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sabato 29 novembre 2014

Letture - 194

letterautore

Amplesso – “Caro amico amplesso” è aria femminile di “Poro re delle Indie”, opera di Metastasio e Händel. Il duetto è un po’ spinto, specie per la morigerata corte asburgica -  Cleofide: “Caro amico amplesso!\ al mio seno”, Poro: “Dolce amico amplesso! al core oppresso”, Cleofide e Poro: “Già dai vita e fai goder”. Ma anche fiducioso, non c’era ancora il rifiuto del corpo, nemmeno in sacrestia.

Attribuzioni – Una didascalia, alla mostra romana di Memling, riesce a mettere insieme in otto righe quattro condizionali, forse cinque. La firma “probabilmente copiata dalla perduta cornice” (quindi probabilmente falsa?). Il dittico “probabilmente commissionato da Bernardo Bembo”. Ambasciatore di Venezia che è “il probabile soggetto” del “Ritratto d’uomo con moneta”. Per cui i due dipinti sono “verosimilmente di questo torno d’anni”. Ciononostante l’attribuzionismo fa testo e fa mercato. Incontestato: il gusto è un metro di giudizio e di verità.

Battito d’ali --- L’uomo einsteiniano, il cui mondo muta per un battito di ciglia, era già di Leonardo, dei manoscritti Arundel al British Museum: “Il peso d’un uccelletto che vi si posa basta a smuovere la terra”.
Heisenberg ha dimostrato che solo guardare un atomo ne disturba l’assetto – Heisenberg che uomo e mondo rimette insieme, fatti e fenomeni, storia e natura, in reciproca interazione, l’unità ristabilendo dell’universo, contro quei nipotini di Copernico che pensavano d’impossessarsene frantumandolo. McLuhan ha lavorato a lungo per dimostrare che l’alfabetizzazione incide sulla fisiologia così come sulla vita psichica. Ma non sono nozioni di senso comune, l’unità dell’universo, vita psichica inclusa?

Critica - Vincenzo Padula è uno scrittore risorgimentale, poeta, drammaturgo, attivo negli anni1840-1870, tra Napoli e la Calabria, già riscoperto da Croce, che Carlo Muscetta ha riproposto sessant’anni fa con una fortunata antologia, “Persone in Calabria”. Con un lungo saggio introduttivo che prende 235 pagine delle 591 totali. Intitolato “La sfortuna di Padula”, si pensa antifrasticamente. E invece no, non c’è riduttivismo che il curatore risparmi al suo autore: impolitico, incapace, impoetico, incostante, “irriducibile spirito provinciale”, etc. . Molti autori opinano a dire la critica inutile. E dannosa no?
Muscetta, oltre che il personaggio collerico di tanta aneddotica, era – allora – esegeta impegnato a “pesare” il suo autore. Nel quadro di una storia della letteratura allora intesa come ascesa al Parnaso, graduatoria di eccellenze. 

Dante – “Il più grande costruttore di cattedrali” lo dice Corrado Alvaro (“Itinerario italiano”), “il segno del potere degli italiani”.-

Kafka – Si sa dalla vita di Elizabeth Anscombe - ma c’è anche nella biografia di Monk - che, avendo letto alcune opere di Kafka regalategli dalla stessa Anscombe, che ne era ghiotta, Wittgenstein commentò: “Quest’uomo si crea un sacco di problemi non scrivendo del suo problema”. In realtà ne scrisse, al padre, alle fidanzate, a un paio di amici, ma è vero che creò problemi più che crearsene, con diletto di molti.

Scrivere – Si comincia dalla fine? O dall’inizio?
È nella fine? È nel suo farsi? I gialli che dominano le classifiche si costruiscono su un finale, al quale corrono – Camilleri lo spiega anche. Ciò obbliga però a una lettura rapida e a un consumo veloce, onnivoro e insaziabile, una benevola addiction - al bisogno sempre di nuovi gialli. Orazio nell’“Arte poetica”, o “Lettera ai Pisoni”, dice il contrario, e ha più senso anche pratico: si scrive dall’inizio. Lo dice pure nelle epistole a Mecenate, con piglio più diretto: non comincio finché non mi sento obbligato a farlo, finché l’impulso non diventa un proposito concreto, allora comincio dandomi un finale, che però quando ho finito non è mai quello.
Scrivere è una fare che è un farsi: può modificare presupposti e soluzioni. Ogni passo è una scelta, che modifica il percorso.  

Traduzione – “Da Boezio ai nostri giorni”, avverte il curatore della nuova traduzione di Aristotele nella Pléiade, Richard Bodéüs, “ogni traduzione di Aristotele è occasione di una nuova interpretazione e una possibilità di riscoperta”. Una nuova filosofia.

Wagner La sua rivoluzione nel 1848 sembrò eccessiva perfino a Bakunin, “dea sublime” del walhalla, che “scende fremente sulle ali delle tempeste”, tra terremoti, uragani, spade fiammeggianti, fiaccole, raggi di sole, fiori profumati, cori di giubilo. E perché non ascenderebbe, invece di scendere?
Wagner e Marx furono compagni di rivoluzione nel ‘48. Poi, alle brutte, Wagner passò in carrozza sotto la protezione del re di Sassonia.

Wilde – Fu proletario, all’ultimo. Nella vita, rotto dal carcere, e nella scrittura, la “Ballata del carcere di Reading”. “Ogni uomo uccide ciò che ama”, il verso famoso della ballata, non è bello, la “cosa” suona stonata. Ma è vero, la ballata essendo un’evocazione della forca imposta a un giovane compagno di prigione che aveva ucciso la moglie. Il compagno di sventura Wilde elesse a suo alter ego, dell’ignominia del carcere e della cecità degli affetti. Il poema avrebbe voluto pubblicato su un periodico, il “Reynold’s Magazine”, che “circola largamente tra le classi criminali – alle quali ora appartengo. Per una volta sarò letto dai miei pari”. E in qualche modo lo fu: la ballata, anonima, ebbe subito sei edizioni.

