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sabato 22 ottobre 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (105)

Giuseppe Leuzzi

La cifra è il gioco al massacroGiampaolo Pansa, per quanto frughi nella memoria, non ricorda nell’autobiografico suo penultimo libro, “Il revisionista”, di essere stato minacciato o spintonato a Reggio Calabria nel 1971, al tempo della rivolta. Di ricordi, a quarant’anni di distanza, ne ha un altro, nitido: “Rammento invece che i «Boia chi molla» reggini ci attendevano tutti i santi giorni. Ogni mattina, nell’uscire in gruppo dall’hotel, trovavamo ad aspettarci un comitato di ricevimento, sarcastico, però non violento. Assegnavano i voti ai nostri articoli usciti quel giorno, voti sempre bassi: tre, due meno, uno e mezzo. Poi ci prendevano per i fondelli: «Ecco i cornuti, i servi di Mancini! Passano i grandi scrittori! Dottore Pansa, avete perso una virgola!...”
La parola giusta sarebbe canzonare. Ma è toscana, senza senso localmente (la parola più giusta sarebbe “dare la baia”….). Localmente si dice coglionare – che è anche toscano, con senso lievemente diverso, ma congruo. Più giusto sarebbe sfottere – anche riflessivo, soprattutto riflessivo: non prendersi sul serio. Quello che il francese letterario chiama jeu de massacre, nelle corti e nei salotti prima che nelle piazze. Ma per saggezza antica, filosofica. Atavistica, rassegnata. È la cifra degli ultimi narratori locali, Delfino, Zappone. Anche, a ben guardare, e malgrado se stesso, di Abate.

Mafia e antimafia
Black-out totale, all’improvviso, per un paio di settimane, non s’è più letto di Ciancimino. Ce n’è stato infatti uno che diceva cose importanti, anche contro i suoi interessi, e senza chiedere nulla in cambio: Roberto, uno di tre fratelli Ciancimino solidi in proprio, due avvocati, un notaio, senza gli evidenti problemi psicologici del fratello minore Massimo, il cocco di mamma, incapace e inconcludente. Roberto ha anche raccontato retroscena molto “gustosi”, alla moda del gossip imperante: titoli, yacht, palazzi, saghe familiari, tra il figlio piccolo con la madre chioccia e tre fratelli solidi, due avvocati, un notaio. Di che riempire giornali in quantità, se non faldoni di tribunali. Ma si è dovuto accontentare di una tribuna locale, e senza clamori.
I Ciancimino sono passati di moda? No, c’è voluta una pausa, per far decantare la verità, quella dei fratelli che non si avvalgono mafiosamente dei tribunali. Il cocco Massimo Ciancimino, non più utilizzabile per il complotto di Ciampi e Conso con Riina, serve ancora contro il ministro siciliano di Berlusconi, Romano. La pausa serve anche a fargli imparare bene la lezione.


“L’Italia fallirà a dicembre”, George Soros ha scritto sulla “New York Review of Books” a metà settembre. Lo ha scritto in un lungo a argomentato saggio. Che però, letto e riletto, non dice perché quella data.
Sconvolgente. Tanto più se uno no vuole soggiacere al complesso del complotto. È un “avvertimento” mafioso, ecco che. 


Autobio
Il maestro Scutellà è morto. Era il sarto, di scuola napoletana, con cui ci siamo fatti un sacco di bei vestiti. Tagliava come sanno tagliare i sarti napoletani, e le stoffe pettinate, le migliori,”ritiravamo” con poche migliaia di lire al metro, dai migliori produttori (uno di quei vestiti è ancora buono, dopo cinquant’anni, e di grande figura). Tutta roba che oggi si vende dai duemila euro in su, il due pezzi, dai tremila il tre pezzi o il doppiopetto.
Ma le sorprese non si limitano al ricordo. Alla visita di condoglianze in casa, il primo che si presenta è … il maestro stesso. Scopro nell’occasione che aveva un fratello identico. Minore d’età, ma somigliante come un gemello. E capisco infine perché talvolta, quando lo salutavo per strada, non per abitudine come usa incrociandosi nei paesi ma segnatamente, “buongiorno maestro”, mi rispondeva sorpreso. Non si abusa, non si abusava, del titolo.

Tutto si chiude ora sempre, la porta, le finestre, perfino gli armadi, i comodini, le dispense. Per la paura dei ladri naturalmente, anche se nei paesi non ce ne sono.
Anche i rumori sono molesti. Dei bambini che giocano fuori. Delle mamme che sgridano i bambini. Della sega, a mano, elettrica, che in qualche posto remoto prepara la legna per l’inverno.
Tutto costa, anche i pomodori in soprannumero che un tempo si regalavano piuttosto che buttarli, la legna da ardere, e le castagne. Soprattutto le castagne.
Nessuna conoscenza è mai acquisita: vicini e conoscenti si scoprono ogni volta, anche se nei paesi, purtroppo, persone e vicende raramente si rinnovano. Quindi ci sono sempre da rivangare le solite storie, solitamente sordide.
Il nuovo è molesto, se tutto è molesto.

Ci sono molte cose che nel corso della vita uno s’immagina (s’illude, si lusinga) di aver fatto. Una di queste è l’accordo del 1973 per il gas al’algerino, nel pieno della crisi petrolifera. Un accordo che, dopo alti a bassi durati un decennio, da Mosca fino a Washington passando per Parigi, e forse anche qualche morto eccellente, fu realizzato in poche settimane a partire da luglio del 1973, da due sole persone, Pasquale Landolfi e l’autore.
Un fatto però è certo. Durante i lavori per la costruzione del gasdotto in Calabria, Maria, una delle virtuose figlie d’Isabella e Peppe, vicini e custodi, conobbe un virtuoso, benché taciturno, operaio lombardo, col quale hanno costituito una bella e resistente famiglia.

leuzzi@antiit.eu

Non si diverte nemmeno Camilleri

Da una breve cronaca virtuosa di don Sturzo trentenne, nel 1901, su una “setta angelica” di preti che ad Alia-“Palizzolo”, “sotto principi gnostico mistici”, inducevano “alcune penitenti iniziate ad atti ignominiosi”, Camilleri ricava una storia nera della sua Sicilia. Nerissima, anzi del repertorio più vieto: baroni cialtroni e mafiosi, mafiosi beghini al potere, sacristie violente - baronali, mafiose. Con l’aggiunta, a fondale, di villani stupidi, servili. Il lettore si diverte poco, Camilleri forse non più, che questo bozzetto di maniera stiracchia. Perfino il suo speciale dialetto inciampa, in quel romanesco (qui di un improbabile vescovo) che sembra la trappola dei migliori ingegni, Gadda, Pasolini.
Andrea Camilleri, La setta degli angeli, Sellerio, pp. 236 € 14

