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sabato 20 agosto 2011

Ombre - 99

Si è sempre saputo che la strage alla stazione di Bologna era legata agli accordi di transito delle armi per la guerriglia palestinese. Con o senza la collaborazione di Mambro e Fioravante. Che invece sono stati gli unici condannati, senza mai indagare i gruppi palestinesi e servizi segreti che li proteggevano. C’è un perché?
Perché non si fa un’inchiesta sulla Procura di Bologna, che scelse di proteggere il fronte palestinese? C’è un’organizzazione (intesa, accordo, fronte) per l’uso “politico” del terrorismo, come denuncia Battisti, il terrorista-scrittore – di cui il Brasile, un paese amico e democratico, è bene non dimenticarlo, riconosce le ragioni?

Prime pagine, e autorevoli commenti, di Roger Abravanel e altri, al “Corriere della sera”, dall’1 al 5 agosto per i troppi 100 e lode a un liceo di Reggio Calabria, lo scientifico Da Vinci. Che invece si scopre ora in testa a tutte le graduatorie nazionali di merito, pur essendo un liceo con 1.800 iscritti. Giornalismo? Un vero giornale sarebbe andato a vedere come si gestisce un liceo con 1.800 iscritti. O magari a far parlare i suoi tanti ragazzi “medaglie d’oro”, nazionali e internazionali.
Un vero giornale sarebbe magari andato a vedere perché nel Veneto gli studenti non sanno leggere, come si apprende dai dati comparativi che premiano il Da Vinci.

I buoni giornali non danno tregua a Renata Polverini, sia che vada alla fiera del peperoncino di Guglielmo Rositani, sia, in mancanza di meglio, se la sua scorta pretende di seguirla al ristorante. Hanno anche tentato d’incastrarla con l’affitto, e con qualche relazione, ma gli è andata buca. Tutto questo perché Polverini a sorpresa dimostra di saperci fare? Una donna, per giunta di destra. Non è possibile, ma è vero: quando si farà una storia spadoliniana dell’epoca, attraverso i giornali, una storia politica, sarà l’epoca della vergogna.

Battisti, condannato in Italia a quattro ergastoli, vive libero in Brasile. Riconosciuto nelle sue ragioni, se non assolto, dal governo e dai tribunali brasiliani. Intervistato da un settimanale brasiliano afferma di non avere ucciso né ferito nessuno. L’Ansa lo riferisce, che molti giornali italiani più o meno riprendono. Il “Corriere della sera” mobilita Gianni Santucci e Pierluigi Battista, per una cronaca e un commento, in cui di questo non c’è cenno.
Battisti sostiene di essere stato condannato in una serie di processi falsi istruiti dal Pm Spataro. Ma di questo non c’è mai traccia nelle cronache in Italia, neanche per caso. Neanche per dire che Battisti mente.

È Ferragosto e non si capisce bene. I Della Valle, nelle more della lunga corrispondenza con Moratti, il signore dell’Inter, con la quale divergono l’attenzione, o è l’estate dei signori?, scrivono una lettera aperta a Firenze: “Vogliamo un segnale dal sindaco e dai tifosi”. Altrimenti, intendono, molliamo la Fiorentina, la squadra di calcio. Un giorno. Il giorno dopo il sindaco Renzi manda una lettera aperta ai della Valle: “Firenze vi vuole bene”. Sembra da ridere e invece vuole dire: “Il progetto Castello ripartirà, me ne occupo”.
Ne parlano, in pubblico, a Ferragosto perché il Procuratore Quattrocchi è in vacanza? O il Procuratore è d’accordo? Castello è la più grossa operazione immobiliare in corso in Italia.

È capace di gestire le pressioni”: è la lode migliore che Prandelli trova per Giuseppe Rossi. Che è italiano, ma è nato e cresciuto negli Stati Uniti, lontano dal modo psicolabile del pallone italiano.

Dieci anni di appalti inutili per braccialetti elettronici, ci mancava anche questa. La giustizia è proprio corrotta. Per pochi soldi. Per appalti “politici”.

