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sabato 6 febbraio 2010

Il mondo com'è - 32

astolfo

Assassini (Hashishin) - Hassan-i-Sabah era un giovane sciita persiano, nativo di Qom, uno dei primi centri della colonizzazione araba dell’Iran, bastione dello sciismo duodecimano, educato alla religione nella vicina Ray (Teheran). A 17 anni, nel 1071 dell’era cristiana, Hassan incontrò a Ray un maestro ismailita. Ne divenne amico con diffidenza, perché gli ismailiti “filosofeggiavano”, termine blasfemo per una persona pia, su Dio. Ma un anno dopo anch’egli era ismailita professo.
Hassan lasciò Ray, la famiglia e gli amici, tra i quali il poeta Omar Khayyam, e si recò in Egitto, sede della dinastia Fatimide che privilegiava gli ismailiti. Vi giunse nel 1078, vi restò tre anni, peregrinò per la Persia per altri nove, e nel 1090 si prese il castello di Alamut, nel massiccio montuoso degli Elburz che dominano il Caspio. “Il resto del suo tempo fino alla morte (nel 1124)”, ha scritto il cronista Rashid el Din, “lo passò nella sua dimora, occupato a leggere, a stendere sulla carta le parole della sua missione, a amministrare gli affari del suo regno, con una condotta di vita ascetica, sobria e pia”.
Potrebbe essere l’agiografia del perfetto re, saggio e previdente. E invece Hassan fu il creatore e il capo della setta degli Assassini, che per oltre un secolo e mezzo, fino a che Alamut non fu presa e distrutta dai Mongoli nel 1256, “mise d'accordo, con l'efficienza che lo distingueva, l'assassinio e le arti liberali” (Freya Stark), insanguinando l’Oriente islamico, e anche la cristianità. Nel 1158 un Assassino fu trovato nel campo di Federico Barbarossa che assediava Milano, assoldato evidentemente dai milanesi. Nel 1195 a Chinon gli invasori inglesi scovarono ben quindici Assassini, assoldati dal re di Francia per uccidere Riccardo Cuor di Leone. Sei anni prima, il 28 aprile 1192, due Assassini avevano ucciso a Tiro Corrado del Monferrato, re di Gerusalemme, mandati dallo stesso Riccardo. Alcuni dei successori di Hassan tentarono perfino una politica di alleanze. Tracce di missioni diplomatiche degli Hashishin sono rimaste in varie cancellerie europee.
Hassan è il famoso Veglio, Vecchio, della Montagna, la cui memoria nel 1273, ad avventura finita, elettrizzò Marco Polo in viaggio verso la Cina. Marco Polo racconta con meraviglia come il Veglio si portava in soggezione i giovani suoi futuri sicari. Li faceva trasportare addormentati in un giardino bello come il Paradiso terrestre. Quando poi ne aveva bisogno per un agguato li faceva trasportare, sempre addormentati, dentro il suo palazzo. E alle loro inevitabili lamentele sul Paradiso perduto, spiegava che la missione da intraprendere era la sola maniera per riguadagnarselo.
Il racconto di Marco Polo è contestato dagli storici, non solo islamici. Il termine hashishin è storico, ed è il nome arabo della setta Nizari dello sciismo ismailita. Sarebbe derivata però non dall'uso dell'hashish ma dal nome del capo, Hassan-i-Sabah. La setta Nizari, di cui Hassan fu a capo, nacque sotto la dinastia fatimide ismailita sulla successione del califfo Ma'ad el-Mustansir Billah. I Nizari si chiamarono el-Da'wa el-Jadida, il Nuovo Appello (alla conversioe), in opposizione al Vecchio Appello fatimide.
E tuttavia è certo che quella del Vecchio della Montagna fu una vera internazionale del terrore. Così come è certa la derivazione di "assassino" dal nome popolare dell setta. Nel Paradiso di Alamut i giovani si esercitavano a parlare il latino, il greco, le lingue romanze e l'arabo, a cambiare personalità, a volteggiare come acrobati, all’obbedienza assoluta. Marco Polo spiega che si seguivano già i criteri dei moderni servizi di spionaggio: ogni killer era messo alla prova, veniva eliminato se la missione falliva, ed era seguito e controllato segretamente da un’altra persona. Assoluta doveva essere anche la simulazione. Subito dopo la presa di Alamut, ha scritto Rashid el Din, Hassan-i-Sabah “ha posto i fondamenti dell’ordine dei fedain (i combattenti) nella sopraffazione e nella menzogna, nei preparativi ingannatori e nella dissimulazione perfida”. Non è necessario al terrore un progetto, né un ideale, la suggestione sì.
La setta degli ismailiti, residuale oggi in India, Pakistan, Iran e Zanzibar, è nota nelle fattezze paciose dell’Aga Khan, uomo d'affari. Ma l’Aga Khan è ricco per aver vinto nel 1866 presso l’Alta Corte di Bombay una causa che gli dà diritto alle decime imposte da Hassan, in quanto erede diretto del Gran Vecchio. I Fatimidi erano i discendenti di una famiglia persiana, stabilita in Palestina, che si era abilmente imposta scalzando la vera fede a favore di un sistema di iniziazione di cui essa era depositaria, e che si traduceva probabilmente in un’anticipazione del libero pensiero. Il radicalismo ismailita fu da essi patrocinato come grimaldello per affermare la tolleranza religiosa.
L'organizzazione del Gran Vecchio fu forse il modello dei Templari. Freya Stark, la viaggiatrice inglese che negli anni Venti scandagliò passo a passo la zona di Alamut, sostiene che “il raffronto tra le alte sfere delle due organizzazioni porta stranamente a un risultato identico”. Nell’Ottocento il conte di Gobineau ne ha fatto una forma di nazionalismo militante, che assimilava a quello dei carbonari italiani. Gobineau, per affermare la supremazia ariana, vedeva peraltro negli sciiti, e quindi negli ismailiti, un’organizzazione antisemita: una reazione dei persiani, indoeuropei, alla dominazione araba, e una sorta di esoterismo contrario al semitismo islamico.
Per un periodo il fattore religioso fu importante per gli Assassini. Le guerre di religione sono sopratutto feroci tra sette contigue, e gli uomini del Vecchio si eressero a difesa degli ismailiti contro le altre confessioni islamiche. “Versare il sangue di un eretico è più meritorio che uccidere settanta infedeli”, sostenne per un periodo un testo propagandistico. Ma la costanza non era una dote pregiata in Alamut.
Hassan e i Vecchi suoi successori sono scomparsi senza lasciare opere né memorie. Anche delle loro basi, una cinquantina di castelli nel periodo di massima espansione, non resta traccia. La loro storia, gonfia di brutti segni, premonizioni, angosciose aritmetiche, come in ogni moderna paura metropolitana, alimentata dalle voci e dall'insicurezza, si è dissolta. Nel Duecento le cronache arabe e persiane parlano degli Assassini come di sicari a pagamento. Il pagamento era anzi anticipato, come usa nella mafia: chi moriva lasciava guarnita la famiglia. “Lo perfido assassin” di Dante (“Inferno”, XIX) è, spiegherà un secolo dopo il commentatore Francesco da Buti, “colui che uccide altrui per denari”.

