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sabato 20 settembre 2014

Renzi con la Germania contro la “Germania”

In campo non è l’art.18 ma il fatto: il lavoro, cioè gli investimenti, la ripresa. Anche la riforma istituzionale e la legge elettorale passano in secondo piano. Assorbiti senza tracce gli 80 euro mensili di sostegno al reddito, non resta niente, solo un buco che minaccia di allargarsi. Di affondare l’Italia e travolgerlo politicamente. L’economia anzitutto, quindi.
A partire dagli investimenti soprattutto, le priorità vengono rovesciate. Cioè: la priorità è sempre la ripresa, che va agevolata sulla domanda. Ma la domanda va rilanciata dal fondo e non dal capo: va agevolata per gli investimenti, il punto debole dell’economia italiana, già da prima della crisi. L’impegno sarà detassare il lavoro e l’impresa. È il vero record negativo dell’Italia, la tassazione per due terzi, e forse più, dell’utile d’impresa. Accelerare i pagamenti della P.A. non basta: la soluzione sta nel rendere gli inevistimenti meno incerti economicamente.
Renzi si prende una vacanza negli Usa per trovare una leva. Parte convinto che ha sprecato tempo prezioso nelle polemiche da talk-show, mentre l’Italia rischia grosso. È anche l’avviso dei suoi consiglieri economici: ottobre è già tardi per bloccare la deriva, bisogna puntare grosso.
La chiave, si ritiene, è a Berlino, ed è sul governo tedesco che bisogna puntare. Non più sul moscio Hollande. Ma consci che Berlino, dove pure ci sono i socialisti – il partito di Renzi - al governo, per il presidente del consiglio è un buco nero: nessuno lo chiama, nessuno gli risponde. La via maestra è sempre “stare con la Germania”, la scelta degli anni Novanta, forse sbagliata, ma ora irrinunciabile. Col rigore fiscale. Ma questa adesione Renzi ha trovato senza corrispettivo. Senza nemmeno un’attenzione beneducata.
Un esame di coscienza sarebbe quindi stato fatto. Sui sei mesi di governo e sulla politica della comunicazione. Anche sul semestre italiano di presidenza della Ue, con un bilancio gramo - a metà strada già si sa. È stata ottenuta la nomina di Mogherini, in un posto peraltro non ambito, e questo è tutto. Niente di niente sul piano economico. Niente nemmeno contro il burocratismo di Bruxelles, per arginare lo scetticismo dilagante sulla Ue. Il presidente del consiglio ha perso anche il contatto sociale, personale, con Angela Merkel.
Il progetto è di smettere l’antigermanesimo di facciata, con battute e tweet. Di intensificare i contatti con i socialdemocratici al governo a Berlino, già sotto traccia in questi giorni di viaggio. Di confermare inoppugnabilmente al ritorno, con la legge di stabilità, il rigore finanziario. Di promuovere se stesso presso l’opinione pubblica tedesca, con messaggi seri, documentati e accorati, in Germania e in Italia. Qui presso i corrispondenti - la parte più difficile, si dice, perché i corrispondenti riflettono il talk-showismo dei media italiani reputati più seri.  

Perché la Germania vuole in crisi l’Europa

La politica europea della Germania è mutata, e il mutamento è distinto e professo, anche se si fa finta che non ci sia. Non più “la Germania nell’Europa” di Kohl, ma la variabile europea della politica tedesca. Che è la divisa di Angela Merkel, senza più maschera. La cancelliera per anni ha girato le capitali europee presentandosi come “la meno peggio” o “l’ultima europeista”: “Sapeste in Germania…”, sussurrando. Intendendo: l’opinione e i partiti sono sciovinisti, io sono la garanzia della Germania europea.
Si precisa invece d’un tratto, nel suo governo di centro-sinistra o grande coalizione, una vocazione autoritaria. Si spiegano le riserve ormai quasi ventennali di Kohl, che pure l’aveva voluta sua delfina. Malgrado abbia imbarcato i socialisti al governo, Merkel continua a boicottare ogni piano di rilancio degli investimenti e dell’offerta. Comprese le “riforme” che impone: la liberalizzazione totale del lavoro non smuove niente se non è accompagnata da politiche macroeconomiche, specie dal lato della domanda (del reddito: retribuzioni, occupazione, fiscalità). Malgrado la deflazione nel continente, malgrado la recessione in Italia.
Merkel chiede “tagli e rigore” in forme e in tempi che si sa, non da ora, sono la ricetta sbagliata. Per questo l’Europa è l’unica area economica al mondo ancora in crisi, mentre (citare qui antiit..). E lo fa con cognizione di causa: è a lei che vanno ascritti i veti periodici di Schaüble e Weidmann, il ministro del Tesoro e il presidente della Bundesbank. E comunque in politica si sta ai fatti, non  si fa l’anamnesi delle intenzioni.
Il fatto è che l’Europa è in crisi perché la Germania la vuole in crisi. Vuole la rovina dell’Europa per meglio far risplendere la Germania – col “nucleo nordico”, Olanda, Belgio, Finlandia, Baltici, Austria e, checché si dica, la Bce.  

Problemi di base - 197

spock

Obama bombarda l’Isis come? Li insegue uno per uno, ci sono bombe-Isis?

Anche Hollande, dove butta le sue bombe?

Distruggere l’Iraq per distruggere l’Isis, dopo averglielo imposto?

Ma questo Isis che liberava la Siria, nessun inviato l’aveva visto?

È Floris che tira Crozza, o Crozza Floris? È l’informazione che tira la risata?

Perché tutte le Procure sportive sono napoletane?

Perché le Procure sono napoletane?

E che fa la giudice Esposito figlia alla Corte Europa di Giustizia, dorme? Ha cambiato parere?

Si dice che la giustizia è insindacabile, ma chi lo dice?

E i due papi, sono entrambi infallibili?