Répaci grande e amaro

Al centro del libro, anche figurativamente, il discorso che Répaci, candidato del Fronte Popolare a senatore nel collegio della sua Palmi, tenne in piazza nel 1948. Otto pagine (“il discorso è durato due ore”…) che fanno un prontuario dell’inutilità dell’intellettuale in politica. Pur essendo Leonida il fratello di Mariano Répaci, che il socialismo aveva radicato a Palmi, e il Comune di Palmi dalla liberazione per molti anni socialista, come pure poi il seggio senatoriale, con Giuseppe Carbone prima e poi con Giuseppe Marazzita, Leonida fu bocciato: il discorso, di cui evidentemente andava fiero ancora vent’anni dopo, è un manuale del “come perdere”. O l’inutilità è del Pci, che in Calabria ha avuto minore presenza e più deboli radici che in ogni altra regione d’Italia, compreso il Veneto bigotto. Un libro, anche per questo, di speciale interesse, non locale.
Si riedita nel quadro delle opere di Leonida Répaci questa raccolta a lungo trascurata, di antropologia locale (“un rapporto della civiltà calabrese” la dice nell’introduzione Luigi M.Lombardi Satriani), di un autore trascurato. C’è dunque una civiltà calabrese? La Calabria è molte cose, unita oggi solo dalla disgrazia politica, di una democrazia che non finisce di vomitare infamia – non disseminata peraltro uniformemente. Ma è un libro di rara intelligenza. Di ottima storia peraltro, sorprendente e accurata. Anche se con qualche confusione tra feudo e latifondo, o fedecommesso, legato in gran parte dall’eversione della manomorta (ma la breve storia del latifondo, a p.252, è di rara, ancorché concisa, precisione), e l’assenza, nella dettagliata genealogia, dei normanni e i bizantini, quelli che più hanno “occupato” la regione.
Un’opera che in un altro mondo (un’altra regione, un’altra Italia) avrebbero reso a Répaci un’altra considerazione. Ma questa è la Calabria qual è, rispettosa e indifferente. Una “grande civiltà” in effetti c’è, per magia dell’autore, in mezza pagina (p.9). In mezza pagina imbattibile è anche l’italiano (32-3). Stupefacente, all’interno del cap. II, “La Calabria grande”, la sinossi di storia bruzia. Con una sintesi che non si saprebbe contraddire, seppure oggi remota e anzi avulsa: “La civiltà della Calabria, quella per la quale è immortale, si fonda sulla prima categoria di interessi: quelli spirituali”. Una storia meravigliosa è quella di Catanzaro, anch’essa in mezza pagina (281). Per il resto l’intento celebrativo, e in lunghi pezzi autocelebrativo, non soverchia mai quello critico.
Alcune cose, che Répaci non mette in rilievo, giustificano da sole il titolo. In queste trecento pagine, nell’arco di venticinque anni, il solo evento di rilievo in Calabria è la visita di Fanfani. Crotone, che Répaci vedeva land of opportunity per eccellenza, vede ridotta dopo quarant’anni la “grandiosa prospettiva del mercato orientale, oltre che dell’industrializzazione”, a punto d’approdo per i barconi degli immigrati orientali. La vendita impossibile di un uliveto a Castellace, sintetizzata in un breve dialogo del 1963, testimoniabile per esperienza diretta, si confronta, dopo quarant’anni, col sequestro o la confisca di tutto l’agro di quel paesino di ex galeotti: la proprietà privata non difesa è oggi confidata a Libera, con pattuglie blindate di carabinieri al seguito, e questa è la lotta alla mafia.
C’è anche lo scrittore, sotto il polemista. Specialista, sotto l’ambizioso programma della saga familiare, di racconti brevissimi, fulminanti. La morte del fratello Peppe. La lotta suicida dello squalo con lo spada. O il perito Bussola travolto dalla scienza – esemplare della “coglionella”, che sembra l’espressione tipica dello spiritaccio locale.
