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sabato 7 aprile 2012

Secondi pensieri - 96

zeulig

Anima - È il sogno che popola l’immaginario ebraico. Che sempre sogna, l’amante l’amata, il figlio il padre, il padre il suo proprio padre, o una nascita, una morte, un affare, un pranzo. È un altro modo di non dire il fato, l’innominabile Dio. Di dire velando – di cui Simone Weil diffida: “Il sogno è menzogna, esclude l’amore. L’amore è reale”. È il problema dell’incorporeo dell’uomo, dell’anima: l’angelo la cui parola, interna al corpo, è portata dal flusso del sangue, non dipende dalla fede, riconosce il Corano. Gilgul, o Tiltel, da cui Toledo prese il nome, via Tuletula, l’equivalente ebraico dell’anima, è andare vagando. Secondo Sophie de Grouchy “l’anima è un fuoco da alimentare, che si spegne se non s’attizza”. Simone è precisa: “L’anima che si trasferisce fuori del corpo in una altra cosa, questo è l’amore, il desiderio”. Sant’Agostino, che a volte è duro, antipatico, sa l’essenziale: “Nutre la mente solo ciò che la rallegra”.

Confessione – La mania di confessare Derrida chiama egodicea. Comune in effetti a molti santi, Agostino e poi altri santi laici, Montaigne, Rousseau, ma anche a Casanova, Pepys, il cardinale de Retz , nonché a Nietzsche e al suo discepolo Freud.

“Rousseau è il più grande esempio di mania di riflessione, poiché gli è riuscito di dominare anche il ricordo, di trasformarlo in maniera veramente geniale nel più sicuro meccanismo di protezione dal mondo esterno”, attesta Arendt a proposito di Rahel Varnhagen. Ben oltre le tattiche di Freud e della freudiana letteratura contemporanea, dai ricordi importuni: “Dalla riflessione e dalla sua hybris nasce la menzogna”, dalla prepotenza cioè. E ancora: “Quanto più immaginaria è un’esistenza, o un dolore, tanto più si è avidi di ascoltatori, di conferme”. Ma la confessione “è possibile solo in assoluta solitudine, che nessuno o nessuna forza oggettiva è in grado di rompere”: bisogna essere sfacciati. E: “Non le sensazioni, ma le sensazioni raccontate possono vincere e convincere l’ipocondriaco”, le confessioni sono ipocondria. Ma “sono racconti presto dimenticati, perché in fondo non interessano nessuno”. E a capo. “È condannato alla ripetizione” ciò che non attrae attenzione: “Si ripete perché, anche se accaduto realmente, non ha trovato nella realtà un luogo dove fermarsi”.

Oltre un certo punto l’esame di coscienza è peccato, dilettazione morbosa. Pathos mathos, si direbbe in greco, la sofferenza è un’abitudine – di pathei mathos, l’abitudine della sofferenza, parla Eschilo nell’Agamennone. La confessione non è nei vangeli, e non c’è pentimento richiesto, Erasmo se lo disse con Lutero. Anche se l’esame di coscienza frena e restringe la naturale turpitudine: ognuno ha un suo oracolo personale, come Senofonte sostiene in difesa di Socrate, anche se non tutto è prevedibile, non è segnato né logico. E l’altro è nell’io, dice sant’Agostino nelle “Confessioni”. O è viceversa, che l’io è nell’altro? E la letteratura che c’entra? La confessione come genere letterario è interminabile, insopportabile logorrea, la letteratura è scremata, costruita, già dai tempi di Omero. Quello che s’intende per confessione, il sogno vigile, sono le insonnie. Più in quest’epoca di celebrazione, dei “trenta gloriosi”, i giorni del maggio ’68 in Francia, e del prodotto interno lordo che cresce, ora di molto ora di poco, e dell’abolizione del dolore, non ce n’è più materia, da qui la inconsistenza, il nulla. È così che ora Dio è quello che non parla. E si può solo scrivere a se stessi. La confessione è un’esibizione, il dottor Freud va posto, pure lui, nel Krafft-Ebing. Si repertoria per non sapere che fare.

Dio - È la bellezza.
Senza la bellezza, senza Dio, non c’è umanità. Non c’è poesia, né musica o arte: l’ispirazione, il “fluire” della materia (suoni significati, regolarità, eccezioni), il gusto solo si colloca (manifesta, esprime) nell’ineffabile.
Un ateo potrebbe esserne la prova. Se non fosse un masochista, intento a cortocircuitarsi – limitarsi, mutilarsi.

Impotenza - L’ipotesi che Rousseau non avesse cinque figli in orfanotrofio, per essere impotente, è notevole. O Casanova, l’altro grande confessore. Se ne illumina il sogno dell’impotenza di specie, lungo, lento, ritornante, argomentato, faticoso. Non proprio dell’impotenza, della sterilità. L’energia procreatrice è fissata per ogni generazione, è un tot, ma si realizza asimmetricamente, con alcuni sì, con altri no. Un sogno che, quando viene, occupa intiere agitate, seppure quiete, notti, perché c’è sempre bisogno di precisare, affinare, incastrare. Non si tratta neppure di sterilità, a essere precisi, poiché la procreazione avviene, ma di compartecipazione democratica: alcuni hanno figli, altri no, ma la differenza tra gli uni e gli altri è solo un particolare modo di realizzarsi dell’energia procreatrice in dote fra coetanei.

Nichilismo – Sul nichilismo bisogna spiegarsi, la Nach Neuzeit di Guardini che si ribattezza postmoderno, l’interregno tra il mondo cristiano, della storia come freccia, e qualcosa che ancora latita, un anticristo di cui non si sanno i connotati. Non il niente, che non c’è, ogni vuoto si riempie. Il nichilismo che trovano in Dostoevskij, o dov’è il seme della rovina, curarsi l’ombelico, è per i tedeschi un ripiego al loro stanco anarchismo, di bombaroli, incendiari, killer. All’“anarchismo prussiano”, il “cuore avventuroso” di Jünger: “Ci siamo guadagnati la fama di distruttori di cattedrali. Non abbiamo dato all’Europa alcuna possibilità di perdere”. Anzi: “Abbiamo lavorato anni con la dinamite”, a vantaggio di chi? - “in tempi di malattie e sconfitte il veleno diventa medicina”, comodo. E qui finisce la storia: l’Umschlag piace al tedesco, il rovesciamento.
Il problema vero, che bisognerà pur affrontare, è il vitalismo della destra. O dove si ferma la rivolta antiborghese, a destra e a sinistra. Il disprezzo dei valori borghesi, la parsimonia, la sicurezza, la proprietà, non è di Lenin ma di Hitler, che per questo divenne l’idolo di un popolo istruito, il meglio istruito dell’epoca, alla ricerca di mondi nuovi. A cui Hitler non propose Odino, il Graal e il feudalesimo, ma visioni fantascientifiche. Saranno gli aristocratici Schmitt e Jünger ad ammonire con Evola contro i valori. Ma, uscendo con Drieu, D.H.Lawrence, Simenon e Saint-Exupéry fuori dalle tenebre, ciò che preoccupa è l’onestà: non si può essere intellettuali e re-sponsabili? Siamo qui a faticare per non far cadere Nietzsche nella vitto-ria che non avrebbe voluto, il nazismo, e a difendere il sofistico Socrate e il cristianesimo agostiniano. Sapendo che Lenin arrivò alla rivoluzione su un treno militare tedesco, pieno di marchi, con la moglie e l’amante.
Ma, poi, non si può dire ma sappiamo tutti che il razionalismo è una forma minore di umanità, limitata a un quinto, se non a un sesto, di tutti gli esseri umani. Della cui grande maggioranza, cinque, sei miliardi, si propone come superiore sviluppo, il colonialismo è duro a morire, ma è spiantato. Soprattutto nella forma dello sciamanesimo, che è scongiuro, e quindi in qualche modo formula assicurativa, razionale, ma è sempre fede in forze oscure, vitali: l’umanità è sempre essenzialmente vitalistica

Ribellione – Segna la storia cristiana, dal paradiso terrestre alla passione di Cristo. Compreso Prometeo, da essa appropriato. Più della fede, che è invece un dono (la grazia), non originario (naturale), e una maniera d’essere (imprinting), non ardimentosa, non incerta – non una sfida.
Vera teologia negativa non sarebbe questa, del Dio nascosto più che “negativo”, il censore occulto?

