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sabato 27 aprile 2013

L’ora dei sassoni

Exit Thatcher
tra osanna e abomini
di aguzzini turbati
dalla borsa inelegante
che a insegna issava
mentre l’Anghèla
si celebra Merkel
che la giacchetta vuole
corta per darsi una vita.
È l’ora dei sassoni.

Thatcher bottegaia
gli aristocratici tori
avevano cacciato
per tale John Major
un mollaccione
col pettine in tasca
intento sempre
la chioma a ravviare
tra un ghigno e l’altro
all’obiettivo sbardasso
mentre Cameron
che il problema non ha
con la cancelliera
ha stretto non detto
l’ambito patto di ferro.

È così che l’Ue infine,
giacchetta o borsetta,
la Germania conquista
in piena legittimità,
da Meggy a Anghèla,
a femminilità con arte
debitamente assunta,
che il mondo rifanno
a spese degli uomini -
e pure delle donne,
del rigor fantesche,
l’ordine sassone?

Ombre - 174

Non si può intitolare la piazza antistante il Museo ebraico a Berlino, intitolarla a Moses Mendelssohn, perché è un uomo, e i Verdi obiettano, la nuova toponomastica del quartiere può esser solo femminile, per raggiungere la quota del 50 per cento dei titolari di vie e piazze. Lo stallo viene risolto affiancando a Moses il nome della moglie. Di cui si ricorda solo che in un quadro è quella che porta il caffè.
Sembra da ridere, ma non lo è.

Lo svolgimento delle partite, fra Germania e Spagna, faceva più male di quanto possa dire il risultato finale: ai supercampioni spagnoli non riusciva nulla, neanche la cosa più semplice. Dio perde chi vuole.
Finire schiacciati dalla Germania anche nel calcio, che Europa è questa, che utopia?

Rodotà si lamenta che il suo ex partito, il Pd, non l’ha voluto alla presidenza, come già nel 1992. Ma ora che Grillo pubblica i voti delle Quirinarie, a Rodotà ne attribuisce meno di quelli che Cristicchi ha avuto a Sanremo. Avremmo dovuto farlo presidente, Cristicchi? Non ha nemmeno vinto il festival.

Grillo non vuole inciuci. Ma vuole la Rai e il Copasir (i servizi segreti).

“Entro luglio sarà pronta una tratta e per dicembre la Salerno-Reggio Calabria sarà ultimata”. Lo dice Antonio Scopelliti, che sulla carta è presidente della Regione Calabria. Non sarà anche lui un emigrato? Uno che vuole male al suo paese. Perché alcune”tratte” della Salerno-Reggio Calabria devono essere ancora appaltate.

Rosanna Lampugnani trova posto solo sul “CorrierEconomia” lunedì per dire quello che tutti sanno, dell’altra settimana di passione sulla prtesidenza. L’onorevole Valiante, Pd, “sono nato democristiano, sono poi stato sempre popolare”, di Prodi: “Solo se mi facessero violenza gli darei il voto. È una persona inacidita”.

In Scelta Civica è lotta continua, ma aspra: “I montezemoliani e quelli di Riccardi si scannano sempre”. È sempre Rosanna Lampugnani, che fa parlare l’onorevole Cera, Udc. “I montezemoliani ci vogliono morti perché odiano Casini”, dice sempre l’onorevole, senza remore.

Gherardo Colombo, insigne esempio di giudice giusto, non politicamente corretto, si arrabbia: prenderà la tessera del partito Democratico. Che evidentemente non aveva, povera stella. Ma la prenderà solo per poterla stracciare. Il giudice che raddoppia la pensione con l’ambita carica di consigliere d’amministrazione Rai, per conto del Pd. Questa sì che è libertà di spirito.

A chi gli obietta che è in Rai per conto del Pd, il giudice Colombo risponde che non è vero. Sarà lì per opera dello Spirito Santo, anche lui? O per le sue competenze giuridiche? A un anno e mezzo dall’ambita nomina sta in fatti studiando le procedure. Per introdurre, dice, “regole certe”.
Uno che crede che la regole deal Rai sono incerte….

Non c’è solo Colombo, sono tanti i beneficati del Pd, nella stessa Rai, nei giornali, nelle Procure e perfino nelle banche, che ora dicono di non conoscere quel partito. Che era l’unico a praticare la lottizzazione – insomma, lo spoil system, il Pd prima della Bocconi ha adottato l’inglese. Giustamente, ritenendosi l’“unico partito”

L’Italia viene meglio in fotografia

Un album di straordinaria forza documentativa. Soprattutto della cultura, che altri ambiti, la Rai, le enciclopedie, il giornalismo dei decennali, non documentano (fanno la Lambretta, il ballo, il sabato, il bacio rubato, e sempre, indefettibili, il boom, gli anni Cinquanta). La contestazione a Milano alla Biennale del 1968, di vecchi intellettuali stempiati, con pancetta, con la forfora, s’immagina, che fanno i ragazzi, e molta pena, ma non mollano nulla, neppure la piazza, è un libro di storia. O la stessa Milano sette anni dopo, dopo il voto a destra, di donne supervestite malgrado la crisi, e supercurate, di parrucchiere, estetista, truccatore. Tutta Milano, l’abbondanza, l’esibizione e perfino il design, benché di firma ignota, è nell’esposizione di macelleria suina a p. 158.
Gianni Berengo Gardin, Italiani

venerdì 26 aprile 2013

I conti falsi del “Sole 24 Ore”

“Nel 2010 l’autorevole «Il Sole 24 Ore» si chiede quanto sono «migliorate» le amministrazioni regionali nel decennio precedente”. Analizza una quarantina di indicatori, in otto ambiti, ai quali assegna un punteggio. Ma un punteggio diversificato: ”Per ogni ambito, 3 punti per le regioni che partono sopra la media italiana e migliorano; ma solo 1,5 punti alle regioni che migliorano partendo da sotto la media”. Bizzarro sistema, commenta l’economista Gianfranco Viesti: “Chissà perché chi sta peggio e migliora merita meno punti di chi sta meglio e migliora. Viene giustamente tolto un punto a chi sta sotto la media e peggiora; ma ne viene dato uno a chi sta sopra la media e peggiora”.
Strano. Anche se la classifica già dà una spiegazione: Lazio 17 punti; Lombardia e Veneto 16; Trentino, Liguria, Emilia e Marche 12; Friuli e Toscana 10,5; Valle d’Aosta e Piemonte 8,5; Abruzzo 8; Basilicata e Molise 7,5; Campania 7; Umbria 6,5; Puglia e Sicilia 4; Calabria 2, Sardegna – 1. Il Nord va bene e il Sud è sempre sciagurato – c’era da dubitarne?
Non si parla del libro di Viesti, “«Il Sud vive sulle spalle dell’Italia che produce» Falso!”, ottimo da tutti i punti di vista, anche del Nord, forse per un motivo: i conti falsi del “Sole 24 Ore”. Che l’economista smonta con gli stessi parametri del quotidiano, ma con un giudizio unitario. Attribuendo infatti 1 punto a ogni ambito migliorato, e togliendolo se peggiorato, “la classifica che ne scaturisce è la seguente: Lazio e Campania 4 punti; Liguria 3; Basilicata e Molise 2; Sicilia 1; Abruzzo, Puglia e Calabria 0; Trentino e Valle d’Aosta – 1; Lombardia e Veneto – 2; Friuli e Sardegna – 3; Umbria, Piemonte, Toscana, Marche e Emilia – 4”.