C’è la parsimonia che non è una virtù,l’accontentarsi di niente, la sordidezza dell’abitazione: “Su questa capacità di adattamento, sull’abitudine a non avere niente, è stata consolidata la servitù sociale”. Che è vero e non lo è. Non lo è perché la servitù sociale in Calabria è sempre stata contenuta e contestata, al confronto col resto d’Europa – il confronto col resto d’Italia non è altrettanto macroscopicamente favorevole perché in Italia , col papa e col vescovo, la servitù sociale non è ma stata molta (bisognerà prima o poi uscire dai calchi interpretativi e riprendere la storia). Tanta insofferenza non toglie però che il calabrese viva oggi - quando Répaci scrive e ancora dopo cinquant’anni - come se fosse in regime di sottomissione, quale la descrive Répaci, perché non ha capito la democrazia, i meccanismi che ne fanno un’arma di liberazione: “Quella capacità di adattamento significa comuni senza strade, senz’acqua, senza luce, senza scuole, senza ospedali, senza gabinetti scientifici, senza teatri, senza cinema, senza biblioteche, senza asili infantili, senza cimitero”. Che sembra un’esagerazione ma è la realtà di quasi tutti i paesi calabresi. Che, se hanno ora tutti il cimitero, hanno anche case troppi piccole o troppo grandi, e debiti.
Dell’eversione della manomorta, a “partire dalla riforma antifeudale di Pietro Colletta e Pasquale Scura”, Répaci individua peraltro i germi infettivi. In cambio di poco o nulla, e incendiando gli archivi per eliminarne le prove, milioni di ettari sono stati passati a borghesie ingorde e inutili. Con l’appropriazione successiva anche delle terre comunali, assegnate dalle riforme ai comuni per gli usi civici (tutti gli usi civici, sia che i comuni abbiano rifiutate le assegnazioni, sia che le abbiano accettate).
Répaci si vuole calabrese a parte intiera, senza la riserva cui il suo ruolo in Italia e la sua formazione cosmopolita potrebbero indurlo, eccessivo sempre, partecipe, sia pure da antropologo, più che critico. Per esempio nel gusto insopprimibile della beffa, ai danni dei folli di paese, la “coglionella” degli “innocenti”. Che qui si vendicano: nell’episodio celebrato dell’agrimensore Bussola, che invecchia immaginandosi scienziato, il presidente americano contemporaneo di Gentile, Mussolini e Vittorio Emanuele III è Truman, e la vicenda di Bussola farlocco si trascina per alcuni decenni, una specie di fascismo eterno. Molto calabrese anche l’autocelebrazione, la discrezione e l’indiscrezione sono ugualmente autoctoni , che qui abbonda - sul declivio, purtroppo, piccolo borghese.
“C’è qualche pagina di troppo”, nota Luigi M. Lombardi Satriani nella presentazione, per esempio gli elogi di Sansone e Debenedetti allo stesso Répaci. Ma anche questo è un segno dell’isolamento dell’autore nella sua “terra amara”, di una sorta di snobismo proletario nei confronti di qualsiasi autorità e quindi anche del genio, malgrado il professo riconoscimento delle qualità morali e intellettuali, che è forse l’indifferenza del bisogno, della vita dura, o più probabilmente di un’anarchia distruttiva, di un individualismo che è invidia sociale.
È, come tutto in Répaci, un libro affrettato: farcito, anche poco curato, con alcuni effetti sgradevoli. Questo si segnala per il settarismo, tanto forte da condizionare un animo pure irruento e tollerante quale Répaci era. Fa la cronaca minuta nel 1963 a Cosenza di un convegno per creare l’università, con profluvio di nomi, avendo cura di tacere quello di Giacomo Mancini, che l’università della Calabria progettò e creò – a Mancini potrà liberamente tributare grandi elogi in “La Pietrosa racconta”, quando “al teatro Sciarrone\ Giacomo Mancini ministro\ del governo Aldo Moro\ dà la grande notizia\ che sarà realizzata\ la Casa della cultura\ da me suggeritagli”, per i settant’anni dello scrittore. La faziosità è anch’essa molto calabrese.
Leonida Répaci, Calabria grande amara, Rubbettino, pp. 347 € 15