Storia – Quella europea – occidentale – è violenta: rivoluzionaria, risolutrice, totalitaria anche quando non lo era. È una storia di liberazione ma anche un tendere verso una fine. Una storia irragionevole e intrinsecamente livellatrice proprio per essere di razionalità e giustizia.
Non è un ossimoro – una serie di ossimori – ma una contraddizione. Che non sa risolvere.

zeulig@ntiit.eu

Némirovsky rovesciata - una scrittrice russa?

“Questo libro è stato sognato su altri libri”, quelli della madre Irène, scrittrice. Inizia così i “ringraziamenti” finali Elisabeth Gille, in questa biografia sognata della madre, in forma di autobiografia. Vista in particolare attraverso gli occhi dei suoi editori, Albin Michel e Robert Esménard, un punto d’osservazione che Elisabeth privilegiava, ella stessa redattrice tra le più apprezzate dell’editoria parigina. E probabilmente attraverso i ricordi della sorella maggiore Denise, che aveva tredici anni quando la madre fu portata a morire - Elisabeth ne aveva solo cinque.
“Le Mirador” è la vera biografia della scrittrice, più di quella pure documentatissima di Lienhardt e Philipponnat, degli affetti e le repulsioni. Del (non) rapporto con la Russia, dell’avversione reciproca con la madre, del padre amato, dell’ebraismo rifiutato (assimilazione), seppure con un probabile riflesso traumatico ex post, dell’esilarazione ingannevole di Parigi, del presunto coinvolgimento con la destra francese (tra le due guerre le riviste, d’informazione e culturali, erano in Francia di destra: vivaci, avvolgenti, innovative - aperte a una scrittrice ebrea russa appena immigrata). Ma a tratti prolissa. E, curiosamente, vera in forma rovesciata, benché scritta in modo convincente - forse per il proprio modo d’essere e di vedere di Elisabeth cinquant’anni dopo i fatti. “Mia madre era russa”, taglierà corto in un’intervista con René de Ceccaty per “Il Messaggero” nel 1992, a libro licenziato, “con tutta le leggenda che ciò implica”. La prima parte della sua opera, fino a “I cani e i lupi”, è “russa”, dice, ed è “molto migliore” della seconda – ancora non era uscita “Suite francese”, messa alla luce dalla sorella Denise dopo la morte di Elisabeth. Mentre Irène non lo era: ha vissuto poco in Russia, non ne aveva buon ricordo, e benché lettrice di Gogol e biografa di Cechov se ne teneva distante. La stessa Elisabeth lo mette in risalto: alle figlie “si rifiutò” d’insegnare il russo, “aveva chiuso le porte”.
Analogo il rovesciamento con l’ebraismo: Elisabeth lo sottolinea di sua madre come la madre lo sottolineava di tanti suoi personaggi. Al punto da legarne il personaggio più famoso, David Golder, al Menachem-Mendl di Sholem Aleichem. Mentre Irène non conosceva la letteratura yiddisch, e non amava le radici, da cosmopolita sradicata: l’aspetto più definito di Irène, condiviso col marito, è l’insouciance, e l’allegra identificazione con la parte migliore della Francia.
Resta il non detto, che l’iperfrancese Elisabeth forse non concepiva nemmeno. Irène Némirovsky fu arrestata e subito mandata a Auschwitz agli inizi della persecuzione, a metà 1942, col treno numero 6, su denuncia degli ambienti editoriali. Se non letterari, di qualche collega scrittore cioè. I tedeschi non erano convinti. Suo marito, dichiaratamente ebreo, di nome, di famiglia praticante, iscritta alla comunità, verrà perseguito tre mesi più tardi. Delle figlie verrà favorito l’allontanamento in convento. La discriminazione in Francia non era automatica, non c’era un registro degli ebrei, anche se recalcitranti, o cristianizzati come Irène. Nel 1943, in piena Parigi, Elsa Triolet pubblicava con primario editore, Denoël, col suo nome, il suo primo romanzo, benché ebrea e russa di origine, “Le cheval blanc”, col quale concorreva al premio Goncourt.
Elisabeth lo sa. Il nome della madre “non figurava nella prima lista Otto dei libri messi all’indice dalle autorità tedesche”, chiarisce a de Ceccaty. E: “Il governo di Vichy è andato al di là di ciò che esigevano i tedeschi”. Ma caratteristicamente rovescia anche questo tema, grandi patenti attribuendo all’editore di Irèn, Albin Michel. Mentre la colpa addebita alla madre, per “incoscienza politica”. Anzi, peggio: “Il suo accecamento”, dice, “era criminale”. E alla chiesa, che pure ha salvato lei e la sorella.
Elisabeth Gille, Mirador. Irène Némovsky, mia madre, Fazi, pp. 369 € 18

giovedì 5 aprile 2012

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (123)

Giuseppe Leuzzi

La Procura della Repubblica di Reggio Calabria che abbatte Bossi e la Lega non è male.

La scoperta della Sardegna
Sul giornale online “Rosebud” che Rina Brundu anima, il professor Massimo Pittau riproduce una poesiola di Grazia Deledda ventiduenne agli esordi, di cui un libraio vende l’autografo.
http://rinabrundu.com/2012/04/01/america-e-sardigna-una-inedita-poesia-sarda-di-grazia-deledda/
Il componimento non piace a Pittau, ma ha una sua forte, anche molto forte, grazia: fare la scoperta della Sardegna, nientemeno, che pure ha una lingua “romana”. Lo stesso Pittau ricorda l’impegno della giovanissima Grazia per il riscatto della sua terra, sia nei primi contatti editoriali che nei primi esercizi. Ma, dice, le rime zoppicano e l’assunto è velleitario: bisognava riscattare la Sardegna dal banditismo. E perché bisognava riscattare la Sardegna? Il banditismo era in Sardegna, ma non era “sardo”. Non esiste, direbbe Kant se parlasse romano – romanesco.

Pentiti
Il Procuratore Capo di Firenze, chiudendo le indagini per l’attentato in via dei Georgofili, dice che “le gravi affermazioni” di Spatuzza sui rapporti con la mafia di Dell’Utri e Berlusconi “non hanno ricevuto una verifica giudiziaria neppure simbolica”. Ma non processa Spatuzza per calunnia, come sarebbe suo dovere.
Spatuzza resta anzi un pentito accreditato, al quale paghiamo protezione e pensione. Serviva a fare scrivere molte pagine su Berlusconi che ordina l’attentato, e quindi il suo compito lo ha assolto.