letterautore@antiit.eu 

La scoperta dell’Italia

Un libro compilato nel 1933 (ma con aggiornamenti, evidentemente: c’è “il giorno dell’anniversario dell’Impero”, a p. 112, “sette sottomarini colati a picco durante la guerra” a p. 125, etc.) a partire da articoli di giornali, note, appunti, memorie. Come nuovo, d’impianto resistente, sul presupposto che “i viaggi prolungano la vita”. La stanca Italia si leggerebbe probabilmente sorpresa.
Alvaro è forse il miglior viaggiatore italiano del Novecento. Sicuramente quello che, prima di Arbasino, ha visto più cose – la raccolta sarà seguita dopo la morte da una seconda a una terza, “Itinerario italiano” n. 2 e n. 3 (“Un treno nel Sud”). Predestinato forse dalla precarietà famigliare – la raccolta si apre con l’immagine della famiglia paterna sempre sl punto di partire, dapprima per trent’anni dalla casa dei nonni per una propria, e poi, quando i figli erano già grandi e lontani, per una residenza infine propria in città. Ma da provinciale cosmopolita. Sempre curioso. Mai a suo agio nella società urbana italiana – a Roma, per esempio, su cui si dilunga inutilmente per più pagine, per trovare un appiglio, una leva, un punto d’appoggio (vi è a suo agio la notte, quando la città dorme).
Un viaggio in surplace, a distanza. Nella memoria dunque, più che nei fatti visti e vissuti. Un viaggio straordinario negli elementi più che nelle persone: l’acqua, la pietra, la maschera mortuaria di Torquato Tasso, il vetro, il marmo, la pesca d’altura, il mare. Il mare ai capricci del vento. Con molta Etruria, il mondo di adozione: l’Alto Lazio, la Toscana, la Maremma, Argentario compreso – e fino al fegato bovino d’obbligo alla festa di nozze in Romagna. Perfino a Comacchio, l’ostessa “parla etrusco”. E a Bergamo, “una tradizione dice che Bergamo fosse prima etrusca”. È attraverso gli Etruschi che riesce ad amare Roma: “Rimase un’eredità, ai Latini, etrusca: l’assenza di favole e di miti troppo grevi nella loro storia”. Acuto sempre: “Mi trovavo nel mezzo della più semplice espressione della vita moderna: l’ansia del lavoro quotidiano, che termina ogni ventiquattr’ore e si rinnova per altre ventiquattr’ore: l’ansia del domani”. E molti pezzi d’antologia, per sensibilità, intelligenza e misura.
Torino, città modello dell’Europa: “Costruita come espressione d’una monarchia militare, tramandò la sua struttura fino a Vienna, a Potsdam, a Praga, a Riga, a Varsavia, a Pietroburgo”. L’ingresso di Torino e dei Savoia come un’apparizione, a un certo punto, nel libro di storia: “voltata una certa pagina”, sparivano “il viso e il costume antico dei Camilli e dei Giovanni dalle Bande Nere”, e “il Piemonte bucava la pagina coi suoi re e i suoi ministri; il mondo pareva rivestirsi in borghese”. Venezia “un altro mondo, che è Italia ma remotissima”, dove scopre che “l’architettura è prossima alla natura, anche i palazzi ducali vi sono d’acqua e vento. Una Ferrara forse più intensa di quella di Bassani, sicuramente più sorprendente. La famiglia nella storia italiana, tema poi molto frequentato ma nel taglio di Alvaro no – anche questo “fu già un fatto etrusco, e fu un fatto romano: lo fu poi di tutta l’età di mezzo, è il segreto della vita italiana”. Il treno delle mondine, lavoratrici febbrili e sempre femminili: “Per due giorni, da Vercelli e da Mortara, i treni hanno trasportato 60.000 mondariso, delle 180.000 che lavorano ai trapianti nelle risaie, verso i loro paesi in Lombardia e in Emilia”. E ha già il “femminismo”, che vuole italiano. Un capitolo ricorrente, e per più aspetti notevole, non soltanto per essere anticipatore.
In Italia “il femminismo data da almeno tre secoli, e senza certi avvenimenti che fecero rientrare tante grandi cose italiane, la donna avrebbe occupato naturalmente ben altro posto da quello che, pur notevole, occupò fino all’Ottocento e che sta per riprendere oggi”. Era quello dei grandi narratori: “A pensarci bene, i libri dei nostri narratori dei buoni secoli, più che licenziosi sono pieni di ragazze e di donne, d’una specie di oscuro e ribollente istinto vitale”. E più nel popolo: La donna nelle società semlici è semprha il suo regno accanto a quello delluomo, e non in un mondo sfattodove diventa nemica armata di inquietudini romantiche”. Con un punto di vista attuale, del terzo o quarto femminismo: “In Italia, dove la donna lavora fuori casa, il fenomeno è tutto particolare”…. Perché storicamente il femminismo italiano del Rinascimento non pensò mai di agguagliarsi all’uomo, ma fu un rivelazione delle qualità positive e più femminili della donna”.
Con una prefazione di Carmine Abate, un’introduzione e la bibliografia di Massimo Onofri, e un’accurata cronologia di Pietro De Marchi.
Corrado Alvaro, Itinerario italiano, Bompiani, pp. 380 € 15

venerdì 28 novembre 2014

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (227)

Giuseppe Leuzzi

Palermo corrotta Sicilia infetta
Non si può nominare un procuratore Capo a Palermo perché i giudici palermitani litigano. Non è la prima volta: la Procura di Palermo è sempre nido di forti dissidi, molto violenti. Che meglio si configura come “palazzo dei veleni”, come viene chiamata, insidie nascoste, camuuffate. Come il Comune di Palermo. Come la Regione Sicilia, che ha sede a Palermo. Nelle tante stragi che la città ha subito, anche di giudici, c’è la città stessa, non solo Riina e le belve umane.
Tutto a Palermo è corruzione. Di denaro e dell’animo. E violenza. Sarà questo il problema della Sicilia, altrimenti un paradiso in terra? Fuori Palermo tutto è normale nell’isola. Anche fattivo, operativo, industrioso. Fuori Palermo, e dovunque la città radica i suoi tentacoli, nelle Procure, i Tribunali, gli affari, i giornali, tutto è presto infetto.

Le stragi dei giudici e i veleni del palazzo di giustizia si intrecciano. Sono della stessa natura e probabilmente della stessa matrice. Basti quello che Rocco Chinnici pensava e ha lasciato scritto di Lo Forte e Sciacchitano – tutto vero, confermato tre anni fa Michele Costa, figlio di Gaetano, altro Procuratore Capo assassinato dalla mafia. Lo Stato-mafia ne è l’epitome, di cui non si sa misurare la sordidezza. Un falso processo dietro il quale la Procura di Palermo cela il suo totale lasciar fare alle mafie. Nel mentre che tiene in scacco la politica e la stessa azione repressiva, di carabinieri e polizia. E in soggezione, grazie ai tanti giornalisti affiliati, le buone coscienze e l’opinione pubblica. 

Autobio
L’affetto ai luoghi Guido Morselli dice nel “Diario” “il più forte di tutti gli amori”, “un’affezione squisita e stupenda”, un affetto puramente gratuito”. Incomprensibile più spesso, come gli amori: cosa ci lega ai luoghi natii, dell’infanzia, della prima scuola, nell’arco di una vita i segmenti forse nemmeno più lusinghieri e a volte anzi negativi? E comunque a ogni epoca ingrati, o quantomeno indifferenti. Il luogo natio è indifferente al ritorno - ha anche problemi a ricordare.
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Trovo Radicena in un pezzo estivo di Goffredo Buccini sui delitti storici, a proposito di una ragazza di quel paese, nome d’arte Mary Pirimpò, di cui il “Corriere della sera”, “una brutta mattina di gennaio” del 1953, titolava: “Uccisa a rivoltellate e gettata nell’Olona «Mary Pirimpò», ex attricetta del varietà”. Maria Boccuzzi detta Mary, che resterà negli annali come la Marinella di De André, veniva appunto da Radicena ed era finita male.
Si diceva allora andare a Radicena”, come “andare a Pedavoli”, la parte per il tutto, pur essendosi i due paesi da tempo accoppiati, Radicena a Iatrínoli, Pedavoli a Paracorio, assumendo un nome nuovo, rispettivamente Taurianova e Delianuova. “Siete di Pedavoli” era l’interrogativa affermativa, anche se eravate di Paracorio. E la cosa non poteva essere altrimenti “vera”.
I due paesi, Pedavoli e Paracorio, benché contigui senza soluzione di continuità, erano diversi in tutto, di etnia probabilmente, e modi di essere, di esprimersi, perfino di accento, e di operare. E lo sono tuttora. Le famiglie sono ora indifferentemente mescolate, ma se ne riconosce, e se ne precisa sempre, l’origine.
Giovannino Palumbo, gestore del ristorante “Le vie del gusto” con l’ottima cuoca sua moglie Grazia Battista, ha recuperato come segnatavolo in ceramica i nomi dei vecchi quartieri, e trova che a tutti piace stare nel proprio. Scoprendolo però – i più – ora, con qualche confusione, anche i nomi sono stati cancellati.

