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sabato 31 dicembre 2022

Le quattro primavere

Le presenze a volte si mutano in tracce.
 
S’incontrava a Soroti, tra Tanzania e Uganda, sopra il lago Kyoga che il Nilo Vittoria si mette da parte, per una birra, o anche a Dar Es Salaam se andava in banca, e sempre assicurava che l’Uganda è il paese dell’eterna primavera:
- Viviamo tra quattro primavere, i fiori rifioriscono, l’erba è sempre verde.
Viveva in realtà solo. E quindi col problema di convivere con la famiglia della ragazza che a turno stava con lui, e con le gelosie degli altri clan:
- Saggiamente - diceva sereno della dote cui operavano nel fiore le ragazze.
Egli stesso non ambiva che a godersi l’esistente, ricavando dalla piantagione quanto basta a rifare il tetto, migliorare le terrazze, soddisfare le madri, sempre avide. Ma la libertà dei popoli è inflessibile e ora vive a Boccea, all’interno 47 del n. 124 da cui non esce, non sa camminare sull’asfalto, è sposato a una signora che fa l’infermiera, e ne ha avuto un bambino di cui non si cura. Sogna che Obote o Amin gli distruggano la modesta piantagione, incendiando la casa, e in fuga tra scoppi di mitra e lampi di machete per foreste melmose su corazze di coccodrillo, si salvi con la complicità dei vecchi compagni del Che, che lo mettono su un aereo sen-za bagaglio.
 

Cronache dell’altro mondo – (dis)informative (238)

Non cessano le polemiche sull’abortito Disinformation Governing Board, creato a febbraio, e affidato a Nina Jankowicz, trentaduenne, specialista dei servizi d’informazione russi, collaboratrice del ministero degli Esteri ucraino.
Il DGB fu sciolto appena un mese dopo la costituzione ufficiale, per “l’incapacità del Board di relazionarsi al Congresso” – Jankowicz non avrebbe passato l’esame del Congresso.
Nell’occasione, il ministro dell’Interno (Department of Home Security), Alejandro Mayorkas, assicurò che il DGB non aveva mai avviato l’attività. L’opposizione repubblicana non ne era convinta e ha chiesto gli atti riguardanti il Board.
I documenti sono stati ora comunicati e, benché “pesantemente editati”, cioè riscritti, mostrano che il Board era in attività da subito, da febbraio. Se ne parla nella corrispondenza interna allo stesso DHS, a iniziativa di Samantha Vinograd, sottosegretario con delega all’Antiterrorismo e alla Prevenzione delle Minacce.

Storia buffa del fondamentalismo sionista

Una narrativa composita, di quattro racconti o a quattro strati – e “storica”: fine anni 1950, nell’Upstate di New York, la grande provincia appena fuori dalla metropoli. L’ironia di essere “ebreo”, come fuori dal mondo. Le normali follie della vita accademica, tra settori (le facoltà umanistiche “depredate” da quelle scientifiche), tra dipartimenti, all’interno dei dipartimenti, e compresa l’intolleranza odierna dei giovani e giovanissimi “alfieri dei diritti” nelle aule. Una coppia ebrea con una figlia “pazza”, e con i rispettivi genitori. E i Netanyahu.
Ogni racconto ha sua accattivante dinamica – quella dei Netanyahu insistita - ma legano poco insieme. Se non come un racconto dell’“essere ebreo” in America, quando questo contava, ancora negli anni di Eisenhower, 1950-1960. Che però cozza con l’insofferenza dichiarata dell’autore verso questa “identità”, opera ora degli stessi ebrei, e dei gentili meglio disposti. 
Il racconto vero comincia dalla fine, dai “ringraziamenti”, una dozzina di pagine dense di cose. Tra esse l’abitudine che l’autore aveva preso di fare compagnia spesso a Harold Bloom, cui dedica il libro, immobilizzato a casa in carrozzina nei suoi ultimi tempi, e il piacere che Bloom aveva di rivangare vecchi ricordi. Tra cui l’incarico dal direttore del dipartimento, a lui primo e giovane professore ebreo alla sua università, di accogliere Netanyahu padre in cerca di un incarico accademico – Blum è il nome che Cohen dà al protagonista della sua narrativa, o meglio al personaggio che lega le quattro storie raccontandole. 
La sensazione è netta che la lettura si avvantaggia partendo da questi “ringraziamenti”. I racconti si legano. Il sottotitolo si spiega: “Dove si narra un episodio minore e in fin dei conti trascurabile della storia di una famiglia illustre”. Di due famiglie, quella illustre e quella no, “ebree”, caratterizzate per essere ebree. E si può anche ridere. Che è forse l’effetto che l’autore ha cercato, disperando del corso impresso a Israele dal Netanyahu primo ministro in venticinque anni ormai di protagonismo politico, di Stato imperialista senza limiti. Rovesciando il corso democratico, che Cohen richiama, perseguito dai socialisti Shimon Peres e Itzak Rabin. Il cui assassinio, ricordano i “ringraziamenti”, Benjamin aveva mimato in una sua manifestazione elettorale. Pochi mesi dopo l’assassinio di Rabin, Benjamin Netanyahu era primo ministro e creava lo stato razziale confessionale. Realizzando la deriva che Israele aveva a lungo rifiutato, impersonata dal contestatore del sionismo laico Vladimir Žapotinskij – un integralista di cui Cohen fa grande conto, a più riprese. E del primo Netanyahu, il nonno di Benjamin, un rabbino itinerante, di origine russo-craina, Mileikowsky.
È il nonno all’origine del sionismo antisionista, nemico cioè del sionismo laico e democratico, di Theodor Herzl. Le posizioni diverse e anzi opposte del sionismo Cohen si fa spiegare in sintesi da una lettera “stropicciatissmia di fattura straniera” recapitata al narratore prima dello sbarco dei Netanyahu, firmata da un Peretz Levavi, “lettore in assirologia, arianologia, liguistica e filologia indoeuropea alla Hebrew University di Gerusalemme”. Che dà una posizione centrale al rabbino Mileikowsky, quello che prese a farsi chiamare Netan-yahu, mandato da Dio. Un periatetico, come sarà a lungo il nipote Benjamin. E il promotore del “sionismo revisionista” di Vladimir “Ze’ev” Žabotisnkij, il fondatore della Legione ebraica nella Grande Guerra, a fianco dei britannici, “prima di dichiararsi loro acerrimo nemico” con la formazione terrorista che chiamerà Irgun, per uno Stato di ebrei in Palestina.
Tanto per lo sfondo della narrativa. Che però pone almeno tre problemi storici – del tipo “revisionista” che sulla pagina dileggia. Žapotinskij, ebreo russo di Odessa, dove aveva animato l’Autodifesa ebraica contro i pogrom, creò l’Irgun per combattere col terrorismo l’amministrazione britannica in Palestina, dal 1931, anno della fondazione, al 1948, anno della guerra l’indipendenza. Nello stesso 1931 brigò con Mussolini, nella comune psicosi dell’Inghilterra, e a Civitavecchia creò un primo nucleo di quella che avrebbe dovuto essere una marina militare sionista. Era già stato in Italia da russo di Odessa, durante la Grande Guerra, per studiare diritto alla Sapienza, mentre mandava corrispondenze giornalistiche da Roma, firmando con lo pseudonimo italiano “Altalena”.
Žapotinskij è il referente politico dei Netanyahu, questo Cohen lo sottolinea spesso, e ricorda che fu fu praticamente espulso da Israele, uno Stato che nacque quasi socialista, per morire, due anni dopo, esule in America. Il “romanzo” è soprattutto di questo lato storico, documentario, di Israele.
Storia vera dell’Inquisizione spagnola
“I” Netanyahu sono i familiari del primo ministro israeliano. Una famiglia terribile nel racconto: invadente, prevaricatrice, a volte anche antipatica, con i tre figli, tra essi il neo-primo ministro Benjamin, undicenne nel 1960, ineducati, o educati a prendersi tutto. Il racconto, che prende una buona metà del libro, è di quando i Netanyahu approdarono nella piccola università della piccola città dove insegnava il giovane professore Blum, a casa sua, per l’esame di ammissione del padre a una cattedra di storia medievale. Cinque persone, ipercaratterizzate, quasi caricaturali: il padre Ben-Zion, “medievista” dilettante, la madre Tzila, i tre fratelli.
Nei “ringraziamenti” c’è la storia successiva, di come i Netanyahu faranno la storia. Il fratello maggiore Jonathan-Yonatan, “Yoni”, diventerà un eroe nazionale con questo diminutivo per essere stato l’unico caduto israeliano nell’azione di forza dei reparti speciali in Uganda, a Entebbe, a fine giugno 1976, che lui comandava, per liberare gli israeliani presi in ostaggio da dirottatori palestinesi e tedeschi di un areo Air France in volo da Tel Aviv a Parigi. Paracadutista volontario a 18 anni nel 1964, combattente “con merito” nella Guerra dei Sei Giorni (1967) e in quella dello Yom Kippur (1974), Jonathan aveva ottenuto “una posizione di alto grado nell’unità antiterrorista d’élite nota come Sayeret Matkal” – “l’unità in cui avrebbero prestato servizio tutt’e tre i fratelli Netanyahu” (che si traduce come Unità di Ricognizione dello Stato Maggiore, ma è in realtà una unità di intelligence in territorio ostile, che riferisce direttamente allo Stato Maggiore delle Forze armate e non al governo, e ha come motto “Chi osa vince”). Il secondo fratello è Benjamin, “Bibi”, che farà viavai con l’America per studi e vari incarichi universitari, e anche come ambasciatore israeliano all’Onu, finché non deciderà per la carriera politica, prendendo il controllo del Likud, il partito israeliano di destra, col quale governerà Israele, con alcune interruzioni, per poco meno di trent’anni fino a oggi. Il fratello minore, Iddo, sarà radiologo a Hornell (New York), e autore di memorie familiari, “con molti buchi” - non ha voluto partecipare al “romanzo” di Cohen, e ora vive tra Hornell e Gerusalemme.
Il padre Ben-Zion era nato Miejkowski a Varsavia, e prese il nuovo nome dal villaggio in Palestina, Netanya, dove la famiglia si stabilì nel 1920, quando aveva dieci anni. Il nome originario è una delle “centinaia di variazioni che s’incontrano nei paesi slavi, Mileykovo, Milikov, etc.”, per dire “villaggio del mulino” - variazioni della radice proto-europea melh, macinare. Il nuovo nome viene a significare “inviato da Dio”. Ben-Zion crescerà irrequieto, a Gerusalemme, collaboratore di Abba Achimeir, altro sionista integralista di origine russa, ammiratore dei grandi nazionalisti bonapartisti, Lenin, Mussolini, Pilsudski, e sarà segretario di Žapotinskij in America nel 1949-1950. Dettagli che Cohen trascura nella narrazione, tutta centrata sulla scena-madre della loro apparizione nella piccola città dello stato di New York, nella sua piccola università. Che basta e avanza per incuriosire sui Netanyahu, e non amarli.  
In questo quadro, l’ingresso dei Netanyahu nel mondo accademico americano, nei tardi 1950, col padre irruento Ben-Zion, “che dopo una valanga di posizioni di docente a contratto in tutti gli Stati Uniti divenne professore di Storia medievale alla Cornell University” (poi vissuto in Israele, dopo la morte di “Yoni”, alla cui memoria dedicherà la stesura finale delle sue ricerche, scritta in inglese, fino al 2012) non resta sensa traccia. Il suo opus magnum, “Le origini dell’Inquisizione nella Spagna del quindicesimo secolo”, 1.384 pagine, svolge – a leggere Cohen – una tesi persuasiva. L’Inquisizione era nata e lavorava da secoli contro l’eresia, catara dapprima e poi contro ogni altra. La speciale Inquisizione voluta da Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona nella Spagna nascente era invece politica: introduceva il razzismo invece della religione, la “limpieza de sangre”, e dava gli ebrei conversos, i più da generazioni e ormai cristiani a tutti gli effetti, insieme con i residui mori, in pasto alla residua feudalità, di corte e di campagna, nel mentre che l’unione di Caatiglia e Aragona si cementava in Stato Unitario alla francese, con un solo potere, quello regale. La “limpieza de sangre” si introdusse come artificio per concludere che gli ebrei, che si erano convertiti in massa decenni prima, con la Reconquista, si dovevanoconsiderare marranos, finti convertiti, e quindi da perseguire – insieme con i mori residui nella penisola (l’Inquisizione spagnola fu anche portoghese).
Notevole teoria, che l’Inquisizione fosse molteplice. E che, verso la fine del Quattrocento, poco prima di Colombo, avesse cambiato obiettivo in Spagna e Poetogallo: non convertirte gli ebrei ma riconvertirli all’ebraismo, impedendone l’assimilazione.
È su questo sfondo che la narrazione si fa ironica, molto ebraica, sull’essere ebreo, in generale e in America. La “presentazione” che Netanyahu padre pronuncia alla piccola università upstate di New York la sera del benvenuto è grandiosa: la dissoluzione dell’America. Una conferenza, da gran signore, contro l’assimilazione. Il Paese non c’era, non c’era nulla a cui assimilarsi, “nessun centro, nessun cuore innato – non solo per gli ebrei ma per chiunque”: “Ecco cosa penso dell’America: niente. Ecco cosa penso degli ebrei americani: niente. La vostra democrazia, la vostra inclusività, il vostro eccezionalismo: niente. Le vostre chance di sopravvivenza: nessuna”.
Netanyahu padre, il figlio del rabbino peripatetico, è pure dell’idea che la storia di ogni popolo è anche la storia della sua pazzia, e più la scienza diventa una religione più la religione deve far finta di essere una scienza, alla dispeata ricerca di spiegazioni logiche”. Per cui fanno bene gli ebrei a non credere alla storia.
Per concludere la eduardiana “nuttata” ci vuole l’intervento dello sceriffo. Che si lamnenta: “Che gente del cazzo. Mi scusi, professore Blum, ma che gente del cazzo”. In risposta il narratore Blum confida allo sceriffo: “Sono turchi, sa…. Cosa ci si può aspettare dai turchi… giusto un branco di turchi fuori di testa”. 
Joshua Cohen, I Netanyahu, Codice, pp. 271 € 20