Sofri-Tabucchi belle baruffe, ottocentesche

Stucchevolissima accademia. Tanto da sconfinare, nella fattispecie, alla disonestà intellettuale - ma forse è solo superbia.
La fattispecie è Sofri, condannato a 22 anni per un omicidio che non ha voluto. Condannato pretestuosamente. Da chi non si sa. Cioè si sa: da sette tribunali diversi, per un totale di una trentina di giudici coinvolti, compresi quelli, somma disonestà, che hanno dovuto assolverlo. Ma non si dice.
In compenso Tabucchi scrive due pagine di fuoco contro “Panorama”, il settimanale che generosamente faceva scrivere Sofri, se non altro per pagare gli avvocati, con una rubrica fissa. Perché “Panorama” appartiene a Berlusconi. Come se Sofri l’avesse condannato Berlusconi.
Lo stesso Sofri scrive all’“Espresso” , che ignobilmente l’ha affossato dopo l’incriminazione, per iniziativa dell’ex di Lotta Continua Rinaldi. Scrive a Rinaldi. L’amicizia è più forte della spregevolezza? Nella mafia sì.
Lo stesso Sofri che, con l’aneddoto del giovane carcerato per incendio colposo, sembra dare un uppercut al giustizialista Tabucchi e un gancio al disimpegnato Eco del “chiamate i pompieri”, e poi dice di no. Che non ci sia dubbio: Sofri tiene all’amicizia di Eco e Tabucchi, nonché dei patibolari (“L’Espresso”, “Micromega” etc) perché sono establishment, i belli-e-buoni dell’infelice Repubblica. Si scrivono in stile ottocentesco.
Antonio Tabucchi, La gastrite di Platone

venerdì 21 ottobre 2011

Il Quarto Vuoto tedesco e il Lombardo-Veneto

Non si può “salvare” la Grecia perché la Germania non vuole. Cioè non è che non vuole: vuole e non vuole. Quanto basta per mettere in crisi l’Italia e la Spagna – e ora anche la Francia. I rinnovi del debito italiano e spagnolo, in questo tira e molla tedesco che dura ormai da più di un anno, si fanno ultimamente maggiorati di un 4 per cento in più delle emissioni precedenti.
Ciò per l’Italia significa che il debito non potrà mai essere risanato, a nessuna condizione. E questo unicamente perché fa comodo alla Germania. In due maniere: come vantaggio comparato, e per deviare l’attenzione dalla crescita del debito tedesco, che da meno del 70 è passato in tre anni all’86 per cento del pil – ma è in realtà prossimo al 100 per cento, solo lo strapotere tedesco nelle istituzioni comunitarie consente di non calcolare come debito pubblico il debito della finanziaria per l’Est, la Cassa del Mezzogiorno tedesca.
Dicono i governanti tedeschi che devono tenere conto dell’opinione pubblica. Di una possibile deriva nazionalista oltranzista dell’opinione pubblica, che non vuole “pagare” per la Grecia. In realtà la Germania non paga niente. E comunque una decisione è in economia migliore dell’indecisione, qualsiasi decisione: l’economia ha bisogno di certezze. Questo è ben noto ai banchieri centrali di Angela Merkel. Così com’è noto anche a loro, non sono bambini, che ogni “parere” critico sull’euro, la Grecia, l’Italia, eccetera, è un’azione politica contro l’euro, la Grecia, l’Italia.
Si chiama Quarto Vuoto, Rub-al-Qali, in geografia il deserto-deserto nel cuore dell’Arabia Saudita, dove non cresce per intendersi un filo d’erba né un moscerino s’aggira. La Germania, pur popolata e ricca, è il Quarto Vuoto al cuore dell’Europa. Arido, insensibile. Tanto più per l’Italia, che ha legato il Lombardo-Veneto, e cioè l’Italia che conta, all’economia tedesca – non molti anni fa il Lombardo-Veneto voleva il marco, se non il kaiser.
L’Unione Europea è naufragata in questa insensibilità tedesca, ben più devastante di ogni Wehrmacht, e l’Italia non può sottrarsi. Ma potrebbe – dovrebbe – far tesoro di questo “collaborazionismo” volontario: cominciare perlomeno a capire di che si tratta, giusto per contenere i costi della disfatta. Si dice che la Germania per prima verrebbe a soffrire del dissolvimento della Ue. Non è vero. Ma sì finché qualcuno paga per il suo privilegio.

La guerra di Guariniello alla Juventus

Quand’era pretore a Torino Guariniello si era distinto per non far nulla, sui licenziamenti, l’inquinamento, le morti sul lavoro. Eccetto di tanto in tanto qualcosa che facesse rumore, cioè a carico della Juventus, non potendosi permettere d’intercettare l’Avvocato e i suoi cari. L’ultima più famosa sua iniziativa fu convocare tutti i calciatori di fama della Juventus, anche passati, e farli sfilare a Torino per dire se avevano preso droghe o no – naturalmente no.
Poi il pretore, in tarda età, ha coronato il suo sogno di diventare Procuratore della Repubblica. E in tale veste ha continuato a non far niente, eccetto che quando incontra la Juventus. La quale non gli viene a tiro spesso, e allora lui s’inventa l’ipotesi di reato. Adesso ha messo sotto accusa la città e la squadra, con perquisizioni, notizie di reato, sequestri cautelativi, perché, una notte, gli è venuto il pensiero: sarà l’acciaio che hanno usato per il nuovo stadio buono?
Si potrebbe dire la guerra di Guariniello alla Juventus. Non è il primo napoletano che mette la squadra sotto accusa. Ma in realtà è una guerra che il napoletano Guariniello fa a Torino. E magari ha ragione, chissà quante turpitudini a Torino, ma lui non lo fa vedere: sempre si arrampica sugli specchi. Al punto che, guardando le cose da fuori, da fuori Torino e fuori Napoli, uno deve chiedersi: ma questi giudici, che li paghiamo a fare? L’“ipotesi di reato” non è male. È anzi ingegnosa, l’ex pretore ha fatto strada: la Juventus con la sua “intuizione” l’ha colpita al cuore, la gente non andrà più allo stadio. Per un paio d’anni: la perizia prenderà un anno, poi ci sarà la controperizia… Ma per fare questo, per fare il male, si prendono stipendi da deputato.

Il piacere è freddo, nella rivoluzione

Affascinante e-perché orrido. Diego e Frida, personaggi imbroglioni, con se stessi e con gli altri, superficiali, cattivi, cialtroni anche, spioni, comunisti veri e finti. Ma “belli”, imposti all’ammirazione. Dunque l’estetica può avere la meglio su un comunista che forse lavorava per la Cia, l’antenata della Cia, e comunque equiparava Henry Ford, che lo pagava, a Marx e Lenin, e non spese una lacrima per Trockij, che pure aveva ospitato. Su due comunisti che vagano per gli Usa e l’Europa nella Grande Crisi e non se ne accorgono, bamboleggiati da Clara Boothe Luce e dagli ebrei snob. Su amori ridotti a scopate, etero e omosessuali. Sulle rivoluzioni vissute come uno spettacolo.
A meno che il vizio non sia nella biografa. Che dev’essere un concentrato del progressismo americano, quello femminista. Che, come quello gay, concepisce gli affetti come una pompata – più di una al giorno, meglio. Frida di suo non appare scema. Per esempio a Parigi, quando “vede” l’Europa, e sembra profetica.
Hayden Herrera, Frida

