Cerca nel blog

sabato 10 ottobre 2020

Il paradiso laico

L’aldilà laico non può essere, come per i credenti, tra paradiso e inferno. Non c’è colpa individuale ma concorso di cause. Né colpa totale e definitiva, senza una ragione e una possibilità di appello. È dunque in un’area indistinta, che non può peraltro trovarsi, per una coscienza materialista, in un altro mondo che questo. L’aldilà laico è piuttosto un aldiquà.
S’immagini dunque un’area compresa tra Piazza Colonna e Campo Marzio, a Roma naturalmente, il Pantheon e Piazza Navona. Un’area non grande, e priva delle suggestioni dell’urbanistica barocca che la città domina, con spazi sventrati e monumenti alla Boullée. Senza alberi, gli ultimi nel chiostro del vicolo Valdina essendo stati sacrificati alla ristrutturazione, l’architettura non ha posto per le foglie. Tristanzuola ultimamente, benché popolata di strafiche diurne e notturne, a caccia di uomini speciali in questa città di uomini, ultracinquantenni, rotondi, profumati alla lavanda, gli onorevoli, l’etica esimendole dopo Mani Pulite dal fare quelle cose lì per le quali erano disponibili, che dunque posano liberamente discinte e quasi sfatte come al risveglio, mentre gli onorevoli fingono di avere famiglia, anche se in genere al paese ce l’hanno.
Ma niente a Roma è senza suggestioni, l’etica inclusa, che è l’unico aldilà dei laici, specie nelle ore, tra le due e le cinque del mattino, in cui questo loro mondo si popola. Dopo l’ora di Mefistofele dunque, che sarà pure venuto a proporre il patto, ma non ci ha trovato nessuno. Sono ore di silenzio e grandi spazi, che si popolano per modo di dire, i laici saranno tre o quattro, sarebbero ormai da zoo, sdegnosi peraltro, e riservati anche tra di loro. S’immagini dunque Spadolini, non più astretto alla dispepsia della pasta e fagioli della Colonna Antonina, sotto l’ultima sede del “Mondo” di Pannunzio, e anzi liberato dagli obblighi di continenza, seguito da Cosimo muto col registratore, e da Ugo e Stefano che ne accettano magri le folli collere, più Sartori, Scalfari, Salvemini, e un paio di altri anonimi, non cominciando per esse. L’iniziale è privilegiata in quanto sa di sapiente e sulfureo, se non di satanico. Di sdegno, quale i tempi esigono – o tempora o mores. Anche se, qualcuno, nostalgico nell’intimo del paradiso vero delle urì che ha disdetto.
Non sono i soli. Altri gruppi popolano l’aldilà laico, benché sempre scarsamente, composti da personalità estrose e non inquiete, ognuno dei quali celebra per sé, in gruppo e individualmente, proprie specialissime virtù, Gobetti, Longanesi, Montanelli, Ottone, Pannunzio, le lettere centrali dell’alfabeto. In ottime stoffe inglesi, con tagli da sartoria, dritti su solide Oxford brownies. Celebrano discreti ma soddisfatti, come il libertinismo comodo del loro giornalismo. È stato detto (Giorgio Manganelli, “Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti”) che è difficile comunicare con i morti, e invece no. Non lo è con quelli che si è conosciuti da vivi, e non naturalmente con gli sconosciuti, da Omero in qua – può essere vero con i vivi conosciuti che invece erano morti.
Un tempio si riserva agli ospiti vaghi della fraternità cosmopolita. Vengono fuori dai palazzi limitrofi, Farnese, Massimo, la terrazza del Valle, uno alla volta, quasi rappresentassero in modesta solennità le rispettive nazioni. La Francia si traveste da sirena, e musiche flautate sembrano aleggiarle sul capo. L’America, anche se femmina, in vesti da vaccaro texano benché rifinito a Savile Road, amichevole ma indifferente, distratta dal governo del mondo, totalitario benché laico e democratico – è il problema della quadratura del cerchio, problema filosofico benché politico. Incalcolabili invece si aggirano a frotte, da ogni dove provenienti, il Chianti, il Salento, i più vecchi dalla Riviera, i famosi liberali inglesi, che spesso sono scozzesi, molti in età, inossidabili, indistruttibili, protetti forse dal vino, per il quale soltanto apprezzano l’Italia, all’ombra del “Guardian”, dell’“Economist” e del “Financial Times” - qualcuno s’indovina a fare l’amore col lampione, nel cono di luce: se lo abbraccia, e lo riabbraccia.
Ma è un mondo ultimamente animato, se non preoccupato, per due arrivi incombenti. Uno è Berlusconi. Che è una lettera nuova, è milanese, si vanta quindi dei soldi fatti, dice le barzellette, ed è pieno di figli, ma si vuole liberale, e possiede quasi tutte le case editrici, quelle che più vendono. L’altro è il papa in persona, per la nuova teologia, che, dopo il pastore Bonhoeffer, vuole prendersi con Dio pure il mondo. È l’ultima novità che le buonanime – anche se ben viventi, beninteso – avrebbero mai immaginato. Tanto più che il papa Ratzinger Benedetto è tedesco, e uno che per venticinque anni ha diretto il Sant’Uffizio, il tribunale di Galileo, Giordano Bruno e gli altri spiriti liberi, alcuni dei quali ha bruciato – o è già il suo successore Francesco, il ragazzo argentino che fu presto orfano di Evita?
L’idea di alzare un muro, in questa città notturna, com’è la moda dopo Israele al tempo di Sharon, è stata rigettata perché ricorda il ghetto, anatema per i laici, e l’aborrito paradiso cristiano con le chiavi di san Pietro, che poi è il papa. Anche la cooptazione – entra chi viene chiamato – è stata rigettata, in linea con l’aborrita Bossi-Fini. Si vivacchia per questo nell’inquietudine, scongiurando nell’intimo l’inevitabile: augurando lunga vita cioè a Berlusconi nell’etere e a Ratzinger nel Vaticano, o a Bergoglio, se non l’immortalità. E nella costernazione, i nemici aborriti sapendo, non sapendolo, anch’essi prossimi al crollo, boccheggianti per interna implosione. Tutto è polvere, nel paradiso laico.