L’Aspromonte è la “montagna sul mare” di Isak Dinesen. Che non può essere, e quindi non è: o non l’ho letto nei suoi racconti, o lei non si riferiva all’Aspromonte. Ma lo stesso mi fa girare per la montagna in compagnia, di una scrittrice squisita, benché persona probabilmente sgradevole. L’aria pulita e potente, i rumori remoti, della vita non ingombrante, il picchio, una sega, una marmitta che ansima, che mai sovrastano l’acqua e il vento, lo scroscio delle cascate, il gorgoglio delle fiumare, e anzi vivificano, accentuando una solitudine grata, animata, e l’elevazione, l’immedesimazione. Come se ci fosse più purezza, e forse c’è, se ha effetti confortanti.

La decadenza si manifesta e si consolida con l’abbandono dei miti. La morte della religione dopo la morte di dio – dove conduce l’io-e-il-mio-Dio della Riforma lo sappiamo bene da Nietzsche, i vescovi farebbero bene a leggerlo. I vescovi di Palmi e Locri che ci hanno proibito le processioni non sono luterani, sono ordinati. Non nel senso del sacramento ma dell’ordine borghese, del decoro, la proprietà, i buoni sentimenti e la ragione spicciola. Di ogni cosa al suo posto, smacchiata e, se possibile, inodore. Figurarsi poi il sudore.
Non c’è più la divinità dell’uomo. Non c’è nemmeno la divinità, il concetto. Il divino esiste solo se incontra l’umano, nel mito, nel rito, nell’inconscio.

Prima del paese, sulla fiumara Petrilli, c’era la “machina” - frantoio ad acqua – di Micuzzu, il mio bisnonno Domenico. Poi distrutto dalla mafia di Castellace, e da mezzo secolo rudere. Ma niente la ricorda. Eccetto una pubblicazione dei compaesani emigrati a Perth, in Australia, che nella piccola guida al loro paese di origine, a opera di Domenico Italiano, ne fanno menzione e ne danno spiegazione.
In paese l’invidia sociale è la regola di vita. Soprattutto verso chi si è acquisto un qualche merito, magari di gratitudine.
Non c’è del resto in paese una pubblicazione come quella, che gli emigrati a Perth hanno realizzato, per consacrare la memoria. Domenico Italiano invece sa dire dottamente in poche parole la storia complessa dei due borghi che compongono la comunità, e insieme la nostalgia, l’identificazione, religiosa, di quartiere, di famiglia, e cosa di essa si fa sopravvivere a Perth.
Anche la Madonna: se ne andrà la sua memoria a Perth? L’inno della processione ora abolita, che pure anticipava papa Francesco, Bonasira Vi dicu a Vui, Madonna”, con la coda accorata, “Facitimmilla, Madonna mia,\ facitimmilla per carità, \ e se la grazia non ti la dà…”, solo il loro annuario lo registra. La parrocchia dà un volantino con i canti anonimi della nuova liturgia.
I compaesani di Perth hanno anche la festa delle castagne e delle soppressate. Con ballo: si balla la tarantella. Da noi non si suona più e nessuno saprebbe ballarla – quando ci provano, le ragazze più spesso nelle sagre, la risolvono in balzi sgraziati, sempre fuori tempo.
Si ritrova dunque la realtà lontano. Nelle cronache. Nelle rievocazioni delle cronache. Nelle comunità di emigrati, di cinquanta, cento anni fa.

Ci sono momenti chiave nella vita. In cui magari non succede niente ma si capiscono (avvengono) cose importanti. Questo fu il ritorno in paese dopo la finale lungodegenza paterna, nel 1992. C’erano uno o due rapiti eccellenti in Aspromonte, quindi forse attorno a noi. C’erano furti in tutte le case, disabitate (tre volte in due inverni anche nella nostra) e abitate. C’erano liti, con sparatorie, in piazza e agli incroci tra i “pazzi”. E c’era stata una bomba ad alto potenziale al portone dei Carabinieri, allora in un’ala del Municipio (poi si sono chiusi in un edificio isolato, con sbarre di protezione). Ma i carabinieri si occupavano di controllare il caffè degli impiegati pubblici.
Era l’autunno di “Mani pulite”, e i carabinieri si adeguavano. A una certa ora la mattina, non tutti i giorni, controllavano chi c’era e chi no in Municipio, tra quelli che figuravano presenti. Denunciando gli assenti - con vari bolli e protocolli. Che poi venivano regolarmente giustificati “per motivi di servizio”.
Le processioni hanno preso nel 2014 il posto del caffè degli impiegati pubblici? Ora ci vuole il video, che faccia il giro del mondo su internet. È già un progresso tecnico.

leuzzi@antiit.eu

Leso Manzoni

Lucia è una cocotte: bellezza di provincia, parla francese e non si nega a nessuno tranne che a Renzo. Renzo va in Cinquecento, don Rodrigo in Chrysler – profetico? La monaca di Monza, naturalmente lasciva, è soprattutto lesbica. Don Abbondio tresca con la Perpetua e converte i Bot in Prestito del Littorio.
Una parodia meglio riuscita delle tante, anche se irrelata all’autore e alla stessa storia originale e inutile. Ma una goliardata, e una storia da Guido da Verona sbrodolata, di caricature. Più sostenuta dei cabaret che se ne sono tratti, ma anche più lunga.
Questo Guido da Verona si segnala per il contorno politico, che ne fa, nolente, una vittima del fascismo. Pubblicato nel 1929, il romanzetto fu ritenuto un insulto a Manzoni e al fascismo. Fu sequestrato e inviato al macero. Ci furono assalti alle librerie e copie bruciate in strada. L’autore fu insultato e malmenato mentre a Milano passeggiava in Galleria con l’editore Dall’Oglio.
Guido da Verona, I promessi sposi, Barbera, remainders, pp. 286 € 5,95

La Bce può comprare titoli pubblici

Ha detto verità scomode mercoledì l’onesto Trichet a Firenze, rispondendo a Ferruccio de Bortoli, che lo intervistava per l’Osservatorio giovani-editori. Il processore di Draghi a Francoforte ha spiegato che la Bce può comprare titoli di Stato, e lo ha già fatto, e ha negato di avere auto pressioni a metà 2011 per mettere sotto pressione l’Italia – ma lo nega confermando. Omesse dalle cronache, le due affermazioni sono leggibili ora in redazione (quasi) integrale.
“Non ci sono impedimenti” all’acquisto Bce di titoli di Stato, e “lo può fare se necessario per generare stabilità dei prezzi”. Cioè, ora, contro la deflazione. “Quando ero presidente abbiamo acquistato titoli di stato. Questo nel rispetto del trattato e secondo il mandato ricevuto. E lo abbiamo dovuto fare perché ce c’era bisogno di stare attenti a questi acquisti”, di monitorare il mercato dei titoli pubblici.
“Senza indugi”, si affanna poi a ripetere, la Bce decise a luglio di scrivere ai governi italiano e spagnolo, “senza discussioni o qui pro quo”, “senza trattative”. Come a dire che la cosa era voluta, ma non dice da chi. Le lettere mettevano in guardia contro la speculazione: “L’euro di per sé, come valuta, non è mai stato messo in dubbio”, ma l’eurozona sì, “da osservatori esterni, amici”.
Trichet riconosce indirettamente anche che la Bce non funzionava, la politica monetaria dell’euro: “A livello di eurozona avevamo il 40 per cento del Pil che non funzionava bene e in questa situazione fuori dal comune era necessario correggere il fatto che la trasmissione della politica monetaria non funzionava”. Non esisteva.

