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sabato 9 gennaio 2016

Stupidario informativo

L’Italia è al 73.mo posto per la libertà di stampa nel 2014 – “Freedom of the Press 2015”, Freedom House.

La stampa è “parzialmente libera” in Italia nello stesso anno per la stessa fonte. Come tutto il Sud America, la Mongolia, e le tribù africane.

Si discute la stepchild adoption. Non l’adozione dei figliastri. Figliastri non è una bella parola – suona peggiorativa - ma stepchild?

Non un’immagine delle notti brave tedesche a Capodanno in rete e nei media, dove si immortala di tutto, di più le violenze. Duecentodue violenze denunciato solo a Colonia, nella pubblica piazza, piena di gente, e niente. Il politicamente corretto non si fa il selfie - è tutto un selfie?  

Per i giornalisti di “Charlie Hebdo” si mobilita l’Europa e il mondo intero, per le donne tedesche niente, nemmeno una piccola protesta. Nemmeno un editoriale di condanna – se ne scrivono tanti.

Dice: ma nessuno è stato ucciso in Germania. Cioè?

L’Arabia Saudita vuole un posto in Siria

Putin che media tra Iran e Arabia Saudita? Un playmaker a prima vista non credibile, esterno ala regione, e più ancora alle questioni di fede che agitano i due paesi. Eppure così il premier russo si è accreditato nella telefonata con Renzi per il Capodanno ortodosso: al presidente del consiglio che si preoccupava delle tensioni in Siria tra i due paesi, ora intervenuti direttamente dopo aver agito per decenni dietro le quinte, Putin ha risposto rassicurante.
C’è un obiettivo comune, ed è disinnescare l’Is, è stata l’indicazione di Putin. Ma il sottinteso è stato evidente a Renzi: nel riassetto post-Assad del potere politico in Siria l’Arabia Saudita e i suoi protetti, le tribù sunnite, avranno un ruolo.
Non da ora l’Arabia Saudita si vuole prim’attrice nel Levante. Dalla guerra civile libanese, quindi dagli anni 1970. Nel biconfessionalismo del Libano, cristiano-islamico, la comunità islamica rappresentata nelle istituzioni è però successivamente diventata sciita, per crescita demografica e di potere politico (Hezbollah). E per il sostegno finanziario e militare della Siria degli Assad e dell’Iran khomeinista. L’Arabia Saudita ha risposto armando e finanziando la guerra civile contro Assad. E non vuole essere esclusa dal riassetto.

Il mondo com'è (245)

astolfo

Afghanistan – Lo stato rentier per eccellenza, mantenuto dalla comunità internazionale, è anche quello che più spende in armamenti, praticamente tutti gli aiuti che riceve. Nel momento in cui il Quad, il gruppo dei quattro paesi incaricati di portare la pace in Afghanistan (lo stesso Afghanistan, col Pakistan come controparte, più Usa e Cina in qualità di padrini dei contendenti) tenta di chiudere la pratica, questa è ancora la sua unica realtà. È solo uno dei paradossi di questo paese: il maggior beneficiario di finanziamenti a fondo perduto al mondo, da sempre, con costanza, che li destina quasi esclusivamente agli armamenti. Senza mai mettere fine alla guerra. Che è di varia natura, invasioni, quella sovietica e quella anglo-americana, tribale, religiosa, ma dura ormai da 37 anni.
Della spesa pubblica 2015, stimata (dalla Banca Mondiale) in 5,1 miliardi di dollari, il 73 per cento è andato alla difesa, 3,8 miliardi. Con un contributo afghano limitato all’11 per cento, 411 milioni di dollari. Le entrate interne non sono elevate, nel 2015 dovrebbero essere ammontate a 1,6 miliardi di dollari, in grado di coprire solo un terzo della spesa pubblica corrente. Il resto è coperto dalla “cooperazione” internazionale.
Lo sforzo bellico e di polizia ha peraltro preso nel 2015, secondo le valutazioni del Pentagono, 5,4 miliardi di dollari, 1,7 in più rispetto alla spesa pubblica. Questa cifra è il 23 per cento di tutto il pil afghano, stimato per il 2015 in 23 miliardi di dollari. Il più alto rapporto difesa-pil al mondo, secondo la Banca Mondiale – dietro l’Afghanistan viene l’Oman, col 15 per cento. Dalla nascita, a fine Ottocento, l’Afghanistan, “stato cuscinetto”, era destinato a dipendere dagli aiuti internazionali. Ma col finire della guerra fredda, cui pure l’Afghanistan ha molto contribuito, ha superato ogni calcolo.

Bin Laden – Non solo l’islam sciita, anche il gruppo Bin Laden costruzioni, Btc, è interdetto in Arabia Saudita, da quattro mesi ormai, a seguito di un incidente sul lavoro. Un’interdizione che pesa, ha detto Bakr bin Laden, il presidente del gruppo, “come la chiusura della General Motors in America”. L’11 settembre – data fatidica per la famiglia – la caduta di una gru nel cantiere della grande moschea Masud Al Haran alla Mecca ha fatto 107 morti tra i fedeli. A seguito dell’incidente, che sarebbe stato provocato dalla mancata osservanza delle raccomandazioni del costruttore, e del proseguimento dei lavori in condizioni atmosferiche avverse, il nuovo re saudita Salman ha escluso il gruppo dagli appalti pubblici nel reame, e tolto il passaporto ai dirigenti del gruppo e ai consiglieri d’amministrazione.  Con due miliardi di dollari di fatturato annuo, il gruppo è reputato il primo al mondo nel settore delle costruzioni.
Btc è un gruppo di famiglia, articolato sui fratelli di Osama, con interessi diversificati in tutto il mondo islamico, e prevalenti in Arabia Saudita, nel settore opere pubbliche – fino a settembre non intaccati neppure dal sulfureo fratello. È un gruppo che è nato, si può dire, col regno saudita, ed è cresciuto all’ombra della famiglia reale. Il regno fu fondato ne 1926, nel 1931 Mohammed bin Awad bin Ladern, il padre dei fratelli, creava la sua società di costruzioni.
Come il re Abdelaziz, anche Mohammed bin Laden ebbe molte mogli e molti figli – 54 in tutto, tra maschi e femmine (Osama era figlio della decima moglie, Asja Ghanem, siriana, ripudiata dopo la nascita del figlio. Veniva da una famiglia di muratori dello Hadramaut, nel Sud Yemen. Emigrato giovane in Arabia Saudita, si era fatto strada con la famiglia reale, divenendo anzi il protetto del re per la sua capacità di costruttore, e molto presto il maggior appaltatore di lavori pubblici. I suoi figli furono educati in compagnia dei principi del sangue sauditi. Alla morte, per un incidente aereo nel 1967, il suo patrimonio venne stimato in undici miliardi di dollari.
Nel 1950 Mohammed aveva avuto l’appalto per l’ingrandimento della Santa Moschea a Medina. Nel 1955 per l’ingrandimento della santa moschea della Kaaba alla Mecca. E per la costruzione di tutte le autostrade che dovevano arrivarci  dalle principali città del paese. Lavori di vent’anni, che si meritarono alla conclusione – era re Khaled – il plauso della corona. Le opera d’arte ingegneristica della strada da Gedda alla Mecca, attraverso il massiccio del Taif, ne hanno consacrato la rinomanza anche internazionale. La famiglia tiene da allora ogni anno tavola aperta per ulema e dignitari nella stagione del Pellegrinaggio.
En 1964 Mohammed aveva ottenuto l’appalto per il rifacimento del rivestimento della Cupola della Roccia a Gerusalemme. Nel 1969 i suoi figli furono incaricati del restauro della moschea Al Aqsa, sempre a Gerusalemme, dopo che un estremista ebreo australiano aveva tentato di darle fuoco. E così il gruppo si è consacrato di primaria grandezza in tutto il mondo islamico. Ancora dieci anni fa il gruppo bin Laden, gestito da un fratello di Osama, Abdelaziz, era in Egitto la più grande impresa private straniera, e occupava oltre 40 mila lavoratori. Insegne del gruppo sono visibili, secondo il sito ufficiale, in 27 aeroporti internazionali, che i bin Laden hanno costruito o rifatto.

Nel 1979 un altro dei fratelli di Osama, Maqrus, era stato posto sotto inchiesta in Arabia Saudita dopo un assalto alla Grande Moschea da parte di un gruppo integralista:  camion della dita entravano e uscivano senza essere controllati, e gli attentatori ne avevano fatto uso per penetrare nella moschea. Ma l’edificio fu ripreso la mosche dalle forze saudite, consigliate da esperti antiterrorismo francesi, usando le carte del gruppo bin Laden, che solo ne aveva la topografia dettagliata. Una serie imponente di edifici pubblici e religiosi sono stati realizzati dopo quella data alla Mecca, a Gedda e altrove in Arabia Saudita dai bin Laden.

Germania - Lo strabiliante del Capodanno delle donne di Colonia, e dei loro uomini, dopo la notte brava dei maghrebini ubriachi, è la censura politicamente corretta. Il non dire le cose col loro nome: la violenza alla persone, i vestiti strappati, le mani sulle parti intime, l’origine e la sicura identità degli aggressori. Questo è molto tedesco: tutti buoni indipendentemente dai fatti, e poi tutti cattivi - tutto sempre d’un colpo, e all’unanimità. Ma allora si potrebbe dire la Germania il paese dello spreco: di energie, di ordine - come sarebbe con un po’ più di giudizio, di fiducia in se stessa: è già straricca e strapotente, sarebbe insuperabile? E anche non molto intelligente: una vera accoglienza saprebbe e dovrebbe distinguere.