Australia - È il primo paese legalmente multiculturale. È la patria di persone che provengono da oltre 120 paesi. Due australiani sui cinque sono nati all'estero, o hanno almeno un genitore nato all'estero. Fino a circa cinquant’anni fa il ceppo anglo-celtico era dominante. Ora, degli australiani nati all’estero, più della metà proviene da paesi non anglosassoni.
Fino al secondo dopoguerra, in base alla politica dell’“Australia bianca”, varata dal governo federale nel 1901, i non europei erano rimasti praticamente esclusi dall’immigrazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta questa politica fu gradualmente attenuata, e nel 1973 ufficialmente abolita. La politica immigratoria è aperta a persone che abbiano specializzazioni e qualifiche di cui ci sia richiesta, ai parenti stretti dei residenti, ai profughi. Nell’ultimo trentennio l'Australia ha accolto poco meno di un milione di profughi, quasi tutti provenienti dal Sud-Est asiatico. Il volto dell'Australia è così cambiato notevolmente. Anche perché il governo federale favorisce lo sviluppo di una società culturalmente diversificata. Gli immigrati e le loro famiglie sono stati incoraggiati a conservare la loro lingua e le loro tradizioni culturali.

Terrorismo - Da dove viene il terrorismo? La minaccia senza volto, espressione urbana, metropolitana, della paura, fatta di assassinii imprevisti, attacchi suicidi, incendi o bombe incontrollate? La teoria moderna vuole anche per il complotto la giusta causa: il terrorismo è allucinazione persecutoria provocata dal “potere reale”, che è “potere occulto”, e quindi “potere da abbattere”. La tendenza è a privilegiare l’eversione, ma la conclusione è una paranoia di secondo grado, benché politicamente qualificata. Nella teoria classica, invece, il terrore era non più né meno buono del potere da abbattere: una manifestazione di disordine, condotta con fredda determinatezza. Era una teoria meno democraticistica, ma non meno vera. Di cui fu caso ampiamente analizzato la setta degli Hashishin, i terroristi del Vecchio della Montagna, che molti ora assimilano a Osama bin Laden e Al Qaeda.

Unione Europea – Non ha nulla di Unione, poiché ognuno vi si fa gli affari suoi, e poco di europeo, se non i resti del sovietismo: molti regolamenti e molti sbadigli. A meno che per europeo non s’intendano i sussidi a un’agricoltura fantasticamente distruttiva, la protezione dei monopoli, dagli sbarramenti legali all’entrata alle frodi legalizzate, la cura degli interessi parassitari, delle banche in primo luogo. Questa Europa non progetta e non prepara il futuro, fa un po’ di polizia, a uso dei padroni.

astolfo@antiit.eu

Che tristezza l'uomo solo

Tradotto da Dario Villa con brio, e al cinema dallo stilista Tom Ford con eleganza, è (in originale e anche a una lettura meno svelta) un racconto degli anni bui di Isherwood, lo scrittore inglese, qui trapiantato in California, cui il lettore deve la sempre viva trilogia di Berlino degli anni folli. Dovrebbe essere un’elaborazione del lutto per la morte accidentale dell’amico, è la giornata senza storia di un single nei primi anni 1960, di scrittura cupa, tra materiali inerti, la scontata paranoia su Los Angeles, la mania di costruire, la bomba, i vicini di casa, i ragazzi in strada, l’omofobia, che non c’è, i colleghi all’università, gli studenti, gli amici, le bevute. L’autostrada è l'unica libertà dell'uomo solo. Col conseguente elogio a metà libro dell’american way of life, in tutte le altre pagine disprezzata.
È il racconto senza filo di una giornata senza filo. O se si vuole dei sessant’anni dell’autore, che si rigenera alla “democrazia fisica” della palestra – e poi s’innamorerà di nuovo, di Don Bachardy, proprio come uno dei “vecchietti” che nel libro immagina parcheggiati dai vigili nelle case di riposo, dove si sposano, “anche a ottanta, a novanta, a cento anni”. Pruriginoso, cinquant’anni fa, forse anche quando fu riproposto, nella stessa traduzione, da Guanda tren'tanni fa, ogginemmeno questo.
Christopher Isherwood, Un uomo solo, Adelphi, pp. 148, € 16

venerdì 5 febbraio 2010

Voglia d'inflazione controllata - 2

Non c’è solo la Spagna dopo la Grecia. Tutti i trenta paesi più ricchi del mondo portano il debito tra questo e il prossimo anno sul 100 per cento del pil, l’Italia non è più sola. E non c’è solo il debito pubblico: la Spagna, che su questo fronte figura virtuosa, ha poi un debito privato enorme e inesigibile, che in un altro paese avrebbe già messo in crisi le banche. Il fatto è noto
(http://www.antiit.com/2009/12/la-spagna-e-piu-fallita-della-grecia.html
http://www.antiit.com/2009/06/riecco-la-spagna-spagnola.html), ed è stato denunciato già nel 2006, anche se finora si è preferito tacerlo: l’economia spagnola poggia sull’immobiliare, che da quattro anni è però ridotto a una partita di giro, giusto per non dichiarare fallimento, ma con costi alti sia per il sistema che per i ratios delle banche. L’esempio del Santander è quasi da farsa, della più grande banca iberica, che dichiara nove miliardi di utili, mentre ha crediti incagliati per un centinaio di miliardi. Il governo spagnolo, stretto fra l’euro e le banche, fa una scelta malthusiana, tagliando la spesa di 50 miliardi in tre anni, ed alzando l’età pensionabile a 67 anni. Per salvare il salvabile, cioè, taglia ogni possibilità di ripresa per molti anni a venire. Lasciando, col prolungamento della vita attiva, la disoccupazione ai suoi attuali livelli, che in Spagna sono del 22-23 per cento: niente occupazione nuova per un paio di generazioni.
Non c’è via d’uscita se non con una nuova filosofia del debito pubblico. Con un allentamento programmato, gestito, consapevole, del patto di stabilità. Tale cioè che non sia solo un tappabuchi, singole decisioni di singoli governi all’interno del sistema rigido, ma un’iniezione di flessibilità al sistema. In modo da innescare una ripresa: non si tratta di salvare il salvabile, c’è poco dal salvare volendo essere onesti, si tratta invece di rimettere il motore in funzione.