Dante Troisi, “Diario di un giudice”, la narrazione in forma di autocoscienza che nel 1955 gli valse un processo dell’autorità giudiziaria e una censura in quanto magistrato, attribuisce a un certo punto al protagonista-narratore un incongruo bisogno di far abortire la moglie, per concludere: “Ho bisogno di commettere un reato, per acquistare sfrontatezza, coraggio di vivere e giudicare gli altri”. Si può fare il giudice, continua, per l’incoscienza dell’abitudine, “o per ripararsi o nascondere un reato”. E commenta: “Dopo, mi pentirò; perché sempre devo sentirmi pentito”.
È in questa piega della mente giudicante la consonanza che, tra i tanti soggetti del processo, gli imputati, gli inquirenti, i testimoni, la magistratura, inquirente e giudicante, ha con i pentiti, di mafia come già di terrorismo?
Troisi continua con un risvolto personale: “Ritenevo bastasse tutta la vita la colpa d’aver desiderato la guerra ed esserci andato” (volontario in Libia, n.d.r.), ma non è sufficiente. Per concludere che il complesso di colpa va rinnovato: “Proibito tenersi la medesima colpa, si consuma e va cambiata”.

C‘è luce a Sud
Pazzi, lettori di libri,\ andate al Sud & vivete\ là. È \ tutto ciò che ho\ da dire stavolta,\ alla fin fine,\ che la vita,\ nonostante tutti\ i suoi dannati\ imbrogli & intrighi\ vale la candela,\ andate a sud e vivete là\ giorni notti &\ quel che resta, nel\ corpo e nello spirito”. Nell’estate del 1912 Pound decideva di esplorare a piedi il Sud della Francia, la terra dei trovatori, della prima poesia occidentale, che è la sua. Non scopre il “Sud”, aveva già vissuto a Venezia e Sirmione, ma lo certifica.
Il Sud è per Pound la libertà di essere. Così continua il frammento di “A walking tour in Southern France”, una pubblicazione postuma del 1992, collazionata sui suoi taccuini di viaggio: “Cuillez! Carpe\ e quel che resta,\ raris, il giorno, &\ il colore, &\ il suono,\ l’ora, o qualsiasi cosa\ sia più stretta\ al vostro cuore-\ o al vostro desìo!\ Ma non siate \ parchi né\ mediocri nel\ desiderare”.
Un’idea non infrequente, e anzi comune ai molti viaggiatori e émigrés anglo-tedeschi dell’Ottocento e del primo Novecento, con l’illustre colonia caprese e nuclei sparsi in Sicilia: la “libertà” di essere, di desiderare, di vivere. Che sembra in contrasto col “ritardo” del Sud nell’Ottocento, il ritardo, il classicismo vuoto, retorico, e la chiusura. E in questo lungo dopoguerra la vuotaggine piccolo borghese dell’adattamento, dell’assimilazione perbenista, consumista, conformista. Ma sopravvissuta nelle cose: il linguaggio sotto la lingua di pezza, i modi di pensare e di essere E l’elemento naturale, certo: la luce, la flora, gli spazi. I monumenti anche, il passato vive, seppure vilipeso.

È la debolezza del Sud, il ritardo culturale. Non sulla modernità, cui anzi il meridionale è più disposto, in quanto provinciale e sradicato, è l’assenza o il rifiuto della propria storia o specificità. Che è l’esito del Risorgimento, rieccolo, dell’unità intesa come annessione, cui il meridionale fu prono proprio per l’entusiasmo della contemporaneità. La ricchezza è nel Salento e in Calabria la Grecia bizantina, ma loro non lo sanno, e copiano Lodi. Né sanno di essere stati arabi, per quasi un secolo. Per non dire della Sicilia, dove il tarì arabo era in uso con Pirandello, ma non si deve sapere. Il tarì che poi è tarion, era bizantino.

Per fare cultura ci vuole una lingua “nota” e un ambiente culturale. Non è un caso dell’uovo prima o della gallina – o sì? Umberto Eco (“Non pensate di liberarvi dei libri”) ricorda l’aforisma di Marchesi: non si può essere un Grande Poeta Bulgaro. Se la lingua non è nota cioè, compartecipata, studiata, tradotta. Se il paese (ambiente) non è propizio all’arte: disponibile, esercitato. Anche perché Grande Libro è quello letto e interpretato: “È il “Talmud” che ha prodotto la “Bibbia””.

leuzzi@antiit.eu

Una, cento, mille Spectre

C’è una manina negli scandali? Più d’una certamente, tra tutti coloro che hanno accesso alle “carte”, giudici, cancellieri, forze dell’ordine, intercettatori di professione. Nell’indifferenza e anzi nel plauso dei grandi cronisti e commentatori. È così che infine si fa entrare nello scandalo del calcio la Juventus, la cui mancanza questo sito denunciava tempo fa…
Non la Juventus, altrimenti bisognerebbe spiegarsi, l’allenatore Conte. Non Conte, ma un giornalista che ha il suo telefono – dice di averlo… E come lo dice? “Repubblica”: “Il documento anonimo, pieno di omissis, contiene alcuni brogliacci d’intercettazioni telefoniche apparentemente “dispersi” tra le centinaia di migliaia di documenti depositati nei mesi scorsi dalla procura di Cremona”. Dunque: ci sono centinaia di migliaia di “documenti”, cioè intercettazioni. Queste intercettazioni sono state ritenute ininfluenti a Cremona. A Bari invece no: un “anonimo” ha segnalato altri fatti. Un anonimo interno alla procura di Bari?
“Corriere della sera”: “È capitato che il procuratore di Bari Antonio Laudati ricevesse il 31 gennaio una lettera senza firma allegata a un verbale d’intercettazione telefonica della Squadra mobile di Cremona”. Serve a portare l’inchiesta del calcio a Bari? Sempre a fini di verità. Non una Spectre ci controlla: una, cento, mille Spectre?

mercoledì 4 aprile 2012

Interesse privato in atti giudiziari

Arrestato per quattro mesi nel 2006, e poi processato con 32 coimputati per associazione a delinquere e una serie di altri reati, l’allora sindaco di Pietrasanta Massimo Mallegni è ora assolto perché “il fatto non sussiste”.
Nulla di scandaloso, i processi si fanno per questo. Ma Mallegni è stato arrestato, accusato e processato su denuncia di cinque vigili urbani, parte civile al processo. Formalmente per mobbing, uno dei capi d’accusa contro l’ex sindaco. Reato di cui il Tribunale riconosce Mallegni colpevole, seppure con le attenuanti, ma perché? Voleva cambiarne le mansioni e non si può.
Il Procuratore della Repubblica di Lucca che lo ha incriminato e ha sostenuto l’accusa, Domenico Manzione, è il fratello di Antonella Manzione, il capo dei vigili urbani che Mallegni aveva sostituito. Antonella Manzione, essendo dirigente, non poteva fare causa per mobbing.
Il Procuratore Capo di Manzione, Giuseppe Quattrocchi, che si assunse in proprio la responsabilità degli arresti eccellenti, voleva passare da Lucca e Firenze, ed è stato accontentato. A Firenze ha insabbiato le indagini sulla giunta di sinistra per la speculazione nell’area di Castello, un progetto multimiliardario, e ne ha aperto una a carico della destra, che a Firenze non conta niente. Pietrasanta naturalmente ha poi votato a sinistra – Manzione è di destra.