giovedì 27 novembre 2014

Dalemiani d’assalto alle Finanze

Gli alti papaveri del Mef, il ministero del’Economia e Finanze, confidano a Federico Fubini e Roberto Mania il loro “disagio”. Profondo disagio, tanto che sono tentati dalle dimissioni. Che però non danno. A parte, uno, Lorenzo Codogno, capo dell’ufficio studi, che non conta (quasi) niente – dava anche cifre sballate. I promessi dimissionati devono compiere una missione? Sì.
Uno dei doloristi, Vieri Ceriani, è consigliere del ministro Padoan per il fisco. Era anche il consigliere di Visco quindici anni fa, artefice dell’Irap, la tassa che ha affossato gli investimenti industriali e moltiplicato la delocalizzazione. Mugugna anche Fabrizia Lapecorella, “vicina a Ceriani”, e a D’Alema, capo della sezione Finanze dell’Economia, la quale non vuole fare i decreti attuativi della riforma fiscale – tra quattro mesi la riforma sarà così decaduta  Anche Padoan è nel governo solo in quanto rappresentante di D’Alema, e questo completa il quadro.
In un altro paese i due si sarebbero dimessi o sarebbero stati cacciati. Ceriani anche in carcere, per tutti i danni che ha prodotto. In Italia no, non si può: due burocrati fanno saltare la riforma del fisco su lavoro e  investimenti per far saltare il governo, perché così dice il loro capopartito.
Della riforma della Pubblica Amministrazione Renzi ha dimenticato la prima mossa: cacciare i “tecnici” politicanti. Quelli che non dicono cosa bisognerebbe fare meglio, ma boicottano, ritardano, rinviano, e si confidano, sperando in un futuro migliore. Alla Goldman Sachs, oppure al Senato. Perché non è detto che Renzi riuscirà ad abolirlo.

Il filosofo dei professori

Cinque professori e una scrittrice spiegano, ognuno per la sua specialità, perché riscoprire Aristotele. Come metodologo e argomentatore - alla fine sempre corretto, il più corretto – e come contemporaneista, un po’ in tutte le questioni che ci agitano. Benché, faccia rimarcare la scrittrice, la canadese Annabel Lyon, autrice recente di un “Aristote, mon père”, sia notoriamente uno schiavista, misogino, bipolare. E soprattutto come zoologo: la fisica del corpo domina il corpus aristotelico, u terzo delle opere tramandate, e oggi viene utile, è l’unico parametro filosofico, nelle decisioni difficili dell’interruzione volontaria di gravidanza, e della decadenza senile (perdita della memoria, del linguaggio, della mobilità, etc.).
Aristotele è un filosofo per professori. Anche questo conta: il suo stile argomentativo e l’unico trasmissibile, fare il quadro delle opinioni prima di (tentare di ) risolvere il problema. Un antidoto al proliferare della filosofia da talkshow, di psicologi, psicoanalisti, ermeneuti, moralisti.  
Aristote. Comment il nous aide aujourd’hui, “Le Magazine Littéraire”, novembre € 6,20

mercoledì 26 novembre 2014

Noioso, quasi mortale

Presentato a Venezia, in una rassegna minore, ma pur sempre opera di registi affermati, questo “Esperienza di Quasi Morte” non ha trovato posto nemmeno nella rassegna romana di Venezia dopo il festival, nonché nella distribuzione. Visto per curiosità in dvd si capisce perché: l’unica attrattiva è l’attore, lo scrittore Michel Houellebecq. Che non è simpatico e in più pontifica, nello stile Houellebecq, contro la vita, borghese e non.
Le Near Death Experience (NDE), esperienze di quasi morte, wikipedia spiega come “fenomeni descritti in genere sia da soggetti che hanno ripreso le funzioni vitali dopo aver sperimentato, a causa di gravi malattie o eventi traumatici, le condizioni di arresto cardiocircolatorio, sia da soggetti che hanno vissuto l’esperienza del coma. A volte le NDE vengono riferite anche da soggetti che, pur avendo conservato le funzioni vitali, hanno corso il rischio di morire, per esempio in seguito a interventi chirurgici o gravi incidenti”.
Benoît Delépin e Gustave de Kervern sono autori di “Louise-Michel”, la vendetta sul padrone della lavoratrice vessata e poi licenziata, e “Mammuth”, Depardieu che in pensione va in giro in moto a scoprire la sua vita. Due storie e due personaggi extralarge, tra Gargantua e Ubu. Loro stessi sono due robusti giganti, del genere bon vivantHouellebecq è un callcenterista ubriacone che decide di uccidersi e non ci riesce, sempre qualcuno lo disturba. Si confina allora in campagna, e si fa discorsi. Noiosi. Di fronte ai rabelaisini suoi registi atteggiandosi a ubriacone senza denti - cosa non si fa per “uscire sullo schermo?. 
Benoît Delépin e Gustave de Kervern, Near Death Experience

Il mondo com 'è (196)

astolfo

Accumulazione – Al tempo di Marx c’erano i ricchi e i poveri, i borghesi e gli operai, quelli che sempre s’arricchiscono e quelli che impoveriscono, i fortunati e gli sfigati, con pochi trapassi verso l’alto, e solo per caso. Poi, col sindacato e con Ford, le società sono diventate di classi medie, di cui gli operai fanno parte, buona parte di essi. Il dottor Carli stimava già cinquant’anni fa che un terzo dei buoni del Tesoro fossero sottoscritti da famiglie artigiane e operaie, talvolta con la figlia impiegata. Mentre il comunismo era proprietà esclusiva dei partiti comunisti, in adesione totale all’Urss, senza leggere Marx. E incorreggibile.

Gallia – Vittime di Asterix, non poniamo più mente che era in larga e spesso decisiva parte Cisalpina, appena al di là dell’Appennino. Le battaglie decisive per la successione di Cesare, tra Marc’Antonio e Ottaviano, si fecero per le legioni della Gallia, tra Imola e Modena.