venerdì 19 agosto 2011

I 100 e lode di Reggio C. e il “Corriere” razzista

Se il “Corriere della sera” è Milano, Milano è razzista, e non c’è difesa. Lo ha sperimentato la preside del liceo scientifico Da Vinci di Reggio Calabria, Giuseppina Princi, che non ha trovato in tre settimane uno spazio nemmeno piccolo alla paginate di dileggio del “Corriere della sera” per i “troppi” 100 e lode dei suoi maturandi. Il cui unico scopo a questo punto è solo uno: rendere la vita impossibile a chi studia in Calabria.
Dopo molto inutile cabotaggio la preside Princi ha avuto due colonnine sulla “Gazzetta del sud”, nella pagina di Reggio Calabria. Vale la pena rileggerle, seppure a nessun fine utile a questo punto, per gli ottimi argomenti che espone. I 100 e lode al suo istituto sono stati 20 e non 26. Per un liceo che “è, numericamente, il più complesso d’Italia con i suoi circa 1.800 iscritti”, e 320 maturati quest’anno. I voti alla maturità sono in linea con le “prove comparative internazionali”: nelle prove Ocse Pisa (programma per la valutazione internazionale dell’allievo) l’Istituto di Valutazione Nazionale (Invalsi) ha certificato per il Da Vinci risultati “non solo al di sopra della media Ocse, ma anche della media del Veneto”: in matematica, scienze e lettura la media Ocse è di 493, “i ragazzi del Vinci hanno riportato i voti di 513, 520 e 549”, il Veneto di 508, 518 e 505. I suoi studenti, continua la preside, hanno anche ottenuto riconoscimenti extra scolastici: medaglia d’oro nazionale di fisica, di biologia e di astronomia, medaglia d’argento alle olimpiadi di biologia di luglio a Taiwan, e tre classificati tra i 25 migliori studenti d’Italia a giudizio della ministra Gelmini e del presidente dell’Accademia dei Lincei. Gli esami di maturità sono stati seguiti e revisionati dagli Ispettori, senza alcun rilievo critico.
La preside Princi non ha avuto neanche le attese scuse dell’assessora vicentina alla Cultura Martini. Una signora che aveva preteso copia dei verbali di classe degli ultimi tre anni degli studenti del liceo scientifico di Reggio Calabria maturati col 100 e lode. Cultura? Il Veneto dirà un giorno che non è stato leghista, ma questa è purtroppo la realtà.
Il “Corriere della sera” non è stato il solo a rilanciare il razzismo leghista. Ma ci ha schierato pure l’esperto, che conviene a questo punto rileggere,
http://www.corriere.it/dilatua/Primo_Piano/Cronache/2011/08/02/benvenuti-al-sud-con-cento-e-lode-roger-abravanel_full.shtml
e ha aperto le ostilità l’1 agosto condendo le argomentazioni leghiste con centinaia di interventi a supporto online. Un vero plebiscito di stupidaggini, che ancora oggi fanno testo sul sito.

Yourcenar sadomaso

La raccolta è nella media dei racconti da trenta righe del vecchio concorso della rivista “Achab” – quanti piccoli-e Yourcenar saranno stati bocciati inavvertitamente? Con presentazione e postfazione incredibilmente sciatte. Il postfatore traduttore, Francesco Saba Sardi, usa “ne si assicurò”, “una curiosità la impulse” e altrettali preziosismi.
Yourcenar forse non ha fondo, ma la qualità dei suoi interpreti è irritante, per vacuità e supponenza. Il racconto del titolo è però originale, sado-maso – molto costruito, una sorta di saggetto S-M.
Marguerite Yourcenar, Racconto azzurro

mercoledì 17 agosto 2011

I giudici contro le legge

È come se la sindrome Procuratori della Repubblica, superficiali, carrieristi, aggressivi, si fosse installata nella giudicatura. Nel caso di Alessandria, dell’ubriaco assassino di quattro giovani francesi, e in troppi altri analoghi, è evidente da più segnali l’atteggiamento provocatorio del giudice di fronte alla legge – la quale non vuole il carcere per un incensurato, che non mostri segni o abbia l’occasione di reiterare il reato.
Si è trovato un giudice per la liberazione dell’assassino in tempo reale, mentre normalmente gli accusati aspettano mesi per incontrane uno. Di fronte al quale giudice gli inquirenti, carabinieri e polizia stradale, hanno trovato opportuno tacere i precedenti di cui sicuramente le loro Note si servizio, se non il casellario giudiziario, sono pieni: Ilir Betim, l’assassino, no n è uno venuto fuori dal nulla. Costringendo il governo a ipotizzare un apposito ridicolo reato di “omicidio sull’autostrada”.
Si resta allibiti di fronte alla posizione della Procura di Alessandria, la sostituta Sara Pozzetti e il capo Michele Di Lecce: “Si tratta di una persona incensurata con una vita normale e un lavoro stabile”, si sono premurati di far sapere nell’imminenza del plurimo omicidio. Ma più deve preoccupare che si sia trovato un giudice che ha dato loro credito. La figura del giudice è quella del giurisperito pensoso che applica la legge con equità e rigore. Ma è falsa: il giudice italiano, che ogni tanto è stato o sarà Procuratore, è un piccolo politicante impiantato nella giustizia. Vendicativo – provocatore, ama definirsi.