spock@antiit.eu

Quanto si ride, per rabbia, in Calabria

“Ingegno singolare, flessibile e pronto” per Carducci, e poi per Bonghi e Croce, “l’Ariosto delle Calabrie” di De Sanctis è stato presto dimenticato – solo se ne cura Attilio Marinari, cui si deve, vent’anni fa, questa riedizione delle poesie. Nella più generale rimozione del diverso meridionale, e burlesco: c’era lo scherzo, l’invettiva, la rabbia, il salace, all’origine della poesia italiana, e fino al Settecento nel filone maestro, l’Italia unita l’ha soppressa. Si rilegge l’abate Padula, letterato, storico, patriota in prima linea, giornalista, predicatore, pedagogo (“Qomodo Litterarum Latinarum sint studia instituenda”), drammaturgo (“Antonello, capobrigante calabrese”, et al.), prete anticlericale, anche per questo. In lingua e in dialetto.
In dialetto esordì in seminario a San Marco Argentano, con la lunga canzonetta a “San Francesco di Paola”, che Antonio Julia raccoglierà nel 1892 - Padula era morto da un quarto di secolo - “dalla bocca di una popolana”: “Viva, dunca, Sampranciscu,\ ch’allu cielu mo sta friscu”… L’ironia sarà la sua cifra, ma non afflittiva: come una scolorina gradevole, che denuda eroismi e virtù conclamate, nel mentre che bolla il male, anche sotto le specie del bene.
Solo si menziona Padula per le poesie erotiche, più salaci per la sua condizione sacerdotale. Finiscono a letto “Le sette opere di misericordia corporale” – Maria “fece bocchino, poi mi baciò”. Finisce dove ci si aspetta, con lieve slittamento semantico, “La fuga” dai “birri rei”. E così “Abbasso!” (“Abbasso il Re,\ abbasso il minister di Polizia”), finisce abbasso a lei: “Viva la libertà! Ciascuno or puote\ far alto e basso”. Anche le più spinte sono però inspessite, dalla malinconia, dalla storia, e dall’allegoria più che dalla foia, che è invece un pretesto, e forse, oggi si direbbe, un antidepressivo.
Il franco amore “Alla signora Fragoletta” il 15 aprile 1849 è trasparente orazione di lutto per il fallimento delle attese di libertà e unità – fino a passare, nel doppio senso più spinto, della “pipa”, attraverso il fumo, il tabacco, il virginia, alla “vergine” Elisabetta, la regina che “visse annoiata, preda dell’orgoglio”, cui davano fastidio gli amori naturali degli altri. Sarà l’Italia la procace dama garibaldina dell’ode “Per la contessa M.D.I. ch’era al seguito di Garibaldi nel 1860”. Mentre non si risparmia, garibaldinamente, Vittorio Emanuele II “lo Re scherano”, nelle alterne vicende dell’unificazione - “Il 5 giugno dei codini”: “Torni Ciccillo tra le nostre braccia”, intona il Coro dei Borbonici del re Franceschiello, “E si forbisca l’adorabile ano\ con i mustacchi dello Re scherano”.
Pasolini schierava Padula tra i “pochi praticanti” del “realismo poetico”. Un altro modo per dire la poesia bernesca. Che per molti aspetti andrebbe recuperata, specie in questa epoca di crisi, morale prima che economica: irriverente, ricostituente. “I calabresi”, scrisse Corrado Alvaro sul primo numero de “l’Espresso”, il 2  ottobre 1955, “sono, con tutta la loro scontrosità, gente di umore, e scoprono facilmente l’ironia delle cose, specie nelle faccende ufficiali”. L’irrisione, la beffa, lo sdegno si possono dirne la cifra – con l’esclusione di Alvaro: Répaci, Perri, Pedullà, Vollaro, Delfino, Scalfari, Zappone, anche a ben guardare, e malgrado se stesso, Abate, come già nel Settecento l’abate Conìa, e nell’Ottocento Gian Lorenzo Cardone, autore dell’inno antiborbonico, “Il Te Deum dei calabresi”, e il liberale Antonio Martino, il primo pentito dell’unità, insieme con Padula. Non cinica, anzi sempre entusiasta, e per questo cattivissima, per la delusione.
Vincenzo Padula, Poemetti

venerdì 19 settembre 2014

Il nucleo nordico ha sostituito l’asse franco-tedesco

Dalla nuova Commissione alle strategie economiche, alle piccole polemiche c’è ormai consolidato un Nucleo Nordico al comando dell’Unione Europea. Costituito da Angela Merkel e attorno a Angela Merkel, con gli “esecutori volenterosi” Olanda, Belgio, Finlandia, Austria, paesi Baltici. Un nucleo “nazionale”, quale che sia il governo in questi paesi, di destra o di sinistra indifferentemente.
C‘era un asse franco-tedesco al centro della Ue, ma da tempo non c’è più: la riunificazione tedesca da un lato, e dall’altro una serie di presidenze deboli a Parigi - Chirac, Sarkozy, Holande - hanno modificato i pesi e squilibrato l’asse. Parigi ha voce a Bruxelles e Francoforte solo nella burocrazia (le pratiche, soprattutto quelle dell’antimonopolio e per i finanziamenti), senza effetto sulle politiche. Una presidenza e un governo socialisti in Francia, e un governo a metà socialista a Berlino non incidono in nessuna misura in senso socialista sulle politiche europee, che restano ancorate a Berlino e Angela Merkel.

Una crisi per la Germania

C’è, non c’è, non ci sarà, ci sarà, ma non è un disguido burocratico: la conferenza Ue di Milano, decisa a fine agosto, su lavoro e sviluppo, Angela Merkel non la vuole, e quindi non si farà. Cioè si farà, ma senza decidere nulla. Così come sarà dell’impegno coevo di finanziare lo sviluppo con 300 miliardi.
Il governo di Berlino, benché ne sia mutata la composizione, non ha cambiato natura: resta sempre il governo della deflazione. Dal centro-destra Angela Merkel è passata al centro-sinistra, ma senza effetto: i socialisti, che promettevano il rilancio dell’economia e dell’occupazione in Europa, non se ne occupano. Continua il vecchio regime, del rigore fiscale e delle politiche deflattive. Mascherate dalle fantomatiche “riforme” da fare, ma ora e di fatto deflattive.
Non c’è dubbio che questa politica è svantaggiosa per l’Europa. Lo era teoricamente, ora si vede nei numeri. Il continente è in deflazione, con l’Italia in recessione, mentre il resto del mondo da tempo si è liberato degli effetti della crisi finanziaria del 2006-2007 e ha ripreso a crescere. E lo è perché mancano politiche macroeconomiche di rilancio della domanda, in parte anche dell’offerta. È però una politica vantaggiosa per la Germania, e il suo nucleo nordico. Che ne soffre ma meno degli altri, e quindi consolida la sua posizione relativa, di vantaggio comparato - quella che in Germania si chiama da qualche anno “egemonia”. E che a questo punto è il disegno di Angela Merkel: lavorare per un’Europa tedesca. A medio termine, all’uscita dalla crisi, la posizione tedesca sarà dominante per se

Si vive di più senza patente

Balzac non amava il dandy (“un’eresia della vita umana”, etc.) ma lo era. Sia nel “Trattato dell’eleganza”, in cui lo condanna, che in questa teoria del portamento – “È uno stupido l’uomo ch non vede che la moda nella moda”. Senza smettere l’occhio clinico su se stesso, né la fama e la vita agiata, come nelle sue “storie divertenti”.
Alla fine della breve-lunga (non sempre spiritosa) divagazione non si cammina meglio, ma qualche paletto ai comportamenti si è rimediato. Ponderato a volte – ciò che per un dandy è una maledizione e un’offesa: “Non c’è un solo movimento, né una sola delle nostre azioni che non sia un abisso in cui l’uomo più saggio non possa lasciare la ragione”. Oppure: “C’è in ogni epoca un uomo di genio che si fa il segretario del suo tempo: Omero, Aristotele, Tacito, Shakespeare, l’Aretino, Machiavelli, Bacone, Molière, Voltaire”, notevole solo per l’assenza di Dante. Ma qualche grano c’è.
“Abitualmente gli uomini di studio inclinano la testa”, e questo non va bene: no, “il naso all’Est” – certo, bisogna avere il Nord. E i giudici perché ci deludono? Perché sono sedentari, come i burocrati: “Le intelligenze del magistrato e del burocrate, due nature d’uomini private d’azione, divengono macchina più di tutte le altre”. Ma non bisogna correre. Il segreto è di Fontenelle, che ha vissuto un secolo: “Ha camminato poco, s’è fatto portare tutta la sua vita”. Ce ne sono ancora che non prendono la patente, dunque saggi. . 
Honoré de Balzac, Teoria del camminare, Elliot, pp. 86 € 9

giovedì 18 settembre 2014

Doping giudiziario

La Procura di Bolzano “filtra” ai cronisti giudiziari amici le testimonianze. Il Coni dell’irresistibile Malagò, invece di proteggere gli atleti, come dovrebbe, li espone per farsene bello. Con i suoi napoletanissimi Procuratori, loquacissimi, minacciosissimi, candidi scaldapoltrone tutti d’un pezzo. Ora “vendendosi” Caroline  Kostner.
È il “sistema” della giustizia, delle indagini interminabili invece che precise e definite, di un processo in itinere tra indiscrezioni, accuse senza contraddittorio e gaglioffate varie, e di dibattimenti infine rituali. Un “sistema” di cui l’ennesimo tentativo di riforma in  corso in Parlamento non riesce a venire a capo. Non una novità, ma infettivo.
Si vedano i nuotatori Pellegrini e Magnini. Che senza titolo, non richiesti, senza nessuna autorità, senza nemmeno una provocazione o un’occasione, sono saltati sul processo mediatico per farsi belli. Anche loro a carico di Caroline Kostner. Pretestando: “Per carità, è un’amica”.
C’è molto Milano in questo farsi bello a spese degli altri. Ma c’è di più il potere corruttivo della barbarie, che attrae e non respinge.