Guerra – La sconfitta non è stata e non è la stessa per l’Italia come per la Germania – e il Giappone. Per la Germania è una sconfitta, per l’Italia è il rovesciamento del fascismo. Col mito della Resistenza, ma anche dell’8 settembre, e perfino del 25 luglio. Non è stata la stessa guerra. La Germania se ne vergogna, e non ne parla, oltre che per la vergogna dello sterminio degli ebrei, perché l’ha vissuta subito e la vive ancora come una sconfitta. Lo stesso il Giappone. Per l’Italia la guerra è stata un errore, anche per i neo fascisti, e in certo modo un crimine – non si fa la guerra alla Francia né alla Grecia. Per la Germania era una guerra nazionale e non la guerra di Hitler, in parte a risarcimento della prima, e in parte per affermare il ruolo imperiale. Lo stesso per il Giappone, intervenuto ancora più tardi dell’Italia, con la guerra apparentemente e solidamente già vinta.
La Germania, che ha avuto probabilmente la resistenza al nazismo più consistente in Europa, con 50-60 mila prigionieri politici nei lager, l’opposizione meglio organizzata, soprattutto negli attentati a Hitler, e un numero elevato di renitenti e disertori – in guerra, soprattutto nel 1944, giustiziati sommariamente, per esempio in Toscana, in Emilia - non ne fa la celebrazione e nemmeno la storia. Non c’è una festa del 20 luglio, quando 5.684 personalità furono giustiziate, settemila arrestate e cinquemila confinate, dopo l’ennesimo attentato a Hitler. Stauffenberg è ignoto ai più e per gli altri una macchietta, un nobilastro, cattolico per giunta. Non c’ è una giornata della liberazione, da Hitler, dal nazismo. Il primo cancelliere che ha vistato un lager, un lager per politici, pulito, anzi ora un bel giardino, è stata Angela Merkel tre anni fa, occasionalmente, viaggiando da Monaco ad Augusta, si è fermata a Dachau.

Islam – Privilegia il risentimento. Tutto quanto, ricchi e poveri (il Sudan, impensabile, il Pakistan), fondamentalisti e non, sunniti e sciiti, asiatico e africano. E ne è vittima. Una forza espansiva suicida.
L’islam si è costruito una fama di tolleranza, a Istanbul, a Sarajevo. In realtà di no condivisione, mai, o coesistenza. Se non - a Sarajevo ma anche a Istanbul – quando vi era impegnata e anzi obbligata dalle potenze.

Marx – Avrebbe riso del Diamat, una cosetta scientista, positivista, e del sistema moscovita della proprietà statale dei mezzi di produzione, o del partito unico, una forma come un’altra di dittatura? È possibile: Marx non ne ha colpa. Lui il suo lavoro l’aveva completato, chiedendo di abbattere lo Stato. Non si può fargli colpa di Stalin, che non lo realizzò ma l’affossò: la rivoluzione che doveva eliminare lo Stato ribaltò nello Stato totalitario, per primi liquidando i comunisti.

Superato lo è certamente, in quanto fu vittoriano. Sottolineava le parole, e le virgolettava, con la stessa enfasi della regina Vittoria. Mentre la nobile moglie Jenny prendeva gli appunti e copiava per lui. Comprò il piano per le figlie. S’innamorò di una ragazza Bismarck e altre principesse giovani. Sedeva nella sala di lettura del British Museum accanto ai Sobieski Stuart, che vi avevano un seggio di diritto, essendo stati dichiarati eredi della defunta dinastia - a Londra si celebravano all’epoca le dinastie, ogni sorta di dinastie. Fu membro all’università del Borussia, che diventerà il circolo dell’elmo chiodato. Capiva le ragioni dell’impero, e mai lavorò, facendosi mantenere dai compagni e da Engels. Un vittoriano simpatico: non frustava le donne che s’immaginava di scopare. Mancò però l’occasione di mettersi col papa e sciogliere per sempre il nodo della socialità: individuo, classe, Stato.

E tuttavia dopo Marx più nulla, una voragine si è aperta che non si colma. Anche lo Stato delle multinazionali sa di rieccolo: il previsto mercato mondiale, l’imperialismo puro. A opera del più forte di tutti i forti, gli Usa. Nel nome del mercato, di cui Marx fu secondo scopritore. Dopo Frances Hutcheson, che “la maggiore felicità per il maggior numero” teorizzò, e i suoi discepoli Hume e Smith – benché con alcuni paletti, pochi, nei punti sensibili. L’imperialismo di mercato è molto democratico, la Coca Cola potendosi bere nel Congo equatoriale. È pure bello: Hutcheson ha imposto l’estetica come disciplina, vanta anche questa primizia.

Ortodossia - È di destra – è conservatrice. A lungo è stata di sinistra: cos’ha detto Marx, cos’ha detto Lenin, etc. Ma non è ambigua: l’ipse dixit pitagorico, il principio di autorità, è conservatore, oltre che autoritario.
Con eccezioni? L’ebraismo ortodosso è tenuto distinto dall’ebraismo conservatore. In materia sociale, ma è nazionalista quasi razzista – del sangue puro. Nel cattolicesimo la figura del papa rimescola anch’essa i piani: il papa non può non essere ortodosso, e può non essere conservatore. Ma a rischio del comico quando, per “aggiornarsi”, “stare al passo coi tempi”, sintonizzarsi con l’opinione pubblica, “stare dalla parte giusta della storia”, “essere democratico”, e naturalmente opportunista, si spoglia della sua autorità. Del “deposito di fede” a essa connessa e che egli custodisce.

Rosa Luxemburg - Lenin l’apostrofò così a mo' di complimento, dopo una dura polemica: “Accade a volte alle aquile di scendere perfino più in basso delle galline, ma mai alle galline di salire al livello delle aquile”. Il complimento facen do seguire da questa considerazione degli altri compagni tedeschi:  “Tra i mucchi di sterco nel cortile di dietro del movimento operaio, le galline tipo Paul Levi, Scheidemann e Kautsky che scacazzano intorno alla grande comunista, ognuno fa quello che può”.
I compagni erano – e possono essere? - i peggiori nemici. All’insegna della verità sempre. In Germania la chiamavano “Rosa la sanguinaria”, i compagni del Partito presto allineato con Mosca, lei che viveva come una cinciallegra.

Stato - Curando nel 1970 la voce “Scienze Politiche 1” dell’Enciclopedia Feltrinelli, intitolata Stato e politica, Antonio Negri ne escluse lo Stato: c’era Stato pianificato, sovietico, nazionale, di diritto, eccetera, ma non Stato. Erano tanti i motivi per cui lo Stato mancava. Il principale è, scriveva Negri che è alienazione e distruzione: “Una realtà che l’uomo nuovo, prodotto dallo sviluppo capitalistico, che sa natura e storia non come nesso oscuro ma come sua propria realtà, costruita e sofferta nel lavoro, e nello sfruttamento che l’organizzazione del lavoro determina, sente come un’impostura da distruggere, distruggendo tutte le forme attraverso le quali lo Stato si fa dominio”.