Il fallimento sarebbe più sano

È stato un paradosso all’inizio, che il mercato si sia voluto far salvare dallo Stato, cioè dai contribuenti. Non la General Motors, che è, è stata, l'America, ma è stata lasciata alla procedurafallimentare. No, le banche. Alcune banche, Lehman Brothers e un centinaio di banche minori sono state lasciate al fallimento, senza danni. Una furbata, i salvataggi. Ma a un anno e mezzo sono un grosso macigno sulla strada della ripresa, in contrasto con la concorrenza, e cioè col mercato stesso. E non è un paradosso ma una tragedia, se ci fosse ancora il senso del tragico, che le rapine e gli errori delle banche privilegiate siano pagati dagli Stati, dalle popolazioni, dai poveri. Nel caso italiano la crisi viene addirittura giocata dalle banche contro la liquidità, sommergendo i risparmiatori di derivati sul debito pubblico, cioè di costose polizze su un titolo che è cento volte più solido delle banche che lo assicurano. Mentre in Spagna il Banco Santander può dichiarare profitti record e tacere che è sommerso da crediti inesigibili, un buon terzo dell’immobiliare spagnolo, esposto per 350 miliardi.
È dubbio che la camicia di forza dell’euro possa garantire un salvataggio. Anche se ne escono la Grecia, la Spagna e il Portogallo, si ragiona, il sistema può continuare a lavorare. E invece no. Nell’impossibilità di un allentamento della rigida politica monetaria e del debito europea, sarebbe opportuno che le banche che non ce la fanno, o i paesi che non riescono a pagare il debito, dichiarassero default. Sarebbe un terremoto per tutto il sistema finanziario, ma sarebbe anche un bubbone che scoppia senza infettare l’organismo. O comunque lasciando l’organismo libero di recuperare, una ricostruzione immaginabile dopo il sisma. Anche perché non c’è una vera protezione civile contro i disastri, non c’è una guida o un’idea per uscire dalla crisi, non è Obama, non è l’Unione europea. Più debito pubblico per un debito privato ingovernabile è un sisma distruttivo continuo, già a questi livelli il debito è un mostro divorante.
Il mondo creato dale banche
Il segno di questa crisi sarà che l'informazione è dominata dalle banche. Tuttora, dopo la crisi da esse provocata, l'informazione che è poi la realtà in cui viviamo. Nei giornali, con la occasionale eccezione del "Sole 24 Ore", nei telegiornali, nei commenti degli specialisti. Più di tutti nelle cosiddette bibbie degli affari, "Financial Times", "Economist", "Wall Street Journal" - gli stessi che grasiosamente pongono la virtuosa Italia tra i Pigs, che è un acronimo per Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, ma significa porci, i paesi che minacciano il mercato, paesi mediterranei, non la Gran Bretagna o gli Usa. Veramente, la I di quel "porci" dovrebbe stare per Irlanda, ma per non infierire ancora sugli irlandesi gli inglesi benevolenti ci hanno aggiunto l’Italia, Piigs - che poi torna Pigs senza l'Irlanda.
La verità è che lacrisi è gestita dalle banche, non è stata da esse soltanto provocata. Col mercato delle voci e dell'opinikne pubblica. Coi superprofitti che denunciano nel pieno della crisi. Con la feroce sopeculazione in atto, contro la Grecia. E poi contro la Spagna - o in alternativa contro Non molto più di un anno fa l'"Economist" promuoveva a pieni voti malgrado la crisi la Spagna, tanto più, scriveva, per il raffronto con l’Italia, “nella morsa di un declino senza rimorsi” (gli spagnoli erano anche più alti, avendo un cestista di m. 2,13...). Oggi il Bilbao e il Santander non fa più pubblicità?
Perché non è vero che gli spagnoli sono più alti degli italiani. Se dieci banche italiane, due o tre ministeri e sei o sette industrie ne comprassero venti pagine, l’"Economist" non avrebbe problemi a riconoscerlo: i “rapporti” dell’Economist si fanno in base al numero delle pagine pubblicitarie che vengono prenotate.
Tanto, Italia o Spagna, sempre paesi latini sono per Londra, buoni per scherzarci su. Non a torto, visto il credito che danno aalla perfida Albione. Tanta acribia si fa valere anche se l'ottimismo che si esibisce (il credito della Spagna, l'aumento di capitale Unicredit...) è quotidianamente svergognato.
Ma, non va riopetuto abbastanza, i giornali poi contano poco, in quanto sono lo specchio delle banche angloamericane. Sono loro che hanno prodotto la crisi, a loro vantaggio, e la alimentano ora con la speculazione distruttiva contro gli Stati. La politica è sempre relegata in un angolo, non solo in Italia, dall'ideologia non innocente dell'antipolitica, anzi da qualche tempo scopertamente truffaldina, il cui gioco sono le tre carte, nelle pause dell'abbattimento o indebolimento dei governi.

Ombre - 41

Massimo Ciancimino non si pente perché è in attesa di rientrare nell'immenso patrimonio paterno, tutto mafioso, quando fra pochi mesi avrà finito la condanna in cui è incappato con i suo commercialisti. Ma si diverte a fare il pentito, contro i carabinieri, contro ex gentiluomini Dc, e contro Berlusconi e Dell'Utri. Nei tribunali, nei migliori giornali, e alla Rai. E' la terza via dell'antimafia, tra i pentiti pensionati e i mafiosi confiscati: non pentirsi ma professare "profonda fiducia" nei giudici. Avremo anche i "giudici della mafia", oltre che l'immondo raiume.