Una manovra tira l’altra

Si fa colpa al “Financial Times” di favorire un’altra speculazione contro l’Italia e l’euro, pubblicando una nota europea perplessa sulla sostenibilità del bilancio, ma la cosa era inevitabile. Le manovre sono sterili, non risanano i bilanci. Monti per primo lo sa. Sono anzi dannose. L’Italia ha una storia recente di vent’anni di manovre, con effetti solo negativi: i redditi medi sono costantemente in calo – e più lo sarebbero con un indice dei prezzi meno addomesticato. L’unico elemento nuovo è che questa verità non si dica - “L’austerità di Monti minaccia l’economia”, ci voleva un giornale americano per dirlo, il “Wall Street Journal”.
La manovra di Monti è più letale di altre perché s’è innestata sulla recessione. Acuendola e aggravandola – sarà ora più difficile uscirne. Molto più difficile. Il mercato immobiliare è fermo, e a rischio fallimento – si dice “bolla”ma si vuole dire fallimento. Il mercato dell’auto è fermo, e l’auto è, bene o male, un quarto dell’industria italiana. L’industria delle vacanze è ferma: al mare e in montagna alberghi e case non registrano prenotazioni. La rivalutazione delle rendite catastali aiuta forse i bilanci di qualche banca, che può rivalutare i collaterali, ma con l’immobiliare sono le stesse banche a rischiare il fallimento. Nonché le famiglie evidentemente, che dopo aver perduto nel 2008-2009 il 4 per cento del potere d’acquisto – essersi cioè impoverite - secondo i calcoli della Banca d’Italia, hanno con buona certezza perso più del doppio nel biennio successivo: retribuzioni in calo, pensioni ferme.
Nel silenzio reverente che accompagna Monti stride in particolare l’accettazione supina dell’inerzia europea. Nessuna politica energetica, che limiti il caro petrolio. Nessuna politica anticiclica sulle materie prime, sempre più care. Nessuna politica del lavoro – si cita la Germania felix, ma la Germania ha un quarto dei lavoratori part time, e conteggia come posti di lavoro pure quelli da 3-400 euro, mensili. Nessuna politica monetaria, nei confronti del dollaro, dello yuan. Con un indice dei prezzi chiaramente falso.

martedì 3 aprile 2012

La vuota Mimesis di Pasolini

Un titolo importante per niente. Si legge in questa riproposta come un articolo di giornale, ma gli articoli di Pasolini erano interessanti, il libro toglie invece mattoni al compiaciuto edificio dell’autore.
Di un lavoro e di un’ambizione di quindici anni Pasolini racimola una silloge di appunti per una predica. Non specialmente quaresimale - in chiesa se ne sentono in questa Settimana di ben più vive. Rifacimento dantesco, quale si vuole, forse all’avvio, sette righe intitolate “Prefazione”: “Do alle stampe oggi queste pagine come un «documento», ma anche per fare dispetto ai miei «nemici»: infatti, offrendo loro una ragione di più per disprezzarmi, offro loro una ragione di più per andare all’Inferno” – oggi, pochi giorni prima del suo assassinio. Un libro che Pasolini ha “confezionato” personalmente, con commento e note editoriali - in una delle quali “anticipa” di un decennio l’assassinio. Di “poesia visiva”, dice in una delle interviste preparate per il lancio del libro, ma meglio si direbbe “illustrata” (anche il “nemico” Balestrini ha una violenza “illustrata”), con una ventina di foto stinte. Contornate da due abbozzi di canti e da appunti e frammenti che lui stesso definisce “qualcosa di poetico”, cioè di elegiaco, “anche se in prosa”.
Più che “canti” sono, nell’impianto non dichiarato, “cantos” poundiani, una poesia molto prosastica. Didascalica. Anzi, un susseguirsi di didascalie. Con Lonze, Lupe e Guide ritratte allo specchio: un dettagliato, ripetitivo, autoritratto, più che divina è una mimesis pasoliniana – come se ne mancassero, soprattutto in vita. I peccati sono la Normalità (Continenza), il Conformismo, la Volgarità, il Consumismo. Ma non per non ridere, neanche amaro. Il suo Inferno Pasolini lo vuole nella pianura padana, colpevole di Volgarità, un peccato il cui “primo carattere… consiste nel suo essere invadente, nel suo voler rendere Volgare anche chi non lo è, chi è estraneo al suo mondo (l’Italia del Nord e le sue industrie)”. Maestri d’ipocrisia: “I Volgari sono morali”. Ma non è satira – non è niente, appunto. In compagnia di se stessi, che viaggio è, che commedia?
Pier Paolo Pasolini, La Divina Mimesis, Oscar pp.117 € 9

Ombre - 125

Tre rigori contro l’Inter, due contro il Milan: non c’è più religione?

La Lega circuíta e intrappolata dalla ‘ndrangheta magari non è vero – Maroni è quello che ha dato più dispiaceri alla ‘ndrangheta. Ma è ben trovato: Reggio Calabria contro Milano, sembrava non ci forse partita possibile, e invece è aperta, e può essere decisiva.
Nella logica della (sua) giustizia, Bossi è già condannato, e con lui la Lega.

Contro Bossi c’è tutto lo schieramento unito: ‘ndrangheta, mafia (la moglie), sacra corona (R. Mauro). Manca la camorra, come mai?

La Farnesina incalza Washington. Washington rintraccia e trascrive la registrazione, e la mette in rete, dopo quattro giorni. Palazzo Chigi all’istante – era in attesa, ansiosa? – la immette sul proprio sito, tradotta, in neretto. Tutti i giornali la riprendono, in evidenza. E di che si tratta? “Ho parlato con il primo ministro italiano Monti”, vi dice Obama, “del fatto che alcuni di questi cambiamenti, alcune delle iniziative che abbiamo assunto, sembrano piccoli passi ma portano a un traguardo importante”. È tutto? No: “E i pericoli a cui ci riferiamo sono relativamente lontani rispetto alle altre sfide che dobbiamo affrontare giorno per giorno”. Il Verbo?

Obama sulla sicurezza nucleare, a un vertice che aveva voluto per mettere pressione sull’Iran, e su chi lo aiuta ad approntare la Bomba (Pakistan, Corea del Nord), ha infine glissato. Lo rivela l’accenno infine pubblicato a Monti – che non c’entra nulla con l’Iran e la proliferazione nucleare. Obama ha fatto “minutaggio”, ha riempito in qualche modo il suo intervento di cose irrilevanti. Avendo le “altre sfide” da “affrontare giorno per giorno”: la ripresa dell’economia e le elezioni fra pochi mesi”. Ma nessun giornale italiano sa che a Seul si parlava di sicurezza nucleare.

“The Promise of Africa, the Power of the Mediterranean” è un convegno che si preannuncia a Roma per il 15-16 novembre. Patrocinato dalla “International Herald Tribue”. È un ritorno d’interesse per il vecchio Terzo mondo? No, si paga (se si paga subito si risparmiano 250 sterline): è un convegno sul “lusso”, per venditori, sulla promettente Africa e il ricco Nord Africa.

Aldo Grasso seguita a criticare Minzolini. Nel trimestre gennaio-marzo il pubblico del Tg 1 si attesta sui 6.281.000 spettatori, per uno share del 23,2 per cento, mentre erano 6.600.000 nel 2011, per uno share del 25,4.
Ma Minzolini dirigeva il Tg 1 l’anno scorso, non quest’anno. Grasso voleva (surrettiziamente) fare l’elogio della “cura Minzolini”?

“Mercato dell’auto giù del 40 per cento” è il titolo. Ma la notizia – lo scandalo – è che Marchionne, la Fiat, dicono del diritto al lavoro: ”Di soli diritti si muore”. Solo di questo si discute. Ma diritti a che, se il lavoro non c’è più?