venerdì 30 dicembre 2022

Appalti, fisco, abusi (226)

Continuano ad arrivare bollette della luce e del gas, a periodicità bimestrale, allo stesso costo di un anno fa, anzi leggermente meno, per uguali consumi. A costi uguali, più o meno, proprio per la “materia energia”, non per la fiscalizzazione degli “oneri di sistema” (sovvenzioni all’industria delle fonti di energia green). Mentre da un anno si ascoltano tg e si leggono giornali con calcoli minacciosi dei costi in bolletta dell’energia. Da dove nascono questi “calcoli”? Sono come una minaccia di futuri aumenti.

La crisi del Monte dei Paschi di Siena è stata gestita male e malissimo, sbotta in conferenza stampa la presidente del consiglio Meloni. Tremila euro d’investimento nel terz’ultimo e penultimo aumento di capitale Mps si liquidano per € 2,52, avendo pagato € 5,33 di commissioni.


Banche e carte di credito, che vogliono dai fornitori e servizi che utilizzano il pos una commissione, a loro volta fanno pagare anticipatamente la carta di credito agli utenti, e fanno pagare anche l’uso del pos, da 50 euro l’anno in su. Si dice che il pos serve contro le mafie. Quali?

Cronache dell’altro mondo - golpiste (238)

Si condanna nel Michigan a 235 mesi di prigione, 19 anni abbondanti, Barry Croft jr., un cinquantenne accusato ad agosto di complotto per il rapimento della governatrice dello Stato, Gretchen Whitmer, Democratica. Una condanna necessaria, ha spiegato il giudice, anche se il progetto di rapimento non è stato poi tentato, per garantire tranquillità alla governatrice nella sua attività politica, e come “deterrente”. L’accusa ne chiedeva il carcere a vita.
Il progetto di rapimento sarebbe stato elaborato nell’estate del 2020. Whitmer sarebbe stata messa nel mirino giacché aveva criticato, per conto del partito Democratico, l’ultimo messaggio sullo Stato dell’Unione di Trump.
In precedenza quattro altri personaggi erano stati condannati per lo stesso progetto a pene variabili: Adam Fox a 12 anni, Pete Musico e Paul Belar a una pena di 7-12 anni, Joseph Morrison, il “comandante” del gruppo, a 11 anni.
Altre persone hanno avuto pene ridotte, per avere cooperato contro Croft e gli altri.
Gli imputati non si sono difesi in aula. I loro avvocati sostengono che sono vittime di un tranello teso dall’Fbi, “attraverso una collezione di agenti sotto copertura e di informatori”.

L’amore in carrozzina, lieve

Lo “scannatore” seriale per scommessa ci prova con due sorelle: una lo crede disabile in carrozzina, dell’altra, disabile in carrozzina, s’innamora. Una commediola ben giocata, per la delicatezza della materia.
La disabile continua la sua vita, di umore costante: da solista di violino, col tennis per il tempo libero, della disabilità facendosi una ragione predendosi il carico giacché esito di un incidente di macchina da lei provocato. Il finto disabile, riccastro fabbricante di sneakers, è tanto aggressivo e volgare in consiglio d’amministrazione quanto delicato, perfino troppo, con le donne che punta.
Niente di pecoreccio, le commedie di Miniero sanno essere lievi - a parte un paio di battute da vecchio Alvaro Vitali, che la produzione si poteva evitare. Con una coppia Favino-Scalera (la segretaria che dirige il traffico) promettente.
Luca Miniero, Corro da te, Sky Cinema

giovedì 29 dicembre 2022

Se il risparmio scompare in banca

Un operaio alla pensione a 67 anni, al quale ai 45 è stata proposta la sottoscrizione ultraredditizia di una polizza vita da “una notissima società di assicurazioni”, viene liquidato, “a fronte dei 36 mila euro versati” nel 22 anni, con 35 mila euro. Non è un caso isolato, è la norma: non c’è polizza vita o fondo comune, sia esso Arca oppure Anima, i due fondi delle banche italiane, che non diano che perdite. Ma anche di altre banche, JpMorgan, Goldman Sachs. Con perdite solitamente più vistose di quella che l’operaio lamenta, dal 5 al 10 per cento.
Non c’è ragione perché così sia, ma non c’è rimedio. E la condanna è senza alternative, poiché ora si vuole tassare il contante.
La questione è anche taciuta, benché interessi tutti, risparmiatori e non – confinata, nel caso in questione, alle lettere al direttore. Ma non è da poco: distruggere il risparmio, per ingrassare le banche, che senso ha? Economico? Sociale? È una partita di potere: bisogna risparmiare per remunerare le banche. Un totem?

L’amore è meglio di un romanzo

Una gradevole, distensiva, immersione nella campagna toscana. Sulle tracce del romanzo dallo stesso titolo di Edoardo Nesi – ma limitando alla giusta misura, accennato, il bozzettismo toscano. Con finale in una fredda Milano, di grigio uniforme, vivace come una grande Ikea. Dove però si scopre l’amore, fulminante.
Uno strano film, a tratti curatissimo, a tratti tirato via. Una prova misurata e maggiore dell’attore-scrittore Giuseppe Maggio. Piena dei soliti tic, anche se d’autore, quella di Marco Giallini – cui però la sceneggiatura non offre molti spicchi. L’assistente editoriale, incubatore del secondo parto del romanziere di successo, e il bizzoso autore di un solo libro, ma con venticinque anni di sucesso ininterrotto.
Anche il finale stona: vi si dichiara l’inutilità (la “stronzaggine”) dei romanzi, tanto più se di successo persistente, e la felicità della vita. Lasciando perplessi: infelicità d’autore? Ma la lenta, posata, minimal narrazione è simpatica: divertente il giusto, comprimendo i gigionismi.
Eugenio Cappuccio, La mia ombra è tua, Sky Cinema

mercoledì 28 dicembre 2022

Cronache dell’altro mondo - letali (237)

Il governatore dell’Alabama, la repubblicana Kay Ivey, ha scritto alla Corte di Giustizia dello Stato per chiedere più tempo per le esecuzioni delle pene di morte.
Le esecuzioni capitali del 2022 sono andate male in Alabama. Dei tre condannati da giustiziare solo uno è morto, dopo lunghi tentativi di rintracciare due vene che sostenessero il catetere intravenoso attraverso cui inoculare il veleno mortale. Degli altri due giustiziandi l’esecuzione è stata sospesa dopo tentativi infruttuosi.
Ne dà testimonianza una delle poche persone che, a vario titolo, chiedono e ottengono di assistere alle esecuzioni: Elizabeth Bruenig, trentenne scrittrice texana, redattrice del periodico progressista “The Atlantic”, già curatrice delle “Opinioni” al “Washington Post” e al “New York Times” - moglie di Matthew Bruenig, il blogger fondatore del think thank di sinistra People’s Policy Project. Al fine di migliorare la procedura.
Gli spettatori vedono solo la parte finale delle esecuzioni, quando il condannato comincia a spirare. I preparativi per l’iniezione letale non sono visibili per proteggere l’identità degli esecutori. Quest’anno hanno così assistito all’agonia di un solo condannato, Joe Nathan James.
In alternativa alle intravenose l’Alabama progetta di costruire una camera a gas.

