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sabato 3 luglio 2021

Il ministero degli Affari Smarriti – o la Cina alla Farnesina

Gli Emirati dopo la Libia, l’Italia colleziona abbandoni e rifiuti di Paesi che pure molto se ne attendevano, molto avendo anche investito in Italia. Non esistono casi del genere negli affari internazionali. Alleati e clienti si possono pure perdere, ma perché hanno trovato di meglio altrove, non per incuria o incapacità dei beneficiari. La politica estera dell’avvocato di Volturara Appula e del suo ministro degli Esteri Di Maio, il bibitaro dello stadio Maradona, può vantare ora questa primizia.
Era la Farnesina per molti anni il ministero più efficiente, dopo il Tesoro. È bastato poco per schierarla sulla traccia grillina, fatta di trovatine (le quota rosa, i viaggi del ministro, uno al giorno, i convegni e le conferenze, da remoto, i costosi riscatti dei cooperanti), per portarla al ridicolo. Nomine presuntuose. Per esempio in Libia, dove invece, aprendo per prima l’ambasciata dopo la guerra franco-americana, l’Italia era riuscita in breve a riconquistarsi una posizione preminente: sapeva gestire i clan, compresi quella della Cirenaica, e invece ha aperto le porte a Putin e Erdogan. Gli Stati Uniti, che il dossier Libia avevano confidato a Roma, sono molto scontenti di questa gestione, e lo dicono.
Il succubismo alla Cina sembra perfino inverosimile – la nuova Farnesina di Conte e Di Maio deve avere pensato i cinesi appena scesi dall’albero.
La mano è diventata incredibilmente torpida, incerta, pusillanime, nel variegato mondo arabo, nel quale invece per tradizione la Farnesina ha saputo sempre navigare: l’Egitto oltre la Libia, e perfino l’Iraq, per non dire del Libano al tempo di Spadolini, ora semplicemente trascurato.
Gli Emirati compravano tutto in Italia, dalla passata di pomodoro agli aerei. Sono arrivati perfino a investire in uno dei tanti risanamenti dell’Alitalia. A gennaio Di Maio e Conte hanno deciso che erano indegni di comprare armi in Italia, armi che tutti possono comprare, e Abu Dhabi ha chiuso con l’Italia. Ha aspettato che gli ultimi militari italiani in Afghanistan facessero ritorno, poiché l’emirato ha fatto da base logistica per la guerra italiana in quel apese, e ha chiuso tutto.
Perché la Farnesina ha deciso che Abu Dhabi non poteva comprare armi in Italia? Ufficialmente perché c’è un embargo sulle armi a chi guerreggia dall’esterno nello Yemen. Di fatto perché glielo ha chiesto la Cina, per conto dell’Iran. Lo sanno tutti.
Abu Dhabi non partecipa in alcun modo da un paio d’anni alla guerra civile nello Yemen – che è condotta (finanziata, armata) dall’Iran. La Farnesina non lo sapeva? Certo, che lo sapeva, lo sanno tutti. E allora? Bisognava fare un favore all’Iram degli ayatollah. Regime non amichevole con l’Italia ma nella manica della Cina.
Usava dire che l’Italia era la longa manus degli Stati Uniti, ora lo è della Cina da almeno un anno. A perdere.  
Da qualche giorno la politica estera è stata anch’essa accentrata da Draghi a palazzo Chigi, dopo l’incontro con Biden e le visite a Roma del segretario di Stato americano Blinken. Ma molti danni sono stati fatti. E non sarà facile ricostruire la Farnesina, rifare tutte la caselle dirigenziali. I grillini potranno non durare come movimento politico, ma hanno scoperto e occupato molti posti.

La Germania invitata alla ragione

Quattro lettere, scritte dopo l’impegno di Camus nella Resistenza contro l’Occupazione tedesca. Due pubblicate, nel 1943 e nel 1944, la terza nel 1945, a liberazione di Parigi avvenuta, la quarta inedita. Riunite in volume da Gallimard  nel 1948, ma in poche copie, Camus si era poi opposto alle riedizioni e alle traduzioni. Fino all’edizione italiana, 1956, alla quale antepose una prefazione, per spiegarsi, che qui si ripropone. In cui scrive di non nutrire sentimenti anti-germanici, di non averli nutriti quando scriveva le lettere al presunto coetaneo e amico tedesco: “Sono scritti di circostanza, che possono avere un’aria d’ingiustizia”. E spiega: il “voi” delle lettere non significa “voialtri Tedeschi” ma “voialtri nazisti”. Camus vuole sopratutto allontanare il sospetto di nazionalismo, da cui, assicura, rifuggiva anche nel corso della guerra.
Le lettere sono una sfida alla Germania sul coraggio. Ce ne vuole molto di più per “avanzare verso la tortura e la morte” che per marciare al fronte compatti, secondo strategie preparate da tempo con cura. Aggiungendo: ce ne vuole anche per non soccombere alla “tentazione di somigliarvi”. E si vogliono una risposta sul terreno della verità. Partendo dai rimproveri dell’amico: “Tu non ami il tuo paese” e “i Francesi non amano l’intelligenza”. E contro la “cecità” tedesca, che anche Dio schiera al servizio del Paese: “Noi siamo partiti dall’intelligenza, e dalle sue esitazioni”, per finire convinti e vincenti, mentre “voi non distinguete più niente, non siete più che uno slancio. E combattete ora con le sole risorse della collera cieca,  attenti alle armi e ai colpi scintillati piuttosto che all’ordine delle idee, intestarditi a confondere tutto, a seguire il vostro pensiero fisso”.
Un alro che, come tutti poi, pensa ancora in gerra che non ci sarà futuro se la Francia e la Germania si combattono. Un non ancora filosofo invita la filosofica Germania alla ragione.
Albert Camus, Lettres à un ami allemand, Folio, pp. 81 € 7