Alessandra Longo deride su “Repubblica” Anna Maria Bernini, Michaela Biancofiore e Michela Brambilla perché, nelle rispettive città, Bologna, Trento e Lecco, fanno politica. Con cattiveria: Biancofiore “sta avendo vita dura” a Trento. Femminismo? Quote rosa? Giornalismo?

È kermesse sul film di Giordana che ancora non si proietta. È un lancio pubblicitario, che però ha molti volontari. Con molte amnesie. Solo Stajano ricorda sul “Corriere della sera” i fatti della morte di Pinelli: il fermo illegale, l’imputazione di aver confessato, il mancato avviso alla famiglia, l’insensibilità di Calabresi verso il morto.
Questo Stajano dev’essere uno snob, direbbero i Montanelli redivivi. Come la Cederna che queste cose scrisse quarant’anni fa in “Pinelli, una finestra sulla strage” – Camilla, infatti, non era sua zia?

Si tace, si è sempre taciuto nella campagna di pacificazione voluta da Napolitano, che Calabresi fu “vittima” non solo di Adriano Sofri ma anche di Camilla Cederna, colonna dell’“Espresso” di Eugenio Scalfari, e poi di Zanetti-Scalfari.
Adriano non rientra nella pacificazione, Eugenio sì? Non vogliamo recuperare anche Sofri? Napolitano, ancora uno sforzo!

lunedì 2 aprile 2012

Alle origini della poesia

Un viaggio a piedi alle origini, tra giugno e luglio del 1912. Interrotto una prima volta dal suicidio a Parigi di Margaret Cravens, un’innamorata delusa. All’insegna, come nota Francesco Cappellini che cura la pubblicazione, di quelli che saranno temi costante della vita e l’opera di Pound: il nomadismo, l’anticonformismo, l’irruenza (“lo sprezzo dell’accidia”) e, scavate nella poesia d’amore e del “trobar clus”, le persistenze dei misteri ellenistici, greci e egiziani.
La prosa forse più sapida, tra le tante poetiche e i saggi critici. Un’escursione felice nell’Occitania, il Sud della Francia, la terra dei trovatori, un’epoca e una poesia che furono scelta precoce del giovanissimo Pound. Espungendo la malinconia, la nostalgia di ciò che più non è, la tradizione vivendo come forza viva. Fino a Arles, dove tutto è “naturale”, il sole e la poesia. Una raccolta di annotazioni pubblicata postuma, nel 1992, che impone subito il Pound bifronte: l’eversore del Novecento ancorato alla primissima poesia dell’evo moderno - del “canone occidentale”.
Ezra Pound, “Rose rampicanti”, Via del Vento, pp. 32 € 4

Finisce l’Europa di sant’Agostino

Siamo nel 1945, negli Usa, ma non è un nuovo inizio, è l’inizio della fine. Il titolo è peraltro, involontariamente profetico più che critico. Riproposto vent’anni fa in parallelo con un altro titolo,”Contro l’Europa”. dell’antropologa Ida Magli – due donne, dunque, per sanzionare la fine dell’Europa, una alla fine politica, una alla fine economica, per motivi peraltro non tanto dissimili. Ma di che cosa si celebra la crisi, il momento terminale, per quanto prolungato? Di che Europa? Zambrano ne ha, pur negli anni concitati della guerra, 1940-1945, e del suo personale esilio dalla Spagna, visione semplice tanto quanto eloquente: va alla fine l’umanità prometeica. Che non è quella di Eschilo e della grecità, ma di Agostino.
È il santo, dice Zambrano nel saggio centrale del libro, fulminante, “La violenza europea”, che ha recuperato Platone e Plotino, la classicità e l’ellenismo, trasformandole da religione della morte in religione di vita e avventura. Il cristianesimo, e quindi l’Europa nascente, riportando al Dio giudaico-cristiano, il creatore (“creatore per antonomasia, quello che ha tratto il mondo dal nulla”), nell’infinito: “Agostino è stato il padre dell’Europa”. Mentre per i greci e ogni altro antico Dio era un compartecipe della morte, della finitezza: la vera Grecia, di Nietzsche, Rohde, Burckhardt, è pessimista – “il greco non ha avuto vocazione per la vita, l’ha avuta per la ragione, per la bellezza”, intese come “una ribellione contro la meschinità delle’sistenza umana, una sf ida (l’unica concessa senza processo) all’invidia degli dei olimpici”.Tutto bene, si direbbe. E invece no.
L’Europa è questa tensione, bene o male. La sua agonia non è effetto dell’ideologia, la violenza o “estremizzazione”, “abuso” ,dell’ “eroico idealismo” che ha fatto l’uomo europeo, ma l’inerzia, la “spaventosa servitù dinnanzi a ciò che gli accade”, “l’incatenamento atroce ai fatti”, alla “lotta materiale e barbara”, reattivo unicamente per risentimento, invidia, rancore. L’Europa è “disanimata”. Per effetto della secolarizzazione, che Zambrano chiama “naturalezza”: “Ormai tutti i miglioramenti, per fantastici che siano, ci sembrano cosa naturale”. È lo sbocco del liberalismo, Zambrano constata con amarezza, per esserci crescita culturalmente, allieva di Ortega y Gasset: “Ci è toccato di vivere ore di dispersione”, nel pensiero, nelle arti, nella letteratura. Siamo ora alla veglia nella “casa ingrandita per la morte di qualcuno”: per l’Europa “nel suo incessante cambiamento c’era il principio della sua conservazione”.
María Zambrano, L’agonia dell’Europa, Marsilio, pp. 102 € 8

Letture - 92

letterautore

Digest – “Robusti scorci” di “Macbeth”, “Re Lear”, “Promessi Sposi”, “Delitto e castigo” invoca Citati (“Corriere della sera” 30 marzo) a beneficio dei 14-15enni. Che “sono molto più intelligenti di quanto immaginiamo, e comprendono cose che ci restano incomprensibili”. Ma vogliono anche “una saggia gradazione... una lenta preparazione della mente e della lingua”.
Il digest è formula apparentemente insensata. Anche se in grande uso in America, la riduzione dei capolavori della letteratura e dei best-seller in digest form, in trenta-cinquanta pagine. Con una rivista mensile, il “Reader’s Digest”, che è stato per buona parte del Novecento e oltre il più grande successo mondiale, con un record di vendite negli Usa nel 2004 di 12 milioni e mezzo di copie, quasi tutte per abbonamento. Una rivista mensile pubblicata in 78 paesi in ventuno lingue diverse, in tutti i continenti (in italiano ha cessato le pubblicazioni nel 2007). È una forma di scrittura breve. Non una sintesi-riassunto – che per un libro di Poirot o Miss Marple si potrebbe fare in una riga. Né un estratto, un assaggio dello stile dell’autore. È un rifacimento, più rapido - il remake, arte tipicamente americana (anche per appropriarsi i diritti d’autore: una forma di produzione su licenza).
Eco, in “Non sperate di sbarazzarvi dei libri”, p. 53, dà in anticipo ragione a Citati. Ricordando della sua infanzia, anni 1930, la Scala d’Oro, che riadattava i capolavori per i ragazzi dai 7 ai 14 anni, per classi biennali di età. Che, a suo dire, non mancavano di nulla delle edizioni integrali che da adulto gli avvenne di rileggere. Il suo interlocutore nel libro-intervista, Jean-Claude Charrière, non rileva nemmeno che in Francia l’abregé è ancora in uso, per le famiglie e le scuole, la famosa Bibliothèque verte, che adatta i capolavori ai ragazzi – e del resto s’era detto disgustato dei digest.