Massimo Ciancimino, il mafioso playboy, è esibito in tribunale mentre si fanno gli arresti che per decenni sono stati omessi. E si confiscano - non più si sequestrano, lasciandoli in gestione ai criminali, si confiscano definitivamente - parimoni miliardari, in euro. Il problema è che con i giudici palermitani che lo esibiscono ci ritroveremo per l'ternità, all'inferno.

Tito Boeri riprende su “Repubblica” la questione della criminalità dei clandestini. Per negarla. Ma lo fa con calcoli, deduzioni, note, dottrina. Per concludere che sono le leggi contro la clandestinità a incrementare i delitti fra i clandestini. Non gli schiavisti, nei paesi d’origine e in Italia, i cravattari dell’emigrazione. Che spesso sono gli stessi che controllano la droga, la prostituzione, e i vu’ cumpra’.
Non faceva prima a dire “Berlusconi cornuto”?

Il dottor Oscar Magi si dice sopraffatto dalla “fatica morale” impostagli dalla Corte Costituzionale. Che sul sequestro del mullah Omar ha determinato “una possibile eccezione assoluta e incontrollabile allo Stato di diritto”, scrive. Lo scrive un giudice, non Berlusconi. In una sentenza. Sembra di sognare: la Corte costituzionale fa commettere un crimine, a un giudice.
Il dottore è milanese, come Berlusconi, “figlio di magistrato e fratello di magistrato” informa pietoso il “Corriere della sera” (ma non sarebbe un’aggravante?), e si spiega, la Corte costituzionale sta a Roma. L’affranto giudice era il gip dell’“epoca eroica” di Mani Pulite, che tutti mannava ar gabbio, uno di mano lesta, e non si capacita che la Corte costituzionale abbia tenuto fuori dal suo processo i servizi segreti italiani. Mentre elogia i pubblici ministeri Spataro e Pomarici che gli hanno portato “prove certe”. Di che? Ma qui si capisce il perché: la giustizia a Milano la fa la Procura. Anche se non si sa perché.

Sei pagine del giornale sono prese dai giudici: ancora lo sciopero, Massimo Ciancimino, il dottor Magi. E una sensazione di sconforto: dei goliardi in toga, quasi tutti vecchietti, il figlio non pentito di un boss cattivissimo che accusa mezza Italia, creduto, senza mai alcuna prova, un giudice “figlio di magistrato, fratello di magistrato” che accusa d’illegalità la Corte costituzionale.

“The Hurt Locker”, film americano sulla guerra in Iraq, prenderà nove Oscar, o poco meno. Lo stesso film, proiettato al festival di Venezia, non ebbe nessun riconoscimento. Perché miglior attore a Venezia era Mickey Rourke per il film “The Wrestler”. Ma il riconoscimento doveva andare a Silvio Orlando, e “The Wrestler”, un mediocre polpettone sull’atleta suonato, ebbe il Leone d’oro – con gran dispetto dello stesso Rourke, peraltro. Nell’era dell’antipolitica, anche il premio a un attore è in Italia politico: di destra o di sinistra?

Il “Corriere della sera”, che ha “montato” D’Addario, svicola con cronachette di riporto. “Repubblica” e “Il Fatto” invece confermano, con i propri inviati: a Bari si indaga per sapere chi dà le informazioni ai giornali, chi è Tarantini, dove prende i soldi che non ha, e chi è il suo casino viaggiante. Facendo naturalmente finta di bacchettare “Panorama”, il settimanale di Berlusconi che ha rivelato l’indagine. È una bella concorrenza. A sinistra.

Marco Tronchetti Provera non è mai entrato nell’inchiesta sulle intercettazioni che faceva fare. La sua Pirelli e la sua ex Telecom Italia pagano i danni agli spiati, i ministeri di riferimento e 1.600 dipendenti, e questo basta alla Procura di Milano.
Ci sono milanesi e milanesi: se Berlusconi avesse fatto spiare un solo dipendente, per non dire dei ministeri, avrebbero chiesto l’ergastolo. È evidente che la giustizia a Milano si fa in Procura. Ma non si capisce perché. Cioè si capisce: dove tutto è marcio la concorrenza la decide la Procura.

La protesta dei giudici contro il governo è ridicola. Per l’età, le toghe rosse, le Costituzioni in mano, le entrate e le uscite. Ma nessuno lo scrive. Carità di patria? Paura?

Monsignor Crociata, nomen omen dei vescovi, tuona contro “l’irragionevole equiparazione tra immigrazione e criminalità”. Che nessuno pone. Il vescovo vuole criticare Berlusconi, prosit. Ma il problema che si pone è l’immigrazione clandestina. Che è un delitto in sé, anche senza il reato di clandestinità: è lo schiavismo contemporaneo. Perché i vescovi italiani la difendono?

“Sono come Garabombo”, dice Veltroni, e dice tutto. Garabombo è il leader invisibile dei campesinos di Manuel Scorza contro i latifondisti. Veltroni si vede invisibile in Sud America, come la revoluciòn. Allo stesso modo ha scambiato l’Africa con il suo turismo solidaristico. È un tardo terzomondista, ell’età della globalizzazione. Forse è solo ritardato.

Dopo che Mediaset ha infine sollevato “El Paìs” dal fardello della tv, con la sua montagna di debiti, Berlusconi non fa più notizia per il giornale spagnolo. Ne era una vedette, ogni giorno in berlina per un qualche motivo, è letteralmente scomparso.
L’Italia non fa notizia, la Spagna ha altro di cui parlare. La disoccupazione è al 20e passa per cento, le banche potrebbero – dovrebbero - fallire. Ma sono argomenti che la Spagna aveva anche un anno fa. Mentre “El Paìs” era riuscito a portare la non notizia Italia in prima pagina, un giorno sì e l’altro pure, grande giornalismo.

A “Repubblica” scrivono spesso insegnanti. Per lamentare le carenze dei governi Berlusconi, ma anche della scuola. Criticano la ministra Gelmini, e criticano anche l’indolenza e l’ignoranza dei ragazzi, in storia, geografia e in italiano scritto. Vantando implicitamente la propria impegnata preoccupazione, dannando l’altrui insufficienza. Malinconica dissociazione. Tanto più fra gli educatori: la scuola non serve a insegnare?