Fredda Napoli infoiata dal lotto

Il racconto degli “affreux”, dei poveracci. In una Napoli indemoniata dal lotto, oggi come ai tempi di Matilde Serao, “Il paese di cuccagna”, 1890. L’“assistito”, assistito dagli spiriti, accecato da bambino dalla tosse convulsiva, che la città venera perché dà i numeri, e la donna-mostro si amano e si odiano.
Un racconto moralistico. Freddo. Più che una storia, o la felicità di raccontare, una polemica insistita sul flagello del gioco. Il commissario Ricciardi, brand  De Giovanni rinomato, è notarile e non il deus ex machina  alla Montalbano, e quindi anche la suspense difetta – a leggere De Giovanni dopo la lunga serie dei Camilleri forse gli si fa torto. Ma, poi: davvero Napoli impazzisce per il lotto, oggi come al tempo di Serao? De Giovanni si è specializzato nel colore di Napoli, trito, il Napoli, san Gennaro, il lotto, i vicoli, mentre si avrebbe voglia di qualcosa di diverso, magari di reale.
Maurizio De Giovanni, Febbre, pp. 47, gratuitamente con “La Repubblica” e “La Stampa”

venerdì 9 ottobre 2020

Cronache dell’altro mondo – superricchi superesentasse (73)

Donald Trump, plurimiliardario, per undici anni degli ultimi diciotto non ha pagato tasse sul reddito. E negli altri sette anni ha pagato quasi niente – 750 dollari nel 2017, quando era già presidente. Non se ne vergogna e anzi se ne vanta: sono più furbo.
Nel 1970, i ricchi pagavano al fisco negli Stati Uniti oltre la metà del reddito – il doppio di quanto pagavano in media i lavoratori. Oggi, dopo la riforma fiscale di Reagan e quella voluta da Trump nel 2017, pagano in imposte solo il 23 per cento del reddito, meno degli operai qualificati e degli insegnanti.
I dividendi e gli interessi sono esenti dal fisco. Gli utili societari non distribuiti pure. Si tassa solo il lavoro, e senza sconti.
Per questo motivo i nuovi miliardari, Bezos, Zuckerberg, Gates non si pagano stipendi: per non pagare le tasse.
Warren Buffett, altro miliardario, “il più grande value investor di semrpe” secondo wikipedia, teme se non altro lo scorno, e chiede di pagare più tasse. Cinque anni fa spiegò che dichiarava un reddito di 11 milioni di dollari e pagava tasse per 1,8, il 15 per cento o poco più. E ha un patrimonio valutato in 60 miliardi: lo ha accumulato con gli utili non distribuiti.
Con gli utili societari non distribuiti non si pagano tasse e si moltiplica il valore azionario. Basta la vendita di poche azioni a Bezos, Zuckerberg, Buffett e tutti gli altri superricchi per pagarsi ogni voglia.
Dl 1980 a oggi, dalle “riforme” di Reagan, lo 0,001 per per cento degli americani, i più ricchi, ha moltiplicato il proprio reddito per 600.
Negli anni 1980 le “riforme” fiscali di Reagan furono votate anche da Biden, allora senatore democratico, oggi sfidante di Trump per la presidenza.

Sainte-Beuve in Italia, fascino e repulsione

Sainte-Beuve ha esordito da poeta, venticinquenne subito celebre nel 1829, con “Vita, poesie e pensieri di Joseph Delorme”, e il suo viaggio in Italia ricorda soprattutto in quattro o cinque poesie, che Guyaux, che non le apprezza, antologizza nel saggio - con  l’eccezione di una “Ecloga napoletana”, pubblicata inizialmente anonima. La più lunga, “La villa Adriana”, una ode dedicata a Liszt, che ce lo ha portato in gita insieme con Marie d’Agoult, ha passi sentiti, poco di maniera. Anche emozionanti alla lettura, come è emozionata la scrittura – pur nel generale algore del critico in versi.
Emotivo anche uno dei sonetti, “J’ai vu le Pausillipe et sa pente divine” - Posillipo che pure Sainte-Beuve diceva niente in confronto al Lemano scrivendone agli amici Olivier che vivevano sul lago – è impregnato, osservava Gautier, di una “dolcezza fusa e tutta italiana”, in particolare il secondo verso, su Sorrento dopo Posillipo, “Sorrente m’a rendu mon doux rêve infini”: “Ogni orecchia sensibile recepisce lo charme di questa liquida riportata quattro volte e che sembra trascinarvi sul suo flutto nell’infinito del sogno come una piuma di gabbiano sull’onda blu del mare napoletano” (Proust, nota Guyaux ironico, “cita con meno entusiasmo questo stesso verso: «Orribile se lo si rotacizza e ridicolo se si arrotano le ‘r’» - “A proposito dello ‘stile’ di Flaubert”). Ma fu in Italia solo un mese, da metà maggio al 18 giugno 1839, solo a Napoli e Roma, e non ne riportò impressione felice.
L’Italia è specilmente assente nella vasta saggistica di Saint-Beuve, spiega Guyaux. Nell’articolo su Stendhal, “non commenta per niente le ‘Promenades dans Rome’ e resta evasivo sull’italofilia di Henry Beyle”. Quello in Italia fu però  il suo unico viaggio di piacere, di curiosità intellettuale e estetica. Sainte-Beuve viaggiò pochissimo: fu in Belgio e in Svizzera per insegnare, e le uniche altre scappate, anche al ritorno dall’Italia, furono in Svizzera, sul Lemano, dagli amici calvinisti Caroline e Juste Olivier.
Del viaggio in Italia è stato pubblicato nel 1922 il taccuino, col titolo “Voyage en Italie”, “appunti inediti pubblicati con una prefazione e le note di Gabriel Fauré”. Guyaux, il francesista belga della Sorbona, e un po’ italianista (consigliere dell’“Associazione Sigismondo Malatesta”, membro permanente del “Seminario di filologia francese”) rilegge tutti gli accenni di Sainte-Beuve all’Italia, negli appunti, nelle poesie, in un paio di saggi, e nella  corrispondenza. Una ricostruzione appassionante per un’ambiguità evidente: l’Italia ne rafforzava e scombussolava il moralismo “port-royalista” o calvinista. Sainte-Beuve si sdegna per San Gennaro e San Pietro, e si commuove. Specie nel ricordo.  Di questo o quel particolare che gli ritorna negli anni. Senza privarsi del luogo comune, la luce di Napoli (naturalmente col suo contrario: “Il sole di Napoli è un ideale che scompare da vicino”) e il vedi Napoli e poi muori – “O vivere là, amarvi qualcuno e poi morire”.
Guyaux è severo con i ricordi di viaggio. Studioso emerito di Rimbaud e di Baudelaire, nota che Rimbaud, che è stato a Genova e Milano nella sua fuga, non se ne accorge, mentre Baudelaire, che viaggiò poco o nula, se si eccettua il Belgio, ha dell’Italia visione più consona, specie nella lettura di Michelangelo, del barocco.  “La più parte degli scrittori francesi in viaggio in Italia, da Chateaubriand a Taine, e a Zola, hanno viaggiato conservando i pregiudizi”. Tutti allergici al barocco, “anche Stendhal”, attaccati a Raffaello, “l’alibi del loro neoclassicismo”. Sainte-Beuve ha, quando accenna all’Italia, la duplicità del romantico. Che rifiuta le rovine e ne è attratto.
André Guyaux, “Cette rapide ébauche déchirée que j’emporte de l’Italie”. Sainte-Beuve à Rome et à Naples, free online

giovedì 8 ottobre 2020

Letture - 435

 letterautore

Aflatossina - Il veleno invisibile che occupa molto dello spionaggio inglese, e delle spy stories, oggi polonio, faceva molta informazione già negli anni 1970, col nome di aflatossina.