astofo@antiit.eu

La strega di Wittgenstein

Nel 1948 C.S. Lewis, filosofo a Oxford, presidente del Socratic Club, lascia d’improvviso la filosofia e si butta nella fantasy, con le sette storie delle “Cronache di Narnia”, l’Harry Potter degli anni 1950, la prima delle quali intitola “Il leone, la strega e l’armadio”. Secondo il biografo di Lewis, Andrew Norman Wilson, l’abbandono e la fantasy oiginarono dalla sfida di Elizabeth Anscombe al suo impegnativo e meditato “Miracoli”, il trattatello anti-scientista: uno scontro da cui Lewis uscì come un bambino, a cui l’interlocutrice sarebbe apparsa come una strega, lui cinquantenne professore, lei ventottenne giovane promessa.
In realtà non è così. Lewis, grande amico di Tolkien, già si dilettava di fantasy. E di “Miracoli” aveva discusso, e in parte concordato, con l’altra sua grande amica Dorothy Sayers, coetanea e oxoniense, che era a sua volta giallista oltre che filosofa – autrice di un “The Mind of the Maker”, in cui il processo creativo suddivide in tre stadi: l’idea, l’energia (la carica creativa), e il potere (la capacità di modellare). Insomma, aveva pratica promiscua. Mentre Elizabeth Anscombe, benché giovane, bella e combattiva, non era una strega, ma un’argomentatrice fine. Delle sue osservazioni Lewis terrà conto rifacendo il capitolo incriminato: l’obiezione di Anscombe verteva sulla “determinazione del determinismo”, o della selezione naturale come processo formativo della mente (“Causalità e determinismo” sarà la sua lezione inaugurale a Cambridge nel 1971, che fece epoca) – le differenze si possono leggere in questo repertorio, Elisa Grimi accosta le due versioni in colonna.
Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, che sarà filosofa in cattedra a Oxford fino al 1969, per poi trasferirsi a Cambrige, aveva studiato a Cambridge con Wittgenstein. Allieva perspicace e applicata, ne era diventata confidente e sparring partner nelle sue solitarie riflessioni ad alta voce. Ma, se non strega, dragon lady senza inibizioni e senza complessi resterà per tutta la vita e ora nel ricordo. Gli annali privilegiandola come personaggio. Un assaggio: cattolica convertita, col marito anche lui filosofo, Peter Geach, col quale fece sette figli, in lite spesso con Graham Greene, altro convertito, cavallerizza, trekker fanatica e provetta scalatrice, fumatrice di sigaro, “bellissima voce”, costantemente in pantaloni fin dagli anni di studio, pratica allora scandalosa, di più a Oxford, allora bigotta, peraltro stinti e sformati, prima e radicale contestatrice dell’uso dell’atomica a Hiroshima, antiabortista agli arresti per manifestazione sediziosa. Per caso ma non per nulla nata a Limerick, l’anno dopo la fine della prima guerra. Professoressa e donna piena di allieve e allievi ammirati, e amiche e amici che, seppure filosofi, ne hanno immortalato l’aneddotica, soprattutto dopo la morte, a Cambridge, nel 2001. Elisa Grimi ne ha raccolto qui varie testimonianza. Smise di fumare in voto per la guarigione di un figlio molto malato, ma un anno dopo “si rese conto di avere promesso di smettere le sigarette ma non i sigari”, ricorda Jonathan Jacobs, “così cominciò a fumarli”. In un ristorante italiano elegante nei paesi baschi il cameriere le obietta che non può entrare in pantaloni, ricorda Alejandro Llano Cifuentes: “Se insisti me li tolgo”, ribatte lei.
Protagonista naturalmente di vasta aneddotica anche wittgensteiniana, ma non inutile. Dal “vecchio mio” con cui lui la interpellava, al celebre “grazie a Dio , ci siamo finalmente liberati delle donne”, a lei rivolto a un corso a cui altre donne non partecipavano. Iris Murdoch, altra allieva, si sa che rifiutò Wittgenstein, e forse già allora la stessa filosofia, dopo essere stata a lezione di lui “un paio di volte” – “una persona che mi agitava e mi intimoriva” (lasciò la filosofia dopo un notevolissimo studio di Sartre, della filosofia dei suoi racconti)..
Più robusta in realtà come filosofa, morale e logica. Una delle poche se non la sola che riuscì a navigare tra Cambridge (Wittgenstein) e Oxford. Coautrice, nelle edizioni inglesi di Wittegenstein, di quasi tutte le sue opere. Praticamente ignota nel continente, trascurata forse perché cattolica. E dai cattolici per voler essere aggiornati. O confinata all’agiografia, quasi di sacrestia, per esempio in Italia. La traduzione dei “Collected Papers” per i Classici Bompiani del Pensiero Occidentale si fa attendere, e forse è perenta, preceduta dal “pensiero” di Togliatti e altri pezzi grossi – ne era sostenitore Giovanni Reale, che ora non è più. Un solo convegno in Italia si ricorda, alla romana pontificia università di Santa Croce, di studi ecclesiastici, e questa riproposta di Elisa Grimi esce in una collana “Come se Dio fosse”. Ma il repertorio che la studiosa mette assieme è una pietra solida – anche se purtroppo parafrasa i testi che propone invece di presentarli e antologizzarli.
Dopo Wittgenstein san Tommaso
Già “Intenzione”, l’unico testo tradotto di Anscombe, si era manifestato robusto, di logica aristotelica e scolastica. Oxford, dove allora insegnava, era la roccaforte dell’aristotelismo. L’approdo sarà poi per lei inevitabile al tomismo. Ma ora in buona compagnia: è l’approccio dominante nella filosofia anglosassone successiva, di Scruton, Nussbaum e altri - la stessa Arendt già ne era attratta. Ed è ora il filone in voga negli studi continentali dell’ultima generazione, affrancata dalla filosofia tedesca - “dopo Wittgenstein san Tommaso”. Su “Intenzione” peraltro, sulla distinzione tra le cause e le ragioni di un’azione,  la curatrice soprattutto si sofferma. Con cenni al suo tomismo analitico, e la disamina di altre tre testi: la querelle con C.S. Lewis; “Mr Truman’s Degree”, 1956, la laurea honoris causa di Oxford contestata a Truman, il presidente della “bomba”; “Modern Moral Philosophy”, uno sviluppo dello stesso. La verità c’è, il dovere morale no, è uno pseudo-concetto di forza solo emotiva. La nozione di dovere non può essere inferita da un decalogo esterno. Si può fare filosofia morale in assenza di una filosofia della psicologia? E cos’è questa, la psicologia e la filosofia della psicologia? 
A Oxford, da studente, Elizabeth Anscombe aveva avviato nel 1937-38 lo studio del “Tractatus” di Wittgenstein, insieme con Ayer, suo quasi coetaneo ma già autore, nel 1936, a ventiquattro anni, di “Linguaggio, verità e logica”, la bibbia dell’ateismo – i rapporti tra i due presto si guasteranno. Dopo la laurea nel 1941 fu a Cambridge con una borsa di studio, e avviò un contatto personale poi indissolubile con Wittgenstein. Di cui sarà collaboratrice fidata e interprete, e con Rhees e von Wright curatrice del lascito, compito per il quale imparò il tedesco. Vicino a lui è anche sepolta, nel cimitero di St.Giles a Londra.
Il dio flipper
La bibliografia delle riflessioni di Anscombe su Wittgenstein è costante per cinquant’anni, dal 1952 in poi, e nutrita, prende cinque pagine. Autrice, tra l’altro, di “From Plato to Wittgenstein”, sul problema della conoscenza. E di “An Introduction to Wittgenstein’s «Tractatus»” (“È un libro che riesce ad affascinare la nostra mente, pur presentandosi in molte parti eccessivamente oscuro”), dove elucida la prima filosofia del linguaggio di Wittgenstein in relazione a Frege, Ramsey e Russell – e a Schopenhauer. Col caso del “solipsismo”, per le cose che si mostrano e sono (sono vere) ma non possono essere dette. Con l’affermazione che la logica è “trascendentale” – le proposizioni della logica, nella sintesi di Elisa Grimi, “come tutte le altre proposizioni, mostrano qualcosa che prevede tutto il dicibile, e che è a sua volta indicibile”. E col “misticismo” peculiare di Wittgenstein, che lo riprese da Russell, adattandolo, per una volta con chiarezza, spiega Anscombe, in questo passaggio del “Tractatus”: “Noi sentiamo che, persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto delle risposte, i nostri problemi vitali non sono neppure ancora stati sfiorati. Certo, allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta”. Detto altrimenti nella nota proposizione: “Il senso del mondo dev’essere fuori di esso”.
Nella querelle con C.S.Lewis sul determinismo e successivamente, nelle riflessioni sulla causalità, utili al rapporto tra scienza e determinismo, Anscombe la assomigliava al flipper: la pallina si muove sempre “approssimativamente” secondo certi percorsi.
Elisa Grimi, G.E.E. Anscombe, The Dragon Lady, Cantagalli, pp. 525 € 23