L'ex sindaco di Bologna Cofferati dice che a Bologna il malaffare è diffuso. Viene dismesso come un invidioso e un fallito, lui che ha riconquistato Bologna alla sinistra ed è stato per un decennio a capo della Cgil. Viene dismesso da sinistra. Non è - era - Bologna il laboratori di Prodi, della nuova Italia?

giovedì 4 febbraio 2010

Se la giustizia distrugge i buoni

Feroce film sull’ingiustizia della giustizia (per Goffredo Fofi "una storia d'amore come non se ne sanno più raccontare"...). Un bravo poliziotto, indebolito dalle vicende personali, della figlia e la moglie perdute in un incidente stradale, mentre lui faceva l'amore con una collega, è fatto fuori da una polizia feroce. La polizia protegge i corrotti, gli spacciatori e gli assassini violentatori seriali per sue superiori ragioni. Mentre tutte le cure la stessa polizia e la società dispiegano, con giudici, carcerieri e psichiatri, per riconoscere buona condotta e amor di Dio al più feroce degli assassini stupratori e torturatori, una sorta di Concutelli, e dargli la libertà, il giorno dopo il suo ennesimo assassinio, commesso in prigione. Nella freddissima Marsiglia. È un film reazionario? È la reazione la resistenza della buona coscienza?
Olivier Marchal, L’ultima missione

L'India subalterna è ancora da scoprire

Tre saggi di Ranajit Guha, di cui uno ampio, “La prosa della contro-insurrezione”, con un intervento critico di Gayatri Chakravorty Spivak (già tradotto nel 1995 in “Altre storie. La critica femminista della storia”, a cura di Paola Di Cori), e un’introduzione di Edward Said, non fermano la rapida obsolescenza della raccolta e dei Subaltern Studies. Una metodologia e un gruppo di storici indiani degli anni 1980, che rilessero la storia dell’India dal punto di vista della “subalternità”, un concetto accennato da Gramsci nelle “Note sulla storia d’Italia”. Un concetto che poteva – potrà – essere fertile, ma è stato ridotto a uno dei tanti circoli viziosi dell’ex terzomondismo, il dominio, le élites, e appunto il neo colonialismo.
Partendo dal concetto di egemonia moderata dominante e subalternità nel periodo risorgimentale, che è solo ovvio, Gramsci lo ha arricchito col riconoscimento della capacità di dominio culturale e politico dimostrata da Cavour e dai moderati. Che anch’esso è ovvio ma è l’inizio della semantica del dominio, del fatto che il padrone ha e dà le parole. Di questo i Subaltern Studies hanno preso negli anni 1980, via Edward Said, con gli attrezzi della semiologia francese del potere, Foucault, Derrida e Barthes, conoscenza e possesso solo per la prima parte, che il padrone vince sempre, anche perché racconta la storia. Con la coscienza maliziosa, da parte di Spivak: “Io scrivo, naturalmente, all’interno di un luogo nel quale si lavora per la produzione ideologica del neo colonialismo anche se sotto l’influenza di pensatori come Foucault”. Mentre Guha giunge alla conclusione che “la storiografia svela la propria natura di conoscenza colonialista”. Ma nel colonialismo tutto è colonialista, non lo dice la retorica stessa? Spivak, alla fine, si dà il compito di “mostrare le complicità tra il soggetto e l’oggetto della ricerca – tra il gruppo dei Subaltern Studies e la subalternità”. È una buona cosa?
Di questa storia rimane poco (il ruolo della religione, la comunicazione orale) o nulla: nulla di più sulla storia dell’India, a parte l’adattamento della retorica francese, qui chiamata anti-umanesimo, ai tradizionali criteri storiografici. Resta inalterata l’esigenza di Gramsci: “Le classi inferiori” deovono “conquistare l’autocoscienza attraverso una serie di negazioni”. La destrutturazione e il sospetto non sono novità, e se usate esclusivamente non sono buona cosa. Tutto poteva essere successo nelle cantine o fra i dottorandi della Sorbona che assimilano i loro maestri. Il solo merito del saggio centrale (anch’esso ferocemente formalistico: si articola su eventi storici arcani, senza una nota esplicativa) è di sottolineare, involontariamente, l’inutilità della linguistica.
L’analisi di come opera la dipendenza nella mentalità e la cultura, o anche soltanto nei consumi, alimentari, tessili, negli stili di vita e il linguaggio, resta da fare. Di come la subalternità è introiettata, la dipendenza che non è più imperiale e obbligata ma ricercata e comportamentale. In tutto il Sud, da Latina, o Frosinone, a Capo Dondra e Bali. La subalternità, già in Gramsci, è l’introiezione della dipendenza.
R. Guha, G.C.Spivak, Subaltern Studies, Ombre Corte, pp. 144, €12,50

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (53)

Giuseppe Leuzzi

Enzo Scotti, sottosegretario agli Esteri, presiede il Comitato dei ministri per il Mezzogiorno. Che infatti non esiste.

Una giovane insegnante molisana, giovane di trentatrè anni, gli anni di Cristo, supplente per i ripetenti di matematica a Monza in una scuola superiore, viene condannata quattro anni fa a due anni e rotti di carcere per atti osceni nei confronti di minori, cinque studenti a cui dava ripetizioni essendo stati trovati in abbigliamento discinto in sua presenza. I ragazzi non la accusano, ma il giudice di Monza la condanna. Inflessibile come i genitori di Monza: l’insegnante è un’incapace e ha un pesante accento meridionale. Ora l’insegnante è riconosciuta vittima dei cinque ripetenti, dopo aver passato quattro anni nella vergogna, e ormai, a 37 anni, fuori dal ogni lavoro.
Si sa nell’occasione che la supplente era stata pagata dalla scuole 447 euro. E questa è un’altra storia: emigrare da Isernia a Monza per “fare il professore”, per 447 euro.
Monza si è anche scoperta la capitale del consumo individuale di cocaina, la città dei bulli ripetenti che è stata e si vuole anche la più bacchettona d’Italia.

L’odio-di-sé-meridionale
Alla seguitissima trasmissione a premi “L’eredità”, Paolo Conti chiede a una concorrente veneta, una signora che si diletta di cucina: “In un ristorante calabrese le propongono «pipi arrustuti». Cosa sono?” La signora tituba. Infine, sbagliandosi nel pronunciare “arrustuti”, dice infatti “arrostiti”, opina trionfante per la terza di una quadruplice risposta plurima: peperoni arrostiti. Il conduttore ha in studio una bella ragazza che si è qualificata per calabrese, e le chiede se lei aveva avuto dubbi. “Oh sì”, risponde la velina, “io sono della Calabria superiore”. Che non si sa cosa sia e non c’entra nulla: le risposte alternative erano “spinaci”, “lumache”, “patate”.
Pipi e pepe, arrustuti e arrostiti, non basta avere un dialetto neo latino come il calabrese, un italiano dialettizzato, per essere buoni italiani. Specie con i calabresi, il rifiuto è pregiudiziale.