Globalizzazione – Nacque nel 1971? Teorizzata nei tardi anni1970, si fa ascendere alla decade successiva, con l’allargamento delle maglie della World Trade Organization, che sovrintende alla liberalizzazione del commercio internazionale, ai lavorati dell’America Latina, dell’Asia e dell’Est Europa (lavorazioni per conto, etc.). Culminato a fine decade, coi fatti di Tienanmen, 1989, con l’estensione della “non ingerenza”, da parte di un’amministrazione americana repubblica, di George Bush padre, al regime politico comunista nelle cose interne della Cina. Che diventerà a grandi passi il supermercato della buona metà degli americani, la meno ricca.
Ma, facendo sempre perno sulla Cina quale motore della globalizzazione (e del nostro stesso - relativo - benessere negli ultimi trent’anni), il seme si può dire posto nel 1971. L’anno della fine dell’impero del dollaro, e insieme del disegno di dominio militare, se ce n’è stato uno a Washington. È l’anno in cui Nixon dovette decretare, a Ferragosto, la sospensione della convertibilità del dollaro (nessuno volle più dollari per molte settimane, gli americani sorpresi all’estero dovettero svenderli, anche per 500 lire), sfinito dalla guerra del Vietnam, con un forte deficit di spesa pubblica e di partite correnti (acquisti) con l’estero. Un mese dopo che Kissinger in segreto aveva preparato a Pechino l’apertura diplomatica alla Cina - che Nixon l’anno successivo renderà ufficiale con una visita di Stato.  

Lingue coloniali – In ritiro netto il francese, nel Maghreb e nell’Africa sub sahariana, nel revival islamico, perché associato alla rivoluzione e ai suoi valori, dall’illuminismo al repubblicanesimo (democrazia e laicità). Mentre l’inglese marcia spedito e sempre più diffuso.
Ancora negli anni 1970 gi islamisti militanti algerini dovevano imparare l’arabo, e gli insegnanti unicamente arabofoni, senza francese, erano sfavoriti nelle graduatorie. Un decennio dopo il francese era oggetto di una crociata, in Algeria e in parte in Tunisia, per l’abbandono di un “messaggio intellettuale e ideologico velenoso”, contrario alla sharia. La polemica contro la francisation era divenuta parte delle campagne elettorali dei gruppi islamici.
Analogamente, il francese è vieppiù rifiutato in altri paesi un tempo integrati alla cultura francese, come il Senegal, la Costa d’Avorio, il Bénin. Il nuovo fronte dell’espansione islamica. Mentre non è rifiutato nel Levante, in Libano e Siria, che pure per qualche decennio sono stati sotto dominazione francese: i due paesi non hanno rifiutato i “valori” che si collegano alla lingua.
L’uso dell’inglese invece si estende come lingua veicolare internazionale, commerciale e scientifica, e come lingua franca del web, senza più connotazioni imperialistiche, e esente da connotazioni sistemiche, di acculturazione. L’inglese non è mai stato rifiutato, segnatamente, dall’islamismo radicale, in Pakistan, in Iran, nella penisola arabica, in Egitto. Gli ideologi pakistani della jihad ne hanno anzi raccomandato l’uso come veicolo di propagazione.

Abdel Rahman – Non soltanto Osama bin Laden fu salvato dagli Usa in più occasioni. Lo sceicco cieco egiziano Omar Abdel Rahman, che predicava l’odio verso gli Usa, il muftì degli assassini di Sadat, l’autore di una fatwa che incitava all’assassinio dei gioiellieri copti, nel 1990 ebbe asilo politico negli Usa, ed ottenne in pochi giorni anzi la carta di soggiorno permanente, la “carta verde”. Poté predicare liberamente da una sua moschea a Jersey City, dominata da lontano dalle Torri Gemelle del World Trade Center. Fu infine condannato, ed è tuttora in carcere, sebbene solo per prove circostanziali, come organizzatore di molti attentati islamici negli Usa e da ultimo dell’attacco al World Trade Center il 26 febbraio 1993. Un camion imbottito di sette quintali di tritolo avrebbe dovuto far crollare le Torri Gemelle: lo scoppio non avvenne nel punto dove avrebbe dovuto e le Torri non crollarono, ma ci furono sei morti e 1.042 feriti. Lo sceicco cieco fu inquisito in ritardo e come a malincuore.

Tatuaggio – Era un  segno tribale, ancora di recente, nei paesi tropicali. Distintivo in base allo stile più che per le figurazioni. H.Melville, che al tatuaggio dedica un lungo paragrafo del saggio-conferenza “I Mari del Sud” (ora in “Balene e viaggi”), lo testimoniava attorno al 1850: “I tatuaggi dei neozelandesi e dei tahitiani sono così lontani tra loro come diversi stili di pittura”. Ma molti li avevano già individualizzati, esibendo i tatuaggi come testimonianze di loro proprie storie personali. Del resto anche allora Melville dava “l’usanza del tatuaggio invalsa per motivi di religione, per passione delle novità e per varie altre cause”. In prevalenza per motivi religiosi (“molti dei nativi la ritengono necessaria per la loro beatitudine eterna”) ma non esclusa la vanità.

astolfo@antiit.eu

L’artista chiuso nel bozzolo

“Autoritratto d’artista” a tutto tondo. L’autoritratto no, l’uomo non pretende molto di sé, calvinista svizzero. Ma l’artista sì: incisore, illustratore, scultore, critico, romanziere, pittore classificato nabis, noto per i nudi erotici ma reputato quasi un asceta.  
Questo omaggio di Marco Alessandrini raggruppa scritti privati, note di diario, lettere, e articoli, che fanno di Vallotton un artista estremamente presente e riservato. Partecipe e retrattile. Di ogni causa e diffidente. Entusiasta e disincantato: “La natura? Le idee? Si fa quel che si può. Dal momento che le più grandi idee sono piccole, bisogna recarsi spesso in campagna, guardare l’acqua scorrere sotto i ponti, e amoreggiare sul divano con qualche bella donna”. 
L’artista-artista come tutto e niente: la passione chiusa in se stessa si divora, si spegne.  
Félix Vallotton, Vedo vivere, non vivo, I quaderni di via del Vento, pp. 37, ill,, € 4

venerdì 8 gennaio 2016

Banche centrali in piazza per il salario

C’è troppo denaro in giro, o ancora troppo poco? Ce n’è abbastanza, ma non viene utilizzato. Non abbastanza. Corre su questa realtà la reazione allarmata dei mercati al ritorno del caro-denaro negli Usa, avviato dalla Federal Reserve. Che incide su una “stagnazione secolare” interna, dell’economia americana, col rischio di aggravarla. Mentre sicuramente aggrava la deflazione nei paesi emergenti e in Europa.
La deflazione ha resistito e resiste altro ormai da troppi anni a tutte le iniezioni di liquidità. Per una serie di motivi interni più che esterni, collegabili in larga misura al settore servizi, che conta ormai per il 45-50 per cento dell’attività nelle economie sviluppate e le nuove economie, e si caratterizza per prezzi in contrazione. Al punto da spingere la Banca del Giappone, e Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea, a chiedere “una dinamica più vigorosa delle retribuzioni”.
In questo quadro generale anti-deflazione, l’aumento del costo del denaro da parte della Fed comporterà, spostando enormi masse di capitali verso gli Usa, un ulteriore rafforzamento del dollaro. E quindi una restrizione delle condizioni esterne della crescita economica negli stessi Usa.  Rinfocolando la teoria – non solo pessimista – del ristagno secolare. Nel mentre che sottrae capitali altrove necessari per battere la deflazione.

Speriamo che siano stati i neonazisti

Non sarà un complotto? Magari dei neonazisti, che hanno utilizzato gli immigrati per una provocazione? Prosegue la Germania al decimo giorno ancora intontita una ricerca delle cause possibili dei raid anti-femminili, un po’ ovunque – si scopre ora, con reticenze – ma soprattutto a Colonia e Amburgo, la notte di Capodanno. Che non si può fare a meno di imputare ai nordafricani, richiedenti asilo o residenti, ma si vorrebbe non fossero colpevoli.
La violenze ora non si possono più negare. Ma sarebbe meglio, quasi quasi, che fossero opera di tedeschi. È l’opinione dominante, e sembra essere la linea del governo. Col doppio paradosso, magari non voluto, di dare corpo al neo nazismo. E di fare stupidi  gli immigrati.
Un intreccio affascinante, tanto è balordo. E poiché la Germania è sempre meglio che si senta in colpa, anche opportuno. Forse. Comunque indiscutibile, la Germania è padrona in casa. Se non che si evitano due fatti invece ineliminabili.
Uno è che ci faceva la polizia, con almeno trecento donne malmenate e variamente violentate. Non c’era l’allarme massima sicurezza a causa del terrorismo sulle feste di Capodanno? O a Capodanno in Germania le polizie urbane fanno come i vigili di Roma – che per furono perlomeno denunciati, se non condannati?
L’altro fatto è più serio. E perfino drammatico, poiché la sindaca di Colonia, che per anni è stata assessore agli immigrati, non vuole assolutamente prenderlo in considerazione, nell’intervista oggi con Maria Teresa Natale sul “Corriere della sera”: che il disprezzo della donna tedesca è un rifiuto culturale radicale. Una cecità, quella della sindaca, aggravata da un’incultura giuridica perfino paradossale, per una che si professa avvocato di lungo corso: la legge è quella del luogo, e si applica a tutti, non si fanno eccezioni perché altrove la legge consente altrimenti. E soprattutto non contro i diritti umani.
Potrebbe essere un caso di incapacità – in sette giorni la sindaca non ha trovato di meglio che consigliare le ragazze di guardarsi dagli sconosciuti. Ma allora più drammatico: segno che questa persona, ignara di diritto benché sia avvocato, e incapace di un minimo di sensibilità, è a quel posto unicamente perché addestrata a proteggere gli immigrati.        