Allah – Si ritrova in molti cognomi del Sud: Laganà, Pedullà, Vadalà, Bagalà, Zappalà, Fragalà, et al.
 
Amicizia
– Commentando “Il fattore umano”, il romanzo di Graham Greene su una spia britannica che fa il doppio gioco per Mosca, dove infine si rifugia, Sciascia lamentava in “Nero su nero” la vita grama, grigia, ubriacona, che vi si raccontava, delle spie anti-007: “Non si può, ecco, non si dovrebbe, scrivere dei libri così soffocanti”. Curiosamente, gli sfuggiva che il prolisso racconto era un gesto d’amicizia di Greene verso Kim Philby, il traditore per eccellenza dei servizi segreti inglesi. Che, benché molto più giovane di Greene e non di chiara fama come lo scrittore, ne era stato il capo nella breve stagione, durante la guerra, in cui Greene aveva fatto la spia in Africa. Scoperto nel 1963, aveva riparato a Mosca, dove si era presentato pubblicamente come colonnello del Kgb. Greene non arriva a elogiare il tradimento, ma il comunismo sì – che non è tradimento, non è Budapest o Praga, eccetera. Curiosamente perché anche Sciascia in quel periodo, tardi anni 1970, era incorso in polemiche per avere professato l’amicizia con un compaesano di Racalmuto “vecchio” mafioso - della “vecchia” mafia, cioè, non un grassatore ma un paciere, seppure violento, eccetera, di quella che usava ancora dire la mafia buona.
L’amicizia è terreno scivoloso. Greene l’ha affrontato. Le bozze di “Il fattore umano” mandò a Philby, per un parere ed eventuali correzioni. E qualche tempo dopo, nel 1986, a 82 anni e non in buona salute, è a andato a Mosca a porgere i suoi omaggi al colonnello sovietico. L’anno successivo, per l’articolo contro il Csm che promuoveva Borsellino per equilibri politici sovvertendo i criteri di esperienza e anzianità, Sciascia fu attaccato praticamente da tutti - anche da Andrea Camilleri. Sollevando anche il vecchio cenno al vecchio mafioso di Racalmuto.
 
Arbasino
– Celebrato in morte come saggista, col sottinteso che non era bravo narratore, è invece stato a lungo narratore, con i racconti de “L’anonimo lombardo” e “Le piccole vacanze”, editati da Calvino. E poi con “La bella di Lodi” e “SuperEliogabalo”. Passò al giornalismo saggistico per insoddisfazione. Per sfiducia nel racconto – dopo aver concepito “Fratelli d’Italia”, il work in progress, la narrazione sempre da aggiornare. È stato l’unico del Gruppo 63 a credere veramente – per esempio all’opposto di Eco – nella “crisi” del romanzo, nella sua inattualità. Primo, in Italia, per il genere bio, autoriferito e non – aveva vasti studi giuridici e storici.  
 
Dante – Si aprono le celebrazioni per il settecentenario della morte con un concerto. Un concerto istituzionale, di Muti, nel cortile del Quirinale, alla presenza di tutte le autorità, accademiche e politiche, con diretta su Rai 1. Ma non un cenno sui giornali. Sul “Robinson”, che esce lo stesso girono, su “La Lettura” o “Il Sole Domenica” del giorno dopo – ma “chiusi” giovedì, due giorni prima dell’evento. L’evento è ignorato nelle cronache, anche quelle locali, romane, del “Messaggero”, del “la Repubblica”, del “Corriere della sera”. Il quotidiano milanese, che pure ha fatto campagna per un “Dantedì” all’anno, forse il 25 marzo, recupera il giorno dopo, pubblicando il discorso del presidente Mattarella.  Dante è per sempre, per tutti, ma non ne parliamo – “mi si nota di più se non…”, alla Moretti?
 
Epifania –Quella del calendario è – era? – l’apparizione del Dio. Joyce la usa come “manifestazione”, di un qualsiasi evento, oggetto, gesto, di qualcosa che mostra altro.
Non si indaga abbastanza l’origine irlandese e l’educazione religiosa di Joyce, di un cosmopolitismo ben radicato – frutto del radicamento. 

Hippie – Del movimento, che chiama dei fellahìn, fa il programma e l’organigramma Jack Kerouac nel “Libro degli schizzi”, 152-153, la raccolta di appunti in versi dal 1952 al 1957. Facendolo partire dal 1947: “I Moderni Fellaheen condurranno\ agli Umili Fellaheen, anime\ sedute attorno a un fuoco\ in aperta notte\ E per questo (il Mio Regno\ Non è di Questo Mondo) che\ il 1947 fu\ l’anno «più felice» della\ mia vita”. Proponendosi, è l’ottobre del 1952, in California: “Basta erba adesso,\ solo contemplazione di\ Bene e Male - \ Avidità e Sofferenza”.

Questo il club dei fondatori: “Burrough è il Boss\ della Giungla -\ Carr il Boss delle Notizie\ Internazionali -\ Ginsberg il tremebondo\ Santo della città -\ Cassady l’addetto\ alla ruota della\ terra&il coglione\ Kerouac il Pellegrino\ dell’Umile Fellaheen\ Huncke: - la hippy criminale\ Joan Adams: - l’Eroina\ della Hip Generation\ John Holmes: - lo\ «scrittore»&«critico»\ occidentale – ansie da Civilizzazione\ tardiva&torrenti di parole -\ Solomon: - Alto\ Enigma Ebraico Megalopolitano”. Carl Solomon e Lucien Carr.
 
Melodramma – “Parole retoriche che scovano sentimenti veri” – W. Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 18.
 
Mitigazione – “Cosa succede ora se non funziona il contenimento?”, cioè la mascherina e il distanziamento, chiede Valentina Santarpia al professor Ricciardi sul “Corriere della sera”.  Risposta: “Si passa alla mitigazione, come sta facendo la Francia, con misure anche severe”. Mitigazione come misura severa. Mitigare nel Devoto-Oli è  attenuare, addolcire, calmare, placare. Il declino comincia dal linguaggio.  
 
Parole – “Le parole sono chiare\ come nel riflesso\ del mondo sull’acqua”, J. Kerouac, “Il libro degli schizzi”, 318. O s’increspano, si velano.
 
Pascoli – Onanista? Così Giacomo Debenedetti analizzava i suoi impulsi amorosi – e risolveva l’enigma della vita privata, se non amorosa, del poeta, inesistente, a casa con le sorelle – nella voluminosa serie di studi su “Pascoli, la «rivoluzione inconsapevole»”. Così nella sintesi che Water Pedullà ne dà in “Il pallone di stoffa”, 149, in uno dei tanti riferimenti al magnetismo dell’insegnamento di Debenedetti: “Leggendo «Il gelsomino notturno» Debenedetti dimostrava che gli spondei discendenti sono invece anapesti decapitati, ne seguiva l’impennata con cui i sensi accesi svettano, e scopriva che il racconto delle nozze di una copia di amici in effetti esprime il modo in cui Pascoli ama più felicemente, più radicalmente, con l’onanismo, amore che si accoppia con la fantasia”.
 