Il plebiscitarismo della spesa

È l’ultimo tabù del partito Democratico, e quindi esulerà dal programma di Letta, ma sbancherebbe un referendum: l’elezione diretta dell’esecutivo, in forma di repubblica presidenziale (preferita) o di un primo ministro. Invece di un presidente del consiglio dei ministri senza alcun potere. E quindi dei governi delle pastette, delle correnti, del non governo, della crisi.
I referendum maggioritari e decisionisti del 1990-91 sono stati trasformati in regini elettorali a livello locale, Comuni, Province, Regioni – qui col consenso d tutti, il Pd è ancora il partito degli amministratori. Ma peggiorando la situazione – il non-governo o il sottogoverno - invece di risolverla: senza un analogo potere di governo centrale, i poteri locali plebiscitari sono diventati dei centri di spesa incontrollati. La politica locale è prevalentemente un image building dell’eletto, sindaco o presidente. Roma ha avuto un sindaco che ogni giorno doveva “uscire sui giornali”, come lo scià di Persia o un qualsiasi reuccio del Terzo mondo, per un gesto eclatante, dotare l’orfanella, i Nobel al Campidoglio, McCartney al Colosseo. Si è ingigantita così quella disfunzione che l’esecutivo stabile doveva governare, la proliferazione incontrollabile della spesa.
La riforma è impossibile per nessuna ragione. Si dice: Berlusconi. Come già si diceva: Craxi. L’esecutivo che governa, investito dal voto, acculando sempre alla P 2, che non vuole dire nulla. No, è il vecchio gioco della politica, o il gioco della vecchia politica, che si tiene i feudi riservati. E la passività ormai congenita del Pd, che si fa ingravidare dal primo passante del “faccio tutto io”, generazionale, radicale, goliarda, Renzi, Grillo, un sostituto Procuratore qualsiasi.

Costantinopoli, di che stiamo parlando?

“De Amicis è uno dei miei preferiti, il suo «Costantinopoli» è la migliore opera dell’Ottocento”: Orhan Pamuk, incalzato dallo scienziato ateo Odifreddi, finisce per dirlo su “Repubblica” (21 febbraio). Strabiliante. De Amicis viaggiò molto e molto scrisse dei viaggi, in opere che subito si traducevano in francese e altre lingue, a metà guida turistica, a metà osservatore dei costumi – non narratore alla maniera dei viaggiatori inglesi, né in soggettiva alla maniera dei francesi. Ma libri onesti, nulla di più. Che più non si ristampano. Eccetto “Costantinopoli”, che però, nell’edizione integrale, non quella ridotta da Umberto Eco e ora nel catalogo Einaudi, è lungagnone. C’è tutto: i quartieri, le popolazioni, compresi gli italiani, le cose da vedere, gli usi. Certo, Istanbul era anche allora una città aperta. E De Amicis è un viaggiatore aperto, tendenzialmente vede il buono. Ma, appunto, troppo buono - Remigio Zena gli dedicò addirittura un libro, un libello che intitolò spregiativamente “In yacht da Genova a Costantinopoli”.
In realtà il Nobel turco è incalzato a parlare di “Costantinopoli” dall’intervistatore: “De Amicis sembrerebbe essere un suo eroe. Mi sarei aspettato un capitolo su di lui in «Istanbul», come per Nerval o Flaubert, e invece lei lo cita solo di sfuggita”. Il sempre sorridente Pamuk non sembra afferrare la domanda, ma risponde in tono: “Lui sì che era un bravo scrittore, con un occhio non comune. Il suo libro «Costantinopoli» è il migliore dell’Ottocento, e la città che descrive è una sua invenzione. Ha influenzato generazioni successive di scrittori, come quelli che lei ha ricordato”. Che però venivano prima, ben prima. Compreso Gautier, su cui De Amicis si esempla. Fu infatti corrispondente non entusiasta, anche se per poche settimane, a Istanbul.
Costantinopoli, di che stiamo parlando? Della Turchia che la massoneria ataturkiana, ora erdoghaniana, sta portando sugli scudi “in Europa”? C’è un formidabile image building della Turchia ultimamente in Italia, come paese ben governato, civile, tollerante, in piena espansione, eccetera. Su cui prevedibilmente ci chiederanno di investire in immobili, ma non è male: anche se non fosse vero, sarebbe augurabile. Ma ci son delle aporie. Pamuk, che se ne è poi dimenticato nel suo “Istanbul”, aveva già detto “Costantinopoli” “il miglior libro scritto su Istanbul nel diciannovesimo secolo” come blurb per la copertina dell’edizione ridota Einaudi.
Edmondo De Amicis, Costantinopoli, Einaudi, pp. XXXII-154, ill. € 10

giovedì 25 aprile 2013

E io chi sono?

Venerdì il capomastro ai Ronchi segue con la cazzuola, con la mano destra, la colata di cemento armato, mentre con la sinistra risponde al cellulare. Sabato a Bagno Vignoni, al ristorante dell’albergo Posta di fronte alla piscina termale, l’idraulico di Pistoia chiude sbuffando sdegnato il cellulare, “non se ne può più”, dopo aver risposto freneticamente che è in vacanza. Da un lato fa piacere, che il muratore e l’idraulico siano più richiesti del primario. Non fosse per il dubbio: non evaderanno l’Iva? La popolarità si crea facile così, e l’abbondanza. E l’Irpef?
Domenica il capomastro parte in vacanza sul Mar Rosso, lasciando il lavoro a metà. Lunedì la colf a ore del vicino viene con Suv Bmw. Forse non paga il bollo, ammesso che il Suv sia di seconda mano. O perché è alta, ben fatta, giovane, procace. Ma è una seria, porta gli occhiali da miope e ha imparato subito l’italiano, non dev’essere una che fa altri lavori.
Al ritorno a Roma delle avances insistite si ascoltano, di conoscenti o giovani che non trovano occupazione, perché il sindaco ha aperto in vista delle elezioni i concorsi per vigile urbano e all'Atac, pare. Ma come si fa? Informarsi è possibile, come no, ma le conoscenze non contano, i posti hanno un prezzo: venticinquemila euro per il vigile e il doppio, chissà perché, per guidare un mezzo pubblico. Le famiglie sono disposte a consorziarsi per raccogliere il necessario, ma la cosa non è illegale?
È anche irrazionale: pagare cinquantamila euro per guidare un mezzo pubblico, il mestiere più faticoso e pericoloso. Mah! Non abbattersi è più che mai necessario.
Ma la colf a ore si è fatta rifare le palpebre, che cadevano. Da un chirurgo plastico naturalmente. Che opera al san Carlo, che è un ospedale pubblico.