Il velo non è più maschilista

Si può anche sorriderne, Dolce e Gabbana ci hanno costruito su una collezione di alta moda che vende caro nei paesi islamici. Dove gli stilisti sono stati peraltro preceduti localmente, dal gusto delle donne per l’eleganza, in Marocco già negli anni 1960, o in Iran: il velo come segno di civetteria, cioè un una libera, ancorché frivola, scelta. E poi un bel velo vale un buon parrucchiere, una volta che l’estetica del capo si allontana dall’acqua e sapone. Ma farne un segno di libertà?
Si celebra fra un mese, pare, il giorno del velo. Pare già da alcuni anni. In segno di solidarietà contro l’islamofobia. Mentre il velo non c’entra con l’islam – col Libro, col Profeta. È solo un  segno di clericalismo. Islamico ma clericale: imposto dagli ulema come tutto il diritto positivo islamico, o sharia, compresi la poligamia, il ripudio, le mutilazioni e altre pratiche che i diritti umani invece condannano – il diritto positivo universale.
È in questo senso che il velo fu un caso in Francia trent’anni fa, quando si trattò di ammetterlo per le ragazze a scuola. Non perché fosse un segno religioso, ma perché era – è – una discriminazione e il segno di una discriminazione.
La confusione delle lingue nel femminismo non è una novità. Ma qui i paletti sono chiari.

Re Salman va alla guerra

Col nuovo re Salman, che tra tutti i principi reali era il più “aperto” politicamente, sui diritti civili e anche politici, l’Arabia Saudita ha preso il viso dell’arme. In senso proprio, militarmente, dapprima nello Yemen, contro le ingerenze presunte dell’Iran, e ora contro l’Iran direttamente. Succede in Arabia Saudita un po’ come negli Usa, che i presidenti democratici spesso sono bellicosi, più dei repubblicani.
Finora il governo saudita, pur essendo protagonista assoluto sulla scena araba e islamica, ha evitato per programma di esporsi.  “La politica estera saudita ha elevato l’azione indiretta a specifica forma d’arte”, scriveva Kissinger nel 1982, “Years of upheaval”, e il metodo è rimasto valido fino a Salman.
Il nuovo re ha sconvolto la pacifica navigazione del reame anche in altri modi. Ha impresso al vertice un’impronta personale, finora sconosciuta. I figli di Ibn Saud che si sono succeduti in questi sessant’anni hanno governato collegialmente. Salman, ultimo fratello del clan Sudeiri, l’ottava moglie di Ibn Saud, il clan più importante, si è messo accanto invece il proprio figlio Mohammed, come ministro della Difesa – il portafoglio di spesa più rilevante del reame. Pur lasciando il titolo di principe ereditario al fratellastro Muqrin, uno degli ultimi ancora in vita, del clan degli Yamaniyya. E ha impresso un forte stimolo attivo alla politica estera, finora dormiente.
L’Arabia Saudita è stata la grande ispiratrice e finanziatrice del movimento sunnita wahabita-salafita, comprese all’origine le formazioni terroristiche di Al Qaeda e dell’Is. Secondo stime saudite, ha finanziato con 75 miliardi di dollari negli ultimi quarant’anni, dopo il primo boom del petrolio a fine 1973, il proselitismo wahabita, in Medio Oriente, Nord Africa e Africa sub sahariana – in Mali, Nigeria, Senegal, Suda, Somalia, Kenya, e altrove. Ma mantenendo nello stesso tempo una politica estera cauta, dimessa, come inesistente.
Il principe Saud el Feisal, morto sei mesi fa, all’accesso al trono di Salman, figlio del re illuminato Feisal, assassinato nel 1975 da un nipote, che per molti anni aveva gestito la politica estera del regno, poteva confidare a John Kerry un anno e mezzo fa: “Daesh è la nostra risposta al vostro sostegno al Da’wa”, l’Is è la risposta sunnita-saudita al sostegno americano al partito sciita in Iraq. Senza suscitare scandalo, come se fosse una partita politica.
Ora forse la situazione è cambiata. Sicuramente i termini sono cambiati. Salman vuole trattare i nemici come nemici. Mantiene l’affondo sul petrolio anche se deve tagliare i suoi bilanci – l’Iran deve tagliarli di più. Non concede grazie né altri sconti ai terroristi all’interno del paese, nessun invito alla pacificazione. Fa per la prima volta una guerra guerreggiata nello Yemen. E non vuole perdere la partita in Siria: per quarant’anni l’Arabia Saudita ha combattuto il regime siriano, in Siria e in Libano. Quando la guerra persa da Damasco è sembrata rovesciarsi, dopo l’intervento della Russia, ha annunciato una forza di pronto intervento alternativa, arabo-islamica. Che nessuno ha preso sul serio, e probabilmente è inattuabile. Ma è anche certo che, se non verrà coinvolto nel futuro assetto della Siria e del libano, Salman potrà fare altri danni.

Secondi pensieri - 246

spock

Classicità – “Gli atti degli antichi erano nobili e tali sono le loro arti”, è in questo collegamento la classicità – la durata - in Melville (H. Melville, “Statue di Roma”, ora nella raccolta “Viaggi e balene”). Perché “dagli antichi abbiamo ricevuto tutto il meglio del pensiero che circola?” Perché loro ci credevano e vi si applicavano – alimentavano il circolo virtuoso della creatività poiché ci credevano. Si facevano anche loro le guerre e si distruggevano, ma per le creazioni dello spirito erano accumulativi, se le assumevano invece di sradicarle o abbatterle.
Il collegamento multiforme, tra azione, nobiltà e estetica sembra improvvisato. Però, così avviene nella storia. Di quei secoli, e anche dei successivi, di quando le tre esigenze sono andate variamente disgiunte.  

Fede – Muove il mondo, si dice. Ed è vero. La saggezza è operosa quando diventa una fede, altrettanto invadente, oltraggiosa. Solo la fede ardente muove il mondo. Non la quieta ortodossia, o l’ermeneutica. Ed è contagiosa, si espande. In ogni fede religiosa, comprese quelle settarie,  ma non necessariamente religiosa: l’uomo di fede non è necessariamente un credente. Caillois, “Ponzio Plato”, ha un personaggio, il saggio caldeo Marduk, che “se non credeva agli dei, credeva invece a ciò che fa che gli uomini instancabili immaginano degli dei”.

Giuda – È da qualche tempo il testimone fedele e quasi un martire. Basta un ossimoro per fare un libro e sostenere una tesi? Bastava anche meno al tempo della sofistica, e dunque un miglioramento c’è. Ma a chi è fedele Giuda, se non per ridere? Se ne può fare un traditore per odio, oppure per amore – magari è la stessa cosa – oppure quello gnostico, lo strumento della Provvidenza che si sacrifica per il trionfo delle Scritture, ma perché farne un altro, diverso?
Resta il fascino ritornante del personaggio, seppure mascherato: la voglia d’incanaglimento ritorna nelle epoche senza storia. Borges e Cailos.

Natura  - Per i greci la natura non aveva brutalità, è consenso comune. Ma non è una forma di assoluzione: la brutalità era connaturata alla natura, compresa quella umana. Non era un segno distintivo, un aggettivo, una divagazione, magari temporanea o intermittente: era una condizione.
La brutalità era un dato di fatto e non stigma depressivo, di crisi, ma questo è un altro tema.

Religione – Marduk, il veggente caldeo di Caillois, “Ponzio Pilato”, “lontano precursore dell’etnografia”, non “considerava le religioni come superstizioni sragionevoli e prive d’interesse”, come il suo amico Ponzio Pilato, al contrario, “non aveva interesse che per esse, ritenendo che informavano.meglio sulla natura umana degli altri dati, e soprattutto più delle astrazioni della filosofia”.

Sogno – È una forma di rivelazione – nella forma, non nei contenuti a volte triviali, come nei sogni erotici o altri. Come voleva il surrealismo: un automatismo, ma non necessariamente memorabile, né significativo, non in un senso rilevabile, significante. Si svolge come una lettura, o una rappresentazione teatrale. Il dormiente crede di assistere a una scena che lo vede insieme partecipe e spettatore. O di leggere in un libro inesistente una storia o una vicenda che egli stesso crea-si racconta a mano a mano. Ma non come se ne fosse l’autore. Come se fosse invece uno a cui il libro a mano a mano si rivela. Senza suo sforzo, né di invenzione né di adattamento. La pagina bianca si riempie a mano a mano di segni. Il più delle volte di emozioni, eventi o possibilità della veglia, più o meno avvertite o rifiutate. Per esorcizzarle (vanificarle) oppure per imporle, anche violentemente – incubi.