La scoperta dell’amicizia

Una storia di amicizia, tra un ragazzo di città e uno “montanaro”. E di paternità - un riconoscimento, tardivo, della paternità. Raccontata come nel libro di Cognetti, premio Strega e prix Médicis Ètranger, ma con più semplicità. I registi, una coppia di fiamminghi, del “plat pays” di Jacques Brel, hanno scoperto il libro durante una vacanza estiva in Valle d’Aosta, e hanno lavorato un anno per riprodurne le tonalità, sommesse.
Qui le immagini, di luce incerta, tra dialoghi appena accennati, negli odori della natura forti, sudori, stalle, mungiture, formaggi, danno nel dramma. In vari drammi che si susseguono. Li presagiscono, li affievoliscono. A una forma di poesia catturando con questo dimmering, l’estenuazione della luce e dell’orizzonte. Riposante più che malinconica, e anzi robusta, per tutta la lunga durata del film. Trascurando la sentenziosità del titolo, e del libro, peraltro dubbia.
Le “otto montagne” vengono dal Nepal, dove un monte altissimo si vuole al centro del mondo, il Sumeru, e attorno al Sumeru, come i raggi di una ruota, otto montagne e otto mari. Con l’inevitabile quiz di saggezza: impara di più chi fa il giro delle otto montagne, oppure chi arriva in cima al monte? Chi esplora tutto l’esplorabile oppure chi si concentra su un solo obiettivo? Quesito per la verità non pleonastico, giacché l’esito è immorale: l’amico di città, quello che resta per raccontarla, ha scelto il vagabondaggio, dopo aver dissipato la gioventù, rifiutando l’amore paterno, familiare, mentre il montanaro, campione d’innocenza e generosità, le perde tutte.
Una sensazione di pace emerge così dalle tante asperità. In una “comunità” di cime senza nome – “Qual è il Grenon?”, sopra il villaggio di Grana, luogo del racconto: “Per noi è la montagna di Grana. Tutte queste cime insieme? Ma sì. Non diamo nomi alle cime qui. È questa zona”. E senza indugiare al facile fascino del monte Rosa, ai cui piedi il villaggio di Grana (Graines, oggi dodici abitanti, a 1.400 m., nel comune sparso di Brusson) si trova. Cime di accesso agevole. Viventi nell’abbandono, come è di tutte le Prealpi. Forse per la malinconia di tutte le fini inevitabili.
L’incantesimo che la coppia di registi riesce a creare è particolarmente apprezzabile in quest’epoca di fastidiose elucubrazioni di identità e di genere, restaurando il vecchio senso dell’amicizia. Di purezza, altro termine e concetto desueto. Un modo di vivere smarrito, anzi calpestato, nell’onnisessualità - di genere nell’identità, o viceversa. Che dall’ambito culturale anglosassone, cosiddetto “puritano”, innestato alle montagne di Freud ossessive, da qualche tempo ci sovrasta, minaccioso, cattivo.  Come se queste montagne, benché all’ombra dell’Himalaya – altro must? -, consentissero di respirare.   
Una scoperta probabilmente per i registi. I quali, benché anche loro implicati nei “diritti” di genere, professionalmente e personalmente, si danno una pausa. Anzi ci si adagiano, in una lunghissima reverie, a scapito del ritmo, del plot, della velocità. Un effetto tanto più apprezzabile in un’opera tutto sommato all male, solitamente da film d’azione.
Felix van Groeningen-Charlotte Vandermeersch,
Le otto montagne

martedì 27 dicembre 2022

La Germania può finanziare la sua industria, per 200 miliardi

Bruxelles ha fatto danni all’Italia per “aiuti di Stato” che non erano aiuti di Stato. Per esempio per il salvataggio di banca Tercas, 300 milioni. Col risultato di mandare per aria sette o otto altre banche, le deu venete, le cinque del “pacchetto Renzi”, e un po’ anche la Popolare di Bari, che doveva rilanciarsi rilevando Tercas risanata. Bruxelles, cioè la commissaria alla Concorrenza Vestager.
Vestager è la commissaria “che non guarda in faccia nessuno”, secondo i media. Nel caso della Germania, infatti, si è girata dall’altra parte: la Germania ha stanziato 200 miliardi per aiuti alle famiglie e alle sue imprese, miliardi non milioni, di cui 91 per ridurre il prezzo del gas a 12 centesimi al mc – a 7 per la grande industria energivora. Cioè a niente. A partire da lunedì prossimo. Per sedici mesi. Questo contro tutti i regolamenti e codicilli europei. Ma per Vestager è ok.
Ma non solo per Vestager. Non si sono sentiti lamenti per questa decisione a Bruxelles. Né, in Italia, da Mario Monti per esempio, che dell’Antimonopolio Ue è il miglior conoscitore, anche dei suoi trucchi e trucchetti.
Vestager, una danese messa alla Concorrenza dalla Germania nel remoto 2014, vi è stata confermata dalla tedesca von der Leyen per un altro quinquennio nel 2019, benché fosse stata già condannata dal Tribunale europeo per la vicenda Tercas (condanna poi confermata in appello dalla Corte di Giustizia). Il danno che Vestager aveva fatto, pagato da milioni di italiani, non era ripagabile. Ma la materia, oscuramente penale, non era tale da consigliare perlomeno un suo allontanamento?
Il populismo non è abbastanza feroce, si direbbe, se gli europeisti tollerano un tradimento così sfacciato e grave di ogni idealità o aspettativa europea.

Beata Serena

Una commedia al femminile. Trasposizione della commedia teatrale “Farsi fuori”, di Marisa Merloni. Ricamata su Serena Rossi multiregistro: cantante, regista, innamorata delusa, figlia della madre. Col contrappunto di Fabio Balsamo, un Arcangelo Gabriele che parla come il papa argentino (“gli arcangeli devono annunciarsi come il papa regnante”), onnipresente anche al bagno e di tutto ingordo.
L’annuncio dell’Arcangelo a Marta-Maria è alla “donna di quarant’anni”. Che però, arrivata appunto ai quaranta, tituba, Come è giusto in chiave contemporanea. Anche perché, ora, si può essere “madri” di una buona regia di Shakespeare – “Amleto”, naturalmente. 
Sky si è specializata sulla commedia leggera, un po’ (poco) demenziale, a partire dalla serie ormai veterana del “BarLume”, e ci sa fare: lo svago è assicurato, tanto più quanto la vicenda è inverosimile. Balsamo è perfetto nel genere, Serena Rossi è ancora Serena Rossi, da poco miracolata da “Mina Settembre” (sul cui
format l’adattamento sembra ricalcato: la madre importuna, le tre amiche, la sensualità fredda, “detta”), ma regge bene il ruolo: la sua meraviglia (“chi me l’avrebbe detto”) è contagiosa.
Paola Randi, Beata te, Sky Cinema

lunedì 26 dicembre 2022

Ombre - 647

La Germania vara 200 miliardi di aiuti alle imprese – cifra énaurme, direbbe Ubu. Di cui 91 subito, per ridurre il prezzo del gas a 12 e a 7 centesimi\mc, per le imprese piccole e medie, e per le grandi.  Subito la commissaria Ue alla Concorrenza, Vestager, si precipita a dichiarare che non è aiuto di Stato, Berlino non viola la concorrenza. La stessa che nel 2015 vietò al Fondo depositi e crediti, che è privato e non statale, di salvare la banca Tercas, con soli 300 milioni, come da suo statuto.
 
Per questo “errore” Vestager è stata condannata, due volte, dalla Corte di Giustizia europea. Ma è sempre al suo posto. Di bronzo chi è, la signora, la Commissione, la Germania? L’Europa questa è.
 
Si fa il processo a Bruxelles a due o tre eurodeputati colti con gli euro in casa nel sacco. Ma la corruzione è sentita come palese a Bruxelles. Anche di soldi: il potere dà influenza e retribuzione. Comunque, palesemente politica, contro ogni legge, contro le stesse regolamentazioni europee.
 
A p. 1 Augias rimprovera a Meloni di avere taciuto sull’evasione fiscale, pur parlando molto, da Vespa. A p. 7 il vice-ministro di Meloni all’Economia Leo può dire: “Nel 2014 il governo di centro-sinistra ha previsto una sanatoria di tutti i reati fiscali, anche le frodi, compreso il riciclaggio, pure a carattere internazionale”. Il che è vero.
 
“Non pesano solo la sconfitta e i sondaggi”, dice Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria del Pd, “ma il non aver mai voluto discutere la perdita di sei milioni di voti dal 2008 a oggi”, dalla nascita del Pd. Lui che è stato l’ultimo segretario della Fgci, la federazione dei giovani del Pci, dovrebbe però saperlo.
 
Si discute in America di ridurre l’aggio per le banche sull’uso delle carte d credito, e sull’abolizione di ogni incentivo all’uso delle stesse, quali cashback  e premi (punti). C’è battaglia, scoperta, tra il Congresso e le banche. È il furbone Grillo che in Italia ne ha fatto una scelta di civiltà, per fare un favore alle banche – fino al cashback, pagato dal fisco… Da non credere.
Ma nei media nessuno lo sa.
 
I vigili urbani di Roma “contro la caccia libera ai cinghiali”. Temono “l’effetto far west”: “Si spara troppo vicino ai condomini”. Che sembra insensato in effetti. Cioè, pensarlo.
Ma allora ci sono a Roma dei vigili “urbani”: ecco di cosa si occupano, quando talvolta vanno in ufficio.
 
Di Giacomo lamenta sul “Venerdì di Repubblica” che la persecuzione dei cattolici nel Nicaragua sia denunciata solo dal dipartimento di Stato americano. In effetti, col papa argentino non ci sono più maltrattamenti e assassinii di cristiani nel mondo, non in Cina come non nei paesi mussulmani. Sarà un papato dell’appeasement. Per quale pace, che il papa argentino tanto invoca?
 
Meloni e Draghi si elogiano per il price cap europeo al gas. Un grosso risultato. Prova ne sia, dicono i sicofanti pronti, che Putin s’è arrabbiato, e la Germania ha dovuto aggirarlo. Non fosse che il price cap di Bruxelles, di 180 euro per megawattora, è più alto del prezzo di mercato, e nove volte la media dei future a ungo termine, che è di 20 (venti) euro. E che Putin si arrabbia perché l’Europa taglierà tra qualche settimana le residue forniture russe, non per il price cap.
 
Tutti maestri da qualche tempo di approvvigionamenti di fonti di energia. Da sempre regolati, a  memoria d’uomo, dalla diversificazione - come in tutte le cose umane: mai dipendere da una sola entità. Mentre si corre verso altre dipendenze che non la Russia: l’Algeria, il Qatar, l’Azerbaigian, che poi è la Russia, gli Stati Uniti. Si farebbe la guerra alla Russia con altre armi, vere, proficuamente, invece che privandosi delle sue ricchezze minerarie, abbondanti e a minor prezzo.
 