Il Voltaire di Togliatti, postconciliare

Leggendo questo Voltaire oggi ci si sorprende a pensare che la chiesa concorderebbe con ogni sua critica, ironica ma sempre rispettosa. Specie nei punti più controversi: le persecuzioni e i martiri. Compresa la guerra alla faziosità: nessun dubbio che “il nostro Creatore e Padre nostro” sta con i Confucio, Solone, Pitagora, Zaleuco e Socrate più volentieri che con i Ravaillac, Damiens, Cartouche, killer per mania religiosa. E la “Preghiera a Dio” finale. Voltaire non era “un buon cristiano”, come si professava (curiosamente è questa l’opinione, oltre che di Togliatti, più recentemente di Derrida, “Fede e sapere”)?
Il “Trattato” è un excursus sull’intolleranza religiosa. Innescato da uno dei tanti “affari” di giustizia ingiusta che occuparono Voltaire per molti anni, “Lally”, “Sirven”, “La Barre”: l’“affare Calas” a Tolosa (il titolo intero è “Trattato sulla tolleranza, in occasione della morte di Jean Calas”). Città già negli annali dell’intolleranza, col guinness dei primati nella caccia alle streghe. La morte di un giovane ugonotto, Marc-Antoine Calas, forse suicida, forse ucciso da un rivale, fu addebitata al padre Jean, che l’avrebbe strangolato per impedirgli di abiurare – come un altro suo figlio aveva già fatto. Il padre fu ucciso sulla ruota, un supplizio di due ore (la rottura delle ossa e lo smembramento) e poi bruciato, la madre, le sorelle, l’altro fratello prima carcerati e poi ostracizzati, i beni confiscati.
Era l’anno, 1761, in cui Voltaire aderiva alla crociata contro “l’Infame” dei “fratelli” Diderot e D’Alembert. Contro la superstizione religiosa e l’intolleranza, e in pratica contro le chiese, i dogmi, gli ordini. Ma senza pregiudizio anticlericale, o antiromano. Si conduole qui, in un “Proscritto”, dell’espulsione dei gesuiti dalla Francia, intervenuta subito dopo la pubblicazione del libello. È equanime, sempre nel “Trattato”, contro le intolleranze dei riformati in Olanda, Francia, Inghilterra. E nel 1761 era soprattutto in guerra col calvinismo a Ginevra.
Faticherà, per questo, a entrare nell’“affare Calas”, come i “fratelli” gli proponevano. E anche perché nell’“affare” non tutto era chiaro. Poi, nel 1762, ci prese gusto, anche in funzione anticelebrativa al centenario della Sainte-Barthélémy, la strage degli ugonotti, e per tre anni ne fece l’occupazione principale. Una sorta di ossessione, dal 1762 al 1765, quando infine a Parigi la giustizia e il re ridiedero i beni e l’onore alla moglie e ai figli di Jean Calas. Un successo dovuto tutto a lui: quando si convinse della bontà della causa, Voltaire la orchestrò al meglio in questo “Trattato”- l’affare Calas sarà la sua requisitoria più celebre.
Ci furono approssimazioni, come sempre, nelle prime indagini sulla morte. E le testimonianze immediate dei presenti, i familiari, contribuirono: il corpo aveva ritrovato, dissero subito, “steso per terra” e composto. I segni della morte furono diagnosticati di strangolamento e non di impiccagione.
Voltaire ne fa un caso di odio religioso, truccando a convenienza i dati. Il padre Jean ha 68 anni invece di 62. È ricco, ma Voltaire non lo dice. È rispettato, mentre era collerico. Dà bonariamente “una piccola pensione” al figlio cattolico, mentre gliela dà per obbligo di legge e frappone resistenze. Ha voluto per trent’anni una serva cattolica,  mentre è la legge che la impone ai riformati. Ospita la sera del delitto un giovane di Bordeaux a cena, che poi sarà strumentale alla riabilitazione, “noto per il candore e la dolcezza dei costumi”. Marc-Antoine, di cui poco o nulla si sa, è il suicida designato: letterato fallito, impossibilitato all’avvocatura, “passava per essere uno spirito inquieto, cupo, violento”, prese a leggere tutto ciò che si è scritto sul suicidio, confida a un amico le sue intenzioni, e un giorno che ha perduto al gioco si impicca.
E la tolleranza? Il problema è semplice: “Se la religione debba essere caritatevole o barbara” – oggi si direbbe, ma anche allora: se un giudice debba essere violento o giusto. La morale pure: “La tolleranza (religiosa) non ha mai provocato una guerra civile”. La rilettura della Bibbia resta inadeguata e può suonare blasfema. Ma, poi, non c’è rilettura della Bibbia che non lasci perplessi, a meno di non ritenere Dio blasfemo, pure lui.
 “Ci fosse un Cristo, vi assicuro che Voltaire sarebbe salvato”, dirà del “Trattato” Diderot, che non era grande amico di Voltaire, a Sophie Volland. Anche Michelet lo vedrà così, come “colui che ha preso su di sé tutti i dolori degli uomini”, Cristo contemporaneo. Coma già Federico II, il gran re di Prussia, “fratello” senza ma, che gli rimproverava di “graffiare con una mano” l’Infame, “di molcirlo dall’altra”. Per opportunismo? No, Voltaire era così. Che il “Trattato” conclude appellandosi a fede, speranza e carità, le tre virtù teologo gali, “da buon cristiano”.
Voltaire avrebbe voluto il libello anonimo, benché protetto dall’ironia: “Ne è autore, si dice, un buon prete”, fa premettere: “ci sono in essa dei passi che fanno fremere e atri che fanno scoppiare dal ridere; giacché, grazie a Dio, l’intolleranza è tanto assurda quanto ridicola”. E più che le chiese bastona la cosiddetta opinione pubblica: il “contagio della rabbia”, il “vile popolaccio”, e l’intreccio perverso, anche allora, di giustizia e opinione. Infame è il secolo per Voltaire soprattutto per la dogmatica giudiziaria. Diffusa non soltanto nelle città sanfediste ma fino a Parigi e dentro la corte. Al punto da decapitare un giovane, il cavaliere de la Barre, per alcune goliardate, ponendo poi il corpo decapitato sul rogo con libri erotici da un alto, e dall’altro il “Dizionario filosofico” di Voltaire. Tutto questo nel 1766, l’anno dopo che la “verità ristabilita” sull’affare Calas.
Famoso è questo “Trattato” per essere stato tradotto e pubblicato da Togliatti nel 1949. Con lo stesso feeling, seppure non dichiarato: la mostruosa “psicologia della folla” – agitata in Italia, nota di scorcio il leader del Pci, dai “microfoni di Dio”, dai “padre Lombardi”. Con una indiretta conferma delle due nature, opposte, del Pci, nonché di Togliatti e Berlinguer, del partito di opposizione, all’intolleranza e alla censura, e del partito di governo, che demonizza ogni avversario. Così oggi il “Trattato” implicitamente si rilegge: sostituendo alla “vera fede”, cattolica o protestante, la “questione morale”. Un feticcio altrettanto indeterminato, anzi contradditorio, e ultimativo, agitato come una clava, fanatico – “valgono più i magistrati che i Calas”, si diceva a Tolosa, o “meglio lasciar mettere ala ruota un vecchio calvinista innocente che esporre otto consiglieri della Linguadoca a riconoscere di essersi sbagliati”.
L’edizione Togliatti ha il merito di proporre anche le note aggiunte da Voltaire, anche se non tutte. Una, lunga, sull’anima avrebbe meritato l’inclusione. Curiosa, fuori tema, ma precisa e insistita, anche se in nota, al § 9. “Dei martiri”, c’è invece lo sgretolamento dell’“Egitto”, che l’esoterismo aveva cominciato a crearsi - una lettera non scritta ai “fratelli”.
Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Edizioni Associate, pp. 186 € 9,90
Traité sur la tolérance, à l'occasion de la mort de Jean Calas, kindle, gratuito online