giovedì 20 ottobre 2011

Freud è Nietzsche, ma vince la partita

Uno sfogo, prolisso, di cattivo umore - nel pur consistente cattivo umore dell’autore, già segnalato contro Dio, la filosofia, la sinistra, e per la pugnalatrice Charlotte Corday. Contro un obiettivo facile facile. Onfray vuole Freud un filosofo fallito, e un onanista, incestuoso, con la madre, la cognata (cinquantenne), la figlia (e perché non pedofilo?), bugiardo, arrivista, plagiario, sotto la forma della criptomnesia graziosa, di Nietzsche, Schopenhauer e altri. Lungo 500 pagine, oltre 600 nell’originale, con argomentazioni ripetitive. Il pamphlet dimezzato non avrebbe perso nulla, o ridotto a un terzo, ma si vede che tutto ciò che riguarda Freud e la psicanalisi deve andare dalle mille pagine in su, dalle agiografia di Jones e Gay ai “libri neri” (questa chiave è sfuggita a Onfray...). L’ultimo capitolo, la “Bibliografia” ragionata, prova da sola tutto il libro, anche con una certa serietà. Il penultimo capitolo, la “Conclusione”, dice che il meglio di Freud è Nietzsche. Tema dell’opera è infatti “come Freud illustra la tesi di Nietzsche in virtù della quale ogni filosofia è confessione autobiografica dell’autore” – e gli altri scriventi, storici, poeti, romanzieri, che fanno? Il lettore italiano, che non si perde nulla della versione originale anche nella ridotta foliazione, ha diritto a un terzo, semplice, capitolo finale in forma di appendice, una biografia “ragionata” di Freud e delle sue magagne che risponde alle stroncature.
Una goduria per i tanti antipatizzanti. L’ateologo Onfray rimprovera a Freud pure la delegittimazione della religione. Ma il demolitore è di malumore già prima di affrontare Freud. I salesiani del suo collegio alle medie dice “tutti pedofili”. L’insegnamento della filosofia all’università di Caën trent’anni fa riduce a un professore che veniva da Parigi due ore ogni due settimane, una volta su due, quindi una volta al mese, e nelle due ore compulsava l’orario del treni, perché era membro del Direttivo del Comitato Centrale del partito Comunista Francese (ve ne possiamo rivelare il nome, Guy Besse – ma chi era costui?). Dopodiché resta il fatto, ineliminabile, indistruttibile, di Freud e il freudismo recepiti come liberatori, seppure a opera di un levita messianico, falso quindi e bugiardo, e di una casta presto sacerdotale: una necessità, la liberazione del corpo e della sessualità, come per certe religioni. Ma questo l’ha già detto, in breve, Wittgenstein: Freud, per demitizzare il mondo, ha aggiunto miti ai miti - nella nuovissima categoria del “mito scientifico”. Onfray si cautela al penultimo capitolo, dove dettaglia cinque ragioni del successo di Freud, di cui quattro caduche: il freudo-marxismo (Reich, Marcuse), col suo forte potere d’interdizione, la pulsione di morte che ha segnato il Novecento, la secolarizzazione, l’organizzazione militante, “paolina”, della chiesa freudiana. La quinta è la liberazione della sessualità.
L’attacco critico si disperde come lo stesso monumento che attacca, il conglomerato freudiano. Al § “Genealogia” Onfray ironizza sui lapsus nella “Psicopatologia della vita quotidiana”. Rilevandone uno che Freud fa doppio in risposta a un critico americano di “Totem e tabù”, per il quale l’uccisione del padre, capo dell’orda primitiva, seguita dal banchetto cannibalico del morto da parte dei figli, era “solo una storia”, una delle tante possibili e non un “mito scientifico”. Freud chiama Kroeger uno che invece si chiama Kroeber, avendo dimenticato che l’autore della critica è un altro, Robert Ranulph Marrett. Che però Onfray, dieci righe più sotto, chiama Robert Ranultp Martett… Questi puntini di sospensione sono peraltro tutto il dossier di accusa. Con essi Onfray vuole sottolineare le reticenze, le omissioni e le cattive coscienze del freudismo, ma... con altre allusioni. Il monumento a Freud ha bisogno di altri demolitori.
Restano gli “a parte”. Un saggio fulminante su Sartre, in diciotto righe della “Bibliografia”, quale specialista dell’incompiutezza (inachèvement), nelle 1.500 pagine su Baudelaire, Genet e Flaubert, sulla base della “psicanalisi esistenziale”, non freudiana, abbozzata in “L’essere e il niente”, IV parte, cap. 2, primo sviluppo. Il rapporto di Freud con Roma: da cartaginese, anzi da Annibale, vendicatore del padre Amilcare e di tutta la città semita. Lo stesso rapporto di Freud con Fliess, due numerologi fantasisti, quarantenni fancazzisti, prima di litigare sulla primogenitura della bisessualità, finalmente rivelato dalla pubblicazione integrale delle lettere nel 2006, seppure solo di quella scritte da Freud.
Michel Onfray, Il crepuscolo di un idolo, Ponte alle Grazie, p 482, € 22

Marx è finito, Israele no

Sono i “Nachgedanken” successivi a “Rapporti”, lo studio di Dürrenmatt su Israele. “Dopo aver riletto i «Rapporti», ho ritenuto di non doverli modificare”, è l’esordio. In realtà Dürrenmatt aggiunte e toglie molto. Aggiunge una critica radicale al marxismo (e allo hegelismo): un testo dell’autunno 1980 che sembra irreale, remotissimo – già lo era quando fu ripreso in volume, tredici anni fa. Se non per la conclusione, da scienziato politico più che da profeta: “L’istituzione totalitaria vive nel costante terrore di non riuscire più, tutt’a un tratto, a funzionare”.
Sempre attuale invece il tema di “Rapporti”, qui ribadito. Israele non può opporsi a uno Stato palestinese. Il quale sarà garantito soltanto da Israele.
Friedrich Dürrenmatt, Nel cuore del pianeta