“Due ex Dc stanno portando il Pd alla Livorno del 1921”, alla nascita del partito Comunista d’Italia: “Letta e Franceschini si avvicinano alle origini del Partito Comunista”. Arturo Parisi, sociologo, animatore del Cattaneo, artefice di qualche vittoria elettorale di Prodi e suo ministro della Difesa, è un democristiano simpatico, perfino liberale, ma senza pudore? Letta? Franceschini?
Di Stefano prende una colonna del “Corriere della sera” per criticare il manuale di nove pagine dell’università di Brighton ai dipendenti contro il Natale, parola “cristianocentrica”. Nessun rischio che prenda altrettanto spazio per analogo documento dell’università di Macerata, l’analogo di Brighton. Perché Macerata (ancora) non è Brighton. Ma soprattutto perché Macerata è nelle Marche e non in Inghilterra. Che cosa ha più da insegnarci l’Inghilterra – anche in fatto di humour?
 
Sfogliando la stampa illustrata americana si trova dappertutto la celebrazione del Natale, sia negli articoli che nella pubblicità. Nel paese cioè che più sarebbe diviso, per razza, religione e politica. È in Inghilterra invece che il Natale è sostituito dalle Feste. È un fatto massonico? Gli islamici gestiscono l’opinione? Forse è solo snobismo.
 
Lo stesso per la legge che si vuole introdurre, in Inghilterra dopo la Scozia, per permettere a sedici anni di cambiare sesso. Bere no, guidare no, votare nemmeno, ma cambiare anagraficamente sesso sì, si è già “maturi” a sedici anni. Snobismo non è.
 
Uno vede De Maria in Francia-Argentina che da solo ubriaca mezza difesa francese, anche senza l’intesa con Messi, dopo averlo visto nella Juventus, contro avversari ben più modesti, tipo il Monza, e si chiede: ma è lo stesso? In Francia-Argentina reduce perfino dall’influenza, che quest’anno è faticosa. Chi lo paga non diritto alla stessa prestazione? Il calcio è sport di squadra, e le squadre vanno formate - le vedettes contano solo per alzare il prezzo del biglietto.
 
Senza una politica, una idea di politica, e sospinto da interessi estranei (Scalfari, “la Repubblica”), il Pd, sia esso o no la sinistra politica in Italia, si è adagiato sulla superiorità morale, dei “belli-e-buoni” della Repubblica. Al punto da non rendersi conto, col Qatargate, di essere ridicolo – se qualcuno non conoscesse il Pd romano. Dopo avere patrocinato ogni possibile interesse di parte, purché del grande captale: grande distribuzione, banche, grandi conglomerati.
 
È curioso, ma anche un po’ assurdo, che una persona come Giuseppe Conte, un socio junior di un grande studio legale, senza alcuna esperienza politica, diventi all’improvviso presidente del consiglio, faccia un governo prima con Salvini poi con Letta, affossi il governo Draghi sugli aiuti all’Ucraina, e venga recepito come salvatore del Pd. Lui ce la mette tuta, ma è patetico. Il problema è come possa ess ere l’interlocutore del Pd, salvifico.

La Russia deve morire

Putin perpetua la tradizione plurisecolare imperiale della Russia, nel mondo slavo e nel Caucaso, in Armenia, Georgia e Azerbaigian. Rinvigorita dal sovietismo. La Russia non si acconcia a un ruolo al passo con i tempi, non più dominante, dittatoriale, su questa o quella parte dell’Europa orientale che in qualche modo, in qualche periodo storico, è stata impero russo. È il fondamento della persistente autocrazia russa: autocrazia (illibertà) e impero si alimentano vicendevolmente.
È questa “la” Russia, l’anima russa? Applebaum vi accenna. Ma non bisognerebbe sottovalutare che da un secolo e mezzo almeno un vasto fronte russo di tendenze liberali e democratiche è esistito, seppure con scarsa fortuna politica, e quasi sempre finito in esilio - quando non in Siberia. Questo Applebaum sottolinea anche: che dal secondo Ottocento una diaspora russa si è creata, di intellettuali e anche di gente semplice, che non sopporta quella che si potrebbe definire alla Marx “ideologia russa”, dell’autocrazia imperiale. In frotte, in massa. A fine Ottocento. Dopo l’abortito costituzionalismo del primo Novcecento. Dopo la presa del potere bolscevica. Con gli accordi per l’emigrazione Kissinger-Breznev. Dopo il crollo del sovietismo. E perfino ora, con la guerra in corso.
Un’ideologia russa perseverante, si potrebbe aggiungere, secondo la triarchia dominante negli studi sul potere sovietico in auge negli anni 1950-1960: partito-esercito-polizia, il ruolo del partito bolscevico sostituito da un patriarcalismo tradizionalista a base ortodossa, chiesastica. Il tutto però sempre, è ancora da aggiungere, nell’Ottocento, nel Novecento, e in questo primo Millennio, nel quadro di una “questione slava” irrisolta. Tra gli slavi, e nell’ottica europea. Da intendersi dell’Europa occidentale, quella che ha seguito un diverso percorso storico, derivato da Roma e dalla chiesa di Roma.
Nell’immediato, alla radice di questa guerra, Applebaum trascura – come tutti, peraltro - che si è arrivati all’occupazione della Crimea, e ora all’“Operazione speciale”, dopo una annuale querelle invernale sui transiti del gas russo, due colpi di Stato di piazza contro presidenze elette che non volevano fare la guerra economica alla Russia, e il tentativo insistito di portare la Nato alla frontiera con la Russia. Ribaltando il principio di diritto internazionale stabilito nella crisi dei missili a Cuba nel 1962: che una potenza non può sovvertire unilateralmente gli equilibri nucleari, non – specificamente - portando gli arsenali nucleari alle sue frontiere geografiche – la guerra missilistica non ha cancellato il territorio, la geografia. Dice però che l’Ucraina non combatte l’imperialismo russo: combatte la Russia. “L’idea che ci possa essere una Russia differente, una Russia che sia una nazione-stato e non un impero, non ha molto peso in Ucraina in questo momento. Al contrario, molti Ucraini considerano l’opposizione democratica russa altrettanto colpevole, altrettanto imperialista, e altrettanto responsabile della guerra quanto i non-dissidenti”. Questa è lidea del presidente ucraino Zelensky, che ha promosso la chiusura dell’Occidnte agli espatri dalla Russia

Russia – “non ci sono russi buoni”. Applebaum cita anche la giornalista Olga Tokariuk, nota in Italia dagli schermi Rai e Mediaset: “Perfino i russi ‘liberali’ hanno ripetutamente espresso idee imperialistiche in materia di politica estera e di Ucraina. C’è tolleranza alla guerra e avversione alla democrazia”.

Pubblicato col doppio titolo, sulla rivista e online.
Anne Applebaum, The Russian empire must die (Putin must loose), “The Atlantic”, free online

domenica 25 dicembre 2022

Problemi di base divini - 728

spock

Perché creare l’uomo per poi salvarlo?
 
La creazione è buona, l’umanità cattiva?
 
Quello del male è un batterio andato a male – la creazione fa vita propria?
 
Il problema del male è quello della libertà?
 
Il problema è pensare, sentire va un po’ meglio?
 
È anche vero che Dio si fa uomo con l’impero romano.


spock@antiit.eu

L’odissea montanara della morte – o la fatica del vivere

Una giovane madre il cui primo parto è di una bambina che nasce morta, in una spiaggia povera di pescatori a fine Ottocento-Primo Novecento, di fronte al rifiuto del parroco di battezzare la salma, decide d’intraprendere un “viaggio del respiro”, verso un remoto santuario al confine con l’Austria, per avere il miracolo dei pochi secondi di resurrezione del cadaverino che ne consentano il battesimo.
Il film è del viaggio, lento, lungo, a piedi, col fardello della figlia morta in una cassetta di legno. Dalle marane della laguna di Marano al cuore della Carnia, una val Dolais, un abitato chiamato Trava, in prossimità di un lago. Un’odissea dentro una montagna inospitale, con l’aiuto-guida di un ragazzo che è una ragazza, Lince – che per prima cosa ha tentato di venderla a servizio come balia. Dentro un mondo sempre arcaico, per essere povero, ignorante, isolato. In un friulano appena accennato, e pieno di forestierismi (tedesco, slavo). Di banditi di passo, streghe avide, padri che ripudiano i figli – Lince. La morte è infine bella, come soave, provata o intravista o sognata, nelle acque del lago di approccio, come un ritorno all’elemento liquido primordiale: la prova della resurrezione - Mar sarà battezzata la creaturina al momentaneo risveglio. La morte definitiva, dopo l’accidentata odissea montanara, è infine pacificante, con sepoltura nel cimitero del minuto santuario.
Un’opera al femminile. Di donne buone e cattive, tutte determinate – l’unico personaggio maschile, Lince, è una vergine di proposito. Sul tema della maternità, che privilegia e asservisce la donna, ma sembra non domarla. In ogni caso senza alcun bisogno del maschio.
Un’opera visiva. Di senso forse simbolico, più che narrativo: il viaggio della vita, la vita come sequenza casuale, compresa la resurrezione come illusione. Il senso finale, per lo spettatore ingenuo, è la stanchezza del vivere, malgrado la fede, l’estrema fiducia.
Un apologo che finisce per essere religioso. Della fede che non può non essere indiscutibile, indistruttibile. In fattezze però di fatica, bruschezza, brutalità, Avversità di ogni tipo in ogni momento, per lo più umane. 
Un’opera apprezzata in molti festival che però non ha trovato distribuzione: di ardua ricezione. Recuperata a Roma da Nanni Moretti nel suo cinema. Una narrazione faticosa, di senso incerto. Forse non abbastanza significante come sequenza di immagini, al montaggio, malgrado la poeticità dell’aneddoto.
Laura Samani, Piccolo corpo 
 

sabato 24 dicembre 2022

Secondi pensieri - 500

zeulig

Anima - “Non esiste. Esiste però l’idea di anima”, Umberto Galimberti. Cioè esiste, anche se non è una cosa. Sono le parole cose – “Nomina sunt consequentia rerum”. Anche se non sono un minerale, un oggetto.
 
Colori
– “Nel rapporto con i colori Platone è moralista, puritanio. Non ama la pittura, la considera un inganno. Per Aristotele il colore è luce, per Platone materia vile. Quella disparità di vedute attraverserà per secoli l’intera cultura occidentale. Dal Medioevo alla Riforma protestante, l’influenza platonica sarà decisiva” – Michel Pastoureau.
Bisognava pensarci: la Chiesa aristotelica, la Riforma platonica?
 