Nero Aspromonte 1 - Gomorra 2

Un film duro, cupo, di violenza totale, anche a Milano, in Lomellina, a Amsterdam. Dall’inizio alla fine, anche negli esterni e nelle ambientazioni, grigie, desolate. Segnato a ogni scena dalla distruzione, delle cose, gli animali, le persone. E i santi, le case, le automobili “tedesche”, il tempo atmosferico. Senza legge, né statale né morale, nemmeno familistica come si favoleggia, solo quella hobbesiana del lupo predatore. Anzi nemmeno quella, poiché non c’è nessuna ratio animale. Non c’è uno scopo e non ci sono relazioni: una vita pre-animale – chissà come si sente Gioacchino Criaco che ha scritto il romanzo dallo stesso titolo, autore di radici e formazione confessionali (o è questa la nuova religione?).
Sembra un film di fantascienza, con umani invece di androidi, ma altrettanto “agiti”, automi.  Perfino esagerato, iperreale: una serie di maquettes che fanno sussultare, i corpi brutti, i colori stagnati, la convivialità squallida, ogni suono una bomba, sia pure una porta che si apre. Con un finale incongruo. O un film d’autore di serie B – di culto, c’è chi vuole sentirsi solo. Non fosse per gli interpreti, specie Marco Leonardi, l’ex bambino di “Cinema Paradiso - e per la curiosità di Peppino Mazzotta in un ruolo vero, benché sfocato, invece del Fazio di “Montalbano”.
Un film claustrofobico, cui contribuiscono i dialoghi nel dialetto stretto dell’Aspromonte, sintetico, gnomico, parasintattico. La vera forza del film – forse è qui l’intervento di Criaco - che però è tutt’altra storia. Benché si privi della comunicazione muta (gestuale, facciale) che al cinema viene bene e fa la forza dei capolavori del genere, di Coppola, Scorsese, Ferrara.
È il film su cui ha puntato la Rai per il festival di Venezia. Lodato dai critici a Venezia e dopo (non, a ben leggere, senza riserve), fa pochi spettatori, ma non senza ragione. Non è folklorico nell’impianto - l’Aspromonte, la Calabria, la ’ndrangheta - ma finisce per esserlo come storia criminale. L’unica cosa vera, un tratto di realismo reale, è che i Carabinieri sempre se la prendono con la vittima. Oltre ai ragazzi che sparano voluttuosi (“Gomorra”).
Francesco Munzi, Anime nere

mercoledì 17 settembre 2014

Letture - 185

letterautore

Augusto – Un aspetto che si sottace delle celebrazione è che, se fu l’“autore” della Storia Augusta, ne aveva motivo: era infatti soggetto al pregiudizio degli storici per così dire di professione, quali saranno Tacito e Svetonio, in quanto conculcatore della libertà repubblicana. Non pacificatore nella guerra civile, nel deterioramento della repubblica, ma affossatore della stessa.
Di lui, come di Tiberio e gli altri che li seguirono gli storici non parlavano che male, “per aver regnato”, dice Voltare nel “Trattato sulla tolleranza”, “su un popolo che doveva essere libero”. Voltaire ne tratta in una nota, ma andando diretto al nocciolo della storia, la verità della storia – nella traduzione di Togliatti: gli imperatorigli storici godevano nel diffamarli, e si credeva a questi storici sulla parola, perché a quei tempi non vi erano memorie scritte, giornali dell’epoca, documenti. Gli storici, perciò, non citano nessuno e non si poteva contraddirli. Essi diffamavano chi volevano e decidevano a loro piacere del giudizio della posterità”. Con questo commento: “Veda il saggio lettore quanto si debba diffidare della veracità degli storici; qual credito si debba prestare a fatti pubblici riferiti da autori seri, nati in una nazione colta; e quali limiti si debbano porre alla credulità per degli aneddoti che questi autori riferiscono senza portare alcuna prova”.

Dio – Era unico anche per il paganesimo. Si editano e rieditano studi per avocare la pluralità degli dei al paganesimo, a fronte dell’intolleranza passata (cristiana) e presente (mussulmana) dei fedeli del Dio unico. Ma Dio è uno anche nel paganesimo. Molti corrispondenti di sant’Agostino lo riaffermano: Dio “è unico, incomprensibile, ineffabile” per Longiniano, per Massimo di Madaura “non vi sono che degli stolti che possano non riconoscere un Dio sovrano”.
C’è in Virgilio: “I, 229. C’è in Orazio “Odi”, I, 12: “Niente si genera che ne sia maggiore\ e niente esiste di simile o vicino”. Era già negli “Inni orfici” – e anche in quelli omerici. E Platone nel “Simposio”: “Non vi è che un Dio, che bisogna adorare, amare, e adoperarsi per somigliargli nella santità e la giustizia”
È il Deus oprtimus maximus  dei pontefici romani. Lattanzio lo ricorda, al cap. II delle “Istituzioni”: “I romani subordinano tutti gli dei al Dio supremo”.  Tertulliano lo testimonia, al cap. XXIV dell’“Apologetico”. O Epitteto. O Marco Aurelio.
  