mercoledì 19 ottobre 2011

Pansa, ancora uno sforzo - contro il conformismo

Nella caduta degli idoli il revisionismo è stato una delle ultime trincee, l’accusa di revisionismo come tara intellettuale e insulto (voltagabbana, opportunista, venduto), non potendosi più esercitare le categorie classiche della censura preventiva, fascismo e fascista. Una difesa debole, più del tipo barricate improvvisate, dalle quali sparare nel mucchio, che una trincea solida, via via abbandonate o trascurate. Presto soppiantate, come ovunque ormai in quel campo di macerie, dal silenzio – che non si vuole elaborazione del lutto ma lo è, si spera che lo sia (lo dovrà pur essere, se non per onestà intellettuale per opportunismo: le opere critiche autocritiche si sentono venire, nell’editoria se non nell’irrancidita università della storia).
Pansa se ne fa titolo d’onore, a capo di questa originale biografia intellettuale, arrivata in pochi mesi alla Bur per il successo di lettura, nel sepolcrale silenzio dei media, di cui pure Pansa è uno dei principi. Ma anche lui, si avverte a ogni pagina, soffrendone. Come avviene alle vittime di mafia, che un po’ se ne vergognano, non potendo, per orgoglio e rispetto della legge, minacciare, bruciare, sparare, terrorizzare a piacimento, nella società mafiosa. Pansa lo fiuta, lo avverte, che si fa scudo dei tanti lettori di buone intenzioni, di cui però sa che lo seguono per fatto personale, non perché la storia vera vada scritta. Ma non lo dice, e questo è un limite. La revisione anticonformista si vuole d’altra parte radicale, non compromissoria.
L’accusa di revisionismo è piovuta addosso a Pansa perché, da giornalista sicuro compagno di “Repubblica” e “L’Espresso”, ha osato narrare e storiografare gli anni della “seconda guerra civile”, contro fascisti veri e presunti, uccisi proditoriamente in gran numero. Pansa se ne difende con un’esigenza di verità, e con l’obbligo di libertà di lasciare la parola anche alle vittime. Di lasciar esprimere anche una cultura di destra. Ma il problema non è se c’è, o non c’è, una cultura di destra – e perché ce ne dovrebbe essere una, ce ne sono così tante “a sinistra”? Pansa sa di che si tratta, dopo cinquant’anni nei giornali, vissuti come ha fatto lui con la sua passione ogni giorno totale, ma non osa attaccare la sua società mafiosa, il giornalismo, l’accademia, il loro modo d’essere mafioso – attacca un Partito che non esiste più, da molti anni ormai.
Sui delitti della seconda guerra civile a senso unico, subito prima e per alcuni anni dopo la Liberazione, non c’è peraltro revisionismo contestabile. Sono un fatto, e sono ben più numerosi dei trentamila che Pansa, timidamente, fa conteggiare a un centro di documentazone - sono almeno cinquantamila. È dunque un libro realmente di memoria, più che di polemica politica o storica. A tratti commovente. Molto ben scritto nei capitoli iniziali, con una lingua grassa grazie all’uso sapiente del dialetto. E resta un’appassionata, come è sempre dell’onest’uomo Pansa, e forse per questo prolissa, ripetitiva negli ultimi capitoli, denuncia dell’ipocrisia che soffoca la storia e la storiografia della Repubblica. Piena di aneddoti e ritratti, di Scalfari, Caracciolo, Rinaldi, il principe Borghese, Bobbio studioso di nessuna saggezza, Firpo, Guido Quazza, Andrea Scano, Otello Montanari.
Pansa è saldamente nella storiografia. Con “Il sangue dei vinti” una durissima censura sugli studi di storia, spessa mezzo secolo, di omissioni e volute alterazioni. Non è stato il primo, ma è quello che ha ottenuto l’effetto. Pansa è anche uno che si segnala per il coraggio, fra i grandi giornalisti italiani, oltre che per l’acume, per un anticonformismo che non si può non apprezzare a fronte dell’opportunismo che invece domina – si pensi solo a Montanelli, o al qui lungamente presente Mario Melloni (“Fortebraccio”). In particolare, è stato autore, solitario, isolato, di un celebre atto d’accusa contro la stampa opportunista, col suo “giornalista dimezzato” trent’anni fa, scritto ben due volte, su “Reubblica” e su “L’Espresso”. Non avrebbe insomma da difendersi, se non per un curioso senso di colpa - non di avere detto la verità, evidentemente, di avere perduto alcuni compagni di strada?
Nella parte giornalistica di questa memoria Pansa ha anche delle strane ingenuità, che sembrano reticenze. Specie sugli ultimi suoi anni a “Repubblica” con Scalfari, e su quelli con Rinaldi all’“Espresso”, di cui era condirettore, e in generale su tutti i giornali nei quali ha lavorato. Rinaldi era uno che aveva stima solo per De Mita, attesta Pansa, che non per questo ne riduce la caratura. Si dice anche sicuro che De Benedetti ha riempito Scalfari e Caracciolo di soldi per la metà del gruppo Repubblica-L’Espresso, mentre sanno tutti che gliel’ha scontata a debito. E rappresenta un incongruo Scalfari che, mentre “Repubblica” diventava il giornale del compromesso storico, con Andreotti e De Mita per intenderci, dichiarava la sua erotica attrazione per Berlinguer, e sostituiva redattori e dirigenti con giornalisti dell’ “Unità” e di “Paese Sera”, d’intesa con Adalberto Minucci, responsabile per i giornali di Berlinguer, è fronteggiato asperrimamente dal partito Comunista. Ma, forse, l’ingenuità politica è il forte di Pansa – anche se, per uno storico, è stravagante.
La verbosità è anche indice del fatto che Pansa prende molto sul serio l’ortodossia che contesta. Perché ne conosce il radicamento, e il residuo potere, seppure frazionato per oscuri rivoli. Ma soprattutto, sebbene sotto traccia, perché ne teme gli argomenti. Che invece sono sterili e anche stupidi – se anche gli assassinati fossero stati mille e non cinquantamila? Forse perché Pansa, pur avendone descritte tante ottimamente, da “cronista di razza” quale si vuole e per tanti anni è stato, non è mai stato dentro un’assemblea o una cellula, neppure nei tanti giornali nei quali ha lavorato, dove solo la parola d’ordine conta, il resto è vedettariato, ininfluente, il Partito più che intelligente si vuole cinico. Si sorprende così che sia necessario scrivere 500 pagine, nel 2010, per difendersi, e perché mai uno come Pansa deve sorprendersi, se il compromesso domina e l’Italia è l’ultimo paese ancora sovietico? Inavvertitamente lo fa dire a Melloni “Fortebraccio”, di cui mostra di non avere stima (o essere “dichiaratamente cinico” è un elogio?): “Un cattolico ha una sola tentazione: quella di diventare comunista. Può forse aspirare a diventare, non dico socialdemocratico, ma liberale?”. Che rigirato è l’esito di oggi, dei comunisti diventati democristiani, anche se sempre “tutti un suol uomo”, quali li vuole il centralismo democratico – il risultato, direbbe Melloni, non cambia: “La soddisfazione più grande l’ho provata quando, espulso dalla Dc, invece che un libero pensatore ho scelto di diventare un libero conformista”.
Non si tratta di rifare la storia, Pansa non si rifà a Philip Dick e a “La svastica sul sole”, dove Hitler ha vinto, cosa che avrebbe potuto: i vincitori hanno vinto e i perdenti hanno perso, per molti buoni motivi. Ma poi, dopo la vittoria? Una buona leva del revisionismo era stata data a Pansa da un filosofo, Franco Cassano, nel “Pensiero meridiano”, del 1996: “L’attenzione per gli effetti che i rapporti di forza esercitano sulla struttura del campo culturale dominante”. O l’attenzione all’“ambiguità” che attraversa la storia “in profondità, e che solo in rari momenti affiora alla superficie”.
Il discorso sul revisionismo sarebbe anche molto semplice: tutti hanno vinto la guerra, e si godono la modesta rendita. Il vero revisionismo s’incide sulla Resistenza: tutti combattenti all’improvviso in Italia contro il fascismo, il nemico tedesco, l’imperialismo, il potere. È il nuovo conformismo, che ogni derivazione taglia, ogni nuovo sentiero, vuole solo vicoli ciechi. Il revisionismo non è eretico – se non per alcune sezioni dell’ex Pci. Nolte vuole la guerra civile addirittura europea, e lunga dal 1917 al 1945, un’altra guerra dei Trent’anni. Il revisionismo, per non scadere nell’opportunismo (adeguamento alle circostanze dominanti, anch’esso) richiede vigilanza costante e spirito critico, anticonformismo.
Giampaolo Pansa, Il revisionista, Bur, pp. 484 € 12

Secondi pensieri - (78)

zeulig

Angoscia – È molto tedesca, anzi del tutto. È della Selva Nera: la radura heideggeriana è un alpeggio, l’angoscia vi nasce con le favole.
Heidegger - questa Europa, questo Occidente - pensa tedesco. In tedesco già dubitare, zweifeln, è un poco disperare, verzweifeln - così come soluzione, lösung, è subito redenzione, erlösung.

Bibbia – Dallo stesso ceppo due religioni agli antipodi: ebraismo e cristianesimo. Il dio manifesto contro il dio segreto, il dio di giustizia, amore, misericordia contro il dio della Legge, imposta a un popolo abbandonato, la fede trionfante e quella del popolo eletto abbandonato. Non c’è una prova interna al testo sacro? È la Bibbia bivalente? Può esserlo?

Conoscenza – È razionale (deduttiva) ma anche associativa, memoriale, onirica, desiderante (ottativa), progettuale, intuitiva. Se la si potesse compattare, in estensione, durata, profondità, e misurare con metro qualitativo, risulterebbe razionale in piccola parte, e questa quasi tutta pedagogica (ammaestrata) e non deduttiva (logica), a fronte delle innumerevoli altre sue fonti. Malgrado l’incidenza crescente che l’imprinting deve prendere con le generazioni, in forma di memoria storica e riflesso condizionato.