venerdì 2 luglio 2021

I partiti del Capo, o la fine dalla politica

Draghi dopo Monti marcia a passo spedito. Un provvedimento dietro l’altro. Tutti contro l’uno o l’altro dei partiti che lo sostengono. Sostenuto dalla destra e dalla sinistra, per una voglia indilazion abile di governabilità. Dopo che gli stessi partiti hanno affossato l’ennesima riforma del Governo e del Parlamento in senso efficientista  - la governabilità. L’irrefrenabile Renzi bocciando, dopo D’Alema, Berlusconi e Craxi, labellandoli di fascisti.
C’è una sindrome suicida nei partiti. Tutti i partiti. Che si dice o si vuole dell’epoca, della disintermediazione, della disinformazione anche. Ma non è vero – altrove, anche in mondi più proiettati nella contemporaneità, la politica è sempre viva e attiva. La sindrome nasce da un’errata  visione della propria funzione. Che si radica nella mediocrità del personale politico. Per l’evoluzione rapida dei partiti italiani verso la formazione personale di questo o quel Capo, il quale  vuole collaboratori solo devoti, non intelligenti né attivi. Un assetto che finisce inevitabile nell’inconsistenza, e nel ricorso ai governi “tecnici”.
Da una parte il “partito di plastica” di Berlusconi, che degrada verso l’illusionismo di Grillo: roba da circo equestre, clownerie e equilibrismi. Dall’altra – Pd, molta Lega, molto Fdi – i manovali della politica, degli acchiappavoti al minuto (la pratica, il posto, l’indennizzo) e degli appalti pubblici (corruzione, molta spicciiola).
L’opinione pubblica non aiuta. Sommersa dal problema della propria sopravvivenza economica, sul mercato. Che cerca – probabilmente sbagliando – nella rincorsa della non-informazione – social, influencer, tweet, cioè battutine. E nella formula “Repubblica”, della superfetazione che liquida la politica, da sempre invisa a Scalfari, magnificandola – ognuno lo vede: sei, otto, dieci pagine di Conte e Grillo sono una esposizione feroce, di fatto, al ludibrio. Il circuito della buona politica, dell’opinione informata, colta, acuta, equilibrata, si è dissolto – gli analisti sono settanta e ottantenni, e tollerati come residui.

Letture - 462

letterautore

Calvino – Il “mago”. Katy Waldman così recensisce la traduzione di “Ultimo viene il corvo”, sul “New Yorker”:  “In «Ultimo viene il corvo», una raccolta de primi racconti, troviamo l’uomo dietro il mago”.
 
Charlot
– Arrogante e fortunato: al Marlowe succedaneo di Osvaldo Soriano, “Triste, solitario y final”, come al suo idolo e committente Stan Laurel, “Stanlio”. Chaplin non piace – “non gli piaceva quel’ometto arrogante, al quale andava sempre male nei film e bene nella vita”. E poi, a proposito di “Joe” McCarthy, che perseguitava i “comunisti”, a Stanlio che gli obietta: “Anche lui è stato perseguitato. Ha dovuto andarsene”, risponde brusco: “Guardi, amico, quando in questo paese perseguitano qualcuno sul serio , è difficile scappare. Chaplin è stato un ribelle famoso, pieno di donne e di milioni. non avevano interesse a metterlo al fresco”.
 
Dante – È stato anche un profeta – papa  Franecsco.  E un reporter. Questa è la scoperta di Cazzullo, autore di un “Dante, il poeta che inventò l’Italia”, sul “Corriere della sera” – lo stesso che poi lo paragona a Giorgio Bocca: “Dante descrive terre che conosce bene, come la Sicilia, ma anche terre in cui non è mai stato, come la Sicilia”.
 
È il primo e migliore critico musicale, attesta Riccardo Muti (nella straordinaria intervista con Cazzullo sul “Corriere della sera”  di domenica). Non proprio critico, mestiere che a Muti non piace, ma quello che meglio di ogni altro ha saputo dire cos’è la musica. Al canto XIV del “Paradiso”: “E come giga e arpa in tempra tesa,\ di molte corde, fa dolce tintinno,\ a tal da cui la nota non è intesa,\ così da’ lumi ch lì m’apparinno\ s’accogliea per la croce una melode\ che m rapiva, sanza intender l’inno”. Che Muti così commenta: “La musica è rapimento, non comprensione” – e quindi: “Critici musicali, tutti a casa!”.
 
Fascismo
– Fu – è - anche snobismo. Professato come tale dopo la guerra  - sconfitta su tutti i fronti, disonore, lutti, distruzioni – nella testimonianza di Malaparte da Capri. Roberto Giardina, presentando su  “La Nazione” del 28 giugno la corrispondenza (recentemente acquisita dalla Biblioteca Nazionale d Roma) che lo scrittore  ebbe con Loula Dombré, sua amante a Capri negli anni di guerra,  cita da una lettera del ’48: “A Capri principi romani collaboratori ballano in camicia nera di seta e calzoni bianchi, come ai tempi passati, il fascismo diventato snobismo”.
Se ne trovano tracce tuttora, anni 2020, in Versilia, terra dei Ciano, specie al Forte dei Marmi.
 
Generi - Sono all’ordine del giorno, ma nella confusione. Un chance (“la Repubblica”). Una impasse (id). Una trauma (“La Nazione”).
“la Repubblica” ha pure, di Mozart, “Così fan tutto” – “la Repubblica-Firenze”, culla della cultura. È già il giornalismo dei digital expert? “Fanno tutto” non è male, certo, ma un po’ maschilista – solo le donne lo fanno?
 
Germania – Religiosa, romantica, non succube della “democrazia”: così la presenta Thomas Mann a Parigi, invitato per una serie di conferenze e incontri nel 1926. Raccontando quell’esperienza in “Resoconto parigino”, si difende dall’accusa dei giornali tedeschi di essersi sprofondato in “uno scandaloso salamelecco nei confronti dei francesi”. E a p. 22 puntualizza: “Al contrario, spiegai che attribuire al carattere tedesco un legame profondo e più o meno manifesto con le potenze dell’inconscio, con le tenebre gravide e precosmiche, una tendenza all’abissale, all’informe e al caos, che rende noi tedeschi degli eterni bambini difficili, non significava diffamare la nostra natura,  ma piuttosto ascriverle una particolare attitudine al destino, una vocazione religiosa”.
In più, il romanticismo, che fu tedesco, per il “suo significato  rivoluzionario-rigenerativo” e “il pensiero storico-filosofico tedesco”, in antitesi con “quella americano ed europeo-occidentale”,  creano delle “resistenze – di per loro nient’affatto disprezzabili – che ponevano la natura tedesca storicamente in contrasto con quel che si definisce «democrazia»”.
 
Giornalismo - Ma era invenzione già della classicità, spiega divertito un lettore del “Corriere della sera”, se si compendia, come insegnano i manuali del giornalismo americano, bibbia del giornalismo, delle regole, nei cinque quesiti: chi, cosa, dove, quando, perché.  C’erano già  negli “antichi manuali latini di retorica”, spiega un Claudio Villa (pseudonimo?) da Vanzago: quis, quid, quo loco, quando, qua re. Anzi, erano sei, con quomodo, come.
 