“La Stampa” trova a Rosarno, dove manda un inviato occasionale, che gli agrumi si “producono” per l’Unione europea, per incassare i contributi europei: “Ne raccoglievamo cento quintali e ne dichiaravamo cinquecento”. Sono i dati che il locale uomo del partito, o del sindacato, ha fornito. all’inviato. Che sono quelli di tutta l’Italia agricola, del latte, del grano, del bestiame, eccetera, ma a Rosarno sono illegali.
L’informatore è credibile, l’inviato non dubita, parla male del Sud. Leggere per credere: “Due anni fa sono cambiate le regole. Oggi i rimborsi arrivano a forfait: 1.500 euro a ettaro, a prescindere dalla produzione”. E Rosarno, “che fino a due anni fa aveva bisogno nei campi di 1.800 immigrati, oggi ne richiede solo alcune centinaia”. Ma come, prima i raccolti non erano inventati?
E i clandestini? “Bulgari e rumeni sono più appetibili degli africani: se li assumi in nero, rischi multe più lievi”. Ma a Rosarno è razzismo, sottintende l’informatore democratico.

“«Le altre questioni nazionali, laici e cattolici, liberali e socialisti, sono parole. Il problema vero insorto con l’unità è l’occupazione del Sud»”, dice un personaggio del romanzo di Astolfo, “Non c’è anarchico felice” (Lampi di stampa, pp. 676, € 21). Ma è un problema, dice ancora, “non grave, non più: «La questione meridionale è stata divisata per opprimere i meridionali, facendoli briganti, sfaticati, ladri, omertosi, che i carabinieri possano bastonare impuni. Tutte cose che loro adesso sono, dopo un secolo di propaganda, e così l’Italia tutta non ha un futuro, per la corruzione che la divora, a Sud e a Nord»”. Con una imprecisione, ma è vero. Non è vero che la corruzione del Sud abbia infettato il Nord, è impossibile, il Sud non ha di suo nemmeno i microbi. Mentre è incontestato che la questione meridionale è stata creata dal Risorgimento, a opera di meridionali, è vero.
La storia del Sud è ancora da scrivere. Alcuni domini mancano del tutto, con le loro culture, i linguaggi, le mentalità, e le persistenze delle culture: i micenei, i bizantini, i saraceni, gli albanesi, e la stessa Magna Grecia che è tutta da riscrivere, la religione, i linguaggi, dal dorico in poi, gli statuti giuridici, gli assetti padronali, i traffici e i legami, mediterranei ed extra. Anche dove è scritta, magari a profusione, solo pallido riflesso, stitico, incomprensibile, di logiche e realtà diverse. Remote, seppure dominanti. A opera spesso di sociologi e storici meridionali, perché no, che come tutti i servi s’impiccano all’albero del padrone – la corruzione dell’intelligenza è il primo delitto del colonialismo. E insignificanti malgrado il dominio, da qui la loro inefficacia, che è la prima causa del perdurante ritardo: l’unità dei carabinieri è come il cavallante che si limiti a strattonare la bestia, il cavallo non berrà, anche se ha sete.
La storia di chi non ha storia non è vuota. È piena di quello che ci mette chi lo priva di storia – poiché questa è un’operazione attiva, non si dà popolo senza storia, ma sì con lo svuotamento di essa. Nel quale, se si hanno dubbi o si scoprono tracce, si annaspa, tra echi, rimandi, omissioni, ellissi, eccezioni, pezzi di un puzzle impossibile da ricomporre. S’incorre in Barlaam da Seminara studiando Petrarca a fondo, nelle lettere, le confidenze, la vexata quaestio se e come conosceva Platone. Si scopre il reggimento calabrese nelle truppe inglesi antinapoleoniche studiando le collezioni di uniformi militari dell’epoca. L’analisi di come opera la dipendenza nella mentalità e la cultura, o anche soltanto nei consumi, alimentari, tessili, negli stili di vita e il linguaggio, resta da fare. Di come la subalternità è introiettata, la dipendenza che non è più imperiale e obbligata ma ricercata e comportamentale.
Riprendersi la storia sarebbe stato il primo impulso di una mentalità sana, non adulterata cioè dal dominio. E resta la chiave di ogni liberazione. Non la rivolta, non il rifiuto. L’antistoria o la controstoria, quale usava nel controinformazione, fornisce degli utensili, ma non il presupposto: per liberarsi è necessario non avere complessi d’inferiorità, né sudditanze, e nemmeno rifiuti. È necessario essere contro, ma con giudizio. In tutto il Sud, da Latina, o Frosinone, a Capo Dondra e Bali. La subalternità, già in Gramsci, è l’introiezione della dipendenza.

Pizzo
È una manifestazione del potere, non un assetto o una tara sociale. È sovrimposto alla società, in tutte le sue forme, non ne è espressione.
È il termometro della degradazione del potere. È anche una concezione di vita – è la base di una delle forme dello Stato secondo Max Weber, lo stato patrimoniale. Ma è anche un segnale della morbilità di un sistema di potere, da quello religioso a quello del lager.

martedì 2 febbraio 2010

Quasimodo a letto con Sibilla, per l'assegno

Ragguardevolissimo: lettere di letto di un trentenne, grande seduttore, a una quasi sessantenne, che se li fa pesare tutti, e parla di letteratura. L’attrattiva si spinge ad ammirare le opere dell’amata, criticando al paragone Montale. A meno che non sia una manfrina per ottenere, attraverso Sibilla, l’attenzione dell’eccellenza Pavolini, e qualche assegno dell’Accademia. Né gli editori né il prefatore dicono perché la passione cessò di colpo, il tempo è quando l’assegno è arrivato e Pavolini si defila. Non danno nemmeno l’età degli amanti, il lato più sapido della relazione.
Salvatore Quasimodo, A Sibilla

Sul '68 col rullo piacentino

Un fiammeggiante monumento alla stupidità, uno sberleffo a se stessi. All’incapacità di capire, alla superficialità, all’ignoranza, all’incredibile, incommensurabile, ottundimento di scuola picista, unicamente inteso a spianare la vitalità del ‘68: settarismo, categorie vuote, e riferimenti culturali da parole d’ordine – Lenin che nessuno conosce, Marx che nessuno legge, la storia sovietica, che nessuno ha studiato, nonché la Cina… Gianni Sofri e Edoarda Masi superano l’inconcepibile. Solo si salvano quattro o cinque recensioni di film.
Non da ultimo, l’ottusità si riflette nella mancanza di diacronia, di assestamento storiografico: se è un delirio da flagellazione non c’è pentimento.
Prima e dopo il ’68, antologia dei “Quaderni Piacentini”, a cura di G.Fofi e V.Giacopini

Secondi pensieri (37)

zeulig

Caduta - È più spesso inavvertita, non colpevole, e per questo disastrosa. Jünger dice invece che l’inavvertenza, come l’ebrietà e le droghe, facilita le cadute nell’errore – è il tema dei racconti di Poe.