Identità – La memoria è più creazione che conoscenza? Talese, il creatore del giornalismo giornalismo narrativo, è soprattutto testimone e memorialista della nazione o cultura italiana d’America. Musicale, mafiosa, e sentimentalmente familiare e storica. Di un mondo, una cultura e una lingua di cui lo scrittore ha però conoscenza limitata.  
In “Ai figli dei figli” costruisce una solida identità dell’emigrante non di necessità. Dall’Italia del fascismo e della guerra, dalla Calabria, da Maida, il paese di nascita del padre, senza sapere l’italiano. La storia locale del paese di origine ha potuto leggere e gestire nelle traduzioni di Kristin Jarratt. Di cui si è avvalso anche come interprete negli incontri con i parenti e i compaesani, a Maida, a Parigi e negli stessi Usa. Kristin Jarratt è descritta da Talese, in una serie di incontri col settimanale “New York” nell’aprile del 2009, come “una bionda venticinquenne di St. Louis che viveva a Roma”. Il settimanale sa che Talese, in crisi con la moglie, con la quale poi si riconcilierà, ha avuto una relazione con la bionda interprete. Lo scrittore non lo nega, anzi dice che Kristin Jarratt ha abitato nella casa di famiglia dei Talese a Ocean’s City per un lungo periodo, quando col suo aiuto intervistava i parenti americani. Avveniva dopo il l982, quando Talese aveva pubblicato “La donna d’altri”, sui costumi sessuali molto liberi nella famiglia americana, con un successo di scandalo che lo travolse - anche nel rapporto con la moglie evidentemente, redattrice molto stimata della casa editrice del marito.
Talese è scrittore di talento, autore di due libri che hanno fatto tendenza nella letteratura Usa di fine Novecento: “La donna d’altri”, 1981, malgrado lo scandalo, e “Ai figli dei figli” (Unto the sons) 1992. Le  fondamenta di due generi, la disinibizione sessuale, e lo storione familiare in ambito, e sui toni, della piccola borghesia. Dell’emigrazione nella fattispecie, non per bisogno ma per volontà di essere. “Delle ambizioni”, come fa dire in esergo a Theodore Zeldin, “di chi non è mai diventato molto ricco, non ha fondato una dinastia o un’azienda di vita lunga, e ha vissuto al livello medio-basso del mondo degli affari”. Nel 1971 aveva concorso al successo del “Padrino” con la storia di Joe Bonanno, “Onora il padre” – il romanzo di Puzo era uscito nel 1969, il film si sarà un paio d’anni dopo. Senza sapere l’italiano.

Kierkegaard – È scrittore incerto – “aperto” – per essersi rifiutato alla paternità, alla (pro)creazione? Kierkegaard si sentì due volte maledetto, alla maledizione del padre, che quando lui era bambino una volta bestemmiò, aggiungendosi un giorno la possibilità d’essere divenuto per caso padre. Non si ricordava che alla fidanzata  Regina s’era negato con la scusa di fortificarsi, Frater Taciturnus e Simeone Stilita, e fortificarne la virtù nel desiderio? Forse il filosofo odiava i bambini. Uno che la madre è come se non l’avesse avuta, e il padre sarebbe stato meglio: in colpa per aver bestemmiato, incolpava i suoi figli. Forse i figli dovrebbero ripensarsi e non compiangersi, non si fa mai abbastanza contro le cattive abitudini. L’eccezione pensa il generale con eccezionale passione, direbbe lo stesso Kierkegaard.
Ma bisogna prendere il filosofo che si voleva poeta con le molle: camminava saltellando, non in senso fisico. Uno che si voleva credente, Spia dell’Idea, e dava di sé nomi falsi.

Scalfari – O il doppio incoerente – vero doppio? Come essere e modo d’essere – essere e voler essere. Così nella stupefacente intervista con Simonetta Fiori su “Repubblica” giovedì 11: “Io sono affascinato da questo gioco della duplicità ma anche triplicità e quadruplicità del se stesso”. Vera, perché quello è il vero Scalfari, un ragazzo strafottente. Non immaginarsi sdoppiati, come Pessoa coi suoi eteronimi, sue creature, ma esserlo. Sempre preciso sui fatti e gli eventi – intelligente e corretto, due qualità che non sono usuali nella sua professione – o presente a se stesso, non fantasioso. E insieme mimetico.

Sperimentalismo - La scrittura sperimentale, riletta fuori “linea di combattimento”, è inerte – Antonio Porta, Balestrini. Lo sperimentale è una vittima sacrificale: s’immola al linguaggio. Chissà se c’è un paradiso della lingua. O delle avanguardie.
Le poetiche invece – le avanguardie - possono essere proficue. Sempre, comunque, lasciano tracce. 

letterautore@antiit.eu

Il problema del femminismo è ora la virilità

Si riedita, nel 2014 dopo il 2012, forse per veicolare il messaggio nascosto?, forse per il cinquantenario, un’opera rivoluzionaria in cui la psicologa Betty Goldstein, 42 anni, moglie di Carl Friedan e madre di tre figli, contestava la “mistica femminile” fatta di marito, figli, casa. Preistoria. Ma si ripubblica nella riedizione del 1997, con un nuovo capitolo che la questione femminile dice ora maschile: “Non si può andare avanti come se la questione riguardasse solo le donne. C'è una nuova urgenza che riguarda gli uomini, la loro identità virile e il loro modo di vedere se stessi e la società in cui vivono”. Betty Friedan non era bella, ma è la faccia buona del femminismo.
Betty Friedan, La mistica della femminilità, Castelvecchi, pp. 340 € 17,50

martedì 16 settembre 2014

Ombre - 236

Cameron, che insisteva per la guerra alla Siria e poi, di nuovo, all’Iraq, si astiene dalle operazioni. Ma lui è meglio dell’Italia, dice, e della Francia: lui non paga i riscatti. Non si può dargli torto: far fare la guerra agli altri e prendersene l’onore.

Il sindaco di Pozzallo ha in affidamento temporaneo “un’ottantina” di minori immigrati. “Ne ho avuto 900 quest’anno”, dice. Novecento minori sono arrivati a Pozzallo in otto mesi! Perché parlare di immigrazione clandestina, questo è un mercato. Organizzato anche se criminale.

“Una settimana di sciopero dei piloti. La metà dei voli tagliati in tutto il mondo. Costo della protesta: da 10 a 15 milioni di euro al giorno. No, non siamo in Italia, ma appena oltre le Alpi”, Antonella Baccaro, “Corriere della sera”. Insomma, l’onore è salvo: li abbiamo contagiati tutti?
Ma è vero che l’odio-di-sé è categoria psicoanalitica.

La filosofa Pina Furnari manda la Finanza nella villa al mare di Maria Rita Sgarlata. Anna Rosa Corsello smonta tra i lazzi il Piano Giovani di Nelli Scilabra – l’unico uomo nella tenzone, il presidente della Commissione Formazione Marcello Greco, sviene. Sono tutte assessore dell’innocente – è gay – Crocetta in Sicilia.

Nelli Scilabra, assessore alla Formazione di Croce-Crocetta, è studentessa fuori corso a 31 anni.  Le donne al potere meriterebbero un Aristofane.

Il “Corriere della sera” “anticipa”, e subito il Coni processa Carolne Kostner per “complicità” e “omertà” nel doping del fidanzato Schwazer. Ora si scopre che ci fa al Coni l’irresistibile Malagò – Caroline gli ha resistito?

“Crollo di calcinacci nel cinema (“America” in Trastevere, d.d.r.) sgomberato e vuoto”, titolano tristi le cronache romane. Rivogliono gli occupanti anche i muri?

Katainen, nominato mercoledì a Bruxelles commissario Ue al Lavoro e agli Investimenti, diventa sabato a Milano commissario all’Economia. Quale lo voleva Angela Merkel. La Gerrmania è un riflesso condizionato.

Ogni anno il Sassuolo regala sette gol all’Inter. Ma Squinzi, il padrone del Sassuolo, è milanista o interista?

Quattro proiettili che esplodono dentro il corpo, al termine di liti furibonde, possono non fare male. Anche se la vittima muore. Una giudice sperimentata a Pretoria lo afferma. C’è la giustizia anche in Africa.

“Petrolio iracheno scontato nella raffineria di Priolo. Lukoil muove sull’Italia”. Dobbiamo temere i i russi, che riducono il prezzo del petrolio.

Un anno la modella è israeliana l’anno dopo, quest’anno, è palestinese: “Vogue” ci marcia. È anche giusto, è la moda, la rivista si tiene sull’onda. Ma la cosa piace, l’alternanza, senza seguito, un gioco. La guerra per i più è un gioco. A cui appassionarsi, certo, moderatamente.