Dio – Se Dio, benché in tutto “assoluto”, non può che essere onnipotente, onnisciente etc., allora è schiavizzato, seppure da se stesso. Dovrebbe poter essere anche minimal.

Dio nella Bibbia altro non esige che giustizia e amore, e che l’uomo tratti umilmente con lui. Senza disperare, il divino non conosce cicli ma epifanie. Basta restare vicini all’assenza di Dio, vigili – che non è bestemmia, è la fede.

Filosofia - Picasso, o meglio Cézanne, ha mutato l’approccio: l’artista non guarda da fuori, per riprodurre ciò che vede in prospettiva in uno spazio tridimensionale, ma si colloca al centro dell’immagine, di cui riproduce le di-mensioni in piano, secondo un punto di vista multiplo. Dal suo punto di osservazione al centro deve vedere una calotta sferica, che gli fa ovviamente girare la testa, né sta fisso in quel punto, ma ogni cosa può vederla e riprodurla da sinistra o da destra, davanti o di dietro, o di tre quarti, da sopra o da sotto. La stessa cosa Heidegger ha fatto per la filosofia. Ma così l’autore diventa creatore, dominus assoluto perché indefinito, astratto. Seppure in fieri, al modo del Dio di Malebranche, che si fa a pezzettini. Si potrebbe perciò dire anche Dio, mentre talvolta è un bombarolo.

Pensiero – L’autore-creatore è quando pensa. “Un po’penso, un po’ sono”, diceva lo stimato Valéry, che quindi non pensava quando era.
Essere, cioè scrivere, parlare, dire aforismi. Ma si è se si pensa, il resto è lasciarsi andare. Ha detto bene Hannah Arendt per l’ottantesimo di Heidegger: “Il pensiero allontana le cose vicine, o meglio si ritrae dalle cose vicine e avvicina le cose lontane”. Bisogna pensare. Già Klopstock lo sapeva, che diceva: “Generalmente in una buona poesia il non detto va avanti e indietro, come fanno gli dei nelle battaglie di Omero, che pochi riescono a scorgere”. Anche in una brutta poesia, provoca un’acidità fortissima, immune all’alka-seltzer.

Religioni – Sono affini alla matematica: si costruiscono secondo una logica interna, in sé e per sé.

Secolarizzazione - Da quando abbiamo ripudiato o perduto le nozioni d’infinito e di mistero, dell’invenzione del divino e d’ogni altra potenza d’immaginazione del cuore, in questo tempo veloce che in realtà non è tempo, respiriamo male. Cioè respiriamo a misura della routine sociale e di lavoro, il corpo s’adatta, anche gli affetti sono di routine, anche il cuore s’adatta, ma con l’orizzonte basso e il cielo grigio, e in apprensione come gli asmatici. Non si può essere Amleto senza uno Shakespeare che lo faccia morire. Non l’Amleto dei metafisici, no, quello che vede, sa, capisce e non approva, ma non riesce a reagire, ad agire.

“Dalle mie vili bontà il mio coraggio è confuso”, è l’Andromaca di Racine, che non è confortante. To be or not to be è esserci, fare la propria parte, la cosa giusta. L’impossibilità di essere non è metafisica, è sociale, politica, letteraria.
Dobbiamo a due ebrei, che sono per definizione spregiatori del mondo, l’amor mundi residuo, a Hannah Arendt dopo Spinoza. Mentre i cristiani conquistatori dell’umanità si dissolvono nella teologia negativa. Finendo come non voleva sant’Agostino: “Quaestio mihi factus sum”, sono diventato il problema di me stesso. Opportunamente san Giovanni fa chiedere a Cristo da Nicodemo nel suo vangelo: “Come può un uomo nascere quando è vecchio?”

Storia - Spesso si rovescia, contro chi la fa.

Verità - La verità in Omero - quando ancora si pensava - è dire le cose. Una testimonianza. È parlare, comunicare: una confessione, una denuncia, una rivelazione. E scoprire la verità è scoprirsi.
È la prima parte, lo svelamento, l’alètheiadi Heidegger. Poi viene la verità comunicazione: la delazione, l’anticipazione. Compresa la verità della menzogna, o menzogna della verità. La simulazione. Del pensiero, avverte Platone alla Lettera VII, fa parte l’indicibile – e talvolta, è da presumere, l’impensabile. E bisogna parlare: Alètheia è verba dicendi, anche Wittgenstein ha la sua parte.
“Vero” può essere soltanto di una frase, di una parola. Una circostanza, una cosa in sé e per sé, non può essere mai né vera né falsa: verità non è sinonimo di realtà.

“Il domandare è la pietà del pensiero”, dice anche Heidegger. Sì, fanno pietà, il pensare e il domandare - rituali, se tutto è noto. Schiudersi, invece, è la parola, Entschlossenheit, e decidersi: “La risolutezza è la sigla autentica dell’essere autentico. Non il per che cosa e il contro che cosa si decida, ma il fatto che ci si decide”. Bene. La triplice Aufhebung: abbattere, conservare, elevare insieme. Alètheia è svelare, togliere dal nascondiglio. E dire la verità non significa dire le cose in quanto sono, ma indica l’atto di scoprire e comunicare un fatto del quale si è a conoscenza. Non c’è qualcosa come una buona coscienza, ha ragione il Filosofo, la coscienza è sempre in atto con le cose del mondo, con loro si fa buona e cattiva.

Persiste lo stupido errore che la verità pone al termine del pensiero: più penso e più so. Mentre pensare non porta a nulla, la verità, se c’è, quel poco che c’è, è all’inizio della riflessione. Per questo la verità si dice nuda, la filosofia l’ha sempre saputo, che non raggiunge mai nessuna verità - la filosofia, malgrado tutto, è eunuca.
Era meglio avere paura e avere coraggio, poiché la conoscenza è senza ordine, e nella relativa indifferenza cresce l’ansia, che per questo è uguale, che temiamo l’infarto o di perdere l’autobus. Perduta è pure la capacità di distinguere, a che punto eravamo? “Ora dobbiamo andare”, direbbe Socrate nell’Apologia alla fine, “io a morire voi a vivere: cosa sia migliore, lo sa soltanto Dio”.

zeulig@antiit.eu

martedì 18 ottobre 2011

L’Italia fallirà a dicembre

“Il climax della crisi viene ritardato da ottobre a dicembre”. Un mese fa George Soros pubblicava sulla “New York Review of Books” un breve saggio sulla crisi dell’euro. Che apparentava a quella americana dei mutui sub-prime del 2008. Con la differenza che gli Usa l’hanno fronteggiata con tempestività, c’erano le autorità e gli strumenti per farlo. Mentre la Ue non ha gli strumenti né l’autorità (volontà) politica di risolvere la crisi dell’euro.
Per risolvere la crisi, il cui punto cruciale spostava a fine anno, tre condizioni erano necessarie per Soros – il cui mancato adempimento ne fa ora tre preannunci di crisi certa. La protezione totale (europea) dei depositi bancari, che invece la cancelliere Merkel vuole nazionale: “Se un euro depositato in una banca greca andasse perduto per il depositante, un euro depositato in una banca italiana varrebbe meno di quello in una banca tedesca o olandese, e si creerebbe un movimento di panico”. I titoli di debito pubblico dei paesi a rischio dovrebbero essere “protetti” (isolati) dal contagio. Il sistema bancario europeo dovrebbe essere ricapitalizzato e posto sotto supervisione europea e non nazionale”.
“Per risolvere una crisi nella quale l’impossibile diventa possibile è necessario pensare all’impensabile”. Il gioco di parole del finanziare è solo un’elegante copertura di un disastro annunciato. La soluzione sta nella Germania, argomentava Soros. E la Germania non è orientata a gestirla. Non col Meccanismo di Stabilità Europeo e non con interventi sul mercato. Gli interventi del Meccanismo sono stati assoggettati dalla Consulta tedesca a un voto, caso per caso, della Commissione Bilancio del Bundestag, la Camera dei deputati. L’intervento sul mercato della Banca centrale europea a favore del debito greco ha portato alla dimissioni polemiche del consigliere tedesco Weber, quello a favore del debito spagnolo e italiano alle dimissioni polemiche dell’altro consigliere tedesco Stark.
Un pessimismo che l’annuncio ieri del governo tedesco conferma: “Domenica non ci sarà la soluzione della crisi”, al vertice europeo. Un annuncio non necessario, poco diplomatico (i negoziati per il vertice sono ancora in corso), e speculativo. Ma indice certo di una politica.