Malaparte – “Scrisse il suo capolavoro ‘Kaputt’ dalla parte dei nazisti, e cambiò il testo in seguito, contro di loro”, è la testimonianza di Roberto Giardina, “Malaparte e Loula, storia d’amore e di volpi” (“La Nazione”, 28 giugno 2021): Ma lo raccontava lui, e probabilmente non è vero” – “Malaparte amava i suoi difetti e detestava le sue virtù”.
 
Morte a Venezia – “Come una novella di Boccaccio”: Thomas Mann se lo fa dire divertito, raccontando dei suoi incontri parigini, da un “ragazzaccio americano”, Marcus Aurelius Goodrich, giornalista del “Chicago Tribune”.
 
Nazionalismo – “Molto poco «tedesco»”, lo dice Thomas Mann a Parigi, chiamando a correi la Francia e anche un po’ la Spagna, nel racconto compiaciuto (“Resoconto parigino”, 47) della celebrazione che gli è stata tributata ia Parigi nel 1926. Lo nota quando il suo grande estimatore Charles Du Bos evoca i ripetuti riferimenti dello stesso Mann a Barrès: “Il nazionalismo tedesco – che, come è stato provato di recente con notevole arguzia, affonda le sue radici nel romanticismo di Heidelberg (Th.Mann intende: nel romanticismo europeo – n.d.r.) – è molto poco «tedesco»; con la sua religiosità «ctonia», la sua venerazione per la notte, la morte, il suolo, la Storia e il popolo è un fenomeno europeo, anzi «internazionale», al pari di ogni ostinata volontà oscurantista, ed è rinvenibile in tutta la sua lugubre sensualità già prima della guerra, sotto appena un po’ di patina spagnola, nel fondatore della Ligue des patriotes e nel creatore dell’esprit nouveau” - Barrès.
 
Omero – Silvia Avallone su “La Lettura” lo fa uno stuprator e, femminicida. E ha letto solo l’“Iliade”. Ma lo ha letto? Quell’Omero?
Leggere per credere: “La barbarie di Omero”, La Lettura 20 giugno  
https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera-la-lettura/20210620/282252373487034

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L'amore al cimitero - o la quarantenne felice

“Brio, leggerezza, umorismo e serietà”: la narratrice li trova nel libro che ha comprato, l’unico della sua vita, per imparare a leggere, unicamente attratta dalla copertina, con una mela spaccata, “Le regole della casa del sidro”, e con questa formula la sua autrice, fotografa di scena e sceneggiatrice, che tanti trucchi quindi ha visto sul set, va avanti per cinquecento pagine che si leggono con diletto – le più lette da un paio d’anni a questa parte. La narratrice ha quarant’anni ma una schiena dritta. È camposantara ma ben viva e vivace: quante storie ascolta, indovina e si racconta attorno ai morti e ai visitatori, e poi le piacciono i fiori. Sulla traccia che l’autrice le disegna subito: “Stile diretto perfetto”.
La “cosa” così ben raccontata è una vita ardente, come a tutti piacerebbe, a quarant’anni poi. La voglia di vivere di una donna-bambina “abbandonata alla nascita”. Anzi, data per morta. Cresciuta tra case famiglia e affidi temporanei. Che ha trovato un posto al cimitero di un paese della Borgogna. Al Nord dunque, ma con grandi aperture al Sud – Marsiglia, Aix, e il nuovo amante. Reduce da un amore, il suo solo amore, spontaneo, gaudioso, costante, ma finito nell’abbandono, repentino. Madre di una bimba amatissima che un incendio alla colonia estiva si è portata via ai sette anni.
Una donna che tutto sa far rivivere, i nomi, le date, le memorie. Analfabeta ma con un distinto senso delle parole, una volta che le ha imparate compitandole nel libro della sua vita. E una conoscenza minuta, in originale, di tutte le hit, da Elvis in poi. Che si direbbe che stoni, e invece no.
Un racconto che marcia spensierato, talmente è agile. E non cura le incongruenze, ci marcia sopra. Per il desiderio inesausto che rinasce. Con l’attesa rispettosa dietro la porta, e un baciamano. In un cimitero come un giardino, dove tutto rifiorisce, perfino i beccamorti. La morte violenta del marito violento, e quella accidentale della bambina alimentando la giusta tensione per tutta la lunga narrazione.
Una celebrazione della vita piena nell’età adulta. Del desiderio di vita. Straight, come si poteva dire un tempo, del desiderio di lei per lui, senza correzioni politiche, o promiscuità, né dark room. Che sia questo il segreto del successo, oltre la scrittura agile – la voglia di “normalità”, di leggerezza?
C’è perfino Dio, nella giusta posizione. Anche un prete, come se ne incontrano di fatto. Una favola.
Valérie Perrin,
Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e\o, pp. 479 € 18

giovedì 1 luglio 2021

Europa allo specchio sui campi di calcio

L’ucraino Besedin, colpito al ginocchio dallo svedese Danielson, ne avrà per sei mesi di stop. Ma questo non basta a Gary Lineker per fare ammenda dell’immondo tweet contro l’espulsione di Danielson. Protestava contro l’équipe arbitrale italiana. L’inglese presume di avere ragione per sé, perché sa l’inglese.
Si temono per questo a Roma i tifosi inglesi domani per la partita della Nazionale. Sono famosi per essere turbolenti, grandi bevitori e padroni del mondo. Una boria che non è britannica: sempre a Roma gli scozzesi, che vengono numerosi per divertirsi contro la Nazionale italiana di rugby, sono famosi per essere civili. Per l’inglese il mondo è una colonia.
Non si capisce dopo l’eliminazione l’entusiamso dei giornalisti sportivi italiani, Rai e Sky, per la Francia. Ma non si capiva anche prima, la squadra francese mostrando limiti evidenti: si costringeva a giocare in difesa, pur avendo un  ottimo centrocampo, con Kanté e Pogba, e grandi attaccanti. Miglior terzino in ogni gara il bomber Griezman. Con qualche contropiede per il velocissimo ‘Mbappé. Ma al calcio si vince di squadra.
E l’Italia? Sconcerti sul “Corriere della sera”: “Abbiamo costruito una squadra quasi miracolosa con i cinquanta giocatori che sono convocabili nel nostro declinante movimento. Per capire da dove veniamo basta un dato: sono rimaste in gioco sette Nazionali oltre a noi, con 26 giocatori a testa. In totale 182 giocatori. Sapete quanti di questi giocano in Italia? Solo 14”.