Ci sono un migliaio di soldati italiani in Libano da quindici anni. Per fare che? Stare chiusi in caserma. Ma a un costo dieci volte superiore che in Sardegna.
L’invio rientra nel corteggiamento allora di D’Alema a Condoleeza Rice. Ma Condoleeza è scomparsa – o si vedono di nascosto?

Gli inglesi, che hanno voluto la guerra in Afghanistan, ci tengono 200 uomini. L’Italia 700, più i 50 morti.

Due Leoni d’oro su tre del festival del cinema di Venezia, calcola Mereghetti, non sono mai arrivati nelle sale. Colpa del pubblico?

L’autore condottiero delle parole

Il delirio del copista. Peggio, del falsario. Testimone di verità – un po’ come oggi i pentiti di mafia pluriomicidi. Che uccide il committente, l’altro se stesso – dell’Antonello al Louvre, “Ritratto di uomo”, detto anche il “Condottiero”. Compiangendo di sé “questa assenza, questo vuoto, questa macina, questo ripetitore, questo falso creatore, questo robot delle opere del passato”. Vent’anni di dedizione, e “un buon centinaio di falsi”, anche ottimi. Senza nessuna costrizione.
Uno come tutti, coi quadri in più. Anche se uno in più per il lettore, a seguire sull’arte della contraffazione di De Simone e il suo Gesualdo. Un susseguirsi certo casuale, ma non sarà l’epoca del falso? Tanto risentimento, esploso o riesploso, non si spiega altrimenti.
Un racconto singolare e una prova di forza di Perec ventenne. Di finezza psicologica e di pensiero, e di linguaggio. Scritto durante il servizio militare – che Perec fece da parà, e non per l’assonanza... Recuperato per caso tra le cartacce di un amico sopravvissuto, dopo essere stato rifiutato da Gallimard, e forse dal Seuil (ma letto, rifiutato con argomenti).
Questo “Condottiero” è come l’originale di Antonello, rianima. È stiracchiato, iperfetato: il tempo e la materia sono di un racconto, Perec lo riscrive tre o quattro volte. È presentato poi come un polar, e questo non giova -a fine è alla prima pagina. Ma è un racconto sottile, seppure alla fine ingenuo. “A che serve una coscienza?” è l’assunto, postadolescenziale. D’invetiva verbale già sperimentata, se non congenita – si sarà divertito Ernesto Ferrero, traduttore per spasso, alle “false statuette, des potiches postiches, des postiches pastiches…”
Ferrero, che correda la traduzione con un’affettuosa postfazione – utile per i legami che Cavino intessé con Perec – gli accredita una “grande facilità di giocare con elementi combinatori”. Che però qui è piuttosto capacità narrativa. Con gli “elementi combinatori” Perec “riempiva il suo vuoto affettivo”, dice ancora Ferrero, ma l’Ersatz  non funziona al contrario, effetto di una delusione? La vocazione dell’artista che si teme – è – prigioniera delle ali tarpate. Come traduttore, però, Ferrero si devessere divertito, già in questo embrione Perec racconta con le parole 
Georges Perec, Il condottiero, Voland, pp. 170, € 15

lunedì 15 settembre 2014

Secondi pensieri - 188

zeulig

Amore - Nell’abbandono si parla classicamente, di fantasia, carità, piacere, o si opera di forza. Modi che devono qualcosa a qualcuno, a un modello, sono pose. Ma l’istinto vi è irriducibile, l’esistenza è immedesimazione - l’Einfühlung di Husserl, ecco dov’è.
Nondum amabam, et amare amabam”, dice sant’Agostino con una punta di compiacimento, detestabile: questo farsi da sé è onanistico. O temibile: se è vero che si ama da soli, da solo a sola, l’amore è per questo terrificante. Socrate spiega a Agatone nel Simposio che uno cerca quello che non ha: “Se l’amore cerca il bello e il buono, dunque, non li ha”.

L’amore è brutale e cerca rogne. Traccia utile per farcire le tasche ai freudiani. Oppure è bello-e-buono e non cerca nulla, si fa le seghe. Inafferrabile logica socratica, già sofistica, che costerà a Aristotele faticose confutazioni, per non poter egli dirne male. L’amore è ritenuto ed è la via alla felicità, ma per amare bisogna avere fiducia in se stessi. Il fatto è che si ama una seconda volta, se si è stati cioè amati almeno una volta, all’origine. L’armonia si svolge su questa traccia semplice.

Conoscenza – La psiche non è in nessun luogo: Husserl lo precisa nel secondo libro delle “Ideen”, ma si è sempre saputo. Ciò spiega l’impasse, anzi il fallimento, della fisica dell’intelligenza artificiale, quand’anche potesse riprodurre artificialmente un cervello in tutte le sue pieghe. La conoscenza è più del cervello.

Corpo – È individuale, mai ricalcabile. E non è un involucro, né un’appendice. Ha dei sensi, un sistema venoso e muscolare complesso, produce sensazioni il più spesso ingovernabili, si eccita e si addolora, è mobile (incostante, imprendibile) ed è unico. Una varietà di linguaggi lo esprime e moltiplica, come in un fuoco d’artificio, che un petardo ne contiene un altro. Senza contare le infinite varietà e le sfumature dei linguaggi, gestuali, visivi, manuali, sonori, articolati e non, di cui si compone la comunicazione, equazione a numero incalcolabile di incognite. Cos’altro è l’anima?

Galileo - Contemporaneo di Cartesio (1596-1650), si può dire filosofo, oltre che fisico e scrittore.  Con l’unità della matematica, nel metodo algebrico della geometria. E con quella delle scienze fisiche, sulla base dell’indagine e la scrittura matematica.

Pascal Guignard, “La nuit sexuelle”, p. 149: “Con Galileo la notte invase l’universo. La terra, cessando di essere il centro, vi si perdette… Nel 1600 Giordano Bruno era morto su un rogo per questa notte infinita che non può essere detta”. Che sant’Agostino aveva detto ma senza farsene accorgere.

Lontananza – La ferrovia l’aveva già abolita, poi l’automobile, l’aereo, il condominio, l’open space. Ora l’informatica, che dovrebbe cancellarla, la reinstalla, nella singletudine.
La moltiplicazione dei contatti si fa insterilendoli. Insterilendosi. La rete va col piccolo narcisismo, dei selfie, le parole vuote, l’onnipresenza del sé.

PaternitàPater è lo stesso suono in sanscrito, greco e latino, da una forma verbale pati, perseverare, fronteggiare, salvare. È in greco “colui che protegge”, o anche “colui che purifica”. L’autorità del “pater familias” nasceva dalla funzione protettiva più che dal sangue, dalla procreazione – la famiglia mononucleare è solo contemporanea, collegata al alla rendita urbana e alla vita in appartamento.

Si dice del matrimonio che ruota attorno ai figli. Questo può essere vero per la paternità, che è acquisita: la paternità è pedagogica. Nei due sensi, il padre per il figlio, il figlio o la figlia per il padre. Ma la maternità è naturale e può non esserci. Nella maggior parte delle donne anzi non c’è, neppure con molti figli.

Già dopo la Rivoluzione francese il codice aveva cancellato la ricerca della paternità. E quello che mancava manca, la riforma del codice non cancella l’imprinting – a meno di non rinascere. La parentela è un ordine imposto su una matrice complessa di rapporti naturali: per cui io sono un clone mitocondriale della madre di mia madre, il mio cromosoma y è quello del padre di mio padre, e gli altri sono nonni solo per lo stato civile.
Geneticamente resta poco.