Il libro dell’amore di Karl Marx

Marx non era unidimensionale, come il marxismo lo ha solidificato. Ebbe una figlia, si suppone fondatamente, o un figlio, pure dalla serva di casa. E nei frequenti spostamenti non mancava di notare le belle signorine. Senza perdere la stima della moglie, con la quale ebbero rapporti sempre vivaci. Questo Marx privato già alla prima uscita della compilazione, nel 1979 presso Savelli, al tempo del “privato è politico”, aveva suscitato un divertito scandalo.
Jenny von Westphalen, donna bellissima, di nobile famiglia, di quattro anni maggiore di Marx, gli fece sei figli e gli fu sempre accanto, in una vita difficilissima, tra continue migrazioni e senza un reddito certo né sufficiente. Rendendogliela anche molto vivibile, seppure con poco, per l’energia e l’abilità insuperabile di farsi bastare il niente. Dovendo peraltro sorbirsi, lo dice nelle sue lettere senza risentimento, ideologi e filosofastri che profittavano della povera ospitalità di casa Marx per teorizzarle in camera da letto l’odiosità del matrimonio.
Il Moro, come Marx veniva chiamato in casa, non era da meno, sebbene incline alle fantasie. Di passaggio a Treviri, la loro città, durante il lungo esilio, Karl così scriveva a Jenny il 15 dicembre 1863: “Tutti i giorni sono andato in pellegrinaggio alla vecchia casa dei Westphalen (nella Römerstrasse), che mi ha interessato più di tutte le antichità romane, perché m ha ricordato l’epoca più felice della mia giovinezza, custodendo il mio più grande tesoro. Inoltre non passa giorno senza che da destra e da sinistra non mi chiedano notizie della quondam «fanciulla più bella di Treviri» e della «regina di ballo»”. Che magari non è vero, e anzi senza’altro non lo è, nessuno parlava con un pregiudicato politico, ma era un bel pensiero di Marx per Jenny a cinquant’anni. E per Marx stesso: “Per un marito è una cosa maledettamente gradevole che sua moglie continui a vivere nella fantasia di una città intera come una «principessa incantata» - quanto a lui, è vero, a Treviri era noto come “l’uomo più brutto della città”.
Karl e Jenny, che si conoscevano da bambini, si fidanzarono segretamente nell’estate del 1836, al ritorno di Karl a Treviri dall’università di Bonn. Karl lo confidò al padre Heinrich, col quale aveva molta confidenza, che spaventato lo spedì a studiare lontano, a Berlino, “centro di ogni cultura e di ogni verità”. Jenny non si perdette d’animo: cominciò a preparare i suoi nobili genitori alla cosa, e riuscì anche, per il tramite della sorella di Karl, Sophie, a convincere il fidanzato segreto a farsi avanti con loro. Un anno dopo, il fidanzamento fu ufficiale, secondo le regole.
Fu il suocero, Johann Ludwig von Westphalen, secondo Karl, a indirizzarlo verso il socialismo, facendogli conoscere nell’adolescenza le opere di Saint-Simon. I genitori dei due fidanzati erano molto amici, e Karl era di casa dai Westphalen. Il padre di Jenny, forte in letteratura, in grado di leggere Omero e Shakespeare in lingua originale, era consigliere segreto di governo a Treviri, un alto funzionario.
Per Jenny, nell’anno del loro fidanzamento segreto, 1836, Karl scrisse tre quaderni di poesie, un “Libro dei canti” e due “Libro dell’amore”, Buch der Liebe. Che l’affettuoso padre Heinrich giudicò severamente: “Mi addolorerei di vederti esordire come un misero poetucolo”. Marx era ancora incline alla poesia. Nel 1837 continuò a mandare a Jenny poesie sparse. Successivamente si limiterà a copiare e adattare, sempre per Jenny, alcune ballate popolari. Nel 1841 due sue poesie, degli album precedenti, riscritte, vengono pubblicate in un giornale letterario. Ma Karl ha già lasciato la poesia per la filosofia.
Karl Marx, Ti amo Jenny. Lettere di amore e di amicizia, ShaKe, pp. 215 € 10