Sondrio appresta le difese contro Cimbri

È risentito a Sondrio come un assalto, più che una sorpresa, o un investimento, l’ingresso di Unipol col 9, o il 10, per cento nel capitale del gruppo.
A un mese dall’annuncio di Cimbri, l’ad del gruppo bolognese, il gruppo valtellinese continua a evitare commenti. Le consultazioni fra i gestori e i soci di riferimento (gruppi politici, e sociali) sono prudenti. Ma nel segno della diffidenza.
In teoria i gestori sono autonomi, la proprietà è diffusa - piccoli azionisti, e una decina di fondi d’investimento. Ma ci sono, anche se non codificati, dei “soci di riferimento”: le cosiddette  “istituzioni”. La galassia “bianca”, per intendersi, ora anche un po’ leghista. Che diffida. Del gruppo emiliano e del suo ad Cimbri, molto aggressivi ultimamente. Dopo aver conquistato cioè Bper, l’ex Popolare Emilia Romagna.
L’attesa è che Cimbri proponga a Sondrio la fusione che con Bper progettava con Bpm, ora praticamente fallita – sempre per l’aggressività del proponente. Mentre Sondrio progettava sì un allargamento, ma come acquirente. E a piccoli passi, come vuole la sua ormai lunga storia.
Il silenzio non significa inoperosità. I contatti sono continui su come meglio difendersi da Unipol. Senza ancora nessun contatto col gruppo bolognese.

Le mafie tra cashback e telepass – o la politica economica di Grillo

Familiare, domestica, personale: dopo tre anni e passa di governo i 5 Stelle non hanno prodotto altra politica economica – sì, il Recovery Fund, ma è roba di Bruxelles, senza il contributo italiano. Il ripudio del cashback li trova peraltro impreparati, non sanno che obiettare: lo hanno lanciato e imposto su impulso delle banche e di Nexi – si spera gratis. Al costo di 4,5 o 4,8 miliardi per il Tesoro, che sono tantissimo. A favore dei grillini, il ceto medio-piccolo. Furbi, con quelle centinaia di transazioni da un euro per concorrere al superpremio di 1.500 euro, ma non per questo simpatici.
Il cashback è quanto il governo giallorosso, dei grillini col Pd, ha prodotto. Il governo giallobruno aveva prodotto il reddito di cittadinanza. Cioè la vecchia “pensione di invalidità”, invece di un’occupazione - invece di lavorare. Estesa a tutta Italia, invece che al solo Sud. Pagata dai lavoratori e i pensionati – sono quelli che coprono i quattro quinti delle entrate pubbliche da reddito. Un obolo, senza altro senso economico, caro.
Si giustifica il cashback come norma antiriciclaggio antimafia, mentre è solo un favore a Nexi in Borsa, e alle altre carte bancarie. A spese dei commercianti. Il pagamento in contanti non c’entra proprio nulla con le mafie – che sanno peraltro usare le carte. E nemmeno con l’evasione fiscale. È una forma semplice di pagamento e di contabilità, con entrate e addebiti immediati invece che a scadenza, da contabilizzare in un secondo tempo e in apposito archivio.
I francesi, si arguisce, e gli inglesi usano le carte anche per pagare i cerini. Male. È una forma di vivere a credito di nessuna utilità per nessuno – se non in casi eccezionali (e non per piccoli pagamenti). E costosa, dal 12 per cento in su. L’italiano ne diffida, anche con suo danno: quanti milioni di italiani potrebbero evitare le code ai caselli dell’autostrada la sera di sabato o di domenica, magari a conclusione di un viaggio lungo invece che della gita fuori porta, passando con Telepass? Ma non lo fanno. Sono mafiosi?

Appalti, fisco, abusi (204)

Si sia vittime di un’ammenda o verbale avventato, in base al codice della strada, con richiesta di soldi e cancellazione di punti, da parte di un-\a vigile\ssa, gli stessi, né il dirigente che esamina e avalla la contestazione, sono responsabili. Non per inavvertenza né per incapacità. Anche se vi hanno costretto a defatiganti e costose procedure di ricorso – non al Prefetto, per il quale vale solo l’ente sanzionatore, cioè il vigile urbano stesso e il Gruppo di appartenenza. Una giustizia padronale.
 
Semplificazione, semplificazione. Il 730 precompilato necessiterebbe la lettura di 133 pagine di istruzioni, a corpo minuto. Semplice, no?
 
Il Piano di Riconversione e Resilienza europeo si basa, per la parte italiana, nell’ammodernamento delle infrastrutture. Cioè in investimenti a gara, in appalti. Non c’è appalto che non venga contestato al Tar. Con successivo ricorso al Consiglio di Stato. Quindi non c’è appalto che non ritardi di due anni la commesa – è la causa maggiore della “perdita” dei finanziamenti europei per le opere nelle aree sfavorite. Ma si può andare anche oltre i due anni: in Toscana si è arrivati a otto anni, per l’affidamento delle autolinee regionali, per un nugolo di ricorsi degli eclusi, comprese le Ferrovie, contro il vincitore, le ferrovie francesi. E forse non è finita: si studia un ricorso alla Corte Europea.
 
Nei ricorsi i ricorrenti chiedono normalmente l’“accesso agli atti”. Che sembra dovuto – sono gli atti della gara d’appalto, di come e cosa ha concordato chi ha vinto. Ma non è una garanzia di terzietà: il concorrente bocciato vuole solo sapere il know-how di chi ha vinto i suoi conti, la sua organizzazione, l’organizzazione del servizio da rendere. La concorrenza nella procedura italiana non è equità, ma un modo di imbrogliare, sempre, le carte.

Ombre - 568

A prima vista il “Conte siamo noi” dei grandi giornali sorprende, il “pilone” della legislatura se fosse una partita di rugby, se non un Supereroe in tuta: chi è Conte? Un avvocato, non dei primi, scelto a tenere assieme – in ballottaggio con Cottarelli, il socio dell’Inter... – grillini e leghisti all’indomani del voto del 2018 proprio perché incolore, che ora si vuole capo di un partito del 15, del 17, del 20 per cento, ben più del professor Monti. Un partito? Con quali voti? Non si capisce.
No, Conte è probabilmente un falso scopo: un levantino, il democristiano in petto che sempre si agogna riprenda direttamente le redini.
 
Leggendo delle imprese (“rivelazioni”) dell’avvocato Amara e vedendolo infine in foto, è uno che si diverte. Un mucchio. Con chi capita, l’Eni, l’Ilva, e soprattutto con i giudici. Con i Procuratori della Repubblica. Ai quali apre inchieste a sensazione, da prima pagina, da talk-show. Ma senza esito. E quindi non si capisce: come mai è nella manica sempre di qualche Grande Procuratore? Sono schieramenti di loggia?
I Procuratori si divertono? Bene. Ma perché non in aspettativa, non pagata – le prime pagine non mancherebbero ugualmente?
E perché utilizzano le forze dell’ordine, ora anche le guardie carcerarie, e le mense carcerarie?
 