Se il parto virginale è possibile, non muta solo il rapporto tra i sessi, muta la paternità e l’essere intero del maschio. Muta anche la natura: un mondo senza le api, secondo il celebre apocrifo di Einstein, sarà ridotto a poche diecine di essere umani. Ma questo è un problema tecnico, si faranno senz’altro fiori e alberi artificiali, senza impollinazione.  

Il concilio di Nicea ha stabilito che siamo della stessa sostanza del padre. Non simili al padre, della stessa sostanza. L’ha stabilito per uno iota di differenza, omousìa invece che omoiusìa, e in un’epoca, il 325, in cui si poetava e filosofava invece di parlare con Dio. Ma quel che è detto è detto, lo Spirito Santo non è mai ubriaco. L’ha detto del figlio per eccellenza, Gesù, non degli altri poveri uomini. Ma Gesù era uomo e per la proprietà transitiva anche gli altri uomini, brutti, sporchi e cattivi, siamo piccoli Gesù.
La nostalgia del padre è una delle poche nutrite con gioia, è una mancanza che pesa - una moglie no, come potrebbe, ma un figlio sì. È una constatazione: la carne rinascerà, e Dio è fatto di carne. Come? Non si sa. È anche lui miserabile, violento, geloso, traditore? Speriamo di no, ci sarà pure un angelo da qualche parte. Ma forse sì, poiché ci ha fatti, ci ha fatti così.

L’uomo – l’essere umano - è tipicamente padre. Il padre mitico, primordiale, di prima dell’incesto, del divieto d’incesto, prima della Legge, il capo dell’orda, era un animale. Un totem, dice Freud, un legno marcio: identifica l’uomo in quanto ultimo venuto alla creazione, e per di più fatto col fango. Anche come riproduttore non è granché: il padre è accidentale, uno strumento, “l’orgasmo in se stesso è angoscia”, attesta Lacan, l’oblatività viene dall’atto anale non da quello genitale, la generosità gratuita che fa il meglio dell’uomo, il coraggio. E non c’è solo Freud. Del padre sant’Agostino non ha idea. Nelle “Confessioni” e perfino nel “De Trinitate”: parla molto del Figlio, moltissimo dello Spirito Santo, e in modo sfuggente del Padre. Al quale nega l’attributo di causa sui. Non bisognerebbe pensarci, l’angoscia giustamente Aristotele chiama agonia: è la sterilità.

Progresso – Uno degli aforismi galileiani che illuminano le polemiche del “Saggiatore” ipotizza il progresso come un cammino a ritroso: “Infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai sono quelli che sanno pochissimo di filosofia;pochi quelli che ne sanno qualche particella”. Oggi come mille o duemila ani fa.

Pindaro diceva: “Raggiante sarà l’aspetto\ di una grande opera all’avvio”. Galileo, che conobbe gli odi più violenti, quelli accademici, si teneva basso. Tanto basso da figurare l’anticipatore di quella “teoria dell’ignoranza” tanto spesso irrisa come un mito sempliciotto (“come dire che c’è il diavolo”).

zeulig@antiit.eu

Il corpo è l’anima

Ritorna l’intuizione, il pensiero che non pensa, e ritorna la Einfühlung, l’empatia, il potenziale comunicativo. Una nozione che andava molto nella filosofia dell’arte a fine Ottocento, cui Edith Stein giovanissima tenta di dare un assetto, spinta dal suo maestro Husserl, all’età di 23 anni. Husserl ne aveva scritto, in una serie di appunti che la stessa Stein, sua assistente volontaria, trascriverà e editerà successivamente, poi inclusi nel secondo libro delle “Ideen”. Ma ne aveva nel 1913 un concetto  generico, di cui propose alla Stein, che gli chiedeva una tesi di laurea-dottorato, l’approfondimento.
Einfühlung era il termine prevalente e da ultimo adottato per il complesso di sentimenti, risentimenti e linguaggi che fanno la vita di relazione: memoria, ricordo, fantasia, radicamento, sensibilità, linguaggi, “un’esperienza vissuta originaria”, la dice Stein, “la quale non è stata vissuta da me, eppure si annunzia in me”. In alternativa, nei numerosi testi che Edith Stein prese in esame, si proponeva associazione, fusione, inferenza per analogia, co-sentimento (Mitgefühl), risonanza, comprensione (Erfassung).
L’assunto à semplice: l’anima è nel corpo. Così Husserl individua l’empatia in uno degli appunti del secondo “Idee”: “Il corpo proprio e la psiche formano una peculiare unità per l’esperienza”. È nozione anche di forte verità, per i linguaggi, le passioni, la stessa vita civile - il corpo non mente: si dice ed è vero. Ma è rimasta da allora inesplorata, anche se molto Heidegger in realtà vi confluisce. Resta centrale il “vissuto” di Max Scheler, attorno a cui Edith Stein con qualche riserva si aggira, e Bergson. Ripresa subito da Freud, l’empatia (anche “enteropatia”) è nozione centrale invece nella psicoanalisi, con una notevole bibliografia.
Meglio adattabile è infatti alla psicologia, che è l’assunto di Edith Stein. Il parlare è l’Io, “l’Io puro”- è il tema della parte Terza, la più ambiziosa. Anche se lo diventa in contrasto col “Tu” e col “Lui”. O sgranandosi col “flusso di coscienza”. Insomma l’anima – “l’Io puro” è inafferrabile, inconsistente. La “coscienza pura”. Finché non si arriva al corpo. La parte Terza ha il merito di ricordarcelo, se non di “risolvere” il concetto, di fissarlo.
Si ripubblica l’edizione Costantini del 1985 - con una nuova prefazione, di Angela Ales Bello al posto del padre Paolo Valori. Un’edizione che ha il pregio di dare un corpo anche alla futura carmelitana scalza, e quasi santa: Edith a Friburgo era procace e piacente, innamorata felice, fino a un certo punto, del bellissimo Hans Lipps, che però fece un figlio con un’altra. Si volle assistente di Husserl, seppure volontaria, col quale però non cessò di discutere – soprattutto del radicamento della fenomenologia nell’idealismo invece che nella psicologia, cui Husserl teneva e che secondo Stein non aveva senso. Dopo tre anni decise pure di lasciarlo, l’impegno essendo troppo faticoso, e lo fece. Sarà bocciata alla libera docenza da una commissione di cui era parte Heidegger, che la conosceva e al quale aveva chiesto il patrocinio.
Edith Stein, Il problema dell’empatia, Studium, pp. 288 € 21,50

domenica 14 settembre 2014

Fisco, appalti, abusi (57)

La rubrica delle lettere di Paolo Conti sul “Corriere della sera-Roma” registra ogni giorno un caso di truffa di una pulic utility a danno degli utenti. Ai quali incorre non solo l’obbligo di pagare la bolletta, ma di scovarne i trucchi e gli errori, contestarli per raccomandata e interminabili telefonate, avere rassicurazioni, e non ottenere, dopo anni di queste pratiche, riconoscimenti, meno che mai risarcimenti. L’Acea si distingue, ma le società dei telefoni no sono da meno.

Contro gli abusi della public utilities, e a protezione degli utenti, sono state costituite costosissime Autorità di controllo. Che però interpretano il loro compito nel senso di non intervenire. La fatturazione da parte di Acea, con cadenza bimestrale, di migliaia di euro per forniture di gas mai avvenute, sulla base di un contratto estinto da anni, induce dopo insistenze l’Autorità per l’energia a una risposta del genere: “Non possiamo intervenire finché l’Acea non ha risolto la questione”. Una lettera lunga due pagine a spazio uno, il lavoro di almeno una giornata di un addetto. Tutto meglio che lavorare.