Politica – Si dice “da suicidio”. Ma per primo lo disse Eraclito. Proprio lui, Eraclito di Efeso, quello del “panta rei”, tutto scorre, e dell’unità degli opposti. Aristocratico di stirpe regale, violento  antidemocratico. Eraclito consigliava l’impiccagione ai cittadini di Efeso delusi dalla politica – delusi come lui, che però personalmente preferì ritirarsi nei suoi possedimenti e filosofare. 


letterautore@antiit.eu

Elogio del tradimento, e del comunismo

Si può tradire. Un paradosso, utile ad alimentare la suspense. Ma anche una verità, maturata da Graham Greene in età, a 74 anni, dopo un paio di abbozzi in cui non trovava il filo, o la capacità di persuasione. È il romanzo anche della vita dura da spia, specie se fa il doppio gioco – il sospetto pesa sempre. Una spy story, dichiaratamente a ogni risvolto della storia, anti James Bond, la vita della spia non è fiammeggiante, è grigia e grama – al punto che Sciascia, lettore avido di Greene, la trova di “straziante opacità”, spiega nella postfazione Domenico Scarpa, l’artefice del revival dello scrittore britannico (scrivendone sul “Corriere della sera” del 6 settembre 1978, testo poi ripreso in “Nero su nero”). Ma soprattutto, bisogna aggiungere, un tributo al comunismo, nel 1977, in pieno breznevismo, pretendendo che il comunismo è altro.
Diciassette anni dopo l’apparizione di Smiley, la spia triste e rassegnata di Le Carré, Graham Greene torna ai “divertimenti”, come definiva i romanzi disimpegnati, entertainment, con una spia triste ma non rassegnata. Questo propriamente un divertimento non è: è, nientedimeno, un omaggio a Kim Philby, uno dei capi dei servizi segreti britannici che faceva il doppio gioco per i russi, e nel 1963 era sfuggito all’arresto fuggendo a Mosca, dove era riapparso in pubblico come colonnello del Kgb. Ma fila rapido lo stesso, seppure un po’ prolisso, con la polemica anti-americana e tutto quanto fa british, i club, le cacce, i tweed, le donne asessuate: la politica non pesa.
Philby, spia di professione, era stato capo di Greene nella breve stagione in cui lo scrittore operò, durante la guerra, come agente dei servizi segreti britannici in Africa. Era più giovane di Greene, di quasi dieci anni, e certamente molto spregiudicato. Ma Greene scrive nel 1977 questo “Fattore umano” come un risarcimento: si può tradire per il comunismo, che naturalmente non è quello di Budapest e Praga eccetera – qui nelle vesti dei comunisti sudafricani, che soli sanno combattere l’apartheid. Un tributo: a Philby manda a visionare le bozze. E qualche anno dopo, a 84 anni, si reca a Mosca a fargli visita, pubblicizzandola.
In vena di trasgressioni, un seduttore che non divorziò mai dalla moglie, Greene aveva anche teorizzato la slealtà, in un discorso a Amburgo, dove veniva premiato, che Scarpa riprende nella postfazione, “La virtù della slealtà”, nel 1969, quando era già impegnato in questo romanzo di Philby, che poi per un periodo abbandonò. Ma già nel 1948, spiega ancora Scarpa, partecipando all’inchiesta giornalistica “Why do I write?”, perché scrivo, aveva sostenuto – nella sintesi di Scarpa – “la ricerca della verità tramite la slealtà”.  
Graham Greene, Il fattore umano, Sellerio, pp. 460 € 15




mercoledì 7 ottobre 2020

Amalia e la patata lessa

Ersilia non c’è più, c’è la signora Amalia. Nell’ufficio nuovo in via Senato a Milano, tra altre case nobili in vere stanze, che sono salotti con boiseries e luce ombrata. La signora Amalia che compra le patate bollite in salsamenteria. Non interamente. Le compra bollite a metà. E questo crea uno strano effetto nella storia.
Martire padana, di Mortara e Lione, e della lontana Gerona, con ascendenze gotiche, per quell’amal che è perseveranza, la signora Amalia viene sempre ben messa, nel trucco, nell’acconciatura, nell’abbigliamento. Segue la moda, con tatto. Ha fatto gli studi, ha la voce impostata e i modi garbati, tutto quello che occorre a una segretaria di direzione. Ha sposato all’età giusta, ai ventitré, segno di equilibrio. Ha passato con suo marito indenni i primi cinque anni del mutuo, terribili per ogni matrimonio, ha due figli e una figura perfetta, e quindi, sui trenta, può dirsi realizzata, negli affetti, la famiglia, il fisico, il lavoro, il reddito. Se esistesse la perfezione, lei la incarna. I capelli biondissimi e gli occhi azzu-rissimi ne fanno un’attrazione, che è anche bene, l’ufficio di via Senato essendo di rappresentanza, è bene che la gente ci venga. Che ci siano dei disegni precisi non si potrà mai accertare, ma che molti vengano volentieri a Via Senato per la presenza di Amalia è fuori di dubbio – molte cose si fanno, anche molto a lungo, senza uno scopo preciso.
Le patate si vendono surgelate, pre-bollite, per la solita storia di far guadagnare tempo. Ma le patate si cuociono da sé. Se hanno una virtù è questa: una volta cuocevano lentamente sommerse nella cenere, ora cuociono altrettanto tranquille nell’acqua, non c’è bisogno di rimestarle, schiumarle, passarle, e anche a dimenticarsele qualche minuto di troppo restano buone. Si pelano calde in un paio di gesti, si frantumano in cinque o sei pezzi, e con l’aggiunta di olio e sale è fatta - avendo avuto cura di usare la forchetta per non ossidarle tagliandole col coltello. Si possono aggiungere capperi, alici a pezzetti, olive nere. Oppure si possono tagliare a fette col coltello, all’uso longobardo, e fredde servirle in insalata, quindi con l’aceto, la maionese, l’erba cipollina. O smashed, in poltiglia, all’inglese o alla peruviana - ma qui si va sul complicato. Una preparazione, comunque, che prende in tutto due minuti, non di più.
La patata bollita a metà sarà mangiata acquosa e insapore. Eppure Amalia è accurata. Di uno che rimane a metà delle cose si dice che è confuso, di Amalia quanto meno che rifiuta la casa, il marito, i figli e se stessa. E invece no, ha attenzione per la sua persona e i doveri dell’ufficio, e sempre tempo per la pettinatura, prima di uscire la sera e ritrovare casa e marito. Le draghe romane sono al confronto sgangherate, che la mattina arrivano con gli occhi cisposi, al più rispondono al telefono, di malavoglia, e domenica portano a Ostia i figli e il marito con la pasta in tegame e la torta al limone. Amalia è invece una vera signora. È l’eroina dei suoi romanzi, che pensa che il cibo distrugge il corpo, la spesa l’animo, che i figli crescono da soli, che suo marito non è suo amante, che trattiene i sentimenti per il colpo di scena finale. Invisibile, ha eretto una barriera, che per gli altri è piacevole ricorso, l’immagine di una bellezza, le si sorride con gratitudine, ma per lei è irrequietezza e malinconia. Per cui finisce sbollita e sciapita come la sua patata.
Cosa manca alla signora Amalia per la perfezione è la sua stessa perfezione, la sua modernità che è eternità. La quale allegoricamente segna il passo, è il destino di ogni opera perfetta. Questa sua maniera di guadagnare tempo, che dovrebbe farla tornare umana, in realtà lo elimina: il tempo è misura dell’uomo, altrimenti non è, è il metronomo di una musica. Quello che c’era prima dell’uomo è l’eternità, che è uguale a se stessa, un po’ stolida, e indifferente. Lo stesso è il lavoro perfetto moderno, che esclude il piacere, rinviandolo al tempo libero e al turismo, che sono un’industria. L’intoccabile Amalia ne è simbolo. Nei paesi di lingua inglese, dove il tempo libero del week-end è già tradizione, le coppie si preparano per il sabato pomeriggio, che però non sempre viene bene, lui può essere stanco, lei avere il mal di pancia, e la patata cotta a metà non aiuta. In Giappone gli sposi devono prenotare per tempo qualche ora in un Love Hotel, i week-end sono affollati. Ma già nel secondo Ottocento l’amore è un incontro fallito, in Baudelaire, Flaubert e altrettali testimoni, accidiosi perditempo delle due rive parigine, quando il tempo ancora non mancava. “Quello che si chiama amore”, il taciturno Beckett avrebbe detto solenne in conclusione, “è l’esilio, con una cartolina di tanto in tanto del paese”.