Mida in Svizzera è una fenice

Il re che tutto trasformava in oro, tremenda condanna, anche la ragazza che ha appena spogliato, s’incolla allo stesso metafisico drammaturgo, come un blocco placcato se non di oro zecchino. Dürrenmatt ha pensato Mida, al “decimo o undicesimo copione”, come l’industriale-tycoon che trasforma in ricchezza anche la sua morte, decretata dai soci a questo fine. E come il soggettivo e l’oggettivo della narrazione, che interagiscono col narratore. Formidabile. Ma come se ne fosse stanco, o anzi stufo – criticare il capitale in Svizzera dev’essere stancante. E più che una fine sancisce una rinascita, questo re Mida è una fenice.
Friedrich Dürrenmatt, Mida

lunedì 17 ottobre 2011

L’Ulivo Mondiale

Dodici anni fa tra un mese D’Alema tentava a Firenze il lancio di una Sinistra Mondiale. Non tra buone prospettive, com’era possibile scriverne in anticipo:
“D’Alema riunisce a Firenze i leader socialisti mondiali all’insegna del “Riformismo nel XXI Secolo”, ma più che avviare un progetto sembra chiuderlo. Per una serie di motivi. L’idea originaria era di Veltroni, “l’Ulivo Mondiale”, che riuscì per questo a portare Prodi a New York a settembre un anno fa, insieme con Blair e il presidente americano Clinton. Mentre D’Alema la liquidava come “un’idea provinciale” – a Firenze il 20 novembre non ci saranno né Prodi (che però potrebbe intervenire in qualità di presidente della Commissione Europa) né Veltroni. Non si può parlare di Terza Via, come vorrebbe l’ideologo inglese Giddens, vicino a Blair, perché il premier francese Jospin, che D’Alema vuole assolutamente a Firenze, la rifiuta. Sicuri partecipanti a Firenze saranno i Clinton, ma il presidente è solo impegnato a lanciare la moglie, nel quadro dei rapporti di mutuo sostegno dopo gli scandali alla Casa Bianca.
“Hillary Clinton viene a Firenze nel quadro di un’operazione di image building di se stessa, per una carriera politica che intende avviare al Senato, e poi chissà. Senza alcun interesse al “riformismo”. Il 21 settembre dell’anno scorso il seminario dell’Ulivo Mondiale alla New York University vide la partecipazione di Hillary, mentre Bill rendeva al Procuratore di New York il video-interrogatorio sul rapporto con Monica Levine. Qualche giorno dopo anche a Prodi va male: al governo lo sostituisce D’Alema. Che si affretta a dare a Clinton il massimo sostegno nella guerra scacciaguai alla Serbia.
“Ma questo è tutto: non solo con i Clinton, neppure con i leader europei, che a Firenze comunque latiteranno, c’è concordanza sulle cose da fare: Blair, Schröder e Jospin, gli altri tre leader socialisti al governo, hanno vedute antitetiche sui programmi di governo”.

Ombre - 105

“Governo istituzionale, favorevole un italiano su quattro”, annuncia Mannheimer trionfante. Meno del Pd.
Dovendosi far perdonare il peccato d’origine socialista, Mannheimer ha smarrito, con l’ironia, anche il senso del ridicolo?

Nell’intervista settimanale a Pisanu il “Corriere della sera” non riesce oggi a fargli dire niente. Pur dedicandogli tre quarti di pagina invece che la solita metà, e il suo inviato di punta Cazzullo.
Pisanu era famoso, quando non era nessuno, per essere un democristiano massone. Il partito neo guelfo del “Corriere della sera”-Bazoli nasce un po’ massone? E Berlusconi? Se abbiamo Pisanu sul gobbo, lo dobbiamo a Berlusconi.

I democratici libici, per i quali tanto abbiamo speso in missili e altri interventi umanitari, sterminano i neri, a Misurata e altrove. Che sono libici e non mercenari o immigrati, vengono dal Fezzan, da Gat, Germa, Sebha, e da Cufra verso il Sudan. E li sterminano perché neri, non perché gheddafiani o mercenari. Lorenzo Cremonesi, che ne parla infine sul “Corriere della sera”, queste cose le sa ma non le scrive.

Mario Draghi a Parigi, presidente in pectore della Banca centrale europea, commenta l’attacco terrorista organizzato a Roma: “Peccato, hanno rovinato una bellissima cosa”. Soave, sorridente.
È proprio “il topo nel formaggio”: che ne sarà dell’euro nei suoi quattro anni alla Bce? Spariranno tutti i (pochi) risparmi.

Rai Tre salva nelle cronache concitate dell’attacco a Roma Mario Draghi. Proprio l’uomo più responsabile della crisi, da presidente del Financial Stability Forum. Bianca Berlinguer, che conduce, mostra di sapere con lo sguardo di chi si tratta. Ma non lo dice.

Però è vero che i banchieri sono più furbi: gli Indignati ce l’hanno con loro, e loro, Draghi, Passera, danno ragione agli Indignati. Ma Montezemolo, quand’è che si è fatto furbo?

Nessuno dei notiziari Rai, La 7, Sky ha mostrato Pannella insultato, strattonato e spinto fuori dal corteo . Informazione? Spectre?
Le immagini c’erano. Erano del corteo bello-e-buono, alla partenza all’Esedra, quando ancora non era stato “infiltrato” dai “provocatori”.

Il giudizio più intelligente sulla guerriglia a Roma è senz’altro di Barbara Contini: “Se Berlusconi si fosse dimesso non ci sarebbe stato questo caos”. Ma la carriera politica di questa protetta di Fini, decollata facendosi rubare il rubabile nei musei di Baghdad che doveva ricostruire, la dobbiamo a Berlusconi.

Grande festa a Parigi, “nella nostra ambasciata, in rue de Varenne”, per “la Tod’s Signature, la collezione firmata Della Valle”. Che “Io Donna” immortala, in uno di due ampi fotoservizi dedicati al patron delle scarpe e del gruppo editoriale. Tra gli ospiti molti a pagamento: i principi Casiraghi, la principessa Lee Radziwill, le cugine Courtin-Clarins (chi saranno?). E l’ambasciatore Caracciolo, s’è fatto pagare?

Il corrispondente romano del “Financial Times” informa sabato 9 che la legge sulle intercettazioni abolirà in Italia la libertà di stampa. Lo stesso giorno che il supplemento Week-end del quotidiano pubblica due piene, allucinanti pagine su cosa ha subito da parte di una diecina di giornali britannici il professor Christopher Jefferies a dicembre. Per non avere ucciso la giovane sua collega, nonché affittuaria, Joanna Yates. Giusto per essere stato vicino di pianerottolo della morta, senza nessun indizio. Hanno scritto anche che puzzava, non si lavava. E che, sotto sotto, era un omosessuale.