martedì 25 novembre 2014

Problemi di base - 205

spock
Perché dire una bugia se si può dire la verità?
Perché sentirsi minacciati dall’amore?
Perché temere chi ci vuole bene?
Perché non temerlo\a?
Perché l’occhio vede più nettamente in sogno che l’immaginazione in stato di veglia? (questo è problema di Leonardo, irrisolto)
È il sogno una veglia incontrollata?
La colpa è di Alonso o della Ferrari?
O di Alonso per essere rimasto cinque anni in Ferrari?
spock@antiit.eu

Lucia porcella

La resurrezione c’è, ma della carne. Lucia è una contadina prosperosa e un po’ scorretta: va a letto con chi le piace, e le piace. Con un dotato fra Cristoforo in particolare, e con i nobili quando capitano, don Rodrigo e l’Innominato compresi - qui nominato, Bernardino Visconti. Con mamma Agnese mezzana. Anche don Abbondio non se le lascia passare, e la Perpetua ha di che risvegliare le voglie. Renzo no. Alla fine ci prova, con una che lo fa di mestiere, soprannominata Schiscianus, schiaccianoci, e si scopre omosessuale.
Un divertimento. La sceneggiatura di un film che Chiara complottava nel 1971 con Marco Vicario, il regista di “Homo eroticus”,  e poi non si fece. Chiara, che soleva mettere gli amici al corrente di quanto andava scrivendo, di questo suo Manzoni disse che voleva “restituirlo” alla sua “vera” natura, di spirito inquieto, milanese, “dialettale” anzi, prima che si sacrificasse alla carriera, e a un’incerta conversione - “forzata” la dice Ferruccio Parazzoli che era degli amici e ha curato la pubblicazione vent’anni fa. Il Manzoni “reale”? Ma allora è il suo “problema”, forzarsi a qualcosa, il toscano, la fede, a cui niente e nessuno lo obbligava.
Non c’è niente del Manzoni in realtà, solo lo sberleffo – quello che Chiara rifà, forse a sua insaputa, da autodidatta, è Guido da Verona, che questa parodia aveva già scritto quasi alla lettera quarant’anni prima. Ma una Lombardia in carne sì, aretinesca sotto le mani giunte..
Piero Chiara, I promessi sposi

lunedì 24 novembre 2014

Ombre - 245

Il ministero dell’Economia tira fuori solo adesso le cifre della diversa politica tedesca e europea nella crisi. Nella prima fase infatti, 2007-2009, la Germania ha finanziato le sue banche con 250  miliardi. Contro ogni regola Ue sugli aiuti di Stato.
Il Mef tira fuori le cifre per aiutare Renzi. Ma, prima, le nascondeva a Tremonti per quale motivo? Hanno rovinato l’Italia per rovinare Berlusconi?  

Questi dati che il ministero del’Economia tira fuori ora, come la Banca d’Italia, a nessun fine, non potevano tirarli fuori prima degli stress test artefatti della Bce? Bisognava fare la festa al Monte dei Paschi, La (ex?) banca del (l’ex?) Pci.

Il partito Democratico prende il 24 per cento dei voti in Calabria, il suo candidato alla presidenza della Regione il 62. Succede in Calabria, dove il voto è clientelare, e allora?

Nella stessa Calabria, dove il voto è clientelare, per il presidente della Regione, che controlla la Sanità e una spesa miliardaria, si muove solo il 44 per cento degli aventi diritto. E come se fosse la fine della politica. Della politica come scelta e sfida, votano giusto i devoti, del posto.

Il Pd ha avuto alle regionali in Calabria 197 mila voti. Alle primarie, vinte dal riciclato Oliverio sul rottamatore Callipo, si erano presentati in 131 mila. Un miracolo della politica morente?
Oliverio ha avuto poi, ieri alle elezioni, due volte e mezzo i voti del suo partito, 508 mila.

Ogni paio di giorni Draghi dice che la Bce comprerà - domani - titoli pubblici per sostenere le economie europee. Nel mentre che finanzia - oggi - le banche. Soprattutto le grandi banche, del Centro-Nord Europa. Sembra incredibile ma è quello che avviene. 
Draghi finanzia da una paio di anni le banche per scopi che non sono evidentenente legati alla crescita delle economie europee. Ne finanzia le speculazioni?  

Royal Bank of Scotland ammette di avere esagerato, nello stress test della Bce, nel calcolo della sua capital ratio, portata al 6,7 invece del 5,7 per cento. Una differenza non da poco. Un errore di stampa? Ma la Bce non glielo ha contestato.

Un coefficiente patrimoniale del 5,7 era sufficiente per passare il test, che ne pone l’adeguatezza (del patrimonio in rapporto all’attivo) al 5,5  per cento. Ma la Bce avrebbe dovuto avviare un supplemento d’indagine.
In alcuni casi l’Europa è troppo efficiente, in altri troppo poco.

L’indagine “mai conclusa” sullo Stato-mafia s’arricchisce di una vacanza pagata in Sud Africa per tre giudici di Palermo. Tutti insieme, semmai uno non la verbalizzasse bene, sono andati a farsi dire la verità dall’ex generale Maletti. Che ha 93 anni. E accusa Mori di essere dell’estrema destra. Essendo lui stesso dell’estrema destra - ma questo non si legge sui giornali.

Si legge solo, vagamente, che Maletti sta in Sud Africa da trent’anni perché garantito, dal vecchio e dal nuovo regime, contro l’estradizione. Che l’Italia chiede – o forse non chiede - per una condanna a 14 anni. Per vari reati, tra cui aver favorito l’espatrio in Argentina di Ventura e Giannettini, due fascisti, indagati e poi condannati per la strage di piazza Fontana.

Si discute se la decapitazione sia marchio islamico. Lla prima biografia di Maometto registra la decapitazione da lui ordinata di centinaia di ebrei alla Medina. Ma le teste dei nemici mozzate esibivano i romani nelle loro guerre. Anche in quella tarda contro Daci, in epoca quasi cristiana: la colonna Traiana mostra molte teste mozzate, in guerra e dopo. Il califfo dell’Isis che vuole marciare su Roma è avvisato.

L’imperatore Traiano, nelle imprese difficili che volle immortalate nella colonna che porta il suo nome, contro i Daci,compare sempre senza guardie del corpo, al massimo due accompagnatori disarmati.
I littori già Romolo aveva creato, che precedevano il capo con mazze, ma si vede che ne facevano uso parco. 

I sarmati hanno la corazza, cavalieri e cavalli, già nella colonna Traiana, nelle scaramucce di confine contro i romani. La Russia non ha mai perso una guerra – giusto col Giappone, a settemila km. di distanza.