Droga - Dà il senso del limite, nelle esperienze comunicate (Huxley, Benjamin, Jünger, Bachmann), riponendole tutte in un angolo, nemmeno bene illuminato. Nell’esperienza e anche nella memoria, che non dilata: non si ricorda se non ciò che già si conosce, e non accade se non ciò che in genere accade. Non può essere diversamente, nella resa scritta. Lo stesso è però nei fatti, nella loro sommatoria: si vivono mondi a cui non ci può congiungere. Da qui l’addictio, la repulsione-attrazione consumatrice. Che non amplia l’esperienza, la immiserisce.
È la fantascienza fatta realtà, seppure al suo modo (oggi) ingovernabile, distruttivo.

Esistenza – Presuppone l’essenza, nei fatti. L’esistenza implica l’essenza, in logica sarebbe altrimenti insignificante. Rozzo ma efficace, è Cartesio (“l’esistenza di Dio è compresa nella sua essenza”), Spinoza (“causa di se stesso è un essere la cui essenza implica l’esistenza”).

Fortuna - È come la Formula Uno, va pilotata.

Gesù – Non ha corpo né storia (non ha desiderio). È interamente verbo, messaggio. Creatura dell’ermeneutica.
Nella passione soffre. Ma è vero sangue il suo? Poiché risorge integro e bello.

Morte – Anch’essa è straordinaria.

Patria – È la lingua. La passione nazionale viene dalla lingua, non dai santi, o dai morti, e nemmeno dal sangue. È inestirpabile finché la lingua unifica, connota. Quando l’emigrato parla un’altra lingua, nella seconda generazione, perde la patria dei suoi e acquista quella del luogo – con la stessa ferocia.

Politica - È la forma di comunicazione più aperta, come linguaggio e come messa in scena. In tutte le sue manifestazioni l’uomo resta ancorato al segreto (mistero, indistinzione, camuffamento), che è insieme zavorra e difesa. Il segreto è meno vasto in politica, malgrado l’ipocrisia e i compromessi: gli obiettivi vanno dichiarati, e sono riscontrabili a breve, la scena è pubblica (non lo è nell’economia, e in molta cultura a religione), e c’è un ricambio, non ci sono posizioni precostituite immutabili, su fondamenta segrete e intoccabili. La politica è, dal punto di vista dell’Öffentlichkeit (pubblicità, opinione pubblica), accessibile al pubblico senza eccessive barriere di titoli.
È una forma di comunicazione o espressione democratica. E tuttavia è sempre mediocre, e insoddisfacente.

È gioco e risparmio, azzardo e calcolo, reale e illusoria. Come ogni altra impresa umana, l’innamoramento, l’investimento, l’amicizia, la guarigione. Ma deve risponderne alle masse, e quindi ne è sopraffatta.

Preghiera – Si rivolge in realtà a se stessi e agli altri, anche ai muri della chiesa e alle decorazioni, non a Dio. Un buddista prega convinto in una chiesa, un cristiano in un tempio. La divinità è un punto di forza, ma chiedere si può solo a se stessi e agli altri, individuati o indistinti.
È consolatoria perché è propositiva. È un proponimento.

Sesso - È il primo germe di socialità. E il primo impulso alla comunicazione. Ma al naturale non è bello, e affranca lo stupro – è materia di prostituzione. La sua bellezza è interna, nella carica di piacere che accumula. Ciò spiega anche la forte componente onanistica (narcisista, altruista) che c’è in ogni rapporto.

È il sesto senso. Per lo Zen il sesto senso è il pensiero. È l’erotismo il pensiero?
Ma il pensiero Zen sa molto di Emanuelle.

Perché Freud odia il sesso? Perchè Freud odia il sesso. La pansessualità che pone nella psicologia è morbosa. È una condanna dell’uomo, misantropia? No, poiché Freud ambiva al riconoscimento. È una condanna del corpo, di tipo pretastico ma più rigida: infanga lo spirito immateriale, i sogni, e perfino l’inconscio, secondo i canoni di un ritornante radicalismo spiritualistico.

Sigle - Le amano i terroristi e gli yuppies. Quelli della velocità, della scorciatoia, dell’ambizione.

Sogno - È un’esercitazione dell’io. Vi si muovono i sensi come vengono vissuti, in forma perfino ansiosa, con l’usato spirito d’osservazione, e con la facoltà critica (selettiva).
Fa anch’esso parte della conoscenza come riconoscimento, o riacquisto della memoria. Ma è più libero nelle forme, fino alla bizzarria. Se non che le elaborazioni notturne, “illuminanti” per stile e profondità, nella veglia restano mute.

Sudditanza – Non c’è re senza sudditi. La relazione re-suddito (padrone-schiavo, datore di lavoro-dipendente, banchiere-debitore) non è a senso unico, si sa. Ma non è un paradosso, è un fatto: non solo per il “potere di nuocere” dei servi (Hobbes) ma per la sopravvivenza dei forti. È una legge genetica. È una legge sociale: senza i deboli non si riproduce la catena di comando, la selezione.