mercoledì 24 aprile 2013

Palermo viene male all’unità, l’Italia peggio

Periodicamente emerge, come una sorgente carsica, questa memoria non rivista dei giorni palermitani di Nievo, democratico, garibaldino, vice-intendente della prima amministrazione italiana della Sicilia. Perché Nievo è scrittore vivace. E perché la Palermo che gli si presenta, in questi appunti e nelle lettere che scrive, specie in quelle animatissime alla cugina acquisita Beatrice Melzi d’Eril, “Bice”, è subito senza speranza. Ma con sua sorpresa, Nievo non è prevenuto. A differenza degli altri amministratori, emigrati di ritorno, quale il messinese La Farina, il suo capo. Inviato da Cavout nell’isola per mettere fuori gioco i garibaldini, e dunque a Palermo impegnato soprattutto a contestare i conti dell’intendente Nievo, garibaldino. Che alla fine sloggia. Nievo parte sempre fiducioso. Salvo scoprire che a Torino, in Parlamento, Cavour ha già montato il “processo ai garibaldini”. Ridiscende a Palermo a raccogliere la documentazione a difesa, ma al ritorno affonda col piroscafo davanti a Napoli.
Beppe Benvenuto, che ripropone la piccola raccolta, sfaccetta la personalità complessa del giovane scrittore-patriota. L’ardimento politico. La capacità di scrittura. La finezza linguistica, che ne fa un’eccezione nello sconsolante “italiano dell’Ottocento”. La capacità critica, benché da nobile di campagna, conservatore, di capire la povertà rurale. Ma se ne può dire di più. Nievo, che sarebbe stato il nostro Stendhal, se non fosse sparito come Majorana giovane sul malefico vapore per Napoli, dice moltissimo, su tutte le esperienze che ha vissuto, e più sull’unificazione dell’Italia, in questo modesto diario e nelle lettere alla cugina amata.
I Mille, che erano ottocento, sarebbero stati “la seconda edizione aumentata e ingrandita di Pisacane e Capri”, se i napoletani non se la fossero squagliata, che poi erano austriaci e bavaresi. C’erano i soliti figuranti, “un barone di Marsala a cavallo di un asino”, “un frate guerriero da Castelvetrano a cavallo, col Cristo in una mano e la spada nell’altra”, e due compagnie di picciotti, sì, ma agli ordini dei parrini, due frati di Partinico - molto aiutò Garibaldi in Sicilia la leggenda che fosse un frate travestito da guerriero. Nessuna ribellione, in nessun posto. “I palermitani sono occupatissimi a ripararsi dalle bombe”, benché adusi alle rivolte, ne hanno sempre fatte tante, e i picciotti “amano la guerra, ma senza pregiudizio dell’integrità personale”. Tutti chiedono a Nievo posti e pensioni, benché misere: “Principi e principesse, duchi e duchesse a palate agognano venti ducati al mese di salario”. Siamo quello che eravamo. “I siciliani sono tutti femmine, hanno la passione del tumulto e della comparsa”, scriveva il nostro Stendhal, la rivoluzione è opera di “briganti emeriti che fanno la guerra al governo per poterla fare ai proprietari”. Il profittatore Depretis dava ogni sera da mangiare ai nobili a Palazzo Reale: “Il voltafaccia di questa gentaglia mi stomaca, ne pronostico del male, la servilità non dà speranza di eroismo e neppure di costanza”. Al plebiscito i no all’Italia furono venti su 32 mila votanti.
La campagna tra Marsala e Palermo gli appare abbrutita. La capitale invece scintillante, e molto aperta, anche al contatto fisico – di “sensualità diffusa”, dice Benvenuto. Senza fargli perdere il senso critico: tesoriere e pagatore, confrontato giornalmente a torme di “principi e principesse” in cerca di raccomandazioni e sussidi, Nievo sa vederne il lato debole: la supponenza mista all’indigenza – invece del solito feudalesimo, su cui ancora Sciascia indugia. “Io sono annoiato di Palermo che nulla più”, scrive a Bice, “è una serenità che annoia, un complimento continuo che stanca, una servilità che ammazza”. L’Italia manca soprattutto di verità, ora come allora.
Ippolito Nievo, Diario della spedizione dei Mille, Mursia, pp. 101 € 9

Letture - 135

letterautore

Confessione - Dilaga come autofiction. Che non è più un genere francese, quello che Doubrovsky ha canonizzato – la parola e il genere – nel 1977 col romanzo “Fils” (non tradotto!), che può essere “figlio”, “figli” e “fili”, volutamente ambiguo. Ambiguo è infatti il genere, nient’altro che un romanzo come il più vieto filone avventuroso alla Dumas. In terza persona da autore-creatore senza infingimenti. Ma già in uso alla Duras, profusamente, col suo amante cinese (e poi, più scabrosamente, per le fantasie sessuali di altre scrittrici, Catherine Millet, Christine Angot). O a Truman Capote, che molti fatti mise in maschera in “A sangue freddo”.
Dieci anni dopo “Fils”, Doubrovsky pubblica “Le livre brisé”, autofinzione fin nel titolo: il diario dei suoi passati amori viene interrotto, brisé, dalla moglie gelosa, che preferisce il racconto senza veli dei loro propri amori. Dopo un’altra dozzina d’anni, nel 1997, il cugino Marc Weitzmann accuserà Doubrovsky di “esibizionismo”, nonché di tortura “fino alla fine” della moglie, “psichicamente più fragile”. Lo accusa in un’altra autofinzione, “Chaos”.

Il genere Bovary (“madame Bovary sono io”)? La psicoanalisi in pubblico? No, nulla di scientifico. È Barthes che dichiara l’autore morto e subito dopo si compiace di un autoritratto, “R.Barthes par R.Barthes”, oltre oltre che del “Frammento di un discorso amoroso”, della “Camera chiara” e del lutto per la madre inconsolabile – nonché, si sospetta, di ricordi intimi che devono aspettare i cinquant’anni di legge. Come chi dicesse morto il romanzo, che non sa scrivere – esito volgare, ma purtroppo vero. È la superfetazione dell’autore.

Lo scrittore dell’io, o di sé, come l’io-di-sé. Che non è un anagramma odioso, ma noioso sì, quasi sempre. Lo scrittore, che lo voglia o no, parla sempre di sé. L’ha detto Marguerite Duras ma si è sempre saputo. Dante certamente – o Proust, il Dante di Fine Secolo (Omero chissà, Shakespeare certamente no, Cervantes, che lo pretende, non lo fa).

Detta in francese “nombrilismo”, ombelicalismo, è una pretesa al vero, e all’“autentico”. Ma in senso postmoderno: è finzione dichiarata, vera (autentica) perché dichiarata.
Tutto è (ancora) postmoderno in letteratura. Di parrucche e nei finti. E questa scrittura soprattutto si vuole onesta. O non sarà la letteratura passatista - reazionaria più che innovativa? “Le Magazine Littéraire” dedica al “racconto di sé” il numero di aprile, chiedendo ai collaboratori una bugia per ogni articolo. I più, nel raccontare la bugia, ne dicono un’altra: hanno vent’anni. Le donne ma anche gli uomini. Tra i 20 e i 25. Avendo all’attivo più opere, e una certa, evidentemente, autorevolezza..

Lo stesso periodico aveva dedicato alle “Scritture dell’io” uno speciale sei anni fa, marzo-aprile 2007. Tutto virato, quello, sui classici del genere, sant’Agostino, Montaigne, Rousseau, Stendhal, Musset, Tolstòj, Gide, Kafka, Virginia Woolf, Fitzgerald, Julien Green, Hervé Guibert. Ma è il genere dell’epoca. Lo speciale di sei anni fa nasceva, inconsciamente, dalla morte di Guibert, che il genere aveva coltivato al parossismo - alla morte e oltre. Prima che Doubrovsky gli desse il nome.

Anche i narratori di fantascienza se lo dicono: “Sono alla ricerca di me stesso”. Dell’autore-attore della sua mania, uno che di solito non è attraente, raramente simpatico – un bravo attore è gigione, ma sulla scena dichiarata, in costume, con forti luci e forte trucco, altrimenti è sconcio – ridicolo, penoso.