Dio – Quello biblico è Signore degli Eserciti. Non necessariamente angelici.
 
Era inizialmente uno degli dei, la divinità. Anche se nel “Genesi” è il creatore del mondo.
Dovendo dare un nome al Padre dei Vangeli, questo venne dalla pratica politeista, una denominazione. Il mistero è semmai la relazione tra il Padre e il Figlio – non mediato ma ampliato (complicato) dallo Spirito Santo. Il mistero è Gesù, l’Incarnazione. Il mistero originario, prima e più illogico della Resurrezione.  
 
Illuminismo – È cristiano, anche quando professa l’ateismo. Dice Enzo Bianchi: “In quanto cristiani abbiamo la capacità e il dovere di chiedere libertà, uguaglianza, fraternità. Sono i valori già espressi dall’illuminismo”. Che si radica nel cristianesimo.
È cristiano come tutto.


Sinistra – La “sinistra” politica è solo politica, anzi ideologica. Adagiata su presupposti. Tra i quali ci sarebbe la contemporaneità, l’ascolto e l’analisi della realtà del mondo, produttiva, sociale, ideale (ideologica), man mano che si sviluppa, nelle sue cause e nei suoi effetti, secondo l’approccio critico che Marx ha teorizzato – e praticato nei suoi studi. Dovrebbe esserci, ma è eliminata nella pratica, o trascurata: non ci sono molte analisi o studi, anche in epoca di presunzione critica, realistici e quindi incisivi della vita in Italia, politica, economica, sociale (civile). O nel mondo: si vive nel mondo passivamente, come nell’ignoranza. Ci sono molte parole, molto vuote.
La sinistra è una petizione di principio, che trascura la realtà perché la disprezza – la persona di sinistra ama dirsi “nata di sinistra”. Per l’influsso idealista. Negato in punto di principio ma di fatto invasivo, quasi abitudinario – piccolo borghese nella terminologia di Marx, gozzaniano, delle “piccole cose di pessimo gusto”, naturalmente idealizzate, di gusto quindi ottimo, insuperabile.
Il criterio base dell’uguaglianza (Bobbio) è improvvisamente sorpassato. È valore comune, non più discusso, nelle società e in sede internazionale – i piccolo contano come grandi, cioè non contano, in un mondo da tempo piramidale. Per qualche aspetto (“a ognuno secondo il merito”) questo criterio base è talvolta rovesciato - mentre la destra é anche “sociale”.
Dove altro si radica allora la differenza? Nella dicotomia conservatorismo-progressismo? Liberismo contro socialismo? L’individuo contro le masse? Fascismo contro democrazia – il fascismo nessuno lo professa? Il “sistema” e l’“anti-sistema”? Lo Stato etico e l’anti-Stato – una dicotomia risolta nello Stato sociale? Il conformismo e l’anticonformismo? Perfino la controinformazione può essere di destra – lo è negli Stati Uniti, nei social e nei media tradizionali. Rovesciata è anche la dicotomia austerità\produttivismo: dov’è il valore e dove il disvalore? Il riformismo è s(t)olida burocrazia – di Bruxelles, del Fmi, della Bce. L’ambientalismo a lungo è stato di destra, dai Wandervogel a Hitler (sic!) e a Savitri Devi. I “diritti”, di genere, identità, incapienza, disabilità (nonché, curiosamente, di immigrazione) sono praterie aperte, campo di esercizio e fiera di buoni propositi, di bontà.
La sinistra politica resta come ideologia idealista. Finendo per adagiarsi sulla buona coscienza di sé, da “società civile”, dei “belli-e-buoni” direbbe il greco - la kalokagathia della Grecia di Atene aristocratica. Nella autoindulgenza.

Nel tentativo in corso di rianimare in Italia il partito Democratico, un partito politico di sinistra, si è potuto affermare che “due ex Dc stanno portando il Pd alla Livorno del 1921”, lo stanno riportando cioè alla nascita del partito Comunista d’Italia. Un secolo fa. Una confusione che solo esplicita indifferenza. Verso un progetto preciso, ancorato alla realtà del momento, delle cose, in una prospettiva di miglioramento per il più gran numero.

Il dibattito sul Pd è anche, effettivamente, promosso e discusso da (ex) democristiani. Che non si fanno mancare nulla, e quindi nemmeno la nascita del comunismo nel 1921. Oggi come già cinquant’anni fa o poco meno nei governi del compromesso storico.  Che è rimasto infatti il sogno della (ex) Dc: governare in sicurezza, col sostegno comunque dell’(ex) Pci. Un compromesso teorizzato da Berlinguer, realizzato da Scalfari, un anticomunista - da Scalfari con Andreotti, tramite il segretario Franco Evangelisti. Contro, poi, i buoni governi di centro-sinistra imposti da Pertini, per l’impossibilità voluta da Berlinguer di costruire un fronte politico di sinistra. Un compromesso con i Democristiani, che si sogliono dividere fra destra, centro e sinistra, ma furono e sono un unico partito, cambiano solo il nome.
Non si fa la storia della Repubblica. Una storia vera, non quelle prevenute di Ginzberg o, oggi, di Gotor.  Ma i fatti politici sono quelli: il Pci ha impedito la crescita della sinistra, e si è dissolto, ruota di scorta dei giovani ex Dc. Mentre molta materia di sinistra, il salario, il fisco, il potere d’acquisto, il bisogno, il Mezzogiorno, perfino i diritti civili, sono diventati materia anche di destra, seppure sotto la forma vituperata del populismo – ma non vuota come il populismo si suppone essere. Manca, per esempio in Ginzberg, storico di partito, naturalmente il dato forse più importante della storia politica italiana del dopoguerra: la divisione della sinistra quando nel 1956 Togliatti scelse Mosca invece dell’autonomia, e la sua imbalsamazione. L’imbalsamazione della sinistra, in Italia, l’unico paese dell’Occidente – sì, dell’Occidente, c’è più dialettica politica negli Stati Uniti, pur mancando il verbo socialista.
Si può dire lo stesso in generale, prescindendo dal caso Italia? No e sì. Resta ovunque incerto il confine fra destra e sinistra politiche. Un caso coinvolgente, ora al drammatico epilogo?, è quello del “mercato”. L’Europa ha smantellato trent’anni fa ogni protezione “sistemica”, nelle produzioni primarie come negli approvvigionamenti essenziali, per esempio del gas, nel nome del mercato, e del vantaggio dei consumatori. In Italia questa “Europa” è stata realizzata da Draghi, in qualità di direttore generale del Tesoro, “padrone” delle grand utilities allora pubbliche. E gestita politicamente, perversamente, dagli ex comunisti del partito Democratico, tra essi in alle attività produttive l’ora capo della sinistra anti-sistema Bersani. Senza nessun vantaggio dei consumatori, il fatto ormai è acquisito e non contestato, né in prezzi né in qualità - tutti i servizi sono costosi e inefficienti, tutti i beni di consumo sono più costosi in rapporto al reddito. Ma non se ne parla.

La giustizia politica in questo “compromesso” autoreferente è diventata di sinistra, che era arma dei vecchi regimi, e poi delle dittature. La guerra è diventata di sinistra. Vale sempre quanto questo sito annotava undici anni fa, dopo la guerra improvvida alla Libia.

Venerdì 1 luglio 2011
Guerra, processi, mercati: questa sinistra è di destra
È la guerra di sinistra, malgrado le marce, le manifestazioni e i vessilli per la pace? Impossibile, le mamme sono sempre le stesse, che portano i figlietti alle marce con i drappi arcobaleno, le suore, i francescani, gli animalisti, e le tante altre anime buone. È però un fatto: la destra è sempre tentata di andarsene dall’Afghanistan, e non voleva bombardare la Libia, la sinistra marcia entusiasta, specie con Obama. Sui giornali di destra è possibile reperire qualche cifra di quanto le guerre per gli Usa ci costano (sui due miliardi di euro, l’anno), sull’“Unità” o su “Repubblica” no.
L’inversione dei ruoli è ormai un dato storico. Partita con la giustizia politicizzata, che in ambiente occidentale è sempre stata di destra, fascista, maccarthysta, democristiana (indimenticabili gli scoop “Lo specchio”-Andreotti a ogni elezione). E ampliata col mercatismo, cui la sinistra, forse per essere arrivata tardi o impreparata, è stata ed è singolarmente prona, a quella finanziaria dei Soros, che pure annientò l’Italia, a quella della grande distribuzione, a quella della rendita urbana, che da un paio di generazioni ormai sa che dev’essere di sinistra per andare impunita. La sfera privata e il libero giudizio, da sempre il fondamento della democrazia, sono ora perseguiti, ma non da destra come ci si aspetterebbe, da sinistra. Mussolini, che non si può apprezzare in nessun modo, ammetteva le barzellette, ora non più: il controllo, morale, impegnato, progressista, si vuole totale, fino alle imprecazioni involontarie.
Ora la destra, da sempre “amerikana”, mette in dubbio che fare le guerre sia l’unico criterio per essere un alleato affidabile. Gli stessi Usa, a destra e a sinistra, discutono d’altra parte l’opportunità di continuare le guerre in ambiente islamico che in dieci anni sono costate più dell’ultima guerra mondiale. A sinistra no, non si può discutere. A partire dal presidente Napolitano, se ne fa una questione dirimente: bisogna fare le guerre, ogni volta che Washington chiama.
I diritti? La pace? Domina a sinistra il conformismo. Si può pensare questo stato della sinistra come un riposizionamento tattico, a destra per vincere le elezioni. Ma non c’è strategia, né tattica: è proprio un modo d’essere, spontaneo, viscerale, irragionevole. Pieno di sensi di colpa anche, i processi politici sono la macchia più terribile del comunismo, ma soprattutto di conformismo. Come se la Germania fosse alleato meno affidabile dell’Italia perché non va a bombardare la Libia. Due presidenze (ex) comuniste, di D’Alema al governo e di Napolitano al Quirinale, e due guerre inutili – tra l’altro dannose anche all’Italia.
(continua)


Com’eravamo felici quando eravamo infelici

Un film “storico”, benché borghese. Un com’eravamo, nostalgico e critico insieme. Della vita a Roma cinquant’anni fa, quando il regista ne ha dieci. Di una coppia che ha tre figli, e litiga senza separarsi. Vive in periferia a Roma, ma con vista del Cupolone – e fa vacanze da sogno, in location spagnole (il film è una coproduzione italo-spagnola).
L’epoca è segnata da automobili, canzoni, film e tv d’epoca. Da “L’immensità” di Don Backy-Dorelli, che Mina illustrerà, e soprattutto da Raffaella Carrà, col tumultuante, trascinante Celentano di “Prisencolinensinainciuol”. Cui ritorna la figlia maggiore, adolescente che si vuole maschio, quando non si avventura negli spazi aperti in periferia, o alla contemplazione dei cieli azzurri. Che “L’immensità” coronerà cantandola in finale in tenuta festivaliera, col ciuffo da ragazzo.
Crialese vuole la storia “autobiografica” – “come ne hanno fatte i miei amici Cuaròn e Iñárritu” (non Fellini di “Amarcord”?). E un omaggio alla donna, madre e amante – Penelope Cruz che regge il ruolo è anche la Penelope di Omero. La ragazza che vuole essere ragazzo è l’infanzia-adolescenza libera da binari e ruoli prestabiliti.
Un buon programma, forse montato male.  
Emanuele Crialese, L’immensità, Sky Cinema

venerdì 23 dicembre 2022

Cronache dell’altro mondo – bellicose (236)