Storia - L’uomo è la sua storia, memoria cioè e fantasia. La storia universale può essere invenzione della filosofastreria hegeliana, come vuole il “Mondo” di Schopenhauer: “Questi filosofi magnificatori della storia sono sciocchi realisti, per giunta ottimisti e eudemonisti, volgari sozii e incarnati filistei, e cattivi cristiani”. Ma non dice il falso, assicura Aristotele: matrona austera, non s’azzarda a profferire verbo che si possa rigettare, confutare, accusare di falso. E Luciano, che ne fu il primo teorico: “Suo fine è l’utilità, che si raccoglie dal vero. Se in più favorirà il piacere, la storia si concilierà molti amatori”. Per Francesco Patrizi “due fini sono i principali dello scrivere ogni istoria: la cognizione del vero et l’uso per la felicità. In essa, quasi in ispecchio, o più veramente in teatro, può l’uom vedere tutte l’umane cose”. La storia filosofica, spiega Kant, è apriori, un filo conduttore da cui non si evince la storia propriamente detta degli eventi empirici. Ed è scienza politica, la più politicizzata. Ma è un discorso. Sempre critico, anche quando è accattivante. Qualcuno ci vede l’abito di Dio. È un racconto, un’ermeneutica che sempre si rinnova.
La storia è storia di scritture. Se il romanziere è lo storico del presente, lo storico è il romanziere del passato. È il liutaio di Marc Bloch che procede battendo le nocche sul legno dello strumento che sta fabbricando. Ma il romanziere non occulta le prove, le fa anzi emergere e le decritta.

Se capissimo la storia faremmo meno psicologia: senza ancoraggi, i precedenti, le relazioni, le prove. La storia sarebbe in effetti come Dio, ovunque ma in nessun posto. Ma si può dissentire.
La storia, irride Aristotele, realista e storico epigrafista, che ricostruì gli annali delle Olimpiadi, si occupa di sapere “che cosa Alcibiade fece e cosa subì”. E intendeva: cosa subì si sa, conoscendo il tipo, che cosa fece non lo sapeva neppure lui. Ma i fatti restano.

“La storia è oggi, ma non si risolve nell’epoca: si basa su di essa ma non si risolve in essa”, spiega Ranke, non nelle intenzioni. Perché la storia, bella trovata direbbe Gadda, è il linguaggio. “che può appassionare e incitare più che un’utopia”. O “purificazione del linguaggio”, aggiunge l’ottimo ambasciatore Paz, “la storia si consuma nella dissoluzione delle penombre”.

Addison non si fidava, che dice: “È molto più sicuro citare una medaglia che un autore” – trascurando la possibilità che la medaglia sia contraffatta. Dubita lo stesso Luciano, secondo il traduttore Savinio: “Con tal volgo di scriventi che seguono il tempo e le circostanze, e l’utile che si ripromettono dalle loro pagine, in avvenire ogni fatto sarà reso sospetto”. Ma poi, direbbe Foucault, “il genealogista ha bisogno della storia per esorcizzare la chimera delle origini, un po’ come il buon filosofo ha bisogno del medico per esorcizzare l’ombra dell’anima” - che non è necessario, ci si può convivere, sia con l’anima che con le chimere. Maestra la storia può essere, di comportamento: del genere cool, dominare gli eventi. E in questo senso della storia non si fa mai tesoro a sufficienza.

spock@antiit.eu

La vera Roma è popolata di statue

Testi recuperati fortunosamente dai curatori delle opere. Bozzetti satirici anonimi, del futuro presidente generale Zachary Taylor, scritti in serie per il “Yankee Doodle”, il “Punch” di New York. Esemplari, più che altro, della deperibilità del comico - quando non si regge su altre stampelle, liriche, storiche, tragiche, vendicative. Quattro recensioni – due di Fenimore Cooper e una di “viaggi avventurosi” a caccia di balene. Scritte forse controvoglia. E tre conferenze, nella sintesi  che ne avrebbero redatto i giornali dell’epoca. Delle quali una, sulle “Statue di Roma”, notevole: la vera Roma sono le sue statue.
Anche i viaggi avventurosi lo sono, ma più per quanto Melville ne sapeva per esperienza, che espone nel saggio-conferenza “I Mari del Sud”. A cominciare dallo stesso concetto di “mari del Sud”, che stanno per oceano Pacifico, il quale sta per almeno la metà a Nord. Ma piace immaginarsi il Sud – piaceva: calore e corpi, l’orizzonte della fantasia. Melville ne era addict. Del viaggio in genere. E ce n’è per tutti, pretendeva, basta essere in salute e avere buon carattere: “L’operatore di Borsa va a Salonicco e trova gli infedeli più onesti dei cristiani. L’astemio trova in Francia un paese in cui tutti bevono  e nessuno si ubriaca. Chi ha pregiudizi contro il colore della pelle trova diverse centinaia di milioni di persone di tutte le sfumature…”. E poi prendere l’aria fa bene.
Hermann Melville, Viaggi e balene, Clichy, pp. 157 € 8

giovedì 7 gennaio 2016

La terza guerra è tra sciiti e sunniti

Che senso dare all’annuncio di Putin che lavorerà a un accordo tra Iran e Arabia Saudita? Fumo negli occhi non è. La Russia non ha molto peso diretto sull’Arabia Saudita. E nemmeno sull’Iran, malgrado l’assistenza e le forniture nucleari, e la guerra congiunta in Siria. Tuttavia ha interesse a bloccare una possibile guerra guerreggiata tra sunniti e sciiti.
Questa possibilità è “il peggior scenario” per il Medio Oriente e la pace mondiale che Henry Kissinger delinea in “Ordine mondiale”, e da una diecina d’anni in interventi vari, e in consigli alla Casa Bianca. Poco meno che “una catastrofe”: per gli equilibri regionali e mondiali, per gli approvvigionamenti di petrolio, per il rischio contagio, all’Asia, al Mediterraneo e quindi al mondo.
Questo rischio è evidentemente sottovalutato dall’amministrazione Obama, che avrebbe più leverage su entrambi i contendenti - anche, per strano che sembri, sull’Iran – e non lo usa. Mentre Putin, che ne ha sperimentato un assaggio, in forma di oltranzismo sunnita, in Cecenia, sarebbe realmente intenzionato a prevenirlo.

Nasce il Curdistan, in Iraq

Saltano gli accordi vecchi di un secolo, 1915-1916, denominati di Sykes-Picot dai diplomatici che li negoziarono, che hanno stabilizzato il Medio Oriente dopo la sconfitta ottomana con gli imperi germanici? Si lavora come se: si disegna un altro assetto, con un Curdistan indipendente che dovrebbe nascere nel Nord dell’attuale Iraq. Col petrolio dell’area di Mosul: una produzione oggi di 500 mila barili al giorno, che dovrebbe raddoppiare quest’anno, malgrado la guerra civile ancora in corso, facendo del Curdistan una media potenza Opec (un milione di b\g sono 50 milioni di tonnellate l’anno).
È a favore del Curdistan indipendenteche grossi contingenti turchi corazzati sono stati posizionati l’altro mese in Iraq nei pressi Mossul, la città. Per aiutare a liberala dall’Is, che la controlla ormai da un anno e mezzo. In accordo con la famiglia Barzani, potenti copi tribù, ore nella persona di Masud: E col notabilato moslawi (sono moslawi gli abitanti di Mossul), la vecchia borghesia ottomana ora in esilio, o in difficoltà sotto le esazioni del califfato.
Il trattato di pace con la Turchia, dopo la guerra del 1914-18, che prevedeva la cessione della provincia di Mossul, prevedeva anche la formazione di un Curdistan indipendente. Ma tre anni dopo, nel trattato di Losanna, l’indipendenza venne ridotta ad autonomia amministrativa, e solo per i curdi dell’Iraq. I curdi si ribellarono, ma prima la Gran Bretagna e la dinastia hascemita che la Gran Bretagna aveva installato a Bagdad schiacciarono la rivolta. Senza però chiudere la questione curda.
La Turchia ha interesse a un Curdistan autonomo e anzi indipendente per argini storiche – la politica estera del presidente Erdogan richiama esplicitamente nei documenti programmatici quella dell’impero ottomano. E perché un Curdistan filoturco disinnescherebbe la rivolta curda dentro la Turchia, che serpeggia su posizione politiche più che etniche – postcomuniste.

Un’autostrada dell’Is dalla Siria alla Cecenia

“Un’autostrada della jihad tra Grozny e Aleppo”. È questa accusa alla base della sfida di Putin alla Turchia, che quella “autostrada” avrebbe favorito e anzi creato. L’abbattimento del Sukhoi russo non è un incidente, ma il primo atto aperto di una schermaglia sotterranea sempre più dura tra le due potenze finitime.
Il contrabbando del petrolio siriano da parte dell’Is, favorito se non organizzato dal governo turco, sarebbe la fonte di finanziamento maggiore del’estremismo sunnita in Cecenia. Che evidentemente si sta ricaricando.

Ombre - 299

Pd e 5 Stelle votano insieme in Parlamento i giudici costituzionali. Poi si dividono – sono divisi dagli sbirri: i Pd condannati per Mafia Capitale, i 5 Stelle incolpati in Campania per voto di camorra. Il più pulito ha la rogna. 

Un parlamentare su quattro ha cambiato partito – tre quarti dei mutanti più di una volta. Questa legislatura è movimentata: eletta col voto di metà degli aventi diritto, con tanti governi del presidente, e con un capo del governo non eletto. Ma non molto più “mutante” delle precedenti, delle legislature post-Mani Pulite. Che dunque ci hanno liberati dalla corruzione o l’hanno sistematizzata?

I partiti non sono nella Costituzione, ma politicamente bisogna rivalutarli, e nella storia: davano un indirizzo, e un minimo di disciplina. Insomma, meno corruzione, un po’.
I paesi che si governano meglio in Europa sono quelli dove la Seconda Repubblica all’italiana, del movimentismo, non ha attecchito.

Singolari silenzi in Germania sui raid nordafricani contro le donne tedesche la notte di Capodanno. Si sa solo oggi, dopo sette giorni, che ad Amburgo sono state presentate 70 denunce. Ma non di più – non se ne sa cioè.  