Italiano – S’imbastardisce nell’Ottocento, quando diventa agitatorio – retorico. impenetrabile, illogico, tortuoso. Ancora Voltaire lo praticava con gusto. Lo praticheranno ancora gli Schopenhauer, figlio, madre e sorella, ma era già infetto. Colpa del Risorgimento di cui diventa lo strumento, del sentito risorgimentale, politico, poetico, primatista?

Dopo Milano e il leghismo poco resta della ricchezza della lingua. L’asserita specificità culturale del leghismo coincide con la scomparsa del vernacolo, presente diffusamente in tutta la vicenda della Repubblica, e probabilmente nell’Italia anteriore, nel teatro, le canzoni, la comicità, le parlate radiotelevisive. Niente più stornelli romani o romanze napoletane, e neppure “Belle Madunine”, niente più comici napoletani, romani, siciliani - solo ora, dopo quindici anni, riemergono Verdone e i siculi Ficarra e Picone. L’ortodossia leghista limita il vernacolo alla sola parlata radio-televisiva, non per nulla ha voluto mezza Rai a Milano. E questa limita, alla Rai e a Mediaset, al birignao lombardo - lo impongono anche alle figlie romanissime del “telegiornale delle figlie” a Canale 5. Al lombardo propriamente detto associando l’apulo-lombardo di Abatantuono e Banfi.
Il leghismo è l’imposizione di Milano, dell’insicurezza, la superficialità, l’arroganza milanese sul brio italiano, la normalizzazione: l’esito è la scomparsa dell’Italia. Si capisce che Gadda ne fuggisse, e lo stesso milanesisissimo Arbasino.

Poeta – È un minatore per Caproni. Un “testografo” per Mallarmé, colui che dà spazio all’incesso della parola, al disvelamento avrebbe detto poi Heidegger. Uno scienzato per Novalis. Un geometra per Sinisgalli. L’uomo misterioso per Borges. Un fingitore per il famoso Pessoa. E un fantasista no? Della parola. È uno scontento – inquieto.
Ai novissimi non piace. “Della poesia me ne fotto,\ sono nato per un condom che s’è rotto”, questo è Caparezza, e si spiega. Ma anche per il mite De Gregori, i poeti sono “brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa”.

Proust - Dante in prosa, perché no? Laico, di Fine Secolo.

Risvolto – Viene eretto a genere, nella giusta celebrazione dell’attività redattoriale – giusto perché finalmente il libro è stato fatto diventare un genere di largo consumo anche in Italia. Antologie si sono fatte molto apprezzate, Einaudi, Adelphi, Sellerio. Il lavoro del redattore non si vuole più anonimo, e anzi l’autore è (quasi) il redattore. Il risvolto, che “rivela” l’autore e l’opera, culminando un intensa gestazione. Ma Calasso, che nel 2003 calcolò di averne scritti 1089, non sa configurarlo.,
È un forcipe? È l’allattamento? Qualcosa ha a che fare con la maternità, poiché accompagna una nascita – un cesareo? E, come tutto ciò che riguarda l’infanzia, è autoritario più spesso che no, minaccioso, intimatorio, intromettente, volendo essere protettivo – mentre l’infanzia vuole solo rispetto. Anche nella forma adulatoria, della vecchia “epistola dedicatoria”, quali i risvolti di S.S.Nigro a Camilleri – il quale si legge a dispetto del risvolto.
Talvolta è eccessivo e induce al sospetto. È anche una delle poche forme che ancora sfuggono alla “scrittura corretta” delle scuole di scrittura, che hanno migliorato ma uniformato il vecchio “tema in classe”. Capita di leggere di un autore sopraffino quale Umberto Saba, nella bandella di “Scorciatoie e raccontini”: “Nel 1920 esce la prima redazione del «Canzoniere» e diventa amico di Giacomo Debenedetti”. Saba “esce” la prima redazione? A Palermo.

Sellerio – La copertina scura, con l’etichetta attaccata sopra, era la divisa dell’editore Kurt Wolff, dilettante di gusto, primo editore di Kafka giovanissimo, anni 1910 in Germania, e di Robert Walser, Trakl, Benn, “la più elegante” del secolo, la dice Calasso. Enzo Sellerio cambiò solo il colore, blu invece che il nero.

letterautore@antiit.eu

Scandalismo al sole

Un'ex moglie che non sembra avere tutte le rotelle a posto va dicendo che il suo ex marito è pieno di soldi in Svizzera – e intende: “Me li deve dare tutti”. È il genere di “indiscrezioni”, questo dei divorzi, di cui sono specialisti i giornali di Murdoch, che per questo ha dovuto chiudere il “Sun”, quello che gli dava più soddisfazioni – più soldi - per non andare in carcere. Non c’è da scandalizzarisi, Murdoch ha sempre i celebrati “New York Post” negli Usa e “News of the World” a Londra. In Italia l’ex moglie ha appassionato invece il “Sole 24 Ore”, il giornale più paludato, che le ha dedicato una lunga pagina.
C’è pure il sospetto, che un giudice ha già avuto, che queste indiscrezioni siano ricattatorie. Perché l’ex marito è persona rispettabile - è il ministro dell’Economia, dopo essere stato il Ragioniere Generale dello Stato, l’uomo integerrimo per antonomasia. E dunque la notizia è doppia: perché il giornale della Confindustria sta con l’ex moglie?
Sarà il modus operandi tra (ex) democristiani, come dice qualcuno? O non tra milanesi? A Milano si può dire allegramente il peggio di tutti, diceva Camilla Cederna, che nella pratica eccelleva.