La guerra in Ucraina sta consumando gli arsenali (armi, munizioni, missilistica contraerea) dei membri Nato che dispongono di “eserciti bonsai” – come vengono familiarmente denominati: venti su trenta membri della Nato (“New York Times”).
Il consumo di munizioni e mezzi è in Ucraina a livello impensabile rispetto alle guerre Nato. In Afghanistan si lanciavano anche trecento salve di artiglieria al giorno, senza problemi di approvvigionamento – ma non c’era bisogno della contraerea. Le forze ucraine arrivano a migliaia di salve di artiglieria al giorno, con un uso a tappeto della missilistica anti-missilistica (“New York Times”).
Gli Stati Uniti hanno fornito all’Ucraina poco meno di venti miliardi di dollari (19,7 miliardi) in assistenza militare nei due anni di presidenza Biden, secondo il sito Big League Politics, di estrema destra - secondo altre fonti (Molinari, direttore di 
“la Repubblica”) le forniture militati Usa sono “quasi 45 miliardi di dollari”.

Secondo il “New York Times” la collaborazione militare Nato con l’Ucraina è cominciata prima della guerra. Un anno fa, nella guerra civile nel Donbass, l’Ucraina impiegava i sistemi anti-droni Sky Wipers, sviluppati in Lituania e forniti dalla Nato.

Congresso Usa vs. banche sulle carte di credito

Una battaglia politica è in corso da un paio d’anni negli Stati Uniti fra il Congresso e le banche sulle commissioni che gli esercenti devono pagare per l’uso delle carte di credito. Commissioni che da una parte, spiega il “New Yorker”, vengono trasferite dagli esercenti ai consumatori, e dall’altra, attraverso i punti a premio, finiscono per arricchire i più ricchi. Una relazione che sembra incongrua, ma bisogna tenere conto che il pagamento con carta di credito è negli Stati Uniti un fatto commerciale e non di civiltà, come si legge e si sente dire in Italia.
Le commissioni negli Stati Uniti sono alte, mediamente sull’1,4 per cento, secondo uno studio del 2020 della Federal Reserve Bank di Kansas City – in Europa le commissioni da alcuni anni sono molto inferiori. Un aggio che moltiplica i profitti delle banche: uno studio della Stern School of Business della New York University calcola che nel 2021, anno di attività ridotta a causa del covid, le sette maggiori banche nazionali hanno beneficiato di margini netti di utile del 32 per cento, un record, grazie alle commissioni sui pagamenti – i margini sono stati molto più alti per i due circuiti di pagamento, del 45 per cento per Mastercard e del 51 per Visa.
Su questo aggio la concorrenza è forte, e si esplica soprattutto con i premi a punti. Con premi doviziosi – c’è chi viaggia senza spendere, con i punti accumulati pagando con carte di credito.
Il trasferimento di ricchezza dai dettaglisti e dai consumatori alle banche e ai grandi consumatori con i pagamenti via carta è stimato variamente, ma comunque elevato. Uno studio commissionato dall’Hispanic Leadership Fund a due economisti della Wharton School, Efraim Berkovich e Zheli He, calcola un “trasferimento” di tre miliardi e mezzo di dollari l’anno dalle famiglie con reddito annuo inferiore ai 75 mila dollari alle famiglie con reddito superiore. Un miliardo abbondante di questo totale verrebbe da famiglie con reddito annuo inferiore ai ventimila dollari. E due miliardi di dollari (1,9 per l’esattezza) viene trasferito, attraverso il sistema dei premi, ai redditi da 150 mila dollari in su.
Della questione si è investito infine il Congresso, dopo un contenzioso di vari decenni fra esercenti e banche che non ha avuto alcun esito. Con iniziativa parlamentare bi-partisan, di Democatici e Repubblicani iniseme. Un Credit Card Competition Act è stato redatto, una legge che riduce le commissioni, e tassa i programmi a premi, per scoraggiarli. Ma un primo tentativo di introdurlo, a ottobre, in una votazione multi-purpose sulle spese per la Difesa, è abortito per l’opposizione delle banche.
James Lardner, Whom do Credit-Card-Rewards Programs Really Reward?, “The New Yorker”, free online

https://www.newyorker.com/news/daily-comment/whom-do-credit-card-rewards-programs-really-reward

giovedì 22 dicembre 2022

Problemi di base americani - 727

spock


La terapia del dolore è soffrirlo fino in fondo, il più acuto e il più a lungo possibile?
 
È l’anestetico una droga, roba da Dea?
 
O lo è solo in ospedale, dove paga l’assicurazione o lo Stato, fuori è invece libero?
 
È la sanità un diritto – in America è un problema?
 
è la scuola un diritto in America, per chi?
 
Iscriversi alle liste elettorali è difficile, votare è facile: c’è una inversione della prova?

spock@antiit.eu


Cronache dell’altro mondo – debitorie (235)

Il debito federale americano è il 700 per cento delle entrate tributarie annue. E il 122 per cento del pil – il 140 per cento se si include il debito pubblico statale e locale.
Il servizio del debito federale ammonta quest’anno a 103 miliardi di dollari.
A novembre, il debito federale americano detenuto dai privati ammontava a 31 mila miliardi di dollari, il più alto della storia. Di cui 7.700 miliardi detenuti all’estero – gli Stati Uniti hanno il più grande debito estero del mondo.
La tassazione in America, federale, statale e locale, ammonta a circa il 25 per cento del pil. Contro la media Ocse del 33,5 per cento (in Italia del 48 per cento).

Si sogna ancora con la nobiltà, decaduta

La “nuova era” è del cinema: Downton viene affittata per girare un film, al momento del trapasso dal muto al parlato – per rifare il tetto con l’affitto dei saloni. Interessante per la prima tecnica di sincronizzazione, tra il filmato e il parlato.
Per il resto il solito vecchio maggiordomo più snob dei padroni di casa. I quali invece scoprono nella vecchia madre tiranna (però, è Maggie Smith) l’amante di una notte, forse, benché già sposata, di un gentiluomo francese ai suoi giovani anni. Quindi, un buon terzo del film è ambientato in Costa Azzurra.
L’altra novità è di minore impatto, nelle immagini e nella storia: il nuovo e giovane maggiordomo, abbandonato dall’amico del cuore, ritrova l’entusiasmo con l’attore del film muto\parlato. Bisogna aggiornarsi.
È strano come la vecchia Inghilterra, che si penserebbe una caricatura, faccia ancora blockbuster, fra le tante serie tv, se se ne fa anche un film.
Simon Curtis, Downton Abbey II – Una nuova era, Sky Cinema
Abbey II - Una nuova 

mercoledì 21 dicembre 2022

Letture - 506

letterautore

Antifascismo – Magris evoca Randolfo Pacciardi, un vita di antifascista finita con un fronte anticomunista, a proposito di una lettera della “bellissima amante di Hemingway”, Martha Gellhorn, di pubblicazione recente, che adombra un flirt o un’attrazione con lui. Fa il nome nell’occasione anche di Edgard Sogno, altro irriducibile antifascista finito anticomunista. Ma la storia della Repubblica non si riesce a fare – la facevano solo gli storici comunisti, quando c’era il Pci.
 
Pupi Avati
– Demitizza il cinema – o lo rimitizza? “Vidi 8 e mezzo di Fellini in un cinema del dopolavoro ferroviario nella Bologna degli anni Sessanta. Ero un giovane venditore della Findus: quel film mi cambiò la vita”.
 
Follia – Quella dei poeti – peraltro ricorrente, fino a Merini, a Incom - è l’intersezione tra sensibilità (rêverie) e immagini, Proust arguisce a proposito di Nerval – a chiusura del saggio su Flaubert: “Dal punto di vista della critica letteraria, non si può propriamente chiamare folle uno stato che lascia sussistere la percezione giusta, ben di più, che acuisce e indirizza il senso della scoperta dei rapporti più importanti tra le immagini, tra le idee. Questa follia non è quasi che il momento in cui le ineffabili fantasticherie di Gérard de Nerval divengono ineffabili. La sua follia è allora come il prolungamento della sua opera – e non viceversa”. Ma in alternanza cadenzata: “Ne evade presto per ricominciare a scrivere. E la follia culminante dall’opera precedente diviene punto di partenza, e materia stessa dell’opera che segue”.
 
Giovanni Giolitti – Filosofo? “Antonio Giolitti, nipote dello statista e filosofo Giovanni Giolitti”, lo dice il podcast della figlia Rosa sul “Corriere della sera”. Giovani Giolitti non lo era, non filosofo (si era laureato in Giurisprudenza, anche se a soli 19 anni). Ma, poi, cos’è filosofia?
 
Pasolini – È diventato icona conformista. Della sinistra politica, quello che ne resta, e anche della destra. Riflesso dell’epoca del “minoritarismo” (vittimismo) trionfante. “Un tic” può dirlo Buttafuoco, agli “stati generali” della “cultura di destra”: “Radio 3 ogni due secondi cita Pasolini come un tic”. Gli sarebbe piaciuto?
Oltre che religioso (v. sotto), Pasolini è anche santo, lo decreta il Maxxi di Roma in una mostra lunga sei mesi.
 
Nelle more delle celebrazioni per il centenario della nascita, si moltiplicano le ricostruzioni che ne fanno vittima di un complotto. Di avversari politici e\o trafugatori delle pizze originali del film “Salò”, che lo hanno attirato in un tranello col pretesto di discutere la restituzione delle “pizze” del film. Una ventina di libri sono stati scritti recentemente, sulla traccia dell’ipotesi originaria di Oriana Fallaci – ne fa l’elenco Paolo Di Stefano sul “Corriere della sera” domenica, “Delitto Pasolini. L’antimafia: Sì, c’entra Salò”. Quella di Fallaci, un’ipotesi e non una ricerca, è diventata una sorta di prova. L’Antimafia della passata legislatura è quella presieduta da Nicola Morra, il senatore 5 Stelle di Genova, eletto in Calabria, che non ha prodotto nulla. L’Antimafia fa Pasolini vittima della banda della Magliana. La quale si sarebbe impadronita delle “pizze” di “Salò”, in un empito di perbenismo, e avrebbe poi deciso di punirne l’autore, attirandolo in un tranello, con la scusa di negoziarne la restituzione. Solo che la banda della Magliana non era ancora nemmeno in mente Dei.
 