L’industriale dei giocattoli Preziosi, che fabbrica in Cina il 95 per cento della sua merce, si scopre sotto ricatto delle compagnie di trasporto marittimo, anch’esse cinesi, che bloccano i 5.500 container della produzione per la prossima stagione natalizia, chiedendo un aumento dei noli da 10 a “oltre” 60 milioni.
La Cina comincia a costare, non è più il laboratorio cheap dei consumi di massa.
 
Ma non è tutto, constata Preziosi sul “Corriere della sera”: “Abbiamo abdicato alla supremazia della Cina, fornendole i frutti della nostra ricerca, del design, del saper fare tecnologico”.
La globalizzazione non è un gioco a somma zero – si è guadagnato e ora si perde. Con i noli, ma più con la concorrenza: dai giocattoli alla ceramica, alle automobili, e agli strumenti di precisione, non c’è cosa che la Cina non sappia fare, anche di qualità. Il “mercato” (gli affari) è imprevidente.
 
“Kim «emaciato» spezza il cuore dei cittadini”. Come se i cittadini di Kim (Jong Un, il dittatore dinastico rosso della Corea del Nord) potessero avere un cuore.
Cinismo? Ignoranza? Sprovvedutezza? No, la politica in Italia è quella della “Pravda”, nel migliore dei casi.
 
Ma poi ci pensa Kim, il giorno dopo, a profittare della malattia per silurare tutti i capataz di regime che gli facevano ombra: non hanno affrontato bene la pandemia. Anche questo senza commento: per il (residuo?) sovietismo è il capo che decide.
 
Chi sono gli svizzeri più ricchi, nella lista Bloomberg? Gli italiani Bertarelli (ex Serono) e l’armatore Aponte (Msc). Quanto fa la residenza fiscale.
 
Fa paura e simpatia il sociologo De Masi che si impanca a paciere fra Grillo e Conte: un sociologo che non capisce la politica? Ma De Masi è – è stato – ottimo sociologo politico. E dunque lo fa per gioco. Per un’ora, una mezz’ora di talk-show, un’intervistina volante, un fondino, magari di riprovazione, come questo? Siamo ridotti a tanto: un sociologo deve fare lo stupido per dire la sua.
 
Rave parties, discoteche, all’aperto certo, stadi, il virus non ha insegnato niente: si riprendono i contagi in allegria. Come un’estate fa, negli stessi luoghi, dalle Baleari alla pianura Padana. E chi se ne frega, i giovani non muoiono, e i vecchi non contano. O alla partita, come Atalanta-Valencia, ottomila contagiati e migliaia di morti, nella sola Bergamo. Più che per l’ecatombe, non nuova, questa peste del Duemila si potrà utilizzare (ricordare) come mutamento antropologico – che è poi un ritorno all’antico, almeno a stare al famoso “riso sardonico”, che accompagnava, dice Propp, l’eliminazione dei vecchi.
 
Imbarazzante quadro di Gabanelli e Ravizza della sanità lombarda. Sul “Corriere della sera”,  giornale di proprietà, a lungo esclusiva, della stessa “sanità lombarda” – il gruppo Rotelli. Per non dire l’evidenza: che il privato fa l’“eccellenza”, cioè il superfluo, e il pubblico il necessario, per esempio il covid. Il privato in convenzione, cioè pagato dal Tesoro, cioè dalle tasse, fa solo quello dove guadagna. Un’impresa anomala, a utile convenzionato, cioè garantito.
 
Il giudice Gamacchio, quello che spendeva a credito nella Milano del  Quadrilatero – la più ricca d’Europa - senza mai saldare il conto, ha stabilito un nuovo record, prima di mettersi in pensione: ha scritto una sentenza sette anni dopo averla pronunciata. Si direbbe un goliarda. Ma è stato giudice al Tribunale di Milano, per quarant’anni.
 
Sulla sentenza depositata dal giudice Gamacchio, di assoluzione, la Procura Generale di Milano fa ricorso. Dopo sette anni. Dopo che gli imputati sono stati assolti in tutti i gradi dei due processi – il primo , arrivato in Cassazione, era stato cassato per motivi procedurali. Goliardi anche i giudici, sessantenni, della Procura Generale? Non c’è più un reato di lite temeraria?
 
Il Nobel per la pace Abiy, l’etiope che si annette il Tigré con stupri e fosse comuni, è più di un errore del premio svedese: è il modo di essere dell’Africa, dove solo la violenza conta.
È anche un errore europeo, quello di estendere i sensi di colpa per il colonialismo fino a innocentare l’Africa, del Nord e del Sud del Sahara. 
 

Philip Marlowe vecchio e triste

Triste, solitario y final” è Philip Marlowe, quello “con la e finale”, il detective mito dei gialli di Chandler. Avanti con gli anni. E più in bassa fortuna che mai, a gara in derelizione, sporcizia compresa, col gatto con cui si tiene compagnia. Soriano, argentino biondo e grasso, doppiamente spaesato quindi a Hollywood, lo coinvolge nella ricerca della memora di Stan Laurel, “Stanlio”, per il motivo che “Stanlio” prima di morire si è affidato a lui per sapere perché non lavorava più nel cinema.
Un cult degli anni Settanta presto malinconico. I due fanno a pezzi mezza Hollywood, specie quella che gli è antipatica, di John Wayne e di Charlie Chaplin, ricalcando un po’ il western un po’ il catastrofico, con inseguimenti, pestaggi, pistole, mitra, rapimenti (di Chalie Chaplin agli Oscar). Una comica alla Stanlio (Marlowe) e Ollio (Soriano), ma non si ride. Si direbbe Marlowe vittima di Soriano, “il sudamericano biondo”. Oppure Soriano vendicatore, più che angelo salvatore, dei miti di Hollywood.
Un pasticcio scombinato.
Una curiosa appendice di “assonanze”, una decina di pagine di Chandler sul suo Marlowe, fa la differenza.   
Osvaldo Soriano, Triste, solitario y final. Einaudi, pp. 165 € 9,50

