabia Saudita, c’è anche lo sciismo di Teheran alla base della rivendicazionismo islamico. Dell’Iran che si arriva a non temere perché di antica civiltà, essa stessa parte nobile della tradizione occidentale. Ma che ha alimentato molto radicalismo islamico, al tempo di Khomeini e di Ahmadinejad. E lo fa tuttora, attraverso il sito radio.islam, agito da un fuoriuscito marocchino in Svezia ma ispirato e foraggiato dall’Iran.

I limiti dell’Opec

L’Opec non può più governare i prezzi del petrolio. Non all’aumento, può solo attutirne la caduta. È l’esito della riunione straordinaria a Doha nel Qatar, che ha sancito l’impotenza dell’organizzazione dei tredici paesi esportatori di petrolio dell’ex Terzo mondo. E non, come si è detto, per l’ostilità tra Iran e Arabia Saudita, che viene dai tempi remoti dello scià, quindi da mezzo secolo. Ma perché i tredici non sono più i monopolisti del mercato: possono consolidare le quotazioni del greggio solo in accordo con i paesi extra Opec.
L’accordo con i paesi extra Opec è però impossibile. È un’idea di Daniel Yergin, il maggior economista del settore, ma irrealizzabile, per il semplice fatto che il maggior produttore di petrolio e gas fuori dell’Opec – uno dei maggiori, con la Russia - sono gli Usa, e gli Usa non possono far parte di un accordo di cartello. Russia e Usa eguagliano ognuno la produzione dell’Arabia Saudita – la raddoppiano se si tiene conto del gas, una fonte di energia per molte applicazioni sostitutiva del greggio. E altri produttori sono cresciuti: Canada, Cina, Kazakistan, Norvegia, Colombia, Azerbaigian - Egitto, Turkmenistan, Mozambico e altri per il gas.
Un altro motivo dell’impotenza è nell’Arabia Saudita. Il reame è teoricamente sempre in grado di terremotare il mercato, con le sue enormi riserve di idrocarburi a buon mercato. Come nel 1973, quando impose l’embargo all’esportazione di petrolio per due mesi, triplicando di colpo i prezzi. Ma allora poté farlo perché lo scià era d’accordo, anzi su sua iniziativa. E oggi non è più il paese polveroso, senza luce elettrica e senza strade, che era quarant’anni fa: è una potenza regionale, con una spesa militare enorme, e con impegni sociali e per infrastrutture che non può sgonfiare.

La verità dell’amore nella guerra – dei sessi

“Il punto più seducente e più irritante di un’avventura è quando due esseri umani, che non sanno ancora niente l’uno dell’altro, hanno già l’imperiosa abitudine di trovarsi, a certe ore, l’uno con l’altro”. Una corrispondenza di guerra tra un’artista sgrammaticata di music-hall, “non brutta” e “non di talento”, con l’affascinante Tenente Blu, porta a un diapason difficilmente raggiungibile, seppure semplice. A un legame attraverso la scrittura invece che a letto, sottile ma robusto.
Non una scrittura filologica – i corrispondenti citano Francis Jammes e Richard Wagner, e  praticano figure poetiche non in sintonia. Ma il loro rapporto a distanza corre come un’ubriacatura. Tra sentimenti semplici. Quando si incontrano, lui “si accorge che non è più scuro di aver voglia di diventare l’amante di Mitsou”, con la quale non ha in comune che  “discorsi indigenti”. Ma l’incanto non si dissolve, lei gli scriverà, con la sua logica rovesciata: “La cosa difficile per voi era non essere amato da me. La cosa quasi impossibile per me era essere amata da voi”. Non una filosofia da bacio come sembra. E una storia commovente per quanto non è sentimentale – l’inaffettivo Proust scriverà che ha pianto a leggerla.
La guerra al music-hall. Colette scrisse molto della Grande Guerra, da “donna Letizia” o “dal lato debole”. Qui ne fa un’altra storia: la sua stessa, di giovane provinciale, e artista del varietà, con l’“Uomo Perbene” - più di un Perbene, almeno un paio di mariti. Fuori tema, specie in una guerra  come quella, ma pietra miliare della liberazione femminile. Non come userà in sociologia, da un asservimento imposto, ma come psicologia e modo di essere: la guerra di Colette è metaforica, è quella dei sessi.
Colette, Mitsou, Passigli, remainders, pp. 123 € 4,50