Sublime analisi di Paolo Valentino sul  “Corriere della sera” oggi, sulle aggressioni di massa alle donne di Colonia la notte di Capodanno. Da parte sì di “criminali violenti”, ma solo “a quanto pare, di aspetto mediorientale e nordafricano”.  Di aspetto? A quanto pare, cioè in realtà no?

Ci arrivano in ritardo i media su Colonia. Il giorno 2 non c’è nulla, il giorno 3 neppure, e neppure il giorno 4, non la mattina del 4 - le prime notizie si hanno durante la giornata. Confuse, cioè censurate.  Un giornalismo fuori dei fatti. Ma per virtù propria, non costretto da nessun potere, editoriale, politico o di polizia.
Oppure sì, la censura c’è: quella note è una sconfitta della Germania, politica e di sicurezza. Che non ama prenderle – ma questo si può capire.

Si sottace sempre l’incredibile gravità dei fatti di Colonia: un migliaio di immigrati ha invaso il centro coi botti, per aggredire, approfittando della confusione, derubare, e abusare almeno un centinaio di donne – tante sono le denunce, 120 e più Una sfida criminale, di bande organizzate. Ma anche uno sberleffo, violento, alle donne, e alla Germania, il paese dell’accoglienza.
Uno scontro culturale radicale – non un incidente, una follia, una ragazzata, un teppismo.

Silenzio in Germania, Della polizia, che ha raccolto le denunce a Colonia e Anburgo. Dei giudici, che avrebbero dovuto indagare. Del sindaco di Colonia, che è una donna, e pure di destra, insomma liberale. Silenzio, quasi, dell’informazione. Silenzio degli intellettuali, specie dei pedagoghi dell’inculturazione. Non c’è certo censura in Germania, ma l’autocensura è forte.

Lo sberleffo alle donne tedesche viene da parte delle stesse donne accolte. Dalle loro figlie, che si rifiutano di andare a scuola. A Colonia come a Düsseldorf, di cui ora si viene a sapere. Il “modello d’integrazione” è la legge, il resto è buona volontà.

È triste l’Europa in queste feste, lamentando la minaccia del terrorismo, che la riduce all’insicurezza. Ma che faceva la sicurezza a Colonia la notte della festa alle donne? Festa continua, per ore di terrore.
Dobbiamo rallegrarci dei palpeggiamenti, anche se intimi, meglio di un kamikaze?  

La festa è sempre stata oggetto di indagine, antropologica, mitologica, linguistica, come ogni rito o modo di essere. Ma quest’anno con dispetto: paginate a Natale e Capodanno come a dire “ma chi ce lo fa fare?” Anche il papa ammonisce a essere tristi.

È un mese che si sa, e finalmente per san Silvestro il “Corriere della sera” scopre ad Arezzo, nella banca Etruria, come a Bergamo e altrove, la “vecchia Dc” all’opera. E la nuova, a quando? Ancora uno sforzo.

Non nevica, non si fa il presepe per i noti motivi, e anche l’Is sbadiglia, così non si fa che parlare di polveri sottili, riscaldamento del pianeta, e veleni. I quali però sono la metà, in percentuale e in giornate no, rispetto al 2000, quando invece il giubileo fu festeggiato anche con i fuochi d’artificio. Il ricco si lamenta sempre. Torna con la Dc il piagnonismo?

Natale povero, come il giubileo, di luminarie, di parole, di propositi. Più che un papa dei poveri, questo Francesco è un papa della povertà dello spirito.

Via dal Nord

Checco scopre il vivere civile al circolo polare artico. Finché Al Bano che si riconcilia con Romina a Sanremo non lo libera dalla fascinazione vichinga. L’avventura non finisce qui, altre tracce legano le gag, ma questa s’impone: dovendo muoversi-per-mantenere-il-posto-fisso, il paradosso sui cui il film si svolge, Checco ritroverà se stesso in Calabria, attivo, produttivo, e perfino intelligente, e meglio ancora in Africa.
Un film scorretto. Non conformista, come i precedenti – i film comici italiani, che sono numerosissimi, si distinguono per essere corretti. Ma non volgare, a parte un paio di menate, come i precedenti: una sceneggiatura lo regge, e una serie di personaggi comprimari. Un film che non pone problemi, in realtà – è fatto apposta. Se non la domanda: perché tanto straordinario successo, 50 milioni in una settimana? Probabilmente per la voglia di liberazione dall’impronta boreale.
Si spiegherebbe pure l’insistenza su tweet e eiaculazioni antinordiche ultimamente dello storyteller Renzi - dei suoi consigliori per l’immagine.
Gennaro Nunziante, Quo vado?

mercoledì 6 gennaio 2016

Ritorno ai talebani

Parte infine il Quad, il quartetto Afghanistan-Pakistan-Cina-Usa cui è demandata la soluzione del conflitto civile in Afghanistan. Col Pakistan non inopinatamente parte in causa, mentre Usa e Cina sono i “patroni” dei duellanti: rappresenta i talebani, che sono divisi.
La via d’uscita, a cui il Pakistan sarebbe disposto ad accedere, è un governo di coalizione. Tra il presidente in carica, Ahraf Ghani, e quella parte dei talebani disposta a presentarsi come partito politico, piuttosto che come jihad  o califfato, o regime islamico.
Ghani ha intensificato i contatti con Islamabad. Nella capitale pakistana ha copresieduto un mese fa, insieme col primo ministro pakistano Nawaz Sherif, il cosiddetto Heart of Asia Process, il gruppo centro-asiatico di aiuto all’Afghanistan. E due giorni dopo Natale ha ricevuto a Kabul il comandante in capo delle forze armate pakistane, Rahel Sherif. Ma il Pakistan non ha in realtà preso nessun impegno – non ad abbandonare il sostegno militare e logistico ai talebani.
Il 10 dicembre, al ritorno di Ghani da Islamabad, un attacco talebano alla base aerea di Kandahar fece più di cinquanta morti. Il capo dei servizi segreti di Ghani, Rahmatullah Nabil, si dimise, per “disaccordi su alcune questioni di principio” col presidente. Ma dopo aver postato su facebook un commento ironico sull’assicurazione di Sherif, “i nemici dell’Afghanistan sono i nemici del Pakistan”: intanto i talebani, operando impuniti dal Pakistan, spargono “ettolitri di sangue dei nostri compatrioti”.
Lo stesso Ghani non si sarebbe impegnato per un ritorno al potere dei talebani, nei coloqui col generale Rahel Sherif. Al quale anzi avrebbe posto tre condizioni. Che i talebani partecipino, appunto, come partito e non come emirato. Che accettino la costituzione afghana, le istituzioni elette e rappresentative, di una repubblica islamica ma democratica e pluralistica. E, soprattutto e subito, entro marzo, che il Pakistan impedisca ai talebani di lanciare l’attesa offensiva di primavera, al disgelo, dalle loro basi in Pakistan.

Recessione – 45

Nei primi nove mesi del 2015 i posti di lavoro precari sono aumentati di 230 mila unità, a due milioni 596 mila. Il 14,6 per cento della forza lavoro occupata.

Solo a Roma nel 2015 sono scomparsi tremila locali, mentre seimila locali da negozio sono sfitti. Negli ultimi cinque anni a Roma, tra aperture e chiusure di negozi, bar e ristoranti, il saldo è negativo per ottomila esercizi.

L’Italia ha il tasso di crescita dell’economia più basso d’Europa. Ed è il paese europeo che meno ha recuperato sulla crisi, rispetto ai livelli di reddito e produzione del 2007.

La produzione industriale, che in Francia e in Gran Bretagna è ritornata nel 2015 al livello pre-crisi, e in Germania lo ha superato di otto punti percentuali, in Italia è ancora al di sotto di altrettanto, otto punti.

L’occupazione giovanile (15-24 anni) è in Italia un terzo di quella britannica e tedesca, e la metà di quella francese.