mercoledì 30 giugno 2021

Ecobusiness

Strasburgo, al centro dell’Europa, terra fortunata per millenni senza terremoti, è funestata d poco dalle scosse. Le ultime due sono state\ anche minacciose, 3,5 e 4 di dì scala Richetr. Perché il Progetto Geotermia, che si paga praticamente per intero con i soldi pubblici,. nell’Ecopark di Reichstett, ha sconvolto la tettonica. Con soli due pozzi finora perforati - fino a 5 chilometri di profondità.
Elon Musk deve ritirare 285 mila autoveicoli dal mercato cinese: il sofrtware di assistenza alla guida autonoma è risultato a rischio collisione.
La produzione di elettricità da fonti rinnovabili ha superato nel 2020 nell’Unione Europea l’elettricità prodotta da combustibili fossili. Il sorpasso è avvento per una diminuzione rilevante dei consumi di elettricità durante i lockdown produttivi. Ma con un incremento della produzione da fonti rinnovabili, che ha oltrepassato la soglia di un milione di Gigawatt\ora – con circa 30 mila gWh in più rispetto a quella fornita da combustibili fossili.
Il costo dell’energia è il secondo fattore in Europa, dopo i livelli retributivi, a incoraggiare la delocalizzazione delle produzioni, a favore di centri produttivi (Cina e India sopra tutti) dove le fonti di energia sono soprattutto fossili, carbone e petrolio.

Il carcere dentro (di sé)

Subito dopo essere arrivato al luogo del confino, remoto, tra “terre aride” e una “spiaggia desolata”, Stefano trasale intravedendo una certa ragazza, che farà da traccia poi per il racconto, e si ripropone di “affrancarsi dal desiderio”. Confinato politico, è reduce dal carcere a Regina Coeli, nell’amarezza e non nella sovversione: “Nessuno si fa casa di una cella”. Per nessun motivo. Ma poi è la vita, almeno in quell’anno, in quel periodo, a essere prigione: “La cella era fatta di questo: il silenzio del mondo”. La solitudine. Il carcere? “Meglio restarci per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”.
Stefano trascorre la sua vita nel remoto paese frastornato e come assente, pur raccontando la sua esperienza in prima persona. Partecipe degli eventi quotidiani, e della comunità, ma abulico, assente. A un certo punto verso la fine, quando nella frazione superiore, ancora più remota, arriva confinato un vero politico, un irriducibile, forse anarchico, e cerca un contatto, che Stefano cerca di evitare, chiamerà  “vigliaccheria la sua gelosa solitudine”.
Il lettore sa oggi che quella solitudine era risentita per un fatto biografico, l’abbandono da parte della donna per la quale lo scrittore pensava di essersi sacrificato, con la prigione e il confino. Ma senza questo riferimento personale, causale, il racconto è in sé curiosamente “kafkaesco”, di una vita senza appigli, di un mondo che gira in tondo, di spiegazioni che non spiegano.
Scritto tra fine 1938 e i primi tre mesi del 1939, col titolo provvisorio “Memorie da due stagioni”, Pavese lo pubblicò solo dieci anni dopo, nel 1948. Insieme con  “La casa in collina”, un dittico che intitolò, evangelicamente, apostolicamente (il tradimento), “Prima che il gallo canti” - che tuttora viene ripubblicato come tale, da ultimo nell’ottima edizione Garzanti, con ampie annotazioni di Gabriele Pedullà. A ridosso di Carlo Levi, “Cristo s’è fermato a Eboli”, una delle prime pubblicazioni postbelliche, 1945, d’inaspettato successo, di pubblico e di critica.
“Il carcere” è, al contrario di Levi, che fa un reportage, un memoir si direbbe oggi, appena appena romanzato: una sorta di diario grigio, risentito, lagnoso anche, di un confinato, senza passioni. Di un  confinato politico che ha in dispetto la politica. Il diario di una vita sbagliata. ridotta a un modo di essere quasi animale.
Pavese aveva tentato subito di raccontare il confino, nel 1936 appena libero, nella prosa breve  “Terra d’esilio”. Maturando dopo la guerra dell’impero e l’Asse la radicalizzazione del fascismo e quindi una scelta politica, più o meno inconsciamente Pavese s’interroga nel 1939 sulla sua capacità d’impegno, se non di fede politica. Oggi, alla luce poi de “Il mestiere di vivere” e del “Diario segreto”, “Il carcere” si legge anche come un rifiuto della politica: la politica è come il carcere, una privazione. I personaggi che girano attorno a Stefano non sono eroici, hanno tutti più o meno una loro personalità, ma tutti sono vittime delle illusioni politiche. Si vive senza. Partendo dal maresciallo dei Carabinieri che dovrebbe controllarlo, ed è invece il suo consigliere benevolo.
Il rifiuto matura per il rifiuto dell’amata, attivista politica per la quale lui si è sacrificato e che ora lo trascura e anzi lo dimentica. Questo il lettore lo sa per certo se ha letto il diario, “Il mestiere di vivere”, e la corrispondenza, ma è detto, senza riferimenti personali, anche nel racconto: il sacrificio a che fine?
Si vive nella provvisorietà. Una donna accudisce Stefano, Elena, disponibile anche e letto e discreta, ma senza rilievo: “Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una ,moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi”. Si crea un mito, Concia, di una ragazza “caprigna”, selvaggia, che è già madre di un figlio del padrone, e non parla, non guarda. Vive il confino tra “pareti invisibili, l’abitudine della cella, che gli precludeva ogni contatto umano”.
Un racconto sottovalutato – la costruzione non invita, sembra perfino scritto di getto, come viene, non costruito. Per la teorizzazione della “perfetta solitudine”. Del desiderio di solitudine, o dell’incapacità, con tutti i buoni sentimenti, di comunicare, fare parte di un mondo, una comunità, un gruppo, un’amicizia. Il carcere, anche senza ponti levatoi, è l’insignificanza della politica, come qui spesso si ripete, se non è viltà, quasi professata, comunque riconosciuta.
Sottovalutato anche per la scrittura, a lettura ultimata, che fa giustizia della prima impressione. Un racconto di situazioni e caratteri fluidi e non ben contornati, come molti in Pavese, e di eventi per lo più minimi. Ma l’ambiguità si fa leggere d’un fiato. E la curiosità: è un racconto ben localizzato, conoscendo i luoghi e i linguaggi, è ben un romanzo (racconto) di Brancaleone che Pavese ha scritto: il paese che guarda l’Africa dove ha passato lunghi mesi al confino politico non è una semplice scena teatrale. Si comincia subito: come i suoi compagni di conversazione all’osteria, una “scelta” portata dall’età (i giovani con i giovani), “tutto il paese conversava così, a occhiate e canzonature”. Subito si fa anche dire: “Siamo gente inquieta che sta bene in tutto il mondo ma non al suo paese”. Concetto insistito: “Si è vecchi quando si torna al paese”. Un antropologo di mestiere non saprebbe trovare di meglio, dopo mesi e anni di osservazione: in Pavese c’è come una identificazione.   