Il giudice che “salva” il processo contro Berlusconi per sfruttamento della prostituzione, Maria Grazia Domenico, ha un triplo ruolo, da stakhanovista. È non soltanto un giudice che fa anche il pubblico ministero, e con toni accusatori, incitativi. La dottoressa è anche una giustiziera, in nome dei giudici di Milano, contro la Procura della Repubblica della stessa città. Che a palazzo di Giustizia è molto malvista. Piena di privilegi: parcheggi, scorte, fioriere, bagni imponenti.

Si moltiplicano i giudici che fanno anche i pubblici ministeri nello stesso loro processo. È un aspetto del sovietismo? Ma parlano avvocatesco: è l’invasione del pagliettismo.
Il fenomeno si è presto diffuso, a Milano, a Napoli, a Bari, a Lecce, ma all’origine è, come sempre nei fatti di giustizia, palermitano. Ha nulla a che fare con la mafia? E come no.

Il precedente recordman dei processi, prima di Berlusconi, era Andreotti: 40 o 41 procedimenti in venti anni, da quando divenne influente in politica. Che poi è diventato il beniamino del partito de giudici. Da ultimo il partito lo aveva accusato e processato per assassinio, a Perugia, e per mafia, a Palermo.




La solitudine dell’imperatore, senza barba

Malinconico: un imperatore che per difendersi dall’animosità di una città, neanche importante, che lo attacca con l’ironia, deve scendere sul sarcasmo, l’amarezza, il patetico. La vendetta di Dio? La solitudine del potere, paradosso della storia.
Giuliano Imperatore, Misopogone o contro la barba

domenica 16 ottobre 2011

I Quattrocento

Si stimano in 400 i black bloc dell’incursione a Roma ieri al corteo degli Indignati. Lo stesso numero che si diceva dei brigatisti - con tremila fiancheggiatori, lo stesso numero che si calcolava all’epoca del terrorismo. Ma 400 è il numero, sembra simbolico, ricorrente nei disordini fin dai tempi di Tucidide, del golpe oligarchico di Antifonte.
Il numero è insidioso, variamente ricorrente. Quattrocento miliardi di stelle si calcolano nella nostra galassia. Quattrocento furono i neri lasciati morire in Alabama, di sifilide, negli anni 1950, per studiare gli effetti del morbo. E i compagni rifugiati a Praga dopo la Liberazione, del Triangolo Rosso, torinesi, genovesi, toscani e romani. Quattrocento i segni del viso analizzati da Giovanbattista Della Porta. E i carri armati di Rommel distrutti da Montgomery nella prima offensiva. Fu dei Quattrocento uno degli ultimi golpe presunti della fertile stagione 1974-75. Quattrocento colonnelli in sonno vantava Licio Gelli nelle sue famose liste. Erano quattrocento i clienti speciali del Banco di Roma Nassau, a cui Ventriglia garantiva un alto reddito. E quattrocento milioni i dollari che Sindona prometteva a Andreotti per salvare la Repubblica nel 1974. Upper 400 è il Circolo dei nobili anche a New York.
I Quattrocento del golpe ateniese, sostituendosi ai Cinquecento del consiglio democratico eletto, calcolarono al millesimo le indennità loro dovute fino alla fine del mandato, e “le pagarono via via che quelli uscivano dalla sala”. Ma in materia bisogna intendersi, la fonte originaria del numero essendo Tucidide, ateniese filospartano, al secondo libro della Guerra del Peloponneso - collazionato da Senofonte, che non si vuole un’aquila. I Quattrocento erano il Consiglio oligarchico di Atene, istituito nel 411 a.C. dall’Assemblea rivoluzionaria, cioè aristocratica, su proposta di Pisandro – saranno rovesciati a loro volta appena quattro mesi dopo (il numero quattro è ferale, secondo Elémire Zolla).
I Quattrocento sono incidentali in Tucidide, tra Frinico e Antifonte. Ma c’erano prima, in forma di società segrete antidemocratiche, con Alcibiade, pupillo dello storico, e lo stesso Pisandro. Non concordi, né golpisti, non tutti: i Quattrocento s’imposero democraticamente, Pisandro convinse l’Assemblea rivoluzionaria che l’oligarchia era meglio della democrazia. Col consenso dei democratici. Lisia se ne fece avvocato nella disgrazia: “Non è il nome dei Quattrocento che deve provocare la vostra collera, ma gli atti di alcuni di loro”. La violenza, insomma, è insidiosa.

La scuola dell’odio

Le due tricoteuses degli Indignati romani a Rai Tre erano ieri due signore sulla quarantina, molto bionde e molto curate, nei capelli, nel trucco, nell’abbigliamento, occhiali da sole firmati, il genere pariolino, le uniche che davano ai ragione ai ggiovani, poiché “viviamo in un paese di mmerda”. È così, la scuola dell’odio si è estesa a macchia d’olio, e non è un refuso, invece di spegnersi con la caduta del Muro.
È così che l’Italia è l’unico paese, fra i tanti toccati dalla protesta, in cui si è cercato con accanimento il morto, una ripetizione di Genova dieci anni fa. Perché l’Italia è l’unico paese al mondo in cui la politica è un campo di battaglia all’ultimo sangue. E questo perché la Repubblica è nata insanguinata, all’insegna delle vendette, la guerra civile che non si può raccontare, dopo il 25 aprile 1945, e l’odio è stato poi coltivato per generazioni. È così che l’Italia è l’unico paese democratico che ha avuto il terrorismo per cinque anni dopo la guerra, con 50 mila morti, un terrorismo endemico ancora negli anni Cinquanta, quello brigatista degli anni Settanta-Ottanta, così feroce, con le stragi di Stato impunite, da piazza Fontana a Bologna, le diecine, centinaia di golpe “annunciati” nei primi anni Settanta, quando si trattava d’innescare il terrorismo, a partire da Feltrinelli, il popolo diverso di Berlinguer, e successivamente i tanti golpe cosiddetti giudiziari, contro questo o quell’esponente politico, non più cruenti, ma ben violenti. I giornali più moderati sono quanto meno facinorosi: faziosi, distruttivi, sempre sopra le righe – contro Berlusconi oggi, ieri contro Prodi o Amato, e perfino contro D’Alema quando invocò un “paese normale”.
La considerazione ovvia, che su un migliaio di manifestazioni analoghe nel mondo solo a Roma c’è stata violenza, è condita di giustificazioni: i black bloc sono provocatori o sono stranieri, la polizia non ha predisposto i controlli, la polizia è stata incapace. Non inedite, sono sessantacinque anni che si ripetono. Mentre è vero che la polizia ha fronteggiato la manifestazione e un migliaio di casseurs con tremila uomini, con un’ottima strategia dunque. In una battaglia che è durata cinque ore, un tempo molto lungo anche per le più celebrate campagne militari.