La terra promessa come avrebbe potuto essere

“Gli ebrei non parlano quasi mai di Giuda. Da nessuna parte. Neanche una parola”. Parlano invece molto di Gesù, con sufficienza, e lo denigrano, blasfemi. Amos Oz rimette Giuda nel quadro di Gesù – che non sarà mai il Cristo, in tutto il romanzo – come è giusto, e ne fa il salvatore: quello che realizza il progetto divino. Il vero Gesù.
Gesù era nu bravo guaglione un poco farfallone, Giuda lo abbindolò, “grazie alla sua lucida intelligenza”, e si fece assumere tra i suoi discepoli per conto dei sacerdoti di Gerusalemme. “Era un nobile di Giudea, è il fondatore della fede cristiana”. Essendo stato “l’ideatore, l’organizzatore, il regista e il produttore del dramma della crocifissione”, la sacra rappresentazione che convinse il debole Gesù di essere veramente il figlio di Dio. Il tradimento di Giuda avviene nel momento della morte in croce di Gesù. Il momento in cui Giuda perde la fede” – di essere stato abbindolato?
Giuda c’entra, per fortuna, di straforo – questa parte del romanzo deve molto a De Quincey, “Giuda Iscariota”, o alle fonti di De Quincey. È una storia che si svolge tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960, tra uno studente in crisi esistenziale, non riuscendo a completare la sua tesi di dottorato, “Gesù in una prospettiva ebraica”. che si trova un’occupazione come assistente di un anziano intellettuale invalido, e la sua coabitante bella e misteriosa, anch’essa giovane. Che ne sarà madre e amante. Una casa dove lo studente in crisi, nei confronti della famiglia, degli studi, di Israele, si farà i “genitori” diversi di cui fantasticava.
Un romanzo di formazione. Allegoricamente, di Israele come comunità: perché l’ebraismo evita l’ebreo Gesù, se non per dileggiarlo? Nella forma parallela di un innamoramento, di una donna “irraggiungibile”, vedova di Israele.  E di Israele come Stato: si poteva evitare, evitare l’odio? Un sionismo orientale Oz prospetta in Shaltiel Abravanel, che vuole gli ebrei in Palestina in una società comune, non in uno Stato, contro il sionismo europeo, impersonato dal cinico vecchio Wald, che la figlia di Abrabanel, Atalia, è costretta ad accudire. Il sionismo di Ben Gurion, il fondatore dello Stato separato di Israele, e un sionismo “fusionista” di cui non ci sono tracce storiche, se non vaghe, di personaggi minori e isolati. Un saggio della prima generazione di israeliani – siamo nella Gerusalemme divisa una dozzina d’anni dopo l’indipendenza. Degli ebrei che già vi si risiedevano. Che non amano la selezione naturale di Darwin. E caratteristicamente incensano e dannano Ben Gurion.
Oz non prende posizione, di ogni tesi dà anche l’antitesi. Nella materia che si dice del dialogo delle religioni: “Come sarebbe stato il mondo, come sarebbero gli ebrei, se non avessero respinto Gesù”, è il rovello del suo dottorando. Ondivago: “Gesù non era affatto un cristiano. È nato ebreo e da ebreo è morto. Non ha mai pensato di fondare una nuova religione”. Strano anche “che questi ebrei si accaniscono con le storie soprannaturali che costellano il concepimento e la nascita di Gesù, la sua vita e la sua morte, ed evitano accuratamente di affrontare la sostanza spirituale e morale della sua novella”. E non menionano mai Giuda.
Più diretto è sulla storia. Ricorda chi maledice Abramo per il sacrificio dei figli, e chi invece lo benedice, se la causa è giusta. Chi dice Ben Gurion un incapace e un traditore e chi invece lo esalta. Ma in un approccio critico. Il sionismo è un movimento laico, però usa energie mistiche, fideistiche”, dice qualcuno. E qualcun altro aggiunge di peggio, giocando sull’anticipazione dell’oggi: “Un giorno queste energie diventeranno padrone”..
La donna di cui il giovane s’innamora è la figlia di un intellettuale sionista che non credeva a Israele. Ebreo palestinese di terza generazione, con più quarti dunque di ogni altro sionista, non antagonizzava gli arabi e non credeva in Israele: “Stiamo per fondare uno starerello che sarà condannato a un eterno ciclo di violenza e di odio”, sosteneva. Accusato per questo di tradimento, e isolato. Gli Stati nazionali hanno fatto il loro tempo, sosteneva, ma restando solo al punto che non riuscì a parlare neppure più con se stesso.
Giuda c’entra come provocazione, poiché è ancora tabù nel mondo ebraico. Ma lieve. E più come una citazione, divertita e non, di Scholem Asch, scrittore yiddisch, polacco emigrato negli Usa – Shemuel Asch si chiama lo studente in crisi. Asch nel 1939, nel romanzo “Il Nazareno”, ne fece l’agente del Cristo: Giuda tradisce perché Cristo ne ha bisogno per completare il suo disegno – un capovolgimento opera dei vangeli gnostici, che sarà poi ripreso da Borges e Caillois, via De Quincey, che l’ha proposto un secolo e mezzo fa. Giuda testimonial della divinità di Gesù è anche di un autore ebraico qui citato, Nathan Agmon “Bistritsky”, capo ufficio stampa del Fondo Ebraico Nazionale a Gerusalemme. In effetti Giuda è personaggio interamente cristiano: tradisce un individuo, uno cioè che ha una coscienza.
Asch è la chiave di Oz per nobilitare il tradimento. Per la sua trilogia sul cristianesimo – dopo “Il Nazareno” scrisse “L’Apostolo”, su san Paolo, e un terzo libro – fu anatemizzato dalla comunità ebraica americana. Ma non se ne preoccupò, e si trasferì in Israele dove trascorse gli ultimi anni. In altri contesti, Oz ha rivendicato il “tradimento” a suo proprio merito: “Più volte mi hanno accusato di essere un traditore. Per me è un titolo di merito”. Insieme, aggiunge, con Geremia, o Gesù per gli ebrei, di cui invece il suo giovane protagonista è innamorato, e Lincoln, o De Gaulle. Ben Gurion, il fondatore di Israele, è un traditore per molta destra di oggi, avrebbe rinunciato a metà della terra promessa. E Rabin, l’ultimo eroe di Israele: “Traditore è stato Rabin. E l’hanno ammazzato”. Ma è discutibile chi tradisce in questi casi.
Un racconto anche della nostalgia, di una città che Oz immagina avrebbe potuto diventare luogo di pace, dieci anni dopo la fine della guerra per la nascita di Israele. Su fondo di suoni armonici. Un’armonica lontana. Un’ocarina divagante, al tramonto, dietro le imposte chiuse. E di lunghe camminate, di giorno e di notte, per stradine incorrotte, seppure povere. È inverno, e le sere sono fredde, ma il fascino purtroppo tradito della vecchia Gerusalemme riemerge come una lama acuta.
Amos Oz, Giuda, Feltrinelli, pp. 336 € 18


martedì 5 gennaio 2016

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (270)

Giuseppe Leuzzi

Bulwer-Lytton, scrittore prolifico di romanzi storici, coevo e concorrente di Walter Scott, oggi dimenticato, forse perché autore di “era una notte buia e tempestosa”, i suoi eroi faceva cavalieri affascinanti di Napoli o di Palermo, mentre i banditi e i demoni relegava alle foreste del Nord. Giustamente.

Nobile ipocrisia di Milano, che paga 400 euro al mese se si ospita un immigrato, cosa infattibile. Non si fa male a occupare la scena così – oppure sì? Milano è ben la capitale delle relazioni pubbliche.

“Berremo alla salute delle nostre donne nel crani dei loro amanti”, promette il brigante idealizzato da Berlioz nell’opera “Lélio”. Però, non c’era ancora la donna del Sud, grifagna e vestita di nero.

C'è la Spagna in Italia, e cioè al Sud: dal 1551 al 1700 si contano circa 1.200 traduzioni dallo spagnolo - contro 120 edizioni o poco più dall'italiano in spagnolo (Stefano Lanuzza, “Storia della lingua italiana”, p. 47).

Il frammento è in Roland Barthes molto e poco - “Barthes di Roland Barthes”, pp. 113-116: “Il frammento è come l’idea musicale di un ciclo, ogni pezzo si basta, e tuttavia non è mai altro che l’interstizio dei suoi vicini”.
A volte è l’unica espressione consentita.

Che cosa resta? Tutto quello che si è vissuto, sia pure inconsapevolmente. Che ci ha vissuto. E più lo zoccolo duro, come usava dire, delle radici.
La cosa si vede meglio in Algeria, paese diviso dall’indipendenza, con grandi numeri di emigrati forzati anche arabi. Il mondo di Camus, pensatore francese, era in Algeria, non soltanto il cuore: il linguaggio, sotto la lingua, la morale, la psicologia. O la Libia per gli “italiani di Libia”, Toti Scialoja, Valentino Parlato. La Germania per i tanti ebrei tedeschi sopravissuti all’Olocausto, che dopo hanno continuato a poetare, filosofare, rimemorare. Il luogo della nascita, l’infanzia, la prima giovinezza, le radici.

La disputa del Sud
Il Sud andrebbe rifatto come Antonello Gerbi, “La disputa del Nuovo Mondo”: immagini, idee, giudizi e pregiudizi sul “Sud”. È una metodologia realista: spiegare dall’esterno le realtà che sono fatte dall’esterno. Su un presupposto critico: dire (o rappresentare) silenziata, “occupata”, la realtà muta.

Breve storia dell’Italia Unita
Tutto si fermò con la discesa di Garibaldi. Fu fermato. Per rinnovarlo. Come farà poi Kohl con la Germania Est. Ma il rinnovamento non ci fu, i nuovi padroni erano come i vecchi e più spregiudicati.