Cesare Pavese, Il carcere, Einaudi, pp. 144 € 10

martedì 29 giugno 2021

Cronache dell’altro mondo – sanitarie (126)

Le proiezioni dei Center for  Disease Control and Prevention sono che bel 2025 le morti per overdose negli Stati Uniti supereranno i 100 mila casi. Portando il totale in venticinque anni a “oltre un milione”.
Ai ritmi attuali, nell’anno elettorale 2028 saranno morti più Americani di droga che in tutte le guerre dell’America.
Il Lyme Disease, la malattia di Lyme o borrelliosi, diagnosticata per la prima volta nel 1975, negli Stati Uniti, nella cittadina di Lyme, Connecticut, è epidemico negli stessi Stati Uniti. Il “New York Times” scrive di 30 mila casi accertati ogni anno, ma che se ne sospettano dieci volte tanti. Da quando la malattia è stata diagnosticata, i casi si sono quadruplicati nel Michigan e decuplicati in Virginia. Una cura valida ancora non è stata individuata.
Non si deve più individuare un virus o altro germe patogeno dal luogo di origine, anche se questo potrebbe aiutare nella profilassi (p.es. la variante “inglese” o “indiana” del coronavirus), ma con sigle, lettere cioè e numeri, possibilmente quelle cliniche. La denominazione di origine avrebbe impatto razzista, o comunque accusatorio.
L’accertamento di una possibile responsabilità dei laboratori cinesi nella formazione e diffusione del coronavirus ristagna anche per questa riserva.

 

Giallo come un treno

Un giallo italiano che fila come un treno. Nel plot, e nel con orno – il corso di formazione all’Istituto di Medicina Legale, un’ambientazione accademica che si direbbe perfetta, nel senso della verità della cosa. Profuso, com’è d’obbligo – chissà perché i best-seller devono essere chilometrici (con danno anche economico: limitandoli a 200 pagine, invece di 400, non se ne potrebbero fare due invece di uno?) – ma il giusto. Con personaggi di spessore, non a due dimensioni cioè, o piatti. Per un plot a sorpresa naturalmente ma del tutto vero, in ogni interstizio – se Gazzola lo ha scritto per caso e di corsa, come dice, allora ha avuto la grazia infusa. La tensione va sull’onda hertziana giusta, non si sbrodola – e non ha bisogno di effettacci: ogni poche pagine si riannoda, su questo o quel particolare nuovo
Libero anche, il giusto. Non c’è il partito preso femminista che fa vangelo: gli uomini sono anche bravi, e giusti. La storia d’amore è tra una lei e un lui – anzi due lui. In qualche punto Gazzola si spinge perfino a fare torto alle donne in quanto estimatrici e acquirenti di arte contemporanea – quando è risaputo che il business cultura (compresi best-seller, i romanzi)  è opera di donne. 
La trovata della coinquilina giapponese è geniale, apre un mercato enorme – cinese sarebbe stata meglio. E c’è anche, a p. 351, a Khartum, tutto quello che bisogna sapere sull’Africa e invece sfugge - sarebbe stato più utile al povero Regeni del breviario di Cambridge.
Con pochi svarioni. “Noartri” per il romanesco “noantri”. O la cena al bistroti di Villa Pamphili. Giustificati:  Gazzola è di Messina, è pure brava ad ambientare tutto a Roma – anche se i belli-e-ricchi accasati tra viale Manzoni e via Merulana stonano un po’ – l’area è d’immigrazione, tutto l’Esquilino. L’impasse è del genere giusto, maschile, ma non l’ortografia (empasse).
Alessia Gazzola,
L’allieva, Tea, pp. 376 € 5

lunedì 28 giugno 2021

Insonnia

Si legge
in treno, quando non si digita
Si legge
al mare, quando non si nuota
Si legge
al caffè, quando si è soli
Si legge
al giardino, quando non si guarda
Si legge
durante le conferenza, quando non si parla
Si legge
ai premi letterari
anche alle presentazioni di libri, quando non si legge
Si legge
in aereo quando non si beve
(o in aeroporto aspettando l’aereo)
Si legge
a letto, quando non si è soli
Si legge
in casa quando non si dorme
Ma quando si dorme?