martedì 23 aprile 2013

Sotto l’odio niente - il compromesso fa quarant’anni

Molti pettegolezzi, nessun pensiero serio sul Pd, nei suoi quarant’anni – il Pd è il compromesso storico di Berlinguer, qualsiasi socialista o laico vi si sia affacciato ha rimediato pugni sul naso. Una storia di disastri per l’Italia. E per la sinistra politica, che ha arretrato di due generazioni, a prima del centro-sinistra. Tre elezioni vinte e non un atto di governo, se non qualche guerra per conto, tra infiniti e mortali litigi intestini.   
Pur finendo imbelle, peraltro, avendo dissipato il capitale di fiducia costruito nei primi trent’anni della Repubblica, superiore, in termini elettorali, al 50 per cento del voto, il partito del compromesso storico è sempre pieno di sé, senza alcun ragionevole riesame. Sempre ritenendosi l’“unico partito”, il partito unico.
È l’esito del “popolo diverso” di Berlinguer, la politica della non politica, che perdette tutte le elezioni, e di questo fece colpa all’elettorato, eleggendosi a società civile, con la questione morale, sempre degli altri, e le mani nette, sempre le proprie. Anche quando dice le parolacce e si tira le pugnalate. O esercita il sottogoverno – lo chiama spoil system ma quello è – in questo unico partito in Italia. Spietato: dalla Rai alle Autorità di settore, alla Scuola e gli Enti di ricerca, alle Asl.
Totalitario nell’opinione, perché è il partito di riferimento dei giudici e dei banchieri. Ma senza effetto politico. Per una serie di disastri che ha inanellato e imposto all’Italia. Fin dall’inizio. Lasciando da parte Moro, un personaggio e una storia che i morotei e i figli hanno trovato comodo farsi rubare. Ma i governicchi di Andreotti? L’inflazione (il punto unico di contingenza)? L’attacco alla Fiat? Il partito dei giudici? Le sconfitte a ripetizione del Pci? Mani Pulite, così selettiva da spostare da sola il paese a destra – nel senso proprio, elettorale, del 51 per cento? La sopravvalutazione della lira? L’euro a due marchi? Le guerre “umanitarie”, per conto degli Usa? E Berlusconi, di chi è colpa?
Sotto l’odio niente? Grillo è più bravo.

Torre di saggezza

“Il cielo di Montaigne, le sue coordinate”, così Armando Torno in una nota che introduce la raccolta, dove fa rivivere per il lettore i luoghi di Montaigne. La torre dove si ritirava per scrivere, solitario, è l’unica parte residua del castello, andato distrutto in un incendio. Con le 57 massime che aveva fatto incidere sulle travi del soffitto, tratte prevalentemente dall’“Ecclesiaste” e da Sesto Empirico, ora visibili dopo il restauro e qui riproposte (in nota i luoghi in cui le citazioni sono riutilizzate nei “Saggi”).
Dai classici, ricorda Torno, con i quali viveva e da cui voleva liberarsi, Montaigne “ricavava la saggezza per sopportare gli uomini, per evitare le loro infinite cattiverie, per sfuggire ai lacci delle istituzioni”. Stimolo alle “bombe piene d’intelligenza”, e di bonario scetticismo, che lancia sull’umanità. Parafrastico il più dei casi - molte delle citazioni non trovano riscontro negli originali. Si direbbe della sua propria saggezza, che Montaigne, per modestia più che per autorevolezza, riveste di panni altrui.
Scettico, Montaigne. Ma in una delle forzature dell’“Ecclesiaste”, “Dio ha dato all’uomo il desiderio di conoscenza per torturarlo”, dà la prova maestra.
Michel de Montaigne, La torre di Montaigne, La Vita Felice, pp. 55 € 6,50

lunedì 22 aprile 2013

Rodotà, inflessibile banderuola

Nella prefazione si appella al cardinale Dionigi Tettamanzi e a “Famiglia Cristiana”- il “Principe” e Machiavelli lasciando alle “prefazioni di Benito Mussolini o di Bettino Craxi o di Silvio Berlusconi”. Esordisce come tutti: “Sono un vecchio, incallito, mai pentito moralista. La parola mi piace, perché richiama non una moralità passiva, compiaciuta, contemplativa e consolatoria, ma un’attitudine critica da non abbandonare, una tensione continua”. Come tutti, chi non è moralista - a parte le allitterazioni in c? I corrotti se lo dicono – il professore forse non legge. Poi cita Alberto Sordi, in funzione apotropaica, per scongiurare gli accostamenti. Che però s’impongono nella sceneggiata che ha appena concluso con Grillo: Grillo non è Sordi, ma è come se ne volesse impersonare i vizi.
Rodotà sfonda una porta aperta – come tutti i moralisti. Ma fa senso sfogliare il volumetto, una raccolta di articoli usciti su “Repubblica” tra il 2009 e il 2011, dopo la ridiscesa in campo del giurista in politica ai piedi di Grillo. È lo stesso Rodotà che nel 1961 rifiutò a Pannella il passaggio del partito Radicale con i socialisti, per il rinnovamento del diritto di famiglia e societario, perché si voleva liberale di destra? Salvo poi fare l’indipendente del Pci, col,posto assicurato in Parlamento. O è quello che nel 1992 lasciò il Pci-Pds dopo che gli aveva preferito Napolitano per la presidenza della Camera? Dicendo: “Il Pds è pieno d’imbecilli”. Il partito di cui era il presidente (uno degli articoli non è di “Repubblica”, è del 13 maggio 1992, quando Rodotà ancora scriveva per “l’Unità”). La coerenza non è forse un pregio moralista. L’arrivismo forse sì.
Ma Rodotà non è un opportunista.
Stefano Rodotà, Elogio del moralismo, Laterza, pp. 94 € 9

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (168)

Giuseppe Leuzzi

Il Sud paga di più
Soffrono di più nella crisi i mezzi di trasporto, la petrolchimica, i minerali non metalliferi e la gomma. E quindi, nell’ordine, la Sardegna, la Sicilia e la Campania, con un calo medio nelle tre regioni del 20 per cento. La documentazione predisposta dalla Banca d’Italia per il convegno a Napoli l’11 aprile su
“L’industria italiana e meridionale negli anni della crisi” rileva che nei cinque anni 2007-2011 la produzione industriale al Sud si è contratta del 17 per cento, al Centro-Nord del 10.

Va male per tutti e quindi il Sud ne soffre. Ma di più che nel resto d’Europa. Confrontando il Mezzogiorno con le altre regioni europee classificate “in ritardo di sviluppo”, negli anni tra il 2001 e il 2007, la Banca d’Italia rileva che nelle sei analoghe regioni spagnole il pil era cresciuto di quasi il 24 per cento, e di quasi il 12 nelle cinque regioni tedesche. E ciò dice “pari rispettivamente a oltre il sestuplo e a oltre il triplo della crescita rilevata nel Mezzogiorno”.

I miliardi di Monti infine disposti a pagamento delle imprese sono in realtà per le banche. He sono di Milano, come Monti. Gli imprenditori del Sud non avranno un euro, scopre “il Sole 24 Ore”.

Al Sud infine un record, seppure negativo, quello del prelievo Irpef locale. Paga per la sanità. Che non ha. La Regione Calabria, quella che più manda i suoi assistiti altrove in Italia e anche all’estero, ha il record del prelievo fiscale locale.
Con un reddito annuo di 20 mila euro, il calabrese ne paga circa 1.400 di Irpef locale – la media nazionale delle addizionali Irpef locali assomma a 428. Con un reddito di 36 mila euro ne paga circa 1.200. In barba alla progressività, ma sempre in prima posizione – la media nazionale è di 820 euro.