lunedì 18 aprile 2016

Atlante non piace a Bruxelles

Che fine farà il fondo di stabilizzazione bancario con la Cdp in aggiunta alle banche? Non buona. Bruxelles si appresta a contestarlo: aiuto di Stato -  la Cdp è un ente di Stato. Dopo gli operatori della City che oggi si sono espressi contro – che però sono concorrenti, nel business dei crediti incagliati. E le agenzie di rating, che hannpo subito preannunciato perplessità sulla partecicipazione delle banche a un fondo pro banche. 
Troppo ottimismo attorno ad Atlante, il fondo privatistico di soccorso delle banche, per i crediti inesigibili e le ricapitalizzazioni. Già nel fine settimana, mentre Padoan e Visco celebravano al G 20 il fondo come la leva di Archimede, Bruxelles era all’opera per mettere i bastoni tra le ruote: aiuto di Stato. Proibito, proibitissimo. Perché del fondo fa parte la Cassa depositi e prestiti.
Era da aspettarselo. L’equiparazione è stata data per scontata tra la Cdp e la tedesca Kreditanstalt für Wiederaufbau, la banca per la ricostruzione, creata nel 1948 per gestire il piano Marshall, rivitalizzata dopo il 1989 per i Länder dell’Est, e da qualche anno impegnata nel salvataggio delle banche. E invece no, la Germania non ha mancato di ribadirlo anche in questo caso.
La Cdp non è la Kraftwerk
La Germania ha salvato il suo sistema creditizio, per problemi ben più gravi di quelli italiani e per cifre enormi, con denaro pubblico, direttamente e attraverso la KfW. Senza incorrere in obiezioni a Bruxelles. Per una salvaguardia contabile - il predominio tedesco a Bruxelles è un fatto di potere ma anche di astuzia, giuridica, regolamentare.
La Cdp è l’analogo della KfW. Anzi, la Kfw è perfino più pubblica della Cdp: è per l’80 percento del governo federale e per il 20 dei Länder, e fa capo al ministero del Tesoro-Finanze - la Cdp è a gestione autonoma, e di proprietà statale al 20 per cento, per il restante 20 per cento fa capo alle fondazioni bancarie, organismi privatissimi (18,5 per cento) e a titoli proprio (1,5). Ma l’esposizione della Cdp, circa 300 miliardi, è debito pubblico, quella della KfW, 500 miliardi no. Per un motivo: una regola contabile tedesca esc lude dal debito le società pubbliche che coprono la metà dei costi con ricavi di mercato. A volte basta un po’ di furbizia.

La politica mediterranea di Angela Merkel

C’è un vuoto ormai trentennale nella politica europea, e comprende tutto il Mediterraneo. Che Angela Merkel potrebbe aver deciso ora di riempire. Non l’Italia o la Francia, con i tanti altri paesi mediterranei, ma lo stesso apese che per trent’anni ha dirazzato l’Unione Europea, facendone un blocco del Nord. Anche astioso verso il Sud, di tipo leghista.
L’impegno prima per l’integrazione in Germania di un milione di profughi dalla Siria, e l’aggancio della Turchia subito dopo, con un robustissimo sostegno finanziario, delineano un disegno mediterraneo definito. Non bombe, ma sblocchi. Non elemosine, ma impegni su vasta scala, risolutivi. Ma solo come vuole la Germania: tre miliardi alla Turchia ma non un eurobond ai paesi africani e asiatici che alimentano l’esodo, come Renzi propone.
È tuttavia, con questo limite, come se Angela Merkel avesse individuato e praticasse una diplomazia straordinaria. Molto diversa da quelle perseguite finora, dall’Europa al carro degli Usa: non bellicosa. Anzi del tutto innovativa, umanitaria. L’Europa non sa, non vuole, non può fare la guerra, e allora fa la pace. Con determinazione – e purtroppo con qualche eccesso (v. sotto).
Può anche darsi che non sia un disegno, discusso, programmato. Ma a una cosa del genere la diplomazia tedesca da tempo confluisce, gia dalla (non) guerra alla Libia. Un disegno del genere del resto si può solo articolarlo ma non annunciarlo: la Germania oggi non lo consente. La stessa Angela Merkel, benché popolare e politicamente solida, non potrebbe dirlo: ha un’opinione pubblica incredibilmente leghista, anche tra i media socialisti. Ma il disegno è ormai consistente. 

L’Europa in soccorso al fascismo in Turchia

Sabato Merkel renderà l’ennesimo omaggio al presidente turco Erdogan. Portandosi dietro mezza Bruxelles, a partire dal presidente Tusk.
Difficile resistere all’effetto mandria: della cancelliera che  si porta al guinzaglio mezzo esecutivo europeo - l’Europa è piattamente tedeschizzata. E della cancelliera dell’arcipotente Germania che va a rendere l’ennesimo omaggio a un regime che più fascista non si può: zero libertà di opinione, oppositori a processo o incarcerati, minoranze etniche e religiose perseguitate, ambivalenza col terrorismo islamico.
Una sensazione che il processo in Germania al comico anti-Erdogan  accentua: non è vero, come ha detto Merkel in conferenza stampa, che il processo è obbligato e in futuro si cancellerà il reato. È come se Renzi dicesse, per il rapimento, la tortura e l’assassinio di Regeni: a al Sisi per ora non possiamo fargli nulla, ma in futuro… 
Erdogan fa arrivare la cancelliera, e il fido Tusk, a Gazientep. Cioè di fronte ai profughi siriani – la città è a pochi km. dalla frontiera – e ai misfatti dell’Is. Per ottenerne indirettamente, con la sola presenza, l’avallo di combattente contro il terrorismo. Che invece ha alimentato. E di soccorritore dei siriani. Che invece ha mandato in massa alle trappole balcaniche.
È vero che in politica internazionale non si possono scegliere gli amici. Ma il ripetuto omaggio di Merkel a Erdogan, il secondo o il terzo in poche settimane, con in più l’impegno intrattabile a strafinanziare la Turchia con fondi europei, è una solidissima sponda per il rais di Ankara. E uno sberleffo all’opposizione e alle democrazia. Senza mai una critica al fascismo strisciante in Turchia.
L’Europa Angela Merkel porta da tropo tempo al carro di Erdogan, che non merita rispetto.