Collaboratori di giustizia
“La polizia segreta”, un testo già famoso e poi dimenticato di Dickens, da lui pubblicato nella sua rivista “Household Words” nel 1850 (ora nella raccolta di “racconti polizieschi” “Guardie e ladri”), è un saggio sdegnato sulle polizie politiche. Ignote in Inghilterra e praticate nel continente. Specie a Napoli, di cui Dickens fa un test case - all’origine della poi famosa e decisiva indignazione di Gladstone. Basato sula propria esperienza di viaggiatore, nella capitale borbonica tra il 1844 e il 1845, di cui aveva già detto molto male nelle note di viaggio.
Il fenomeno che più lo rivolta sono i “collaboratori di giustizia”, come li chiama, le spie. Allora non pentiti, non necessariamente, ma ugualmente al soldo della polizia politica: “La loro moltitudine, ubiquità e instancabile perseveranza, le loro acute punture, li rendono peggiori di tutti gli sciami di insetti messi assieme e infinitamente più pericolosi. Si può schiacciare una vespa, affumicare una zanzara, spazzar via una formica e godere di una qualche requie… Ma il poliziotto segreto è invisibile e sempre in ascolto”. Senza i moderni sistemi di intercettazione, ma già allora onnipresenti: “Magari vi state rilassando con qualche sincero e spensierato diletto , oppure vi state abbandonando ai dolci e deliziosi sogni dell’amicizia, al mercato per strada, in salotto, al caffè, in chiesa, ed eccoli lì”, a prendere nota e accusarvi di tutto, quando sanno chi devono accusare e che cosa addebitarli - e il contrario di tutto, quando gli viene richiesto.
Una requisitoria lunga. Dickens salva, nelle note critiche sul reame borbonico, alcuni magistrati che osano sbugiardare i collaboratori di giustizia. Ma nell’insieme giudica questi proto-pentiti onnipotenti e ne è scandalizzato, rilevando che vengono dalla feccia della società. Anche se talvolta di ceto elevato. “Queste spie non vengono mandate avanti a caso, come mietitori in un campo di frumento, a raccogliere tutto ciò che possono, ma vengono scelte con attenzione e assegnate alla posizione per la quale  il loro talento e ruolo meglio si confanno. Accade quindi che ogni grado della società abbia le proprie adatte e specifiche spie. Alcune sono incaricate di vigilare le classi più elevate, altre la canaglia, altri ancora il clero: tutti sorvegliano tutti”.
Mancanza di verità
Il fenomeno è italiano, osserva Dickens, con effetti sul carattere nazionale, dedito al pettegolezzo e alla calunnia, ma al Sud è più deleterio. “L’effetto del sistema delle spie sul carattere nazionale è oltremodo demoralizzante. Non c’è paese dell’Europa dove coesistano come nel Sud dell’Italia con maggior forza i bassi vizi nascosti assieme a quelli di un aperto, più chiaro e più feroce, temperamento. Il sistema della polizia segreta ne è una delle molte cause… La gente ha seguito l’esempio che le è stato dato e tutti sono diventati spie, spie delle azioni, delle parole e dei pensieri altrui… È più ridicolo e noioso di quanto si possa immaginare attraversare le scene di vita italiane e ascoltare il pettegolezzo quotidiano”.
Questa la conclusione del saggio: “Di fatto, l’effetto del sistema di polizia delle spie (unito ad altre cause) è stato di trasformare il Paese in un’intera nazione di spie una addosso all’altra. Mentre il rispetto e il bisogno di fiducia prevalgono universalmente, in Italia vi è una mancanza di verità”.

L’accumulazione mafiosa originaria
Lo storico Augusto Placanica ha fatto nel 1979, “Alle origini dell’egemonia borghese in Calabria. La privatizzatone delle terre ecclesiastiche (1784-1815)”, Società Editoriale Meridionale, la ricostruzione puntuale della formazione della borghesia calabrese attraverso la cessione della Cassa Sacra. Per Cassa Sacra s’intendono i beni ecclesiastici nazionalizzati dopo il terremoto disastroso del 1783, per finanziare la ricostruzione.
La formazione della borghesia attraverso l’alienazione della manomorta ecclesiastica è fenomeno italiano – sarà ripetuta un secolo dopo su scala nazionale. Una alienazione effettuata a prezzi di favore o a nessun prezzo, e quindi all’origine della corruzione che ha invaso la vita pubblica. Ma Placanica è il solo storico che se ne occupa, anche se può darne, come sintetizzerà nella sua “Storia della Calabria”, “puntuale elenco di tutti i borghesi e nobili calabresi entrati in possesso di beni ecclesiastici tra Settecento e Ottocento, con indicazione di nome, estensione, qualità ed enti ex propri atri dei circa seimila fondi”. Le carte insomma ci sono.
Una mutazione analoga, per un migliaio di fondi, si è avuta negli anni 1950-1960 in Sicilia occidentale e nella Calabria meridionale a beneficio della nuova “mafia imprenditoriale”, in regime politico avverso alla proprietà (non mafiosa). È l’inizio del predominio mafioso in quelle zone, che nessuna antimafia ha finora scosso.
Si mette ora in prima fila il sindacato nell’impegno di piazza contro la mafia. Mentre trenta, quaranta, cinquant’anni fa lo stesso sindacato ha assistito inerte all’occupazione mafiosa delle terre: un datore di lavoro valeva l’altro. Qualcosa è cambiato? Le parole d’ordine sicuramente, che vengono sempre da fuori.
Possiamo anche sperare in una guerra di mafia. Ma il processo di creazione dei mafiosi ha un che di naturale, è la malerba là dove non si usano diserbanti efficaci. Viene fuori a getto continuo. Dove c’è stato un assestamento la mafia recede, scade alla criminalità dei furti e delle grassazioni. Dove il terreno sociale – magma – è franoso la mafia è endemica.
Nella Sicilia occidentale ciò avviene perché in realtà il feudo non ha ceduto alla borghesia - Verga e Pirandello scrivono non dell’avvento di una borghesia ma dello squagliamento di una ipotetica. Da una parte c’è un’aristocrazia residuata, talmente dissipata nel suo snobismo che da decenni faceva il verso in anticipo ai decadenti di monsieur Proust. Dall’altra una borghesia di gabella e manomorta. Non operosa, cioè, inventiva, ma malata di rendita, subalterna o collusa. 

leuzzi@antiit.eu 

All’origine di Joyce

Novanta pagine di una notte di turbamenti di un giovane idealista innamorato di una attricetta  avida, che lo sfrutta. Elevate da Joyce ad archetipo del suo “monologo interiore”, la tecnica di alcuni capitoli dell’“Ulisse” – e a questo titolo ripescato da Italo Calvino per la sua collana Centopagine.
Il titolo Dujardin, “il manager del simbolismo”, editore e giornalista, allievo e amico di Mallarmé,  ha derivato da una canzone in voga all’epoca, 1888, “Nous n’irons plus au bois, les lauriers sont coupés”. Ma l’uso di pensieri ritornanti deriva dal leitmotiv wagneriano, da wagneriano fanatico – nella cui produzione questo racconto è anomalo, scriveva anche lui trilogie di preferenza, sebbene in prosa. È il trionfo, anche, del punto e virgola.
Édouard Dujardin, Lauri senza fronde

lunedì 4 gennaio 2016

L’opinione è di Angela Merkel

“Accogliere e integrare” non è rivoluzionario, e non è nemeno difficile. La divisa che si cuce addosso alla cancelliera Angela Merkel nei bilanci di fine anno manca peraltro della componente più importante: il ruolo leader che la cancelliera si assunto in Germania sull’opinione pubblica. C’è ammirazione ma anche dispetto alla Farnesina sulle “passeggiate” che la cancelliera tedesca si consente impune sulle spianate europee.
La Germania ha la più lunga e vasta esperienza di accoglienza e inegrazione. Nel dopoguerra ha cominciato con i latini negli anni 1950, italiani e spagnoli, poi con i turchi, con gli slavi, e ora con gli arabi. Non è dl resto difficile, altri paesi europei hanno saputo e sanno accogliere e integrare: la Gran Bretagna e la Francia, e anche l’Italia. Il messaggio della cancelliera un mese ha avuto il merito di disinnescare chi pescava nello sciovinismo. Con buoni risultati, con le feste in piazza in Baviera e nelle altre aree a più densa immigrazione. Lodevole, ma nulla di più.
Se non che questa confermata leadership dell’opinione getta una luce sinistra sulla gestione “antilatina”, cioè antitaliana, dell’opinione pubblica nella crisi delle banche e poi del debito. Con una Germania che arruffava tutto, scusandosi col dire che gli italiani le rubavano in tasca. Una deriva che la cancelliera, nonché non contrastarla, mai, in nessuna occasione, ha favorito in ogni modo, con insinuazioni sue proprie, con Sarkozy e da sola, e attacchi quasi quotidiani del suo uomo in Bundesbank. Che sono costati all’Italia alcune centinaia di miliardi in interessi sul debito. E una crisi di fiducia, esterna e interna, che ancora non si è dissolta. È facendo leva su questo falso odio, comparato, che la Germania ha invece cavalcato nella crisi una fase di sicurezza che ancora non si è esaurita.

Renzi col cappello in mano

Fa male Renzi a andare in visita in Germania, come ha annunciato e auspica? Bene non fa. Non ha nulla da farsi perdonare, e molto anzi da pretendere. Ma proprio per questo non avrebbe dovuto chiedere – o prestarsi a – un bilaterale a Berlino. Il ministero degli Esteri non conta molto nel governo di Renzi, ma la politica europea del presidente del consiglio è seguita con apprensione crescente: troppo dilettantismo per i professionisti della diplomazia.
C’è da restituire la visita che Angela Merkel ha fatto in Italia, a Firenze, un anno fa. Ma la diplomazia sa come cavarsi senza danno da queste questioni di etichetta. E può anche darsi, per vari segnali, che la cancelliera ritenga venuto “il momento dell’Italia”, come ha fatto con altri paesi che aveva antagonizzato e ritiene subalterni - la Grecia per comprarsi a saldo gli aeroporti ellenici, e la Turchia per non sappiamo ancora che business. Ma se così è a maggior ragione Renzi doveva aspettare. Magari creare un’occasione di business, che venisse lei a Roma, portatrice o ordinatrice, a suo modo, di doni dopo il diluvio.