Le gabbie salariali esistono. Secondo i Conti territoriali dell’Istat nel 2010 il costo del lavoro unitario medio nell’industria era di 33.800 euro al Sud e di 42.000 al Centro-Nord. Una differenza di quasi un quinto, il 17,7 per cento.

La taranta del Cortegiano
L’ultima antropologia del Sud è quella di Ernesto De Martino, centrata sulla “taranta”, il fenomeno di possessione del Salento. Approfondita, mai discriminatoria, suggestiva, è anche l’ultima indagine onesta del Sud, utile cioè e intelligente. Ma la materia dell’antropologo era già nota nel Cinquecento, e oggetto di una lettura che trova più rispondenza nel modo d’essere, di porsi, del Sud, seppure maliziosa: dell’eccesso, dell’incontrollato. Carlo Ossola ne ha scritto sul “Sole 24 Ore” il 19 agosto 2012, a commento delle note di Leopardi, nello “Zibaldone”, sulla parola “tarantella”.
Delle “pazzie da spiritati” che “chiamansi in vulgar tarantolati” aveva scritto il Berni, nel rifacimento dell’“Orlando innamorato” (libro II, XVII, 5-6). E dei veleni che “in Puglia si fa contra” chi è stato morso dalla tarantola. Sul lasciarsi andare, cioè, a una gesticolazione furiosa in funzione calmante.
Nel “Libro del Cortegiano” di Baldassar Castiglione, prima del capitolo famoso sulla «sprezzatura» - l’etichetta interiore dell’uomo di corte – si parla delle “materie eleggibili”. E tra esse una s’impone, quella di agitarsi: «Che, come si dice che in Puglia circa gli atarantati, s’adoprano molti instrumenti di musica e con varii suoni si va investigando, fin che quello umore che fa la infirmità, per una certa convenienza ch’egli ha con alcuno di que’ suoni, sentendolo, subito si move e tanto agita lo infermo, che per quella agitazion si riduce a sanità, cosi noi, quando abbiamo sentito qualche naseosa virtù di pazzia, tanto sottilmente e con tante varie persuasioni l’abbiamo stimulata e con si’ diversi modi, che pur al fine inteso abbiamo dove tendeva; poi, conosciuto lo umore, cosi ben l’abbiam agitato, che sempre s’è ridutto a perfezion di publica pazzia; onde poi, come sapete, si sono avuti maravigliosi piaceri. Tengo io adunque per certo che in ciascun di noi sia qualche seme di pazzia, il qual risvegliato possa multiplicar quasi in infinito» (“Il Libro del Cortegiano”, I, VIII).
È un «gioco», benché rischioso («impazzirei nel pensare»): «Però vorrei che questa sera il gioco nostro fusse il disputar questa materia e che ciascun dicesse: avendo io ad impazzir publicamente, di che sorte di pazzia si crede ch’io impazzissi e sopra che cosa, giudicando questo esito per le scintille di pazzia che ogni di si veggono di me uscire;» (ib.). Se ne parlerà ancora al capitolo successivo, dove si vagheggia il «far anatomia de’ cori». La follia (il suono, la sensazione) viene poi molcita dalla pratica della conversazione – “star nelle parole” – e ricondotta anch’essa alle buone maniere. Ma si può, si deve, esprimersi esageratamente.

L’onesto giudice suicidato
Si suicida (“buona morte” assistita in Svizzera) il giudice Pietro D’Amico, accusato da De Magistris a Catanzaro di avere divulgato segreti d’ufficio e assolto due anni fa - insieme con gli altri giudici di Catanzaro e un carabiniere accusati dal giudice napoletano “con prove evidenti”. D’Amico aveva lasciato la magistratura dopo l’assoluzione. Ma non era sfuggito alla depressione – i suoi “amici” svizzeri dicono che ha voluto morire per questo.
Le cronache nazionali riportano il fatto, per molti aspetti “sensazionale”, due giorni dopo che la “Gazzetta del Sud” ne ha dato notizia. E si limitano a sintetizzare la “Gazzetta del Sud”. Niente inviati speciali per l’occasione, malgrado la straordinarietà del caso.
Le cronache di “Repubblica” e del “Corriere della sera”, seppure ricalcante sulla notizia della “Gazzetta del Sud”, omettono il nome di De Magistris: l’associazione mafiosa è con De Magistris o con la “giustizia”?
Il “caso” del giudice era romanzesco anche per il modo della morte. L’iscrizione a un’associazione svizzera di eutanasia. Il viaggio in automobile da solo da Vibo Valentia a San Gallo. Dove ha affrontato gli “esami” che la buona morte svizzera impone, per qualche giorno. Senza un cenno ai fratelli, a un amico. In altre circostanze avremmo avuto stuoli di inviati e torme di esperti, comparsate tv, numeri speciali di Vespa, di Santoro, per il giudice D’Amico niente. Non bisogna disturbare i giudici.

Mafia
S’incendia il Petruzzelli a Bari, s’incendia La Fenice a Venezia, s’incendiano il Duomo e il Palazzo Reala a Torino, ma siccome non c’è mafia non se ne trovano le cause o gli autori. Per Calvi invece la mafia è stata trovata, per il banchiere impiccato a Londra. In combutta con Gelli.

Va molto il “controllo del territorio”. Che c’è, la mafia “controlla il territorio”, ma non è politico, o sociale. Non è nemmeno economico. È solo criminale. Con pistolettate, incendi, bombe..

La parola Sciascia rintraccia la prima volta nel 1658, usata come aggettivo per una “magàra”, maga-megera: “Catarina la Licatica, nomata ancora maffia”.
Licata. Dunque è già quasi Camilleri. Che invece dalla mafia non è ossessionato, vivendo a Roma. Ma dello Stato-mafia sì, in obbedienza alla “linea”, oggi politicamente corretto.

Lo Stato-mafia è di Sciascia. Michele Pantaleone ne aveva scritto negli anni 1950, ma in termini di rapporto con la politica, con personaggi o attività (appalti, contributi, privilegi fiscali) della politica. Sciascia è invece apodittico, nella sua “Storia della mafia”, scritta per “Storia Illustrata” nell’aprile del 1972, e ripresa ultimamente dalle edizioni Barion, pp.27-28: “Una storia della mafia altro non sarebbe… che una storia della complicità dello Stato, dai Borboni ai Savoia e alla Repubblica, nella formazione a affermazione di una classe di potere improduttiva, parassitaria”.
Lo Stato è anche parte della sua definizione di mafia, apprezzata da molti come la più corrispondente: “La mafia è una’associazione per delinquere”, etc. etc., di “intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”.
Con incredibili forzature della storia. I “picciotti” affluiscono a Garibaldi obbedendo “alla volontà dei capi” – p. 29. I quali avevano un solo disegno: “Che la Sicilia diventasse una colonia agricola del Nord commerciale e industriale”. Proprio così, p.30. Con la connivenza, ancora un volta dello Stato: “Il che, ovviamente”, continua Sciascia, “non dispiaceva alla classe commerciale e industriale del Nord: e da ciò una più accentuata complicità dello Stato italiano nel’affermazione e nel consolidamento della classe borghese-mafiosa siciliana”..