L’amore religioso dei ragazzi

Poema del’amore dei ragazzi, per una volta non manierato. Del corpo dei ragazzi. Profano certo, considerando la sessuofobia dei preti. Blasfemo anche, poiché è l’amato Giovanni, il corpo del ragazzo, che riporta Dio nel Cristo: “Soave fanciullo,\ corpo leggero,\ riflessi di luce…\ Perduti in nubi\ d’indifferenza,\ in Sé ci chiama\ e a Sé c’informa\ questo Tuo Corpo”.
Sembra bizzarra, questa associazione tra gioventù, chiesa e l’amore dei ragazzi, un’altra ricerca dell’effettaccio. E invece è religiosa nell’intimità – non ci sono molte evenienze ultimamente di Dio nella poesia: in quell’intimità col creato che fa il cristianesimo cattolico. Gioiosa certo, nella malinconia, una religione di salvezza. Ne è riprova l’onestà del poeta, ancorché confusa. E la disperazione che appare coltivata e artificiosa, fino al “suicidio”, la morte cercata.
Con l’unica poesia moderna verginale per la Vergine – cui apparenta mirabilmente, ma devotamente, la “madre giovinetta”. E con l’Italia tutta, nelle sue regioni, la lingua, i temi biblici. È una crestomazia nazional-popolare, la prima duratura aspirazione.
P. P. Pasolini, L’usignuolo della chiesa cattolica

domenica 14 agosto 2011

Milano guida l’attacco all’euro

Non promette nulla di buono lo schieramento di Milano sulla manovra salva euro del governo, alla riapertura martedì del mercato – ma un primo assaggio si potrebbe avere in Europa già domani. L’aria è di una terza spallata all’euro, che potrebbe essere l’ultima – la strategia dello sfiancamento, con attacchi ai margini, potrebbe essersi esaurita. Il “Corriere della sera” spudoratamente, “Il Sole 24 Ore” con garbo, hanno affondato preventivamente la manovra.
Prima di spiegare la manovra, il “Corriere” la stronca – nel gergo britannico del buon giornalismo è una cosa che non si fa, “kill the news”, ammazzare la notizia. Schiera cinque editorialisti contro in prima pagina, compresi Monti, Rizzo, Stella, Polito, sette cronache-intervista contro nelle pagine interne (Camusso naturalmente, con Montezemolo, Marcegaglia e altre ruote di scorta), fa esposizioni critiche delle misure del governo, sceglie due paginate di critiche in forma di lettere al direttore, e sui tagli di comuni e province innesta un delirio di critiche e controcritiche – la politica va tagliata ma nessun comune e nessuna provincia ci deve rimettere.
Milano è stata con Londra la piazza pilota del secondo attacco all’euro, quello delle ultime due settimane. Con maggior vigore quando il declassamento del debito Usa sembra dovesse spostare la speculazione sul dollaro. La determinazione lungo l’asse Milano-Londra è quindi organizzata, oltre che forte.
Già ora la Borsa italiana vale meno di due aziende Usa messe assieme, seppure brillanti, quali Apple e Google. Ciò è insensato ma è anche il segno di una volontà pervicace di abbattere i valori. Ci saranno sorprese al controllo dell’economia dopo la tempesta, se l’Italia sopravviverà. Già oggi i grandi complessi bancari, le cui partecipazioni e i cui investimenti in titoli di Stato si vogliono all’apparenza ridotti a “niente”, restano preda incontestata delle fondazioni confessionali.