La distruzione del piccolo commercio

Le lenzuolate di Bersani nove anni fa di questi giorni, il grande liberalizzatore di sinistra, non hanno portato alcun beneficio ai consumatori, né di prezzo né di servizio, e hanno distrutto il piccolo commercio. Effetto anche della crisi, ma si chiudono centinaia di esercizi commerciali ogni giorno. Solo a Roma nel 2015 sono scomparsi tremila locali, mentre seimila locali da negozio sono sfitti. Negli ultimi cinque anni a Roma tra aperture e chiusure di negozi, bar e ristoranti a Roma il saldo è negativo per ottomila esercizi.
A beneficio di chi? Solo della grande distribuzione. Che ora apre qua e la i suoi minishop: senza servizio, più cari, con prodotti non freschi e standardizzati. E tutto gratis – uno si augurerebbe che Bersani fosse corrotto: più in generale, l’adesione cieca degli ex Pci a tute le proposte di affaristi in nome del mercato sta condannando l’Italia

Letture - 241

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Ariosto  - L’“Orlando” è “Star Wars”, quasi alla lettera, eccetto i nomi. Meccanismi (marchingegni, voli interplanetari, animalismo), personaggi fuori misura, follie, fantasie, imprese e sconfitte, tutto Ariosto ha anticipato. Anche le eroine donne, quali ora la serie si avvia a promuovere.

Comico – “Il riso è satanico, e dunque profondamente umano”: è il nocciolo del lungo saggio di  Baudelaire critico d’arte sulla caricatura, “De l’essence du rire, et généralement du Comique dans les Arts Plastiques”, 1855 (rifatto nel 1857).  Satanico in quanto promana dall’“idea della propria superiorità”. Umano in quanto è “insieme segno di una grandezza infinita e di una miseria infinita”, rispetto agli animali e rispetto all’Assoluto.

Baudelaire assegnava il riso al Novecento, alla letteratura del ventesimo secolo. Dove però non se ne trova quasi traccia. Eccetto che in Kafka naturalmente, e in Brecht, a denti stretti. E in Céline, ma allora dichiaratmente satanico. Solo in Italia è profuso, in moltissimi autori e in forme elaborate: Pirandello, Svevo, Gadda, Calvino, Palazzeschi, Primo Levi, Arbasino, Savinio, Parise, Flaiano, Brancati, Soldati, Delfini, Campanile, Zavattini, Bontempelli, Marinetti, Malerba, Sciascia, Cavazzoni. Anche Landolfi, Manganelli, Celati. Lo stesso Fenoglio. Montale pure, in molte prose, e anche poesie, Noventa. E Dario Fo, Eduardo De Filippo. Per un bisogno di rottura, di uscita da un conformismo spento?

Il comico (satirico, giocoso, osceno) ha un Italia una tradizione, ben solida, fin dagli inizi, da Cielo d’Alcamo. Con innumerevole seguito: Angiolieri, Boccaccio, Bandello, e innumerevoli altri novellieri, Berni, Aretino, Grazzini, Folengo, Basile, Belli, Porta, Dossi, perfino Manzoni. E l’opera, buffa e seria. Non casi isolati, una “Madre Coraggio” o una “Nave dei folli”, o un genio sparso, ma proprio una tradizione, con continuità.    

Dante – Fu condannato a morte tre volte.

Estrovertito, anche molto, nella vita e nell’opera, nella “Commedia” sarebbe ombroso e anzi misterioso. Contini lo vedeva ammirandolo così, per l’assenza-presenza di Cavalcanti nel poema, ma non solo: uno “i cui silenzî, le cui reticenze, le cui oscurità e ambiguità sono ferree quanto tutto il resto”. Per eccesso o per difetto? Per voler dire la verità di troppo, o per voler celare una o due cose magari essenziali?
La verità è che è troppo chiaro su troppe cose.  Il giallo Dante non funziona, le sue tante reincarnazioni misteriose non fanno presa.

È il creatore dell’Italia per più di un aspetto. Per la lingua certamente, imposta d’impeto – san Francesco poeta prima, ma con una lingua stenta, nodosa. E della società civile, al tempo in cui i Comuni cedevano alle signorie: del bene e del male, della politica a portata di mano e quasi democratica, dell’indignazione tanto contemporanea – come della misericordia del papa argentino (“Purgatorio”). Della lingua non si può calcolare l’importanza, poiché l’italiano ha modellato nella forma, nelle metriche, anche nelle parole – i suoi neologismi saranno un migliaio. “La inventò a tavolino”, si può dire con Enrico Malato. Ben in anticipo e in diverso modo che le altre lingue “nazionali” in Europa: in Francia, Inghilterra, Spagna la lingua s’impone attraverso le armi, è la lingua della fazione vincitrice, e matura due-tre secolo doo l’italiano.

È attuale ma all’opposizione. È per questo che i 750 anni della nascita, una ricorrenza pure molto importante, si chiude senza alcun contributo. Nemmeno, anzi, una celebrazione.

Fascismo – Si vuole monumentale nelle ricostruzioni postbelliche, specie a sinistra, come avrebbe voluto essere e si pretendeva. Pasolini da ultimo, che l’ha fatto scultoreo, e Bernardo Bertolucci, con donne apache in stivali maschili, mentre era popolato di falsi invalidi.

Giallo – In nessuna forma è domanda di giustizia: è lo spettacolo del delitto, che così si remotizza, si dissolve. Non nella forma classica inglese, da W.Collins a Conan Doyle e Agatha Crhste, dell’enigma da chiarire – lo schema ripreso da Vazquez Montalbàn e Camilleri: tra i buoni e i cattivi e i così-così, ma senza macabro né horror. Non nel noir americano, che ora domina in Italia, di Ammanniti o Carrisi – che giustamente sintetizza così la questione: “La giustizia non fa ascolti. La giustizia non interessa a nessuno. La gente vuole un mostro, e io glielo do”. Non nelle forme più “umane” e “sociali”, di personaggi e ambientazioni dal vero, Simenon, Graham Greene, Margaret Millar.

Giuda – Ritorna con Amos Oz e Zagrebelsky quale nuovo paradigma del bene, più umano. E come quello che tradisce a fin di bene. Già quello di Caillois, in “Ponzio Pilato”, il racconto del 1962, si dichiara “strumento della divina Provvidenza, per realizzare il disegno del Padre. Col mio misfatto, tutto sarà compiuto”. A Ponzio Pilato assicura: “Sono come te, Procuratore, ministro del Divino Sacrificio… Non sono una spia, non sono un traditore. Sono, come te, l’esecutore della Volontà divina”. E anche: “I nostri due nomi, associati per l’eternità, il Vile e il Traditore”, sono “in realtà il Coraggioso e il Leale per eccellenza”. È il Giuda dei vangeli gnostici. Già ripreso da Borges, “Tre versioni di Giuda”, 1944, ora in “Finzioni”.

Guerra – Se ne scrive molto, in poesia e in prosa, ma dopo. L’unica opera coeva alla guerra, le “Considerazioni di un impolitico” di Thomas Mann, sono un obbrobrio, di odio e pregiudizio, una forma della propaganda di guerra. Durante la guerra, invece, si scrivono leggiadrie, di ogni genere, fantastiche, storiche, romantiche. È il caso di Borges e altri sudamericani. Ma anche di scrittori di nazioni in guerra, soprattutto francesi, nella Francia occupata: Sartre, Colette, Montherlant, Aragon, Mauriac, Céline – non Gide, né nella prima né nella seconda guerra. Steinbeck, Faulkner, non Hemingway. Brecht e non Thomas Mann. Un censimento della produzione letteraria degli anni di guerra, 1914-1918, 1939-1945, darebbe sicuramente sorprese.

Identità nazionali – C’è chi si forma su Dante e Petrarca – anche su Boccaccio, E chi su Faust e Guglielmo Tell. Le letture fanno molto in tal senso – è un tema vecchio ma trascurato dalle moderne ricostruzioni dei “caratteri originari” o delle identità. Letture che sono peraltro determinate dallo Stato, dai programmi scolastici. C’è chi ride e riflette insieme, con Shakespeare. E chi si disincanta presto, con Don Chisciotte. Per non dire dei russi, tra Gogol’ e Tolstòj, con un tocco di Dostoevskij. E la Francia tra Racine e Molière, il sublime e il critico.

Lorem ipsum Il testo “segnaposto” che si usa in grafica e in tipografia, per esempio per riempire i numeri zero dei giornali, per provane la fungibilità grafica, è in lingua latina montata a caso, con effetto maccheronico, da un testo di Cicerone, “De finibus bonorum et malorum”, 45 a.C., §§ 32-33, con inserti ironici. È utilizzato perché offre una distribuzione delle lettere uniforme, a identici intervalli. Risale all’anno 1500, quando un tipografo ignoto lo compose per far risaltare la bontà dei caratteri che aveva fusi.

Partito politico –“Ogni creatore di partito si trova necessariamente in cattiva compagnia”, è pensiero di Baudelaire prima di Grillo, che non riusciva a impegnarsi in politica (in un progetto d’articolo intitolato “Poiché c’è il realismo…”, 1855). La convinzione Baudelaire dirà, in “Il mio cuore messo a nudo”, 1864, criminale: “I briganti soli sono convinti – di che? – che devono riuscire. E così, riescono”. Concedendo tuttavia: “Si possono fondare imperi gloriosi sul crimine, e nobili religioni sull’impostura”.

Pasolini - – La sua metafora del Palazzo è di Guicciardini. Nei “Ricordi”: “E spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi go-verna o della ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India”. Non vi stupite, scrive Guicciardini, se si sa poco di epoche o posti remoti, giacché “non s’ha vera notizia” delle presenti nella nostra città. Anche questo potrebbe essere detto oggi.
Il “palazzo” il Castiglione pone a Urbino. Ma Palazzeschi l’ha scovato a Venezia, quando il Doge cessò d’affacciarsi al balcone, creando“un caso di originalità sbalorditiva” e “un risultato scientifico di prim’ordine”, il vuoto realizzando una corrispondenza senza precedenti tra il governante e i sudditi.
“Uomo del Guicciardini” dice De Sanctis quello che non ha fede.

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