Ci sono mancanze a cui nessuna buona volontà rimedia.

L’Africa scomparsa in Italia, dopo la scoperta

Nel 1970 Bacchelli, autore nel 1934 di “Mal d’Africa”, la biografia romanzata del cartografo Gaetano Casati tra Darfur e Nord Etiopia, uno dei suoi libri di maggiore successo, decide di andare a vedere come è l’Africa. Ma non ce la trova: viaggia in Africa Orientale, tra Kenya, Uganda, allora il paese delle quattro primavere, prima che Idi Amin lo imbastardisse, e Tanzania, ma non ce la trova. Non la cerca nemmeno per la verità, eccetto qualche italiano del genere “lavoro italiano nel mondo”. E gli elefanti naturalmente, le giraffe, gli ippopotami, nei parchi naturali.
Non che latitasse l’Africa, che al contrario allora non era defilata come oggi, unica grande regione del mondo, anzi aveva una parte principale nel proscenio mondiale, completandosi il ciclo delle indipendenze, riassestandosi la distribuzione delle risorse minerarie e ambientali di cui l’Africa è grande detentrice, e per le tante guerre civili, endogene (tribali) ed esogene (risorse), quasi sempre combinate. Ma Bacchelli ci va da turista, e manda le cartoline.
Un libro di viaggio di rara indigenza. La fantasia latita, la storia pure. Un’anticipazione dell’Italia senza più storia né geografia. Come se l’Italia avesse dimenticato l’Africa, dopo l’improvvisa scoperta, fra Adua e Tripoli bel suol d’amore. Resta il nome dell’illustre letterato. E l’edizione Ricciardi preziosa, voluta da Raffaele Mattioli.
Sei corrispondenze (per il “Corriere della sera”?) di cui non rimane nulla. Assortite da due fiabe. Poco evocative all’epoca, e oggi insensate. La “novella bizzarra” dell’“animalismo negro”, che intitola “Musiche in «inferno verde»”, e una “favola esemplare”, titolo “Negra e nera”, lunga oltre cento pagine delle centocinquanta complessive, per dire degli animali della foresta in Parlamento – riuniti e stimolati dallo Sciacallo.
Riccardo Bacchelli, Africa tra storia e fantasia, Riccardo Ricciardi, pp. 149 f.c.

martedì 6 ottobre 2020

A Sud del S ud - il Sud visto da sotto (438)

Giuseppe Leuzzi

I riti immutabili, per i Morti, per Capodanno, e più per Pasqua, l’Affruntata (san Giovannino che va in cerca della Madonna dopo la Crocifissione e insieme vanno a scoprire il Cristo risorto), così diffusi, amabili, sono ancora di tradizione, quindi benemeriti. Ma dicono anche di un mondo, oltre che diverso, piacevolemente, immutabile. “Diversamente immutabile”, se si può dire senza offendere.
 
Il racconto “Gli occhiali” di Anna Maria Ortese “riassume in poche pagine la vicenda di ogni Sud” (W.Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 490)? È il racconto di una bambina felice nei miserabili bassi napoletani, finché il medico non ne rileva la miopia e le fa mettere gli occhiali.
Il Sud come una delusione? Occhiali a distanza, che mettono a fuoco. Illusioni che svaniscono.
 
Gli Ottentotti a Napoli
La “porosità” di Napoli Walter Benjamin e Asja Lacjs fanno condizione rivoluzionaria: “Costituire poroso il mondo – nel costante esercizio di compresenza e permeazione degli elementi che il potere tiene separati – rappresenta un compito rivoluzionario”. E Napoli, per questo, il caso “della città conoscibile per eccellenza”. Ma di una “conoscibilità” che “è essa stessa una forma del mistero, e il mistero una ribalta del conoscibile”. Capzioso ma lusinghiero.
Se non che il richiamo è all’Africa: “Diffusa, porosa, disseminata è la vita privata. Ciò che distingue Napoli dalle altre città è qualcosa di simile al kraal degli Ottentotti: ogni comportamento e affare privato è inondato dalle correnti della vita pubblica come da una marea. L’esistenza, che per i nordeuropei è la più intima delle faccende, qui a Napoli diventa un fatto collettivo, come nel kraal degli Ottentotti”.
Il riferimento al kraal dgli Ottentotti sarebbe stato ripreso da una prima edizione del “Viaggio in Italia” di Goethe, là dove parla dei “lazzaroni”. Alla p. 246 del “Viaggio” nella edizione delle “Opere sugli esemplari della sua epoca” (“Sämtliche Werke nach Epocheseiens Schaffens”). Il riferimento non c’è nelle traduzioni italiane del “Viaggio” di Goethe.
A Napoli Goethe fu due volte - con l’intermezzo del viaggio famoso in Sicilia – e felice, nella primavera del 1787. Nel secondo soggiorno scrive soprattutto dei modi, gli usi e la situazione sociale della popolazione. Loda per una volta in tutto il viaggio la pulizia delle strade. E fa un esame comparato tra gli usi del Nord e quelli del Sud. Kraal, lo “stazzu” degli animali, è termine afrikaans, olandese del Sud Africa (pare derivato dal “corral” iberico), per indicare il villaggio bantù di capanne, circondato da un muro di fango o da una palizzata, per delimitare e indicare la comunità.