L’acqua benedetta star della corruzione

È come se i referendum, plebiscitari, avessero autorizzato la manomissione senza limiti dei bilanci familiari per l’acqua, ora benedetta oltre che francescana. Archiviato lo straordinario sì all’acqua bene pubblico, complici gli stessi Bersani e Di Pietro che la stessa acqua avevano privatizzato, surreali dibattiti sono in corso tra i fautori dei referendum stessi, presi al laccio della loro demagogia. Di uno di essi, tra Publiacqua, il consorzio di 49 società pubbliche, e alcuni economisti esperti, ospitato dalla “Staffetta Petrolifera”, l’unico benemerito forum su una questione di tanta importanza (il bollettino ne fa la sintesi nel numero del 30 luglio), i termini sono questi.
“Il sentiment dell’opinione pubblica”, argomenta anglicizzando il presidente Pd di Publiacqua, Erasmo D’Angelis, “si è aggrappato al potente brand dell’acqua pubblica (e gratuita) come a un salvagente etico e ideale di fronte a una politica nazionale mai caduta così in basso e ad una società debilitata dalla frammentazione di mondi, blocchi sociali, partiti di massa, sistemi di valori un tempo solidi e compatti”. Una chiamata alle armi, la solita - con e senza l’acqua. Dopodiché “la valanga di sì che doveva «mandare a casa Berlusconi» rischia di mandare a casa i lavoratori. L’acqua, infatti, non è solo emozioni, nuvole e pioggia. È un ciclo industriale e un servizio di pubblica utilità che significa oggi soprattutto fognature, depurazione, disinquinamento. È un lavoro che richiede continuità negli investimenti, scelte e certezze legislative”. Insomma, pagate.
Il business è grande, 147 aziende idriche, il 97 per cento delle quali sono integralmente o a maggioranza pubbliche, ma non abbastanza per le fameliche orde degli amministratori locali. Ora ci vuole un’Autorità nazionale idrica “indipendente e autorevole”. Cioè ben remunerata.
Inoltre, abbiamo votato solo sul 20 per cento dell’acqua che ogni giorno si consuma in Italia. “Un quinto del totale”, dice Publiacqua, “e il resto?” Un 20 per cento si spreca per raffreddare i macchinari delle fabbriche o alimenta il business delle acque minerali, di cui gli italiani sono i più golosi consumatori, dopo gli arabi degli Emirati e i messicani. Un 50 per cento va a usi irrigui, “dove se ne spreca almeno la metà per via di impianti obsoleti”. Il restante 10 per ento va in produzione energetica con l’idroelettrico. Insomma, l’80 per cento dell’acqua rimane ancora in mani private, e ciò è insostenibile, lamenta D’Angelis. Perché i privati non pagano “abbastanza”.
D’Angelis scrive in sostegno della proposta di legge del suo partito. Ma in questi termini: ci vuole un piano d’investimenti per 64 miliardi in 30 anni, per fognature e depuratori, e una tariffa che generi queste risorse. Insomma un aumento subito, consistente. L’abolizione referendaria del principio della remunerazione del
capitale ha, passata la sbornia, lasciato le casse a secco: “Cancellata la remunerazione del capitale investito, è saltata la possibilità di poter accedere a
mutui e finanziamenti bancari o di enti finanziari”. Che fare, allora? Daccapo: “Una possibile leva è quella delle tariffe, che sono tra le più basse in Europa (135 euro l’anno in media) che dovranno essere trasparenti e uniformi sul territorio nazionale”. Cioè trasparentemente aumentate. Minacciosamente anche: “Ancora oggi ci sono 170 mila km di reti idriche e di fognatura da rottamare e altre 50 mila km da posare”.
Seconda bugia: ripubblicizzare, come si è lasciato intendere nel referendum, non è possibile: “A Parigi, la madre di tutte le ripubblicizzazioni, l’acqua è tornata nella gestione municipale a fine concessione e dunque a costo zero per le casse della città e senza ridurre la tariffa (tre volte più alta della nostra). Non è una differenza da poco. Nel caso italiano, infatti, il ritorno al municipio significherebbe un salasso finanziario per i comuni, che hanno l’obbligo di indennizzare i soci industriali”. Da non credere.
La “Staffetta Petrolifera”, che ha voluto risposte certe dai gestori del settore, rileva: “E’ interessante intanto la conferma di D’Angelis che delle 147 aziende idriche solo il 3 per cent sono (erano, n,d.r.) private; un punto che ha confuso la battaglia referendaria convincendo l’opinione pubblica che la privatizzazione è la causa di tutti i mali. Non è così: il sistema è da sempre in mano pubblica e, spiega D’Angelis, «la cartina di tornasole che portò alla luce il disastro idrico fu l’affidamento del servizio da parte degli ATO ai gestori dagli inizi del 2000», quando ci si accorse dello stato pessimo di manutenzione e di tecnologia delle reti”.
Roberto Macrì, economista dell’energia che interloquisce con l’articolo del presidente di Publiacqua, riflette che “la strategia comunicativa dei referendari ha deviato l’attenzione della pubblica opinione dal fatto che la dimensione degli investimenti, la rilevanza dei costi operativi, la complessità progettuale, il livello delle tecnologie e i consumi di energia elettrica richiedono per l’acqua una gestione di tipo prettamente industriale”. Il 40 per cento dei nostri corpi idrici sono inquinati, aggiunge Macrì, e a questa situazione riferisce la stima di 64 miliardi di investimenti fatta da