zeulig@antiit.eu

domenica 31 gennaio 2010

Autoritratto di Hannah, antipatico

Formidabile, violenta trasposizione della vicenda dell'autore nel suo soggetto. Di Rahel Levin e August Varnhagen, persone per più aspetti stimabili, Hannah Arendt fa dei parvenu, lei perfino sciocca per essere ebrea, e quindi stretta tra assimilazione e rifiuto. Hannah Arendt non aveva avuto, e non avrà, problemi di rigetto della società cristiana e "occidentale" in cui ha vissuto, riconosciuta. Ma vive in questa biografia, che invece è un esame di coscienza, la stupidità ("banalità"? o è richiamo della traduttrice?) della sua relazione con Heidegger. Il cui rigetto ha ogni ragione - nel momento in cui scrive - di imputare al suo essere ebrea (dopo la guerra capirà invece che il suo amante, che ora dipende da lei per la riabilitazione, non è la Volpe che si credeva).
La trasposizione è talmente evidente che non si capisce come Lea Ritter Santini non la rilevi (e nemmeno Federica Sossi): sente che il testo è falsato, sia come saggio sia come biografia, ma non dice il perché. E' la despedida di Hannah, il canto dell'addio, nel momento in cui decide di pubblicarla. Non amabile.
Hannah Arendt, Rahel Varnhagen, storia di una donna ebrea

Letture - 24

letterautore

Antiberlusconismo - Asor Rosa non solo, grande barone quanti altri mai alla Sapienza di Roma per quarant’anni, ma Cordero, Camilleri, Tabucchi, scrittori senza potere e per questo più credibili, costantemente da anni imprecano contro Berlusconi senza effetto, e anzi con qualche danno. Traditi al fronte alle spalle? Le violente invettive di Tabucchi su “Le Monde” lo hanno ridotto all’isolamento, alla ridotta di Vecchiano.
Il letterato può essere estremista, non deve portare pezze d’appoggio. Ma per una causa che sia sentita giusta, che lui sappia far sentire giusta: Zola per Dreyfus. Deve stare con i migliori, in Italia Ciampi, Napolitano, non insolentirli. Riconoscere l’anima del mondo prima di ergersene a giudice, e per questo identificarvisi, non pretendere alla torre d’avorio. Nel caso di Camilleri avere anche un minimo di coerenza - Berlusconi è il suo editore.
In tutti l’invettiva è di maniera, se non burocratica, scontata. Con gli astratti furori movimentisti di persone e generazioni che non hanno vissuto il movimento (il Sessantotto), e probabilmente lo deprecano, come Berlusconi. La lingua di gesso o di riporto degli imbalsamatori, dei tardi nemici-amanti di quel grande movimento di libertà (verità).
Per troppi a questo punto Berlusconi è un reagente, o come si vuole lui il monello del “re è nudo”.

Bibbia – È come dice Bloom, il capolavoro letterario per eccellenza. Ha lunghi punti morti, anzi interi libri. Ma questo succede a tutti i poemi epici. Nell’insieme è più viva di ogni altro. Dell’“Odissea” non leggiamo più di un terzo. Dell’“Iliade” pochi episodi.

Dante – Il professor Emil Ruth lo voleva tedesco, nel 1853, nei suoi “Studien über Dante”, prontamente tradotti. Nel quadro della Verjürgung della poesia italiana, del ringiovanimento, che non poteva venire dall’Italia esangue ma dalla ribollente Germania. Il professore, che Croce bonariamente ridicolizza, non era antitaliano, anzi era un italianista. La tesi della Verjürgung aveva già elaborato nella sua “Geschichte der italienischen Dichtung” sei anni prima, non tradotta.

Goethe - Arrivato a una certa età ho deciso che bisognava leggere Goethe da cima a fondo, invece di citarlo per letture estemporanee. Ho intrapreso il Faust con Croce, e non ha funzionato. Ho tentato via Thomas Mann, e la lettura è diventata noiosa. Con Bloom, che è brillante, con Citati, e niente, solo fatica, per non dire di Fortini: un dovere faticoso. L’ho allora letto in tedesco. Con fatica, perché non lo pratico, ma con diletto. È l’originale sempre migliore delle migliori traduzioni, certo. È l’autore sempre migliore dei suoi interpreti?

Leopardi – La sorpresa dell’ordinario – “La ginestra”, “Il sabato”, “A Silvia”, “Il tramonto”.

Musica – Per la prima volta dunque non è popolare: non cantabile, melodica, memorizzabile. E non è leggibile, se non con le istruzioni per l’uso. Di carattere peraltro strettamente tecnico. È regole e programmi, camuffati da ideologie, e conditi da tecniche, il segno, la nota, tempi astratti – la solita razionalità a bassa intensità. È cancellativa, nel nome dell’autocancellazione. Di modestia esibita quindi, programmata, ideologizzata. Ma pretende l’esecuzione, un pubblico.
La critica del pubblico, con l’ambizione di formarne uno nuovo, è caratteristica delle avanguardie. Ma per la musica dura da un secolo. Peraltro immobile: è l’avanguardia di un secolo fa.

Novecento - Nella musica, la pittura, la scultura, l’architettura, l’arte nel Novecento è solo forma. Nella letteratura ci ha tentato, con poco risultato: ha prevalso l’industria - l’editoria e la libreria saranno il nostro Milite Ignoto. Ha dimenticato l’esposizione (orientamento), la luce, l’ambientazione, i colori, il disegno, la solidità. È regole e programmi, camuffati da ideologie, e conditi da tecniche – la razionalità a bassa intensità. Che peraltro sa usare in misura minima, nulla al confronto con le arti popolari che le tecnologie mediano dall’arte ma sanno mettere a frutto: la musica pop, la grafica, la pubblicità, i non luoghi (stazioni, aeroporti, stazioni di servizio, centri commerciali…). Può suscitare emozioni ma indotte, come con la propaganda.
È cancellativa, nel nome dell’autocancellazione. Di modestia esibita quindi, programmata, ideologizzata. Per finire nel mercato dell’antimercato, il più perfido.
Per alimentare un’avanguardia che è vecchia ormai di un secolo: l’artista nasce sterile, geneticamente ora, di quarta o quinta generazione, dopo la sterilizzazione ideologica.

Poesia - È l’unico linguaggio economico (ergonomico), che non spreca cioè le parole – ogni sua parola è significante e si basta. Altrove, nella saggistica critica soprattutto, in filosofia, che sono i domini della ragione, la maggior parte delle parole sono superflue, anche nella prosa più controllata.

È evasione. Anche quando è impegnata, civile, politica, filosofica: è evasione dell’impegno. Tanta poesia è d’amore perché l’amore è il massimo terreno d’evasione. Come la natura. I bambini, che pure sono materia d’amore, non sono soggetti di poesia, perché sono realisti.

È un pensiero spuntato? È finzione: effetti speciali, sottigliezze, allusioni, ipotesi, possibilità. Dov’è la verità della poesia? Nella poesia.

letterautore@antiit.eu