Gli abusi nelle fatturazioni sono dovuti alla pratica di affidare in service esterno le relative operazioni. A operatori inesperti o truffaldini. Sul presupposto di un risparmio per l’azienda. E invece no: per compartire l’appalto, con i dirigenti aziendali committenti.

L’Italia è il sesto paese dal fisco più esoso, il 44 per cento del pil, tra i 28 della Ue. Ma, dei primi cinque, i tre scandinavi stanno rapidamente riducendo il prelievo.

L’Italia è serpe al sesto posto, nella statistica comparata Eurostat, “Taxation trends in the European Union”, per la fiscalità indiretta, ma al terzultimo, 26ma, per l’Iva. L’evasione è dell’Iva: è semplice e nota, ed è il cuore dell’evasione fiscale, ma si fa finta di no.

Il “culo di Gnesa” della filologia italica.

Cronache vivaci – non pregiudicate. Di cui la Calabria eccezionalmente difetta, sommersa com’è, non da ora, dalla cronaca nera. Non indulgenti, ma argute e serie, spiritose e pignole, “normali”. Cronache di tutto ciò che balzava all’occhio e all’orecchio del “giornalista”, rapido e sapido. “I Napoletani fanno il pane a guisa di fessa: ricordo dei Sigilinei cunni che i pagani offerivano a Cerere. Noi facciamo le minne di vacca. Con notizie agricole, minerarie, artigianali. Con un occhio speciale alle donne – “Oriolo. Donne bellissime, ma tutte puttane, “Nocara. Tutte prostitute. Le donne sono bellissime, e ballano bene, massime la tarantella”, “Altomonte. Puttane famose”.  Ma anche alle minoranze: i valdesi, gli albanesi, gli ebrei – con la tranquilla coscienza che “siamo semitici”. Aneddoticamente coltissimo. “Il popolo dice: «Sugnu ri Mancuni», sono dei Manconi. Mangones erano negozianti di schiavi, specie di fanciulli e ragazze. Galeno dice («De math. medendi», XIV, 11) che soleano, un giorno sì e l’altro no, batter loro con sferze cosce e natiche, perché gonfiandosi apparissero più grassi”. Si trova la “zita” in più luoghi, il salto della Zita, la timpa della Zita, la Zita impetrata: “In tutti questi luoghi vi sono olivi. Zaith ebreo vale «olivo»”
Dopo “Il Bruzio”, 1864-1865, nei dieci anni successivi alla pubblicazione e redazione a Cosenza del giornale, il prete, predicatore, drammaturgo sacro, poeta erotico,  professore di liceo e giornalista Padula raccolse una serie di notizie enciclopediche sulla sua “provincia”, che sarebbe Cosenza ma è poi la Calabria. Questa corposa antologia collazionata sugli inediti da Attilio Marinari resiste dopo trent’anni forse per andare controcorrente. Dando cioè “notizie” fuori dal cliché. Ma anche per le sorprese.
Il “culo di Gnesa”, per restare al genere bernesco, è una lezione in breve di filologia. È detto di una sorgente nella quale una serva di nome Agnese, mandata a riempire l’orcio, un giorno che non c’era nessuno si alzò la gonnella per specchiarsi: “Questa favola si narra anche adesso, mostra che gli avi miei non erano indegni di discendere dai Greci, ed apprende che tutte le favole antiche e nuove, cominciando da quella di Venere e finendo al «culo di Gnesa», nacquero dall’ignoranza della lingua e da sbagliate etimologie. Il «culo di Gnesa» è il greco κοίλη αγνή, la «vasca pura», la «vasca pulita», quella dove attingeasi l’acqua pei sacrifici”. Un’anticipazione dell’ignoranza che via via ha avvolto la Calabria e il Sud.
Vincenzo Padula, Calabria prima e dopo l’unità

Italia sovietica – 22

Il bisogno di denunciare
Il bisogno di denunciarsi, poco.
La classe dirigente, inamovibile: banchieri, professori, manager, presidenti
Tutti presidenti
Le primarie
I festival culturali
Le presentazioni di libri
La “lectio magistralis”La cucina d’autore, tristissima
I film di Venezia

La delazione è virtuosa in Germania

I giornali tedeschi lamentano le troppe lettere di ritorno dall’Italia. Di denuncia di una vita troppo facile. Il biglietto costa poco, sul bus urbano o al museo. Il caffè costa troppo poco, se ne prendono troppi. Anche la pizza, se ne trova a quattro euro, uno scandalo. Tutta roba che va bene alla parsimoniosità tedesca (si ricordano famiglie felici sulle Alpi con un piatto di spaghetti bolognese a tre euro: primo, carne, e dessert incluso, il formaggio in libera disponibilità sul tavolo). Ma contrasta con la certezza, che i governi Merkel hanno generato, che l’Italia vive al di sopra dei propri mezzi e a spese dei tedeschi.
Tutta roba però, va aggiunto, in linea col vezzo tutto tedesco della delazione, la denuncia dell’altro. “Gentile Germania” ne registra i casi più macroscopici, nella Germania Est, e in quella di Hitler. Quando cadde il Muro si scoprì che la Stasi, la polizia politica di Berlino Est, aveva raccolto un numero di dossie tale da coprire una distanza considerevole:
A Berlino c’erano 150 km di dossier di polizia, si sapeva, si voleva che si sapesse. Erano dietro il Muro ma era uguale: ovunque la polizia dà l’ansia. Stretti in fila, portavano da Milano a Genova, o volendo a Torino. Mezzo centimetro per uno, trenta milioni di fascicoli, uno per ogni tedesco, di là e di qua, tolte le casalinghe e i bambini. Spia uno su sei, dicevano. Solo uno su sei, che non è poco, ma spiavano tutti. Per difendersi certo, ognuno spiava chi lo stava spiando, l’informazione che porta all’afasia”.
…………………………………
“Tutte le cartoline scritte dai Quandel, una coppia di oppositori solitari a Hitler, che le lasciavano per le scale e sui davanzali delle finestre, furono consegnate alla polizia, la Gestapo ne raccolse 220: “Che popolo inconcepibile, che non conosce neppure l’indulgenza del silenzio e deve subito andare a denunciare chi la pensa diversamente!”, commenterà Hans Fallada, che ha scritto la storia dei Quandel.  Egli stesso fu denunciato subito, a febbraio del ‘33, come sovversivo dal padrone della casa che aveva appena comprato a Berlino, che pensava così di rientrarne in possesso senza ripagarla. Fallada se ne ricorda in “Ognuno muore solo”, ne fa il leitmotiv,“la mania di denunciare, origliare, spiare”. Lui che era apolitico, più che altro attaccato alla bottiglia e alla morfina, e ciò malgrado protetto dal regime.
“Inaffidabili sono i tedeschi, in questo peggiori della mafia. Ma più che mafiosi si direbbero pentiti. Delatori  cioè, perfidi: si accusano di tutto, anonimamente per lo più. Sciascia vuole l’anonimo siciliano, ma se lo è, è per via degli svevi, l’anonimo soprattutto imperversa in Germania. Anche gli amici degli amici sono all’origine tedeschi. Sono della monaca Rosvita, la teatrante - “Dilecti socius et ipse sit dilectus”. Introdotti in Sicilia sempre dagli svevi?”
La delazione è virtù tedesca