Pastiche - Di questa tecnica, di pezzi scritti nello stile di uno scrittore, tra ironia e devozione, Proust, che ne era ingordo praticante (se ne è potuto fare una densa raccolta, “Pastiches e mélanges”), celebra nel saggio su Flaubert (“A proposito dello «stile» di Flaubert”) “la virtù purgativa, esorcizzante”.
Un pastiche involontario è comunque l’effetto di una lettura seducente, sempre secondo Proust, nella stessa pagina – col rischio, per il lettore vorace, di vivere nel pastiche, nell’imitazione, seppure involontaria: “Quando si finisce un libro, non soltanto si vorrebbe continuare a vedere come  suoi personaggi, con Madame de Beauséant, con Frédéric Moreau, ma ancora la nostra voce interiore che è stata disciplinata per tutta la durata della lettura a seguire il ritmo di un Balzac, di un Flaubert, vorrebbe continuare a parlare come loro”. Bisogna “uscire” dal romanzo, dalla lettura: “Bisogna lasciarla fare un momento”, la nostra voce interiore, “lasciare il pedale prolungare il suono, cioè fare un pastiche volontario per potere dopo tornare originali, non fare tutta la propria vita del pastiche involontario”.
 
Proust – “Sodoma” e “Gomorra” vuole unificate – spiega nel saggio “A proposito di Baudelaire” – in senso spregiativo. Ricordando Vigny, che le voleva separate, mentre Baudelaire è per l’unità, Proust nel 1920 spiega di averle unificate, sottintendendo come passione, come sensualità - “nelle ultime parti della mia opera e non nel primo ‘Sodoma’ che è appena uscito” – confidandole a “una bestia, Charles Morel (è del resto alle bestie che questo ruolo è abitualmente confidato)” – a une brute.
 
Regista – È si sa l’italianizzazione del francese régisseur, in uso per il direttore del film, praticata d dal linguista Bruno Migliorini nell’ambito della campagna di italianizzazione delle parole straniere nei primi 1930. Direttore, come è l’uso ancora oggi in inglese, sarebbe stato termine più consono all’attività di regista - il cui ruolo nel termine originario, quello di tenere assieme tutta la baracca, era invece passato al produttore.
 
Rouen – Ha formato, spesso ispirato, Annie Ernaux, la premio Nobel. Era il rifugio di Ruskin, la città che preferiva, anche a Venezia e a Firenze. Lo ricorda Proust, di Ruskin traduttore e ammiratore, in uno dei tanti scritti che gli ha dedicato.
 
Jia Ruskaja – Il nome d’arte della famosa danzatrice russa, inventato da Anton Giulio Bragaglia, è frutto di un equivoco. Incontrando Elena Boberman Sciltian, la moglie russa del pittore armeno italianizzato Gregorio Sciltian, il 4 giugno 1921 alla Casa d’arte dei Bragaglia per una serata di “azioni mimiche e danze”, la giovanissima ballerina Evgenija Borisenko, diciottenne, appena trasferitasi in Italia, disse: “Anch’io son russa! I jà rússkaj”. Il suono piacque a Bragaglia, che ne fece un nome poi famoso – l’aneddoto è raccontato da Antonella D’Amelia, “La Russia oltreconfine”, 167.  
 
Jacques Tati – Dunque, si chiama Tatiscev, era russo. Non amava il russo, ma evidentemente aveva il mimo nel sangue.
 
Tolkien – È appropriato dalla destra politica (in Italia), ma non era uomo di destra. L’illustratore Ted Nasmith, che lo conobbe e lo frequentò da ragazzo, lo dice “un conservatore, un cattolico devoto, ma non in modo estremo”. Non è un fantoccio politico, la destra vi si è ispirata, cinquanta, sessant’anni fa, perché pregiava il fantasy, unica via d’uscita dal 
conformismo sociopolitico, dell’impegno.

letterautore@antiit.eu

Bregret, l’Inghilterra rimpiange

Non è più aria di Brexit in Inghilterra, ma piuttosto di Bregret, di rimpianto. L’argomento non è in agenda politica, né dei conservatori né dei laburisti né di nessun altro. Ma tutti i sondaggi danno attorno al 58-42, di delusi.
Il referendum pro Brexit è del 2016. Il distacco definitivo di fine 2020, meno di due anni fa, ma su tutti i temi la delusione prevale: produttività, immigrazione, standard di vita. La delusione in questo momento è forte per il fallito neo-thatcherismo del breve governo Truss. Che ha fatto solo in tempo a privilegiare i privilegiati.
I sondaggi registrano una piccola percentuale di delusi anche tra quanti votarono nel 2016 per l’uscita dalla Unione Europea. La differenza è fatta dai nuovi votanti, giovani e giovanissimi, e tra quanti nel 2016 si astennero.
Si assimila la situazione a quella della Gran Bretagna degli anni 1960-1970, che poi portarono all’adesione alla Ue: a quando il paese non era competitivo, e in declino, economico e sociale, da “malato d’Europa”. Senza però, ora, alcuna prospettiva di riadesione alla Ue. Anche perché, probabilmente, si dà per scontata una ricezione non facilitata.

Pasolini religioso

Pasolini era religioso. Molto. Sempre. Il solo. Riguardando “La ricotta”, il suo film breve di quasi sessant’anni fa sulla Passione, fatta rivivere dal vero a un “povero Cristo” sulla scena, la cosa emerge come una verità poviana, bene in vista come la lettera rubata. 

La scena è di un film sontuoso che Orson Welles dirige, il dittatore superficiale e spietato del set, tutto all’opposto di Pasolini regista, ma sua proiezione - “ho girato otto km. di pellicola”, dirà in altra occasione, o sei, o cinque, “non so che film ne verrà fuori”.
La lettura recente di “Romàns” aiuta, il racconto – forse la prima prova di Pasolini narratore - dell’impulso sessuale che agita il giovane prete. Che si chiama Paolo, come Pasolini. Il quale tutta la vita sarà lettore, studioso, esegeta e interprete di san Paolo, in una personalissima identificazione, della sua missione furiosa. La corrispondenza coeva a “Romàns” con Carlo Betocchi, persona e poeta quasi di sacrestia, reciprocamente rispettosa e anzi amichevole benché a distanza. Il concetto di comunità, agape, variamente declinato. Il Cristo sempre amato, altra identificazione. La madre Maria. La colpa, sempre vissuta - come l’impegno. L’abbandono del Cristo, della grazia - il Cristo abbandonato dal Padre. Il vagare incerto, fuori della grazia, di “Uccellacci e uccellini”.
L’apologo fa parte di un film a episodi, come allora usava, intitolato “Rogopag” dale iniziali dei registi, Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti. Classificato nel genere commedia. Quella di Pasolini (che naturalmente fu oggetto dell’ennesimo processo, e dell’ennesima censura – piccoli tagli, qui reintegrati) è amara, e uno ne viene confermato alla prima impressione di un Pasolini incapace di leggerezza, di ridere e far ridere. Malgrado la crudezza delle immagini, è però una satira. Del mondo falso del cinema, per il quale nessun sacrificio è di troppo – paradigma dell’eterna questione della borghesia di cui Pasolini si è fatto purtroppo carico: cosa non si fa per andare sullo schermo. Che è però anche, nel caso, l’unica possibilità di sopravvivenza – o della sopravvivenza come morte.
L’impegno di Pasolini si dice e si vuole sociale e politico, ma è cristiano, anzi cattolico. E radicale, irrimediabilmente. Al cinema come in moltissimi testi poetici – non solo nei titoli delle raccolte. Un’indagine specifica sicuramente sarebbe fertile.
Pier Paolo Pasolini, La ricotta, restaurato, free online chili.com

martedì 20 dicembre 2022

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (511)

Giuseppe Leuzzi

Il nostos, il ritorno, tema eminentemente meridionale, tale e tanta è stata ed è l’emigrazione, il poeta Franco Arminio da Bisaccia, in provincia di Avellino, spiega fattuale: “Vivo nella casa dove sono nato e da cui non sono mai andato via”, benché abbia vissuto a lungo lontano: “Ma il paese non mi dà più niente. E devo essere onesto: ci sono molti luoghi, come il mio, sfiatati e stanchi”.
 
Il nonno “non lasciò mia madre iscriversi al ginnasio”, Andrea Carandini ricorda del nonno Luigi Albertini, il proprietario e direttore del “Corriere della sera”: “Allora le ragazze andavano educate solo in casa”. Allora, invece, in Calabria le zie si diplomavano maestrte, studiando fuori casa, poiché le scuole non erano diffuse. E dopo il diploma lavoravano.
 
Albertini, reduce dal fallimento della banca e della reputazione di famiglia, si avvia alla direzione del “Corriere della sera”, di cui ha fatto un grande giornale nei vent’anni fino a Mussolini, su impulso e manleva di Luigi Luzzatti, l’economista e banchiere. Ma al giornalismo era stato indirizzato da Francesco Saverio Nitti, radicale, meridionale, meridionalista.
 
Un’indagine Mediobanca-Unioncamere-Centro Studi Tagliacarne scopre che al Sud ci sono molte imprese medie (familiari), competitive, anche sui mercati internazionali. Malgrado le “inefficienze di sistema” (infrastrutture, accesso ai mercati, promozione). Il Sud difetta di capitali, non d’intraprendenza – molti manager, al Nord e altrove, sono meridionali. E della coltre criminale che gli viene sovrapposta, micidiale – che un apparato repressivo (Procure, polizie) solo poco efficiente avrebbe debellato da decenni.
 
Si assiste con un indefinibile disagio al film Sky “The hanging sun- Il sole di mezzanotte”, sulla violenza di un certo mondo nordico, qui l’estremo Nord della Norvegia, religioso (settario), familistico. Un Nord senza luce: violento e triste. Che sono la materia del romanzo dal titolo analogo dello scrittore norvegese Jo Nesbǿ. Ma il film è italiano, con regista italiano, e protagonista italiano: un caso rarissimo di Sud che critica il Nord.
 