In viaggio con lo stereotipo
La letteratura di viaggio ingessa. Moltiplica i calchi, gli stereotipi, materiali poveri, e tutti più o meno uguali. Come una galleria di gessi. Il primo – l’esploratore, l’autore – traccia la linea e chi viene dopo segue la traccia: la ingrandisce, la moltiplica, la imbellisce, la imbruttisce, ma con poche deviazioni. Pochi hanno fatto eccezione alle relazioni di Colombo sulle Americhe – forse solo Sahagùn. O sulle Indie al fantasmagorico – forse solo Matteo Ricci, un altro ecclesiastico. Gli innumerevoli testi del Grand Tour magnificano l’Italia artistica nel mentre che ne deplorano la sporcizia, la furberia, l’ingordigia. Anche dove non c’è – non c’era – sporcizia, per esempio nel Veneto, né ingordigia di osti e barrocciai, e magari invece 
l’arte non c’è , non eccezionale.

C’è una letteratura di viaggio resistente, oltre che piacevole. Ma è d’invenzione, un sottogenere della narrativa: Burton, Chatwin, Robert Byron, il Nobel francese Le Clézio, ìl conte Potocki. Succede alla letteratura di viaggio come nelle guide: si va per modelli, al gusto dell’epoca.
Particolarmente indigente, la letteratura di viaggio italiana non ha lasciato tracce di dove s’è avventurata: dell’Africa e del Nord Africa, della Libia. Chi volesse sapere qualcosa della Libia, che non ha molto mutato nel secolo e mezzo dacché l’Italia l’ha scoperta, non troverebbe nulla nei tantissimi, anche dettagliati, testi italiani sulla Libia. O del resto dell’Africa. Negli Appelius e altri colonialisti non solo, ma anche in Vittorio G. Rossi o in Bacchelli, l’autore che divene famoso con “Mal d’Africa”, la vita romanzata del cartografo Gaetano Casati – o anche negli anticolonialisti, prigionieri di guerra in Africa Orientale, Berto, Flaiano, Tobino.
Un po’ come l’Africa è il Sud. Che lo schema Grand Tour propone come l’orrido della natura e il selvaggio degli uomini, e un po’ anche la violenza, di ladri, briganti e tagliagole. Specie le tante dame che vi si sono dilettate. L’editore Rubbettino ha una collana quasi sterminata di viaggiatori in Calabria. Che a leggerli l’uno dopo l’altro sembrano fatti con lo stampo. O allora sono viaggiatori  ironici, che giocano con lo stereotipo – per la Calabria Paul Louis Courier, Dumas, Edward Lear (che la collana Rubbettino non riprende).  La Calabria è il massimo dell’orrido, benché la Sila e l’Aspromonte siano montagne dolci. E il forestiero sia privilegiato, perfino troppo.
 
La rovina del Sud
Il Sud era già spregevole al tempo di Zola, con Zola stesso. Che nel 1864 scriveva a un corrispondente (“Mes Voyages”): “Per me la rovina viene dal Mezzogiono, il popolo degenerato, tornato all’infanzia, pigro, perdigiorno, mendico, magniloquente e vacuo”. E non si indirizza al Midi francese ma al Mezzogiorno italiano, così proseguendo: “Sembra che la rovina venga dall’Oriente. La punta dello stivale è stata invasa per prima, dopo la Turchia asiatica, l’Egitto e la Grecia; e la cancrena della pigrizia ha raggiunto Roma, l’Umbria, persino la Toscana; e noi stessi siamo minacciati, dopo l’Italia. Le nazioni latine devono sparire?” Per consunzione?
 
Sicilia
Il nome è camilleriano, Ferla, ma il posto è reale, e solido. Un paese di duemila abitanti o pochi di più, sui monti Iblei, vicino Palazzolo Acreide, a 40 km. da Siracusa, non di particolare charme, ma uno dei “Borghi più belli d’Italia” per essere uno dei più green, se non il più green. Differenziata al 75 per cento, compostaggio, fotovoltaico sugli edifici comunali, il tutto in soli dieci anni. “La Repubblica”, che l’ha scoperto, lo dota anche di molti milioni, 40 di qua, 30 di là, che forse saranno decine o centinaia di migliaia, ma non importa: quando si vuole si può, anche in Sicilia.
 
Molto è per sentito dire. Incontrando una “nana” nel corridoio di palazzo Altieri a Roma, dove va in visita da Carlo Levi, Sartre si chiede: “Che fa questa Siciliana nei recessi di questo palazzo classico? (geografia poetica: quando vedo una donna piccola di cinquant’anni in Italia, la prendo per una Siciliana)”.
 
C’è la lista d’attesa a Palermo, città pur amministrata da Leoluca Orlando, un sindaco che si vuole di sinistra, per un posto ai dormitori pubblici. Oltre agli sbandati, e ai padri separati, molti sottoposti agli arresti domiciliari che però non hanno casa.
 
Si attraversava la Sicilia negli anni 1980, al tempo de “La Piovra”, “grande successo mondiale”, in solitario, a piacimento, senza piani e senza prenotazioni. Godendosi, sempre in solitario, Segesta, Piazza Armerina, Solunto, Eraclea Minoa, e perfino Selinunte. Perché la mafia inorgoglisce, che  pure impoverisce, invece di fare incazzare?
 
Vigàtesi, con l’accento sdrucciolo, Camilleri dice gli abitanti di Vigata. Stravolgendo la fonetica e la grammatica. La Sicilia si vuole eccezionale nel senso di folle.
 
“Il Sud di Sciascia è irredimibile” – Walter Pedullà, “Il pallone di stoffa”, 497.

leuzzi@antiit.eu

La destra acefala non vince

La destra senza federatore deve stravincere per vincere. Col suffragio proporzionale, ormai ridotto al solo voto europeo, dimostra di essere ampia maggioranza. Ma difficilmente vince localmente, nei Comuni e nelle Regioni, e anche nel voto politico nazionale. Da quando, ormai è un decennio, il federatore Berlusconi è stato incapacitato, e poi isolato.
Il sistema elettorale vuole la moltiplicazione dei rivoli di supporto – quelle che nei vecchi partiti costituivano le “correnti”, personali o d’indirizzo. Fino al voto marginale, per quanto ridotto – quante “democrazie cristiane” non ha imbarcato Berlusconi, anche se senza seguito. È la logica dell’uninomonale, a uno o due turni: raccogliere più consensi possibili. Attraverso la caratura del candidato, il programma, e gli apparentamenti.
Una logica anche semplice – si va per addizioni. Che però gli (ormai ex) giovani di Berlusconi non capiscono o non sanno applicare. Non sanno coalizzarsi, come il caso di Roma ha dimostrato (e sta dimostrando: la incredibile Raggi sta recuperando su Salvini, e perfino su Meloni), e poi delle regioni e i comuni del voto di settembre.
Si rivaluta retrospettivamente il ruolo di Berlusconi. Come pompiere dapprima degli estremismi missini e leghisti – fascismo e separatismo – col recupero di una larga fascia dell’elettorato alla politica parlamentare. E poi come coalizzatore delle destre.  