Sciascia è “il primo scrittore che della mafia fece materia narrativa” (Salvatore Ferlita). E ci teneva. Lo scrive più volte a Calvino e Giulio Einaudi all’uscita del “Giorno della civetta” – che dice “titolo shakespeariano”: A Einaudi il 12 settembre 1960: “È la sola - come dire? – esemplificazione narrativa che sia stata data finora della mafia”.

L’uomo di mafia si manifesta solo per virtù della legge. Solo la legge (autorità giudiziaria, carabinieri) può identificarlo e emarginarlo. Altrimenti è uno come gli altri – il mafioso, non il killer: può essere vendicativo o minaccioso, ma normalmente è affabile, e sempre molto politico, dissimulatore cioè.
Questo Sciascia lo sapeva, che volle farsi presentare per curiosità al capo della mafia del suo tempo, Giuseppe Genco russo, e nel 1965 ne pubblicò un ritratto simpatetico su “Mondo nuovo”.

Il padrino era di Sciascia
Il Padrino di Mario Puzo è del 1969, lo “Zio di Sicilia” di Sciascia del 1965. Non il racconto dal titolo similare ma un ritratto-intervista con Giuseppe Genco Russo, il capo della mafia siciliana, che Sciascia aveva voluto conoscere, e finalmente c’era riuscito, grazie ai buoni uffici di un amico avvocato, e dopo vari rinvii. L’aveva pubblicato sulla rivista “Mondo nuovo” nel mese di giugno. Genco Russo era già una celebrità internazionale, Sciascia lo trova “splendidamente fotografato da un giornalista cileno” nello studio dell’avvocato intermediario, “tra vasi sicilioti e greci, con un bel ritratto di dama settecentesca sullo sfondo”. Ma il padrino di Puzo, e più ancora quello cinematografico, di Coppola, ha tutto del Genco Russo di Sciascia. La figura fisica, corpulenta, espressiva con la inespressività. L’eloquio lento: riflessivo, definitivo (sintetico, mai spavaldo). Il non negare, ma riaffermare sempre, modestamente, la propria autorità. L’opinione sui politici precisa, amici e nemici. La saggezza molto personale - “L’umanità è quella che è: ci sono i forti e i deboli, i furbi e gli allocchi. Sotto una pergola alta, solo la statura alta o l’ingegno consentono di arrivare ai grappoli”. Ha in più l’esperienza - che Puzo omette, avendo deciso di relegare la Sicilia a sfondo - di “quando vennero gli americani”.

domenica 21 aprile 2013

I fasciocomunisti

Rodotà portato da Roberta Lombardi, mussoliniana: “Rodotà presidente di tutti”.
Anche Rodotà che s’inchina a Grillo non è male: è anche lui per la “sovranità monetaria”?.
Alessandra Moretti, la bella di Bersani negli studios, obiettrice di coscienza su Marini, già addetta del capo di An nel Veneto, Giorgio Carollo.
I fratelli Borsellino.
I tanti giudici e giornalisti: Di Pietro, De Magistris, Travaglio, un’infinità, che spiegano al partito Democratico come deve fare, e s’arrabbiano.
Umberto Croppi, regista dell’elezione di Alemanno a sindaco di Roma nel 2008 e suo assessore alla Cultura, che ora vuole fare l’assessore alla cultura di Ignazio Marino.
Un “entrismo” devastante. Tanto più che il Pd ha mantenuto del vecchio Pci la tattica di dare visibilità ai nuovi entranti - un tempo per stimolare il proselitismo, ora per adeguarsi al nuovo.
Le categorie del politico sono desuete nell’Italia “postmoderna”, in cui tutto cioè è tutto. Ma questi sono impegnati a impedire al Pd ogni politica. Con la categoria politica dell’incorruttibilità, la più facile.

Perché la Germania doveva perdere la guerra

Discorsi patriottici del 1914-’15, ma con taglio non d’occasione. Della guerra che col secondo Ottocento non è più per la terra del vicino ma per la potenza industriale e commerciale. Dello “spirito di conquista” che prende la mano. Nella vecchia guerra era necessariamente limitato: “Non si può annettere più di una o due province alla volta; ci si indebolirebbe a prenderne di più”. Mentre la Prussia trapassa, “senza transizione, dalla prudenza più accorta alla temerarietà più folle” – anche contro Bismarck. Emerge qui il concetto di “forza”, che Simone Weil approfondirà. La Germania “profonda”( provinciale, modesta, tutta canti e bevute) imbelvisce: “sprofondata” in una prosperità” quale non avrebbe osato sognare”, si disse “che se la forza aveva fatto tale miracolo, se la forza aveva potuto dare la gloria e la ricchezza, ciò significava che la forza racchiudeva, senza dubbio, in sé una virtù misteriosa, una virtù divina”. Da qui, siamo nel 1914, anche il razzismo (“il popolo che riceveva questo slancio diventava popolo eletto, razza di padroni, accanto agli altri che sono razze di schiavi”), e l’imperialismo per mandato divino. Anche, nel suo nucleo, la “questione Heidegger”: “Il giorno in cui la Germania, cosciente del suo avvilimento morale, dicesse per scusarsi di essersi affidata a certe teorie, che un errore non costituisce un delitto, si dovrebbe risponderle che la sua filosofia fu semplicemente la trasposizione ideale della sua brutalità, dei suoi appetiti e dei suoi vizi”. Ma la forza non è materiale, del “meccanismo”, dell’organizzazione, è morale: “Dov’è l’ideale della Germani contemporanea?”. Da qui la profezia, nel 1915, che la Germania soccomberà – sarà il paradigma del Vietnam.
C’è il Blizkrieg, anche se non c’era la parola, la necessita della guerra rapida. Per non interrompere l’arricchimento, la base del consenso, “e anche e soprattutto perché la sua potenza militare non trovava, nella coscienza di un diritto superiore alla forza”, pur sempre latente, una convinzione durevole. Da qui la guerra come “barbarie scientifica”, “barbarie sistematica”.
Henri Bergson, Sul significato della guerra, Mimesis, pp. 44 € 4,90