Mafia e antimafia si fanno in Procura

Black-out totale, all’improvviso dei Ciancimino non si parla più. Ce n’è uno che dice cose importanti, e niente. Si chiama Roberto, non ha evidenti problemi psicologici come il dichiarante Massimo, sembra perfino solido, con una professione, ma di lui non si può sapere. Roberto Ciancimino racconta anche retroscena molto “gustosi” secondo i cultori del fatto: titoli, yacht, palazzi, saghe familiari, tra il figlio piccolo con la madre chioccia e tre fratelli solidi, due avvocati, un notaio. Di che riempire giornali in quantità, se non faldoni di tribunali. E niente: la Procura di Palermo non si muove, i grandi giornali nemmeno.
I giornali hanno perduto il gusto della notizia? Non hanno più valenti cronisti giudiziari all’opera? O i cronisti non si muovono se non c’è una qualche trama che veda coinvolto lo Stato al servizio della mafia, sia pure lo Stato dei Ciampi, Mancino, Conso, uomini onesti se ancora ce ne sono? Il fatto è che la Procura non parla, e il cronista giudiziario s’informa solo dal Procuratore.

Letture - 73

letterautore

Céline – In “Marinai, profeti e balene”, lo spettacolo di questa estate ancora in tour, Vinicio Capossela ha un “pezzo ispirato da «Scandalo negli abissi»” di Céline. Un allegrissimo swing, che è diventato anche il più popolare della copioso raccolta, una ventina di pezzi. In cui, tra foche barbute e nettuni tentatori, “Io la vispa Pryntil… perché sono una sirenaaa, canto in sirenese”.
È una raccolta atipica per un cantautore, di forte spessore culturale. Nei temi, tratti da Meville, Conrad, Céline, dalla jitografia biblica, via Ceronetti, e greca. E nelle musiche che li rielaborano, tra esse le trenodie “greche”, e perfino un canto processionale, per la Madonna delle Conchiglie. È un altro Céline, ironico e lieve, quello che il Dottore avrebbe voluto essere ma non poté.
In fondo Céline è stato effettivamente il marginale che lamentava – prima di diventare il capro espiatorio della Francia liberata. Le sue idee di balletto e teatro per bambini caddero sempre nel nulla. Ed è vero che chiedeva leggerezza e sorriso, il pezzo di successo di Capossela è riuscito proprio in questa vena.
“Abisso”, “abissi”, da F.T.Marinetti e Lukáks sono anche un’epoca. Che non è morta. Ernesto Ferrero, che ha curato l’edizione italiana venticinque anni fa (Il Melangolo), con i disegni di Emilio Tadini, di “Scandalo negli abissi”, dedicandola “a Giulio Einaudi con affetto”, insomma un’edizione curata, ne fa il momento dell’allontanamento di Céline dall’umanità nella misantropia, per avvicinarsi agli animali, se non al Quarto Vuoto. Composto nel 1943, tra una riedizione della “Scuola dei cadaveri” famigerata e la rassegnata fuga “collaborazionista” con gli odiati tedeschi, il balletto è un saggio di scoperta autoanalisi. Ma, prima di tutto, un estremo tentativo di Céline di essere quello che non potrà.

Germania – Celebrando von Kleist sul “Corriere della sera” Magris ricorda che visse “una delle più grandi, turbolente, rivoluzionarie epoche”. Comprese “la grande musica e la grande filosofia, Mozart Beethoven Kant Hegel, le nuove scienze dell’anima e del profondo, l’ascesa della sua amata Prussia”. Che è vero ovviamente solo in parte: più corretto è dire che Kleist, nato nel 1777, morto nel 1811, vive in parallelo con questa grandezza, l’influenza che caratterizzava la Germania era quella di Goethe – e Schiller. E contro questa Germania Kleist fu in aspra polemica. Meglio si può dire anzi che la Germania sarà a lun go, la parte migliore di essa, quella di Kleist – la parte migliore della parte peggiore.

Pessoa – Le “Lettere alla fidanzata”, esempio preclaro delle bizzarrie di Pessoa, ne segnano invece l’estrema normalità – vulnerabilità.
La breve ripresa dieci anni dopo del rapporto naufraga nella depressione di Pessoa, ne “l’onda nera che si sta abbattendo sul mio spirito”. Ma la depressione non è tutta paranoia. O la paranoia non è tutta suggestione. Pessoa aveva avuto molta fiducia nel suo amore. Sotto le specie di una ragazza di non altra virtù. Che voleva farsi sposare e s’inventava mille capricci. Poi è arrivata la famiglia dal Sud Africa. Poi il poeta ha dovuto fare tutto lui per la rivista. In tre mesi. Gli “affetti violenti”, se ne accorge lui stesso, invecchiano rapidamente. L’ultima lettera della prima relazione spiega tutto, didascalica: “L’amore è passato. Ma le mantengo un affetto inalterabile, e non dimenticherò mai, mai, lo creda, né la sua figurina graziosa e i suoi modi di ragazzina, né la sua tenerezza, la sua dedizione, la sua adorabile indole. Può essere che mi sbagli, e che queste qualità che le attribuisco fossero una mia illusione…”.

A prima vista Pessoa è uno che, per aver voluto essere, per dirla alla Álvaro de Campos, “l’uomo più perfetto – colui che con maggiore giustizia può dire «io sono tutti gli altri»” - si perde. E diventa uno che ha “visione astrale” e “visione eterica”.Ma questo è oggi pirandellismo volgare. Pessoa è un uomo solo, senz’altro, pur con così tanti amici. Vittima della ritenzione (impubblicazione), in parte autoinflitta: il creatore ignoto.

Sherlock Holmes – Dal particolare si va al particolare: è questo che fa il fascino dei suoi racconti, per ogni altro aspetto bislacchi: la varietà dei particolari. L’induzione non è una rilevazione statistica da cui poi zampilla, se accurata, la verità – la statistica è un piano amorfo. Il suo dono, sotto la veste scientista (propagata fino a U. Eco) dell’induzione, è la deduzione. La sua abilità è riempire il particolare di senso.
La causalità è empirica e non logica. Se non ex post, una volta individuato il particolare significativo. Lo stesso l’induzione: non è un quadro il più largo e esauriente possibile, basta anche un particolare, purché conclusivo, significativo.
Questo è logico, e non lo è. Non è logica la conclusione che dal particolare porta all’universale, dall’osservazione empirica all’idea. Ma può essere vera – e quindi in quanto tale logica.

È einsteiniano. Dell’Einstein gnoseologico: “Per quel che i teoremi della matematica hanno attinenza con la realtà, essi non sono certi, e nella misura in cui essi sono certi, non hanno attinenza con la realtà”.

Sicilia – È attrattiva più che stimolante: i soggetti siciliani sono stereotipabili, ma l’attrattiva è sempre vivace. Camilleri in Africa, dove pure ha sostanza e argomenti, non funziona. Simonetta Agnello Hornby, scrittrice di vasto e affezionato pubblico per ogni sua cosa siciliana, comprese le ricette di cucina, non funziona a Londra o a Oxford.

Umanesimo - “Biophilia” di Björk, l’ultimo album della cantante, è condito di natura, scienza e tecnologia, ma è vivo come un masso. Tutta l’umanità di questa donna, compresi i ruoli di adolescente al cinema, è sadica. Ma è letta come umanistica. Il nuovo umanesimo dev’essere mostruoso?
Per “Virus”, una delle canzoni, l’edizione app mostra un’immagine al microscopio di cellule attaccate da un virus. Il gioco interattivo dell’applicazione consiste nel bloccare l’attacco del virus. Ma riuscendoci la musica viene bloccata insieme col virus, per ascoltarla tutta bisogna che il virus distrugga le cellule.

letterautore@antiit.eu

Il vero Pessoa è lui stesso

Seppure nella vena probabilmente sbagliata della eccentricità o della bizzarria, un’idea geniale: presentare il poeta dalla multipla personalità con le sue stesse parole. Con opportune didascalie di servizio.
Paolo Collo, a cura di, Vite di Fernando Pessoa scritte da sé medesimo