U.Eco – Dai trattati di scolastica e semiotica alla bustina di Minerva. Per la brevità che s’impone via via nel secondo Novecento – fino a twitter e l’sms. Ma anche per adattarsi via via ai formati dell’“Espresso”, che un tempo faceva articoli di dieci pagine, poi di tre, poi di una, e le rubriche di tre cartelle ha ridotto a due, e a una. È il formato che induce il pensiero – lo comprime?
Anche la facondia Eco adatta, grande narratore. Era di centinaia di pagine per aneddoto nel “Nome della rosa”, nel “Pendolo di Foucault”. Compendia ora la narrazione in poche frasi, poche righe.

Fellini – Si rivede “La dolce vita come si rilegge “Guerra e pace”: per solidità, vastità, varietà, fino alla lutulenza. La certezza dell’incertezza, che anima la passione.

Femminismo – Ovidio pretendeva di sapere tutto delle donne, ma Aristofane aveva già capito tutto. E dunque, fa una battaglia – il femminismo – contro un fronte aperto?

Melodramma – È la musica. E nella musica la voce, il canto. Si capisce a un’esecuzione operistica in forma di concerto, senza costumi ne scene: il melodramma resta intatto, anzi più sonoro (drammatico) potendo i cantanti emettere in pieno la voce.
Si capisce che alle origini e ancora per tutto il Settecento i primi cantanti pretendessero di portarsi dietro delle arie di baule, di sicuro successo. La trama è secondaria – i “temi” sono musicali.

Rimbaud – Era un Leopardi, solo più bello e “liberato”, un eguale mostro di cultura. È prototipo del poeta selvaggio, ma a sedici anni componeva versi latini. Poi svanito nel nulla,

Romanzo – Nasce come genere nel Settecento, in Inghilterra, per le donne: vedove, nubili, mogli di mariti spesso in viaggio (marinai, mercanti, militari). E per le loro cameriere, che in casa avevano il beneficio anch’esse delle candele, la notte, dopo il lavoro. Nasce così “borghese”, si suole dire. O non femminile? O popolare? Con molte pagine perché gli inverni erano lunghi.

Sinistra-Destra - Jünger nei primi anni 1920 anni scriveva per i nazionalisti “Standarte” e “Vormarsch”, stendardo, avanzata, e per “Widerstand, la resistenza. Werner Lass, condirettore di Jünger a “Vormarsch”, ex Freikorp, sarà del resto comunista. Per il fascino del totalitarismo, dell’efficienza, della “produttività politica”. Ciò si vede in letterati anche politicamente colti, come Aragon e il suo grande amico di gioventù, poi passato a destra, Drieu La Rochelle. L’efficacia come segno della buona politica, più che i partiti e la democrazia, col loro inevitabile carico di corruzione. È questo il segno di Ernst von Salomon e tutta la rivoluzione conservatrice tedesca, da Jünger a Carl Schmitt, Thomas Mann compreso. Con echi in Italia in Delio Cantimori.
È un’idea a cui soccombettero molti intellettuali onesti ma impreparati, tra essi i più noti e indifesi Céline e Pound. Di Céline il “Nouvel Observateur”, il settimanale progressista francese, ha potuto fare quattro anni fa il precursore delle 35 ore lavorative. Per ridere ma non troppo: nel mezzo delle invettive antitedesche e antisemite degli anni di guerra, Céline proprio questo proponeva nel 1941 nei “Beaux Draps”, uno dei libelli oggi impubblicabili. E nel 1944 chiedeva pubblicamente – ai giornali collaborazionisti! – “un vero Socialismo”, anzi “un vero Comunismo”.
Anche Chesterston, che certo non fu un violento come Céline, negli anni 1920 voleva la fine del capitalismo, spiega sempre il “Nouvel Observateur”, sempre quattro anni fa. Di cui ricorda l’“Arringa per una proprietà anticapitalista” nel 1926. Contro il totalitarismo sovietico come contro le concentrazioni industriali e finanziarie, che soppiantano il piccolo commercio e e la piccola proprietà contadina. Come contro Bernard Shaw e i Fabiani, vicini ai socialisti. Chesterston propone il “distributismo”: proprietà di dimensioni più o meno uguali per i coltivatori, e gruppi di consumatori uniti contro il dominio della grande distribuzione. Con “una presenza”, comenta il settimanale, “una forza, una urgenza anche, che sono quelle di tutte le opere quando sono dell’ottima letteratura”.

Le masse entrano nella storia da sinistra, con la Rivoluzione tagliateste. E col conte di Saint-Simon, Comte e Thierry, che ne volevano scacciare la libertà di giudizio. Mentre quelli della rivoluzione nobile arricciavano il naso: il barone Evola, col fascismo “visto da destra”, Schmitt, Jünger, Bataille, che fu pure comunista, Caillois, Montherlant, Malraux, lo stesso delatore Aragon. Stando saldi nell’arca della tradizione e del ripasso, con Thomas Mann, Benn, Drieu o Yourcenar. È fine uomo di affari e di Stato l’Adriano imperatore che volle la Giudea devastata - i romani, che non distruggevano nulla, fecero eccezione per le semite Cartagine e Gerusalemme: potrebbero aver saputo da qualche segreto di Fatima che i semiti ne tramavano la fine.
Altra pasta Céline, Hamsun, Pound: democraticismo plebeo, integrale, senza eroismi né inni alla morte. O Pirandello, che irride e corrode, fascista volontario: “La massa non ha una propria volontà”. O lo storico De Felice, che il Sessantotto disse nazista, uno che veniva dal Pci. È che la destra non è alfiera di morte, non tutta: è fatta di vitalisti che se la spassano, inclusi Evola e Heidegger, e questo è il nodo, o enigma, dell’essere di destra, dell’esserlo stati. Erano contro i guasti dell’idealismo pratico, della bontà, di sentimenti e intenzioni – nella trappola dell’efficientismo. Céline fu presto antibellicista e medico dei poveri. Divenne rognoso e antisemita per crederci, da resistente alle sopraffazioni, nel tempo in cui un tremendo potere, a lui non oscuro, bruciava vive la pietà e la legge.

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domenica 1 aprile 2012

Il mondo com'è - 89

astolfo

Facebook – Resuscita il passato che l’elettronica ha cancellato. Persone, eventi e relazioni, antecedenti o sottostanti. È anche esibizionismo e affari – l’affare dell’esibizionismo - ma il motore è la nostalgia. È il “vecchio” villaggio globale di Marshall McLuhan.

Novecento – È stato il secolo di Robespierre, in Francia, in Russia, in Spagna e perfino in Germania, con lo hitlerismo.
Danton era l’eroe rivoluzionario dell’Ottocento: la corruzione dell’incorruttibilità.

Occidente – È stato una cultura e una politica: la cultura dell’umanesimo e dei diritti della persona, e la politica, a essa conseguente, del dominio del mondo in forma di civililtà e progresso. È ora con la globalizzazione l’espressione geografica che sottintende, delle regioni che si trovano a Ovest. A Ovest dell’Oriente.
È incluso nella Costituzione degli Stati Uniti, il Western Hemisphere, che con più consistenza possono ambirci. L’Europa, che era un’appendice geografica del continente asiatico, torna a essere quello ch, una coda.