Se il messianesimo è realizzato

I saggi che Taubes ha dedicato all’opera di Scholem, e le poche lettere che i due si sono scambiate. Il giovane Taubes, a disagio a New York, e nell’ebraismo americano, prende contatto con Scholem professore a Gerusalemme, e Scholem gli procura un incarico all’università. Taubes vi passa un paio d’anni tranquilli, una pausa nell’agitazione costante che lo anima, finché non può non litigare con Scholem sul punto fondamentale della lettura dei testi sacri. Presto è concorde divergenza fra i due, si può dire parafrasando il “divergente accordo” che Tabes trovava invece con Carl Schmitt, il che aggiunge alla polemica, essendo Schmitt un filosofo del diritto dichiaratmente cattolico, e professo nazista al tempo di Hitler.  
Un corpo a corpo, la sua abituale dialettica, del vulcanico Taubes con un suo autore del cuore, Gershom Scholem, suo maestro si può dire. Benché a distanza geografica, Taubes a Berlino, dopo un paio d’anni a Gerusalemme, 1951-1953, Scholem a Gerusalemme per tutta la vita attiva, uno dei primi tedeschi ivi emigrati. E di generazione - Scholem di fine Ottocento, Taubes di dopo la Grande Guerra. Nonché, e con asprezza, di idee. Una compilazione di curiosità ancora soprattutto letteraria. Ma già in medias res, in un dissidio di pensiero profondo, anzi radicale, inconciliabile, dalla teologia al sionismo.
Taubes, che wikipedia può definire “insegnante, filosofo, rabbino, sociologo della religione e specialista dell’ebraismo austriaco”, nato a Vienna nel 1923, professore a Berlino, dopo averla scampata  negli anni bui a Zurigo, deve il padre era rabbino della locale comunità ebraica, e dove si formò con i teologi Hans Urs von Balthasar e Karl Barth, un cattolico e un calvinista, fermamente include il Cristo e san Paolo nell’ebraismo, e il messianismo presuppone in una qualche forma realizzato. Eresia per Scholem. Di cui però qui si possono avere solo gli echi, attraverso le poche lettere, mentre Taubes può situarlo e criticarlo ampiamente nei saggi che gli dedica.
Una riedizione – “Una revisione critica delle lettere di Jacob Taubes a Gershom Scholem e altri scritti” è il sottotitolo. A cura di Elettra Stimilli, che del vulcanico Taubes si è assunta il compito arduo di svolgere in piano, consequenziale, la lettura. Che in effetti può esere semplice, anche se “rivoluzionaria”, radicalmente contestatrice – come Taubes voleva il suo insegnamento, soprattutto nella fase berlinese, al centro e fomite del ’68, della contestazione studentesca. E anche se di Taubes si conoscono finora gli scritti letterari, quelli filosofi essendo promessi a futura edizione. Ma il senso della sua flosofia come telogia si sa, dell’annessione del Cristo e di san Paolo all’ebraismo. Di un cristianesimo quindi abbracciato in altra maniera all’ebraismo. E di un messianesimo biblico in certa misura compiuto. Nella guerra che Tabes può dire vittoriosa del’ebraismo contro l’impero romano – contro l’impero, contro la storia pagana.
Qui tutto questo non c’è. Ma c’è la critica all’ebraismo concluso in se stesso, nelle sue specificità. Anche a costo, sul piano personale, della rottura con una protettore benevolo, e anche pigmalione. Il titolo riecheggia il Vangelo e Giuda, ma Taubes sicuramente non è Giuda, non infertile – e probabilmente, anzi, in “divergente fertilità”.
Jakob Taubes, Il prezzo del messianesimo, Quodlibet, pp. 222 € 22
 

lunedì 5 ottobre 2020

Salvini le perde tutte

È riuscito a perdere Reggio Calabria, un’elezione vinta in partenza contro il deludente Falcomatà, con un candidato incolore, e di fuori Reggio. Malgrado 10 liste di supporto, contro le 11 del sindaco uscente. Dopo aver perso la Toscana e la Puglia – dopo l’Emilia-Romagna.
Le tre sconfitte ci stavano, in Emilia-Romagna, in Toscana, e anche in Puglia. Ma non nella proporzione di 6 a 4. In questa tornata con errori di partenza: liste di supporto limitate a 5 in Puglia per Fitto contro le 15 di Emiliano, 5 per Ceccardi in Toscana contr le 13 di Giani.
In Puglia il candidato non era salviniano, Fitto era passato nel suo peregrinare a Fratelli d’Italia, ma al voto sono mancati sensibilmente i salviniani pugliesi.
È riuscito a perdere anche a casa, a Lecco, Legnano e Saronno, e rischia fra un anno a Varese, senza prospettive di rimonta a Milano. È da quando si è fatto espellere dal governo, a Ferragosto del 2019, che Salvini non ne imbrocca una. Non sarà lui il nuovo capo della destra, o allora la destra sarà condannata alle sconfitte. Sbaglia anche le tecniche elettorali: gli apparentamenti, i listini, il voto in più. Nelle quali Berlusconi era maestro ma che ognuno comprende.

Problemi di base amorevoli - 599

spock

Amor tui, amor sui?
 
Quanto può essere invadente l’amore?
 
L’amore di tutti è di nessuno?
 
Perché Cristo si lamentava, di questo e di quello (anche del Padre), e puniva?
 
L’amore, è una gara?
 
Amare senza essere riamati, non era una volta una disgrazia?
 
L’erba del vicino è sempre più verde?