Americani a Roma - gay, in allegria

“Nel 1946 e 1947 l’Europa era ancora off limits per gli stranieri. Ma nel 1948 gli Italiani avevano cominciato a rimettersi in sesto, dimostrando ancora una volta la loro straordinaria capacità di affrontare il disastro che così perfettamente è bilanciata dalla loro assoluta incapacità di affrontare il successo”. Comincia così, nel 1948, a Roma, in un appartamento dell’American Academy, a una d i un paio di festicciole che Tennessee Williams dà per l’apertura della casa che ha preso in affitto in via Aurora (porta Pinciana, via Veneto) la conoscenza di Gore Vidal col già famoso e ricco commediografo. Con un elogio anche di Roma, “in quei giorni una città tranquilla, dove difficilmente qualcuno era di troppo, a meno che non fossimo noi, il primo gruppo di scrittori e artisti americani ad arrivare in Europa dopo la guerra”.
Comincia anche un rapporto lungo una vita, che Tennessee Williams spesso confonde nella sue “Memorie” e Vidal precisa, raddrizza, arricchisce con grande verve, anche satirica – “the Bird”, Tennessee Williams, detto altrimenti “l’autore di ‘Un tram chiamato desiderio’”, allora trionfante a Broadway, “aveva trentasette anni, ma pretendeva di averne trentatré, per la giusta ragione che i quattro anni da lui spesi lavorando per una ditta di scarpe non contavano”. Il tono è questo. Il tema è la queerness, l’omosessualità che allora si negava e Vidal era già famoso per sbandierare in tutti i toni in tutte le sedi, sbarazzino ma anche scurrile. E si entra subito in tema: alla festa c’è, calato da Firenze non invitato, l’angloamericano Harold Acton, poi storico famoso dei Borboni e dei Medici, che farà degli incontri con i giovani americani, di cui invidia i liberi costumi, il racconto in un libriccino di pettegolezzi, “More Memoirs of an Aesthete”, nel quale centra la serata invidioso sul ragazzo napoletano che si accompagna all’anfitrione, che chiama Pierino – erano anni che non solo Tennessee Williams e il futuro lord Acton navigavano beati tra Napoli e Capri, e anche (Williams) Taormina, senza riserve e senza scandalo, anche se l’epoca lgbtqia era di là da venire.
“Pierino” era Raffaello, precisa Vidal, che poi ha seguito “the Bird” in America, dove si è sposato e vive con i figli. Di Acton riportando il commento acido: “Né lui (Tennessee Williams, n.d.r.) né nessuno del gruppo che incontrai con lui parlava italiano, ma aveva un protegé tipicamente napoletano che non poteva parlare inglese”. Il tono è questo, dispettoso a sua volta, ma pieno di “cose”, notizie, persone, fatti. Acton, “una lunga e meravigliosa vita senza interesse”. Santayana, “stranamente come mia nonna, diventata improvvisamente calva”. Carson McCullers, “artisticamente dotata e umanamente spaventosa”, che parla southern, sempre in ansia per quello che se ne dice e scrive – “Parlava solo del suo lavoro. Della sua grandezza. Il lugubre accento meridionale cantilenante non si fermava mai”. Truman Capote, di cui Vidal faceva le imitazioni al telefono, ricorre in molti aspetti, più di tutti, quando non diceva le bugie e quando le dice, per un periodo in compagnia di Monster Women (ma non di Harper Lee, sua coetanea e compagna di scuola, amica di una vita: qui Vidal ha un buco), che quando andò a Parigi si voleva amante di Camus, e un certo punto pure di Gide, i quali invece non ne sapevano nemmeno il nome, come Vidal per caso appura. Paul e Jane Bowles. Frederic Prokosch. Anna Magnani – “il meglio che si possa dire della Magnani è che le piacevano i cani” (con commenti furibondi di Marlon Brando). Un Arbasino senza remore.
Un articolo-saggio che la “New York Review of Books” rispolvera in regalo ai naviganti – per invogliarli alla sottoscrizione. L’“età dell’oro” non è quella della gaytudine – o forse sì, anche di questo, quando l’omosessualità interessava anche ai non gay proprio per essere diversa, per non essere improsatura quotidiana. L’età dell’oro è di quando gli scrittori facevano testo e personaggio: a Broadway “nella stagione teatrale 1947-48 andavano in scena 43 nuovi testi teatrali. Nel 1974-75 ce n’erano 18”, in maggioranza testi importati dall’Inghilterra e “raffazzonate commedie musicali”.
         
Recensendo le “Memorie” di Tennessee Williams sulla “New York Review of Books” il 5 febbraio 1976 , Gore Vidal si lascia andare a una gustosissima carrellata di personaggi “equivoci”, cioè
queer, cioè omosessuali, e aneddoti più o meno veritieri. Del drammaturgo trentasettenne che ricorda di avere sconosciuto il Vidal aitante, bello, giovane di 22 anni, a Roma nel 1948, mentre Vidal sa che lo ha seguito a New York sulla Quinta Strada, mentre lui stava seguendo un altro – non ricorda più chi. Il pettegolezzo gay, su chi è più gay, elevando a racconto. Ma con qualche spunto critico che sarà di interesse se ci sarà un ritorno di storia della letteratura . Di Tennessee che avrebbe sceneggiato nei tanti drammi la sua famiglia: Rose la Sorella. Edwina la Madre, Dakin il Fratello, Cornelius il Padre, il reverendo Dakin il Nonno, eccetera. E le conversioni di Williams, da ultimo quella al cattolicesimo – la scena finale è di Williams invitato a un ricevimento dai gesuiti, che li sbalordisce, anzi li stomaca, parlando di Dio.  
Gore Vidal,
Selected Memories of the Glorious Bird and the Golden Age, “The New York Review of Books”, free online

domenica 27 giugno 2021

Cronache dell’altro mondo – culturali (125)

Si diffonde nelle università americane la presa di distanza dallo studio dei classici. Considerati “discriminanti”, socialmente, etnicamente, moralmente, e cioè infetti. “È in corso un generale distacco dal modello europeista”, secondo la ministra italana idell’Università e della Ricerca Scientifica, Cristina Messa. Lo studio dei classici, aggiunge la ministra, più o meno contestabile, come può esserlo studiare la Germania del Terzo Reich o l’Italia di Mussolini, è però – è stato, era - ritenuto formativo della capacità critica, di capire ciò che è giusto o sbagliato. Per esempio nel razzismo – anche quando è antirazzista.
“Con il Metoo, Da Ponte e Mozart finirebbero in galera”, ghigna il maestro Muti in un straordinaria intervista oggi con Cazzullo sul “Corriere della sera” (“Mi sono stancato della vita”): “Definiscono Bach, Beethoven, Schubert «musica colonialista»: come si fa? Schubert poi era una persona dolcissima…”.
Ha proposto e fomenta il ripudio dei classici il professore di Filologia classica di Princeton Dan-el Padilla Peralta. Che il cv dice “dominicano di nascita cresciuto a New York”, dove a 29 anni è diventato professore alla Columbia University. Grazie ai classici. Nel senso che è diventato professore di Latino e Greco,  e lo è diventato nell’ottica dei classici, dell’intelligenza e l’applicazione che si premiano, da studioso della Repubblica Romana e il Primo Impero. Benché di ascendenza africana.

 

Miseria della giustizia – o la sovversione permanente

Un giornalista, Allegranti della “Nazione”, e il politologo della Luiss, di orientamento intimamente liberale, Giovanni Orsina, già autore di un “La democrazia del narcisismo”, o “storia dell’antipolitica”, qui si soffermano sulla Giustizia. In particolare Orsina. Con insistenza, ma sugli episodi noti, e senza cattiveria. Mentre i giudici non sono dilettanti né improvvisati: sono gente di potere, che ha messo le istituzioni in scacco.
Il paradigma giudiziario tiene sotto scacco non la politica, non solo, ma principalmente le istituzioni. Non da ora, sono almeno trent’anni. E non per un progetto, il colpevolismo non è eversivo, non per programma: serve a un posto in più, un incarico in più, un po’ di fama rubata e qualche spicciolo. C’è di peggio?
Un po’ di comparatismo, anche, non avrebbe nociuto. Dove altro c’è qualcosa di simile? Nemmeno nei paesi a giustizia dichiaratamente politica, come in Russia, o in Turchia o in Iran. Lì la giustizia serve un progetto politico, per quanto discutibile, non un talk-show e un posto di Procuratore Capo, con la scorta.
Giovanni Orsina-Davide Allegranti,
Antipolitica. Populisti, tecnocrati e altri dilettanti del potere, Luiss University Press, pp. 144 € 15