Spia – È la professione più antica, più di quella per antonomasia, se si esercitava già nel paradiso terrestre - qualcuno fece la spia a Dio, forse lo stesso serpente. È il più praticato oggi e il più celebrato – se non timorato di Dio (non si può sapere): con le intercettazioni e i pentiti, di autorità indiscussa. Lo spionaggio è l’unica attività oggi indiscussa: le intercettazioni, comprese le foto invasive, le istantanee mosse, la parole rubate, per strada, al caffè, al ristorante, e i pentiti.

Le spie del Novecento sono state soprattutto intellettuali – nell’Ottocento si spiavano macchinari, brevetti, piani militari. Molte ne furono scovate negli Usa a favore dell’Urss. E in Inghilterra. I più famosi sono i quattro di Cambridge “lavorati” dalla baronessa Budberg, compagna di H.G. Wells per tredici anni, per altrettanti segretaria di Gor’kij: Philby, MacLean, Burgess e Blunt. Più il Quinto uomo mai scoperto, che alcuni vogliono Wittgenstein (ma poteva essere Sraffa). Nel quadro che Gor’ki stesso aveva già dipinto nella “Storia di un uomo inutile”, il romanzo delle spie politiche. Un’affascinante anticipazione nel 1908, nella Russia zarista, del 1938, nell’Urss staliniana. Una galleria di mostri – e un’esplorazione dostoevskjana ancorata all’ordinario, che è la cifra di Gor’kij. Con una serie impressionante di “già visto” per questa nostra epoca di paranoici complotti. Il rivoluzionario è sempre uno “pagato dai tedeschi”, molto prima di Lenin e della stazione Finlandia. L’agente provocatore migliore è l’infiltrato che insegna ai rivoluzionari come fare le bombe, le prepara con loro, e li fa catturare.
Gli scrittori, in particolare, sono stati ansiosi di praticare lo spionaggio, o meglio di averlo praticato, era quasi una patente: Graham Greeene, Hemingway, Le Carrè. Nella “Morbida macchina” Burroughs si spia da solo: “Insomma, sono una spia e non so per chi lavoro, prendo istruzioni dai segnali stradali, dai giornali e da frammenti di conversazione”. Ha collaborato anche Max Salvatori, che fece la resistenza in America, il fratello di Joyce Lussu, con “gli americani” – ma non si sa con chi. E forse Silone, troppo livore nel suo anticomunismo. L’eroe è il traditore in un racconto a sorpresa di Borges. In antico non era così: Ulisse nell’“Iliade” non è un eroe.

Spiare nella Bassa Italia è domandare. Sarà latino: lo spione è un curioso. Ma è troppo comodo, non c’è eroe che abbia voluto fare la spia. Ulisse? Quello dell'“Iliade” non è un eroe.

È un destino cui lo stesso Gor’kij probabilmente non si sottrasse. Non per bisogno né per stupidità, da Eroe Scrittore Nazionale. Uno che non sottostimava Stalin, ma finì per esserne complice, seppure involontario. Per l’archivio degli espatriati che la sua segretaria baronessa Budberg ha consegnato a Mosca dopo essersi “rifugiata” a Londra – dove, grande anfitriona dell’intellettualità, avendo catturato H.G.Wells dopo Gor’kij, propiziò l’adesione al sovietismo dei professori di Cambridge. Di “Moura”, Maria Ignatievna Zakrevskaia, sposata Budberg, la spia del Novecento, l’Italia custodisce le spoglie: morì a Firenze nel 1974, in visita al figlio Pavel, bella donna fino alla fine, benché ingrassata. Moura era protetta a Londra da Jona Ustinov, padre di Peter, agente dell’M 15, la Cia di Sua Maestà. Gor’kij le ha dedicato “La vita di Klim Samgin”, duemila pagine di sé stesso.
Majakovskij, di cui si vuole che sia morto anch’egli assassinato e non suicida, fu anche lui delatore. Era del resto della morale bolscevica denunciare, con piacere. A partire dai bambini (i “Morosov”), contro i padri. Ma molta cura, è indubbio, veniva posta nel controllo degli intellettuali.
Gor’kij vive il post-leninismo, e poi gli anni di Stalin, in esilio. Da ultimo e a lungo a Sorrento e a Capri. Dorato però, e ben organizzato, e con libertà di viaggiare in patria. Sempre onorato e anzi idolatrato. Anche se da qualche tempo con qualche dubbio, da quando Aragon, lo stalinista mai pentito, pensò di “denunciarne” l’avvelenamento a opera del suo medico personale su istigazione di Yagoda, capo dei servizi segreti. Gor’ki muore due anni dopo il rientro e il viaggio trionfale per tutte le Russie (1934) che Stalin personalmente gli aveva organizzato, a ridosso della morte misteriosa di Max, il figlio adorato, e la presidenza del primo congresso degli scrittori sovietici – riunito a varare il realismo socialista da Gor’kij aborrito, di cui era ghiotto Stalin. Ogni pochi anni Gor’kij tornava dall’Italia, da Capri prima e poi da Sorrento, dove viveva con larghi mezzi, l’estate in Russia, accolto da folle entusiaste lungo il percorso, in manifestazioni naturalmente spontanee, e dalla guardia rossa a Mosca, e poi in tournée per il vasto paese, con scorta militare, a fare l’elogio della rivoluzione, anche nei campi di concentramento dove si sperimentava la rieducazione degli individui socialmente pericolosi. Stalin faceva le cose in grande: teatri e viali furono intitolati a Gor’kij, e la stessa classica Nijni-Novgorod, la città dov’era nato. Gor’kij non si schermiva e anzi lo ripagò creando un nuovo filone letterario, il culto della personalità. A Capri Gor’kij ebbe ospite nel 1927 Kamenev, ambasciatore a Roma, che dopo alcune settimane fu fatto rientrare a Mosca, arrestato e freddato.
In realtà Gor’kij fu “avvelenato” ufficialmente nel 1938, due anni dopo la morte, per volere di Stalin. Il Piccolo Padre aveva bisogno di un pretesto per liquidare Yagoda, che gestiva la polizia politica, allora Nkvd. Dopo avere imbastito i processi nel 1936 sulle carte che lo scrittore aveva affidato a Moura da tenere al sicuro a Londra, da Yagoda riportate a Mosca.

Moura, ucraina di nascita, sposa di un barone baltico, fu l’amante a Mosca, al tempo dell’attentato a Lenin, della spia inglese Lockhart. Non punita per questo dalla polizia. Fu quindi segretaria di Gor’kij, dopo assidua corte, la “donna di ferro” che lo scrittore vagheggiava, anche se ormai solo le sorti del genere umano l’appassionavano, e per esso del socialismo. Il rapporto durò familiare a Mosca, in Germania e a Sorrento, per tredici anni. E si concluse con la decisione di Gor’kij di rientrare in Russia. Moura a questo punto se ne separò. Non prima però d’avere avuto da Gor’kij l’archivio da custodire a Londra. A fine aprile 1933 Moura parte con l’archivio per Londra. L’8 maggio Gor’kij lascia Sorrento per Odessa, via Istanbul. Il 15 Moura arriva a Istanbul con l’Orient Express. Il 16 visita con Gor’kij Santa Sofia, e lo stesso giorno riparte per Londra. Dove diventerà l’amante di H.G.Wells per altri tredici anni, fino alla morte dello scrittore, e l’anfitriona della intellettualità britannica. Ma sempre fu spia di Mosca – la Cĕka, la polizia politica dei primi tempi sovietici, usava come provocatori graduati baltici sbandati, mezzo tedeschi, mezzo russi e niente per sé.