spock@antiit.eu 

L’Italia non è in pericolo di fascismo ma di povertà

“Atti e inquietudini che si faranno regime” completa il titolo. Sottinteso: potremmo tornare fascisti. Siamo stati fascisti in un certo modo, e potremmo tornare a esserlo. Anzi: lo siamo già, manca solo la presa del potere.
Un saggio politico, tre saggi politici dei tre studiosi della Fondazione, sotto forma di storia. Sul “laboratorio dell’antidemocrazia”, tra il 1920 e il 1922. Se non che la storia è alquanto diversa, nei fatti e nel senso. Il sovranismo non è nazionalismo, non siamo a caccia di guerre. La Lega non è fascismo, è proprio Lega, ossia l’autonomia del Nord rispetto al Sud, che già si è presa per vari rivoli, e ancora insiste. E gli ex missini sono forse i più impauriti dal vuoto politico – comunque perplessi. Resta un ottimo volume documentario, sulla cristallizzazione dopo la Grande Guerra di una prospettiva rivendicazionista, contro questo e contro quello. Preceduta dal nazionalismo del primissimo Novecento, con l’ideologia della Nazione proletaria. E dalla “vittoria mutilata”.
Ma, poi, nulla di nuovo. La Nazione proletaria è Pascoli, nientemeno. La vittoria mutilata era Salvemini. Mussolini vi ha aggiunto le “scene”, l’iconografia, con le squadracce, e ha capitalizzato sulla debolezza del re. Il Partito Nazionale Fascista lo ha costituito nel novembre 1919. Un ann  o dopo andava al potere, ma a capo di un governo di coalizione, non come dittatore. Occupava gli spazi vuoti – la politica non soffre il vuoto. Poi è diventato pure popolare, al di là e al di sopra del suo controllo totalitario dell’opinione, e questo è – sarebbe, dovrebbe – l’unico punto ancora problematico del fascismo. Al netto però delle inefficienze, carenze, ritardi, incapacità, degli ultimi venticinque anni, della Seconda, la Terza o la Quarta Repubblica. Di un vuoto politico schiacciante, altro che fascismo.
Siamo stati fascisti e non lo rifaremo. Forse faremo di peggio ma non il fascismo – CasaPound è folklore. Il vuoto politico, lo strapotere d’interdizione giustizialista, carrierista di fatto, la globalizzazione ormai più che trentennale, hanno impoverito l’Italia. L’unico Paese occidentale che arranca, nel reddito, nelle regole, nel funzionamento delle regole, mentre il resto del mondo va veloce, tra innovazioni e crisi. In una con la scomparsa delle istituzioni: il Parlamento, l’organizzazione politica, il sindacato, i governi, che vivacchiano col non fare, e la stessa presidenza della Repubblica, che si vuole ultimo baluardo della democrazia ma lascia governare per decreto, come nelle repubbliche delle banane, e a nessun fine costruttivo. Questo è il problema. I vecchi problemi sì, è bene conoscerli, non si finisce mai d’imparare, ma l’Italia è nel 2020, non nel 1920.  
Giulia Albanese-David Bidussa-Jacopo Perazzoli, Siamo stati fascisti, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, pp. 240 € 16

domenica 4 ottobre 2020

Ar berzitello

Da Giovanni l’ambiente è dentro, con l’ottima cucina, basta ascoltare:
- Pronto, ahò so’ Lorena, c’è Sabbrina? Sciaooo. - C’è un telefono a gettone da Giovanni (il racconto non è di ora). Il compagno di Lorena va in bagno. È troppo cortese, lo sono i coatti. Dice sempre: “Scusi, mi scusi, mi perdoni”. Vuole che lo si guardi in faccia, dritto negli occhi. Se l’è presa con Stefano, che non lo guardava mentre lo serviva: - Ahò, dico a te, stronzo. Si te parlo rispònnemi, principe der pisello. - Lorena ha appena spiegato al ragazzo che ha problemi di convivenza, presumibilmente non con Sabbrina: - Que’a stronza! ‘Un l’ho mai vista lavarsi i denti, se profuma ‘a fregna, ‘e tette. Anoressica sì, perché ha fame de cazzi. Senza vergogna, s’è fatta trova’ co’ er siciliano, er pischello, e Casimiro, quello che vie’ daa’ Borghesiana, ‘a bocca c’iaveva piena de sbora, e ancora je ‘o voleva mena’. E ‘un je basta, anche a ‘mme me sta ‘ddietro, vole lecca’. - E lui: - Embè? - Hanno trent’anni in due, poco di più.
A Trastevere la transizione è interminabile, da popolare a borghese. Olimpio, ebanista, è stato a Regina Coeli che è accanto al ristorante. Ha inventato il moto perpetuo e imparato a memoria passi del “Guerrin Meschino” e della “Commedia”, con residue perplessità sul senso di “poscia”, suonandogli lubrico. Olimpio ha un tavolo suo, ma Giovanni non gli parla volentieri. Anche se forse non ha torto, se si pensa al numero di copisti che ci hanno messo mano - in effetti “poscia” ricorre ottantaquattro volte nella “Commedia”, stando all’“Inventario Linguistico” di Mario Alinei, mentre il più comune “coscia” ricorre solo tre volte, come “cosce” - “poppe” due. Gli ospiti di una casa di suore si alternano a una loro tâble d’hôte, cosmopoliti e beghini. Al Filmstudio, due strade più in là, il filosofo gestore tenta il rilancio con l’eros. Vi si vede l’impensabile, anche con oggetti. Con animali no, è violenza, anche se i carabinieri non possono entrare, il club è privato.
- A berzitellooo! – Olimpio apostrofa il coatto, in difesa blanda di Stefano.
- Ar berzitello tua!
- La quale, ‘un c’è trippa pe’ li gatti - conclude Olimpio remissivo, mentre se ne va palpandosi soddisfatto il largo ventre.

L’estate folle americana filmata un anno prima

La giornata di una brigata anticrimine, una pattuglia di tre poliziotti del commissariato di quartiere, la pattuglia di giorno, senza un momento di respiro, fra ragazze e ragazzi allo sbando o allo sballo, piccoli e grandi mafiosi, guerre tra bande. Nel caso, tra gli zingari giostrai del circo (il circo Ly perfido chiama Zeffirelli) e “il sindaco”, il capomafia nero di quartiere. Per evitare la quale la brigata anticrimine s’ingegna di cercare chi ha rubato il leoncino del circo. Ci riesce, ma ferisce nella concitazione il ragazzo che lo ha rubato. Da qui la vendetta dei nuovi  “miserabili” - il film termina con una citazione da Victor Hugo: “Non ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori”. A Montfermeil, una cittadina fuori Parigi, dove lo stesso Ly è nato e risiede, animatore di una ong, Banlieus Santé, e di una scuola di cinema gratuita.  
Raramente un film-verità come questo del maliano Ly, un regista che ciò che narra ha sperimentato di persona, anche con la prigione, è stato tanto veritiero. Anche perché, sfortunato all’uscita in Italia, programmata per il 12 marzo, preceduta dal lockdown il 10 marzo, figura ora, visto su Sky, come un saggio politico estremamente avvertito. Tutto quello che Ly narra è avvenuto in queste settimane nelle città americane: i quartieri difficili, la polizia sotto pressione, gli errori dei poliziotti, la reazione furibonda, con saccheggi e sparatorie. Dei “miserabili” come dei “black lives matter”.
L’ambientazione però è diversa, quasi politicamente scorretta. Per l’assenza totale di razzismo, e l’occhio equanime, sulla polizia come sui “miserabli”, le loro case, le loro famiglie, i padri assenti, le madri cirenee. È il secondo aspetto coinvolgente, non scontato o di maniera, di questo film. Ly non è compiacente, ma non condanna la Brigata Criminale, i tre della pattuglia, che tutte le brutte situazioni governano senza eccessi, e riconoscono e si rimproverano l’errore. E un ruolo dà inatteso, per un pubblico occidentale, non violento e non ipocrita, ai Fratelli Musulmani: sono gli unici a mantenere la calma, a occuparsi dei ragazzi di strada con argomenti generosi, se non persuasivi, a pazientare di fronte alla violenza e agli errori, dei poliziotti come dei ragazzi, forse solo per tattica ma sicuramente per convinzione. Che è quella del regista, spiega nelle presentazioni ma evidente dal racconto: questi conglomerati urbani diventano un inferno perché il governo è assente. 
Ladj Ly, I miserabili