La mafia accademica
“La Gazzetta dello Sport” fa Capodanno con una storia delle mafie: Cosa Nostra, Riina, Buscetta,  la ‘ndrangheta, la camorra, etc.. Tanti volumi, ognuno curato da uno “specialista”. La mafia è dunque una disciplina storica. Come c’era la Storia dei Partiti Politici, per esempio, o la Storia d’Europa, c’è ora la Storia delle Mafie – il prof. Pinco Pallino, Ordinario di Storia delle Mafie all’università di Vattelapesca? Con pubblicazioni, impact factor, abilitazioni, concorsi.
Disciplina diffusa peraltro, “La Gazzetta dello Sport” regala il primo volume della collana. Un insegnamento popolare, o da università popolare, per i patiti di sport, nel tempo libero dalle partite.
Non si saprebbe non complimentarsi, se c’è un ritorno delle scienze storiche - dopo l’abbandono decretato venticinque anni fa dall’ultimo Berlinguer, ultimo ministro del partito Comunista, benché defunto da qualche anno. Non è molto, ma è un segnale.
Non si fa una storia dell’Italia repubblicana, per esempio. O del terrorismo. Nemmeno del partito Comunista – una storia vera. O del leghismo. Ma si fa delle mafie. Del Sud, naturalmente, che è mafioso. Significa che tira sul mercato, ma certo, poveri futuri scolari. 

È un regalo che dobbiamo all’antimafia: l’antimafia genera mafia. In senso figurato, certo, negli studi. Ma anche di fatto. Prima non c’erano mafiosi di seconda generazione, non si ereditava, non c’erano dinastie, c’erano malfattori che prima o poi finivano male. Con l’antimafia è venuta la sociologia, e ora la storia. E non è più come pensava ancora Falcone, li mettiamo dentro e finiscono di fare danno. Ora la mafia si fa soggetto. Si fa personaggio, predica, eredita. Crea; crea carriere, ora anche cattedre.

Il mafioso testimone di giustizia era inimmaginabile, ma anche a questo l’antimafia ha provveduto. Abbiamo già il mafioso maestro di morale, con Biagi, Bellocchio, i giudici palermitani, ora l’avremo ideologo, filosofo, professore - la storiografia è disciplina insidiosa. Ci avevano già spiegato, gli orfani della rivoluzione di Mosca, che mafioso è lo Stato, ora finalmente sapremo la verità, che mafiosi siamo noi, tutti gli altri? Limitatamente alle regioni meridionali, ovvio.
 
Lockdown giudiziario al Sud
Troppa – troppo invadente – e indirizzata male, l’antimafia ha più critici che sostenitori, malgrado sia materia non opinabile, non criticabile.
Il ministro della Giustizia Nordio, che è stato un giudice, non cessa di ripetere che l’Italia è oberata da una “enorme quantità” di leggi, “dieci volte più elevata che nella media dei Paesi europei”, che la corruzione si annida nelle pieghe di questa normative farraginosa, e che essa è “una pesante palla al piede per il sistema economico e sociale e per la vita civile”. Nordio, un socialista che la giustizia ha portato a ministro di un governo di destra, è normalmente criticato su tutto, ma non lo è stato su questo.
All’affollata presentazione all’Auditorium di Roma al Parco della Musica dell’ultimo libro di Alessandro Barbano, l’ex direttore del “Mattino”, “L’inganno”, una sola voce si è levata a difendere gli attuali assetti della giustizia, Giovanni Melillo, il Procuratore Nazionale Antimafia - che peraltro ha operato a Napoli “in concorso” con Barbano per una migliore giustizia. Solo critiche, aspre.
Giuliano Amato, presidente uscente della Corte Costituzionale, che ha varato trent’anni fa le prime leggi speciali contro la mafia, se ne è pentito. Ne è nato un apparato burocratico, politico e affaristico fuori da ogni giusta finalità, al riparo dai controlli di legalità e di merito. “Da giurista negli anni Sessanta”, ha detto, “ho firmato un libro nel quale proclamavo l’insostenibilità delle misure di prevenzione, da Presidente del Consiglio trent’anni dopo ho firmato le leggi speciali seguite all’omicidio Borsellino. Portando dentro di me tanto le ragioni che ostano alla pena del sospetto quanto quelle che ritengono prioritaria la lotta alla mafia, io condivido quello che scrive l’autore del libro, e cioè che qui abbiamo passato il segno”.
Paolo Mieli, che da direttore del “Corriere della sera” condivise alcune delle più efferate intimidazioni del Procuratore di Milano Borrelli, denuncia ora un “lockdown giudiziario”: “Tiene in una morsa la democrazia italiana e scatena retate contro innocenti nell’indifferenza generale”. In particolare al Sud – Mieli, ora storico a tempo perso, ha più tempo per alzare lo sguardo: “Come mai”, ha chiesto, “abbiamo consegnato il Sud a questo stato di cose, senza avere neanche un senso di colpa? Come mai”, rivolgendosi a Melillo, il Procuratore Antimafia, “la scuola dell’illuminismo napoletano oggi si affanna a contestare il libro di Barbano?”
Dettagliata la replica di Barbano, che il Procuratore Melillo ha detto “un estremista”: “Sono un estremista perché vorrei che le sentenze di assoluzione non divergessero dalle sentenze di confisca? Perché ho criticato l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione, l’estensione della pericolosità dalle persone alle cose, dai defunti agli eredi? Sono un estremista perché chiedo che il concorso esterno sia definito da una legge dello Stato e non cucito dalle sensibilità delle diverse sezioni della Cassazione, e poi ricucito nella prassi attraverso le sentenze dei tribunali fondate sul sospetto? Sono un estremista perché ricordo che la confisca senza condanna non esiste in quasi nessun paese d’Europa, e dove pure esiste è ancorata alle garanzie del processo penale e all’accertamento di un reato? Sono ancora un estremista perché chiedo che la legge Rognoni-La Torre venga ricalibrata per tornare a colpire la mafia?” Per concludere: “Non mi sento un estremista quando chiedo che la ricerca doverosa degli autori delle stragi porti a giudizio prove verificate, o quando rivendico che la giustizia non sia la sede della lotta alla mafia, ma il luogo sacro ed estremo dove si accerta la colpevolezza o piuttosto l’innocenza
”.

E si è parlato solo della giustizia, non dell’amministrazione. Che ha superato gli arbitri del fascismo, il confino senza condanna, la residenza obbligata, la perdita dei diritti. Per esempio con lo scioglimento dei consigli comunali, la grande occupazione (moltiplicatrice di commissariamenti e prebende) delle Prefetture. Con le interdittive antimafia – non c’è bisogno di giustificarle. Con indagini mirate sui propri personali nemici, di giudici e investigatori, o degli informatori, estenuanti, a strascico, per anni, alla ricerca dello scoop, una frasetta, un’imprecazione - come si fa nei social.
 
Shakespeare in Calabria
“La Lettura” celebra Saverio La Ruina, commediante di Castrovillari, autore, attore e regista di molte pièces calabro-qualcosa, Shakespeare, la tragedia greca, la Bibbia, don Sturzo.
È diffusa la tendenza fra gli artisti calabresi di riportare tutto alla Calabria, non solo Shakespeare – che forse era calabrese, se era Florio, di Bagnara. Il teatro Nō cino-giapponese, i manga giapponesi, il folk, come è giusto, da Otello Profazio, un genio, al Parto delle Nuvole Pesanti, Voltarelli, Mellace, ma anche la world music, Paolo Sofia e I Quarta Aumentata, o il jazz, Cammeriere – non sentiva questo bisogno il grande cugino di Cammeriere, Rino Gaetano. È una identificazione forte, come un senso di colpa, ma sterile. Non apporta, cioè, niente alla scena calabrese: si vive a distanza, a Bologna, a Roma, a Milano, con qualche difficoltà, si suppone, più che curiosità, e si avalla o sopporta, per la bravura degli interpreti, per l’entusiasmo, la bizzarria, l’inventività, per qualcosa che comunque attira. Ma sterile: la Calabria non cambia né si muove di un centimetro per queste pur lusinghiere identificazioni. Che restano come celebrazioni, degli autori in fuga – delle vie di fuga e non di ritorno.
Un innesto non riuscito? Un’impermeabilità del ceppo? Più probabile un desiderio di “saltare” l’Italia, di collegarsi – di legare il futuro, il passato essendo irredimibile – di collegare le origini a mondi “superni”, grandi, fantasiosi, mirabolanti, prestigiosi. Sicuramente un segno d’insoddisfazione, dell’Italia più che delle origini, per quanto modeste.
 
Napoli
Ha trepidato come tutti per Elisabetta d’Inghilterra, mentre ha una regina santa in casa di cui non si cura, Maria Sofia Wittelsbach Borbone, l’ultima regina di Napoli. Non ancora santa, ma beata da quasi dieci anni. E sepolta al cuore di Napoli, in Santa Chiara. Sorella di Sissi, l’imperatrice, altra strappalacrime.


Di Maria Sofia si occupò Amedeo Tosti, che wikipedia definisce “il gigante della storiografia militare”, ma un secolo fa. Ne scrisse d’Annunzio. Se ne occupò Proust. Napoli era città di studi, nel Sette-Ottocento, ora di chiacchiere?
 
“A Napoli c’è sempre posto per tutti”, chiosa Marino Niola spiegando paesaggi e figure del Presepe – del Presepe napoletano. Come dire di una condizione metropolitana naturale, spontanea. Se non che Napoli è probabilmente la città che più è se stessa, checché essa sia – più simile a se stessa, riproducibile più che variabile.
 
“Ma jatevenne a farvi fottere”, il vescovo di Napoli, che è cardinale, Crescenzio Sepe dice a un certo punto al giornalista di “Report”, Rai 3. La trasmissione gli faceva lezioni di moralità sull’uso anche non sacro, commerciale, delle tante chiese di Napoli ormai chiuse al culto – non monumentali e non parrocchiali.
 
“I miei cari napoletani” sono (fra) le ultime parole che Rosario Romeo, il dimenticato grade storico di Catania, attribuisce a Cavour nella sua biografia. Se non che Cavour non ebbe mai di Napoli e dei napoletani buona opinione. I meridionali avrebbero voluto, e vogliono, una buona e bella unità d’Italia.  
 
Garante dei detenuti a Poggioreale è – era, è stato arrestato per traffico di droga e di cellulari – un ex condannato per traffico di droga a 22 anni. Non un trafficante di “canne”, un industriale della droga. L’aveva nominato il sindaco De Magistris, un giudice, “come occasione di riscatto”. Napoli sempre si supera in immaginazione, come fosse in gara con se stessa, a chi le spara più grosse di chi le ha sparate grosse – De Magistris non è nemmeno uno corrotto o un camorrista in petto.
 
I Borbone realizzarono a Santo Stefano, l’isolotto davanti a Ventotene, per mano di Vanvitelli  a fine Settecento un edificio circolare, visibile in ogni punto da un osservatore posto al centro, del grande cortile circolare. Era un carcere – ora chiuso, dal 1965. Erano arretrati? Per l’epoca era una specie di edilizia utopica: era il Panopticon di Fourier e Bentham, a fine Settecento, l’utopia dell’illuminismo – Fourier emozionava ancora Italo Calvino.

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