Majakovskij era attorniato da amici che lo controllavano. Maschi, le spie Agranov e El’bert. Femmine grazie all’inimitabile Lilija Brik. Quando nel 1928 Elizaveta Zilbert, in arte Elly Jones, da New York decise di trasferirsi a Parigi e rimettersi col poeta, Lilja l’anticipò, promuovendo l’affascinante Tat’jana Jakovleva, un’emigrata. Quando l’anno dopo il poeta ingenuo s’apprestava a proporre le nozze a Tat’jana, Lilja fulminea scambiò le parti: Tat’jana andò sposa a un visconte du Plessix, mentre una Veronica Polonskaja si rese disponibile, benché sposata. Poi il poeta si suicidò.

Moura non è sola. Una schiera di donne molto belle e sapienti si trovano al fianco dei grandi intellettuali comunisti tra le due guerre, provenienti dalla Russia di Lenin e Stalin senza essere fuoriuscite politiche. Philby comunicava con Mosca scrivendo alle amanti russe, di cui cinque sono conosciute. Alcune erano fuoriclasse: le sorelle Kagan in primo luogo, Lilja (Majakovskij) e Elsa (Aragon), le sorelle Babette (Willi Münzenberg) e Margarete Thüring (Buber figlio, comunista, e Heinz Neumann), le sorelle Schucht, moglie e cognata di Gramsci, la prima alla Cĕka e poi alla Ghepeù, la secondo all’ambasciata sovietica a Roma, la multiforme “Gala”, Elena Dmitrievna D’jakonova (Éluard, Dalì), la principessa Kudasheva, musa di Rolland. Margarita Konenkov invece circuiva Einstein, fuori dallo schieramento.
Tutte dominatrici, l’intelligenza è debole. Tutte comunistissime pur essendo anticomuniste, buone con Mosca cioè. Tutte sposate dapprima a un uomo inutile, la procedura è standard. Neppure ipocrite, se Elsa ha lasciato scritto: “Mi piacciono i gioielli, faccio parte dell’alta società, sono nell’alta società, e posso essere una sporcacciona. Sono un agente sovietico”. Con l’aggiunta crudele: “Mio marito è un comunista, ed è colpa mia se lo è”, al “contadino di Parigi” non lasciando neanche la colpa dell’abiezione.

Gas e petrolio impoveriscono l’Italia

La bolletta energetica, per importazioni di petrolio, gas, carbone e elettricità al netto delle riesportazioni, è stata nel 2011 di 61,5 miliardi. E in crescita esponenziale – nel 2009 era ancora a 37 miliardi. È un gigantesco trasferimento di risorse, e in questo caso di potere d’acquisto delle famiglie, alle quali tocca il conto finale. È come se poco meno di un terzo del potere d’acquisto delle famiglie si trasferisse verso i paesi da cui importiamo fonti di energia, considerato che la spesa delle famiglie si aggira sui 212 miliardi (in calo rispetto alla punta di 215 miliardi nel 2008).
Si paga il carobollette con scandalo. Come se fosse una novità, o un caso eccezionale. Mentre il contrario è vero: l’Italia ha sempre avuto le bollette più care del mondo, e di più le avrà in futuro. Perché non ha mai migliorato il suo mix energetico, e resta la maggiore consumatrice pro capite al mondo di idrocarburi: prodotti petroliferi e gas. Tra le fonti alternative ha peraltro scelto le energie rinnovabili, o pulite (anche se non lo sono), ancora più costose,di molto.
È il segreto più stridente nel tanto parlare di crisi. La bolletta energetica, o trasferimento all’estero di ricchezza, che nel 1974, dopo la prima crisi petrolifera, ammontò all’1,2 per cento del pil, è ora al 4,4 per cento, quasi quattro volte tanto. Allora sembrò insopportabile: fu bloccata la circolazione, furono chiuse per decreto le luci e i riscaldamenti. Oggi non se ne parla, ma l’energia è, ben più di allora, la fonte principale d’impoverimento degli italiani.

Il mercato dell’Italia è la corruzione

Transparency International, l’organismo internazionale che analizza la corruzione in affari nei vari Stati, ha declassato venerdì l’Italia al 67mo posto. Con un grafico che segna due decisi peggioramenti, entrambi di una dozzina di posizioni, nei due bienni 2007-2008 e 2009-2010. Come a dire che non c’è differenza tra destra e sinistra politica – il primo biennio era governato da Prodi, il secondo da Berlusconi.
Transparency aveva preso l’Italia, all’inizio delle sue rilevazioni nel 2000-2001, poco dietro la Germania e gli altri paesi europei, tutti nelle posizioni da venti a trenta - eccetto la Gran Bretagna, in 13ma posizione. Ora l’Italia è scesa al 67mo posto, cioè tra i paesi più corrotti. Mentre la Germania ha scalato posizioni virtuose, da 20 a 15, la Francia è rimasta attorno al 20 - dove l’ha raggiunta la Gran Bretagna – e la Spagna si è limitata a scendere dalla posizione 22 alla 30.
L’Italia, è il caso di segnalarlo, diventa corrottissima dopo Mani Pulite e l’antipolitica. Se prima rubavano (poco) i partiti, poi sono rimasti liberi di tubare (molto) tutti.

L’onda travolgente delle materie prime

La globalizzazione lo copre, e anzi lo esorcizza, ma la crisi, dopo il crack finanziario, è l’effetto di un rincaro senza precedenti della materie prime, agricole e minerarie. E fra queste dei combustibili fossili, carbone e idrocarburi. I rincari della benzina e del gas sono, nella loro abnormità, parte di un abnorme rincaro di tutte le materie prime, avviato prima della crisi finanziaria e a essa sopravvissuta, con più forza.
È l’effetto positivo della globalizzazione. L’introduzione al mercato e ai consumi di quasi tre miliardi di persone: la Cina, l’India, il Brasile e buona parte dell’America Latina, la Russia, le tigri asiatiche. Ma, rapido e eccessivo, e non governato (non se ne parla nemmeno), ha messo in crisi l’Europa, e minaccia ora lo stessa globalizzazione. L’effetto benefico, cioè, dell’apertura mondiale dei mercati. La Cina, che pure è grande produttore di materie prime, potrebbe esserne la seconda vittima – come lo fu il Giappone trent’anni fa, dopo i due shock petroliferi del 1973 e del 1980 (dai quali cercò di salvarsi col piano nucleare finito a Fukushima).

Fine del ciclo europeo

Crisi dl debito, caro materie prime, in competitività: potrebbe essere per l’Europa, e l’Occidnete, il punto di svolta di una delle “onde Kondratieff”, o cicli semisecolari – per i quali l’economista russo, che le aveva teorizzate nel 1928, pagò dieci anni dopo con la vita, Stalin non voleva interruzioni nella storia. Kondratieff rilevava nella storia economica dell’Ottocento due cicli semisecolari - il primo a partire dal 1790 - con tre fasi costanti: espansione, stagnazione, recessione. Un terzo ciclo rilevava con la Belle Époque a fine Ottocento, e la storia s’impegnava a dargli ragione, con la stagnazione degli anni Venti, e la Recessione.
Ora si può presumere chiuso il ciclo aperto negli anni 1950 dal Piano Marshall e poi dal Mec: l’Italia più degli altri, ma l’Europa tutta è in stagnazione da vent’anni, e gli Usa se la passano poco meglio.