Ufficialmente 1.152 jihadisti dell’Isis sono francesi. Combattevano per la democrazia della Siria, agli ordini del presidente Hollande due anni fa. Secondo la leader dell’opposizione francese Le Pen i jihadisti fancesi sono almeno quattromila. Un piccolo esercito.  

Carige è “molto conveniente” dopo la bocciatura europea della Bce per il Banco Santander. Vendendosi a prezzo di saldo, “già risanata, con una quota di mercato interessante e un  potenziale enorme di riduzione di costi”. Bocciata dalla Bce per fare un favore al Santander, dunque. Che sotto ogni profilo è una banca, una grande banca, fallita – piena di partite di giro e insoluti certi.

L’economista Andrea Ichino argomenta sul “Corriere della sera” contro il latino: Adriano Olivetti voleva ingegneri di formazione umanistica, e Olivetti è fallita; Steve Jobs e Bill Gates non sono umanisti: per decrittare i codici tedeschi in guerra gli inglesi usarono un matematico, Turing, e non un latinista. Se non che Turing era certo anche latinista, Jobs e Gates si sono sempre voluti umanisti, e la Olivetti aveva elaborato il personal prima dell’Ibm. Il computer la Olivetti non poté produrlo per la cecità di Cuccia. Uno che la pensava come Ichino: solo i soldi producono soldi.

L’intellettuale al potere

Trascurato nelle celebrazioni bimillenarie di Augusto, ne è forse il ritratto più acuto, e anche accettabile, oltre che leggibile – benché datato 1872. La formula epistolare che Williams ha adottato per l’ennesimo racconto del fondatore dell’impero, di personaggi che si scrivono o prendono appunti a futura memoria, ricrea la storia nota in figure, situazioni e prospettive insolite. Ma con un messaggio imprevisto, che il sottile professor Wiliams, americano e quindi sicuro repubblicano, veicola ogni poche pagine: repubblica e impero sono concezioni di segno bugiardo, se la democrazia è aristocratica e corrotta, quando non assassina, e il dominio è popolare, e coltiva la pace e la cultura.
L’ambiguo Ottaviano che la nostra filologia predilige non lo è per lo scrittore americano. Cioè lo è, è sempre ambiguo, e più da ragazzo, quando succede a Cesare a diciott’anni, e si mette alla guida di un partito del popolo, ma a fin di bene. Conoscitore impareggiabile dell’animo umano. Illuminato. Un intellettuale al potere per una volta  sapiente e buono, una sorta di incarnazione dell’ideale platonico – che in ogni altra materializzazione, fino a Lenin, Castro e forse Mao, ha costruito macerie. Specie a confronto con  l’intellettuale per eccellenza, Cicerone, naturalmente intrigante e profittatore. Mentre Marc’Antonio è il potere assoluto-dissoluto: “Ha più paura lui di noi che noi di lui, e non lo sa”, può dire di lui al primo incontro Ottaviano. Anche lui avrebbe voluto scrivere, come il prozio Giulio Cesare, e anche lui non si è “sottratto” al “dovere” del potere. Fino alla proscrizione da imporre obbligato all’amatissima figlia Giulia.
Di lettura a ogni pagina coinvolgente. È difficile farsi leggere per quattrocento pagine sgomitolando politica, ma forse per questa ambiguità-non-ambigua del suo Ottaviano Williams ci riesce. Del resto, il potere purtroppo è fatto così, si fa odioso anche in microscala, diciamo nel condominio. In una delle sue poche interviste, nel 1985 a Bryan Woolley, a Denver dove aveva insegnato (“Denver Quarterly” 20.3, 1985–86), Williams sornione lo dice pure: “Eccetto che in scala, le macchinazioni per il potere sono le stesse in un’università che a Roma e a Washington”.
John E. Williams, Augustus, il romanzo dell’imperatore, Castelvecchi, pp. 384 i. € 17,50

Come abbiamo pagato le banche tedesche

In ritardo, a nessun fine utile, giusto per sostenere un revanscismo sterile, astioso, e forse Renzi, il ministero dell’Economia pubblicizza le cifre del diverso trattamento che la Germania ha riservato alla sua crisi e a quella degli altri. Nella prima fase della crisi, Angela Merkel ha elargito aiuti pubblici alle banche tedesche per 250 miliardi, secondo il Mef. Contro i quattro appena, già restituiti, del governo italiano alle banche italiane. Elargiti peraltro, va aggiunto, solo nella seconda fase della crisi, dal 2010, quando l’Italia tutta fu jugulata dalla speculazione, che la Germania aveva avviato e alimentava.
Sono cifre cognite da tempo, registrate dunque in ritardo. Ma anche incomplete: il governo tedesco salvò le banche con 500 miliardi, di cui la metà a carico della Ue. Le vere cifre delle due politiche tedesche del rigore, note da tempo nella stessa Germania, sono anche nel nostro “Gentile Germania”, al cap. “La colpa è dell’Italia”, § La ricetta Ackermann:
“A ottobre 2011, per riaccendere la crisi che si affievoliva dopo la vendita dei Btp, il capo economista della Deutsche Bank, Thomas Mayer, pubblicamente aveva ammonito contro ogni aiuto all’Italia. In una col presidente del Ces-Ifo di Monaco, rinomato istituto di studi sulla congiuntura, Hans Werner Sinn, che aveva redatto e pubblicizzato una serie di note contro l’Italia, sul debito e le banche.  Con l’effetto non casuale di mettere nel mirino le banche italiane, meglio gestite e capitalizzate delle tedesche, elevando una cortina di fumo su quest’ultime, che erano tutte un colabrodo, Deutsche inclusa. “Offrire un’assicurazione di prima categoria sui titoli contro il fallimento dell’Italia ci colpisce come offrire un’assicurazione sulla cristalleria al padrone di una casa prossima a un impianto nucleare che sta per collassare”, scrisse Mayer online nel bollettino della banca. Neppure con la garanzia del Fondo europeo di stabilizzazione: “Né il padrone di casa né il detentore di titoli italiani si sentirebbero molto sollevati da questa assicurazione”. Con spreco di distinzioni fra germanici e latini.
………………..
“A fine maggio del 2012 Thomas Mayer è stato licenziato. Una tavola da lui costruita per dimostrare che Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia erano stati i beneficiari dei finanziamenti europei tramite la Bce dimostrava l’opposto.
“I rifinanziamenti Bce sono andati per l’80-90 per cento ai paesi euro del Nord da metà 2007 a metà 2009, e per il 60 per cento e oltre agli stessi paesi da metà 2009 a metà 2010. Quindi per tre anni, quando la stessa Deutsche Bank se la vedeva brutta, e alcuni colossi olandesi, belgi, austriaci. Solo nei dodici mesi successivi i Gip, Grecia, Irlanda, Portogallo, sono arrivati al 50 per cento – Italia e Spagna ancora a ottobre 2011 non superavano il 5. Non era la sola bizzarria del computo: i Gip erano arrivati al 50 per cento degli impegni Bce quando questi erano stati ridotti, a 400-500 miliardi. Quando la Bce aiutava i nordici l’impegno era sopra i 700 miliardi, in alcuni mesi sopra gli 800.
“Il dottor Mayer dimostrava cioè che per tre anni la Bce ha finanziato la galassia bancaria tedesca. Forse per questo fu sostituito, dopo il supermanager Ackermann di cui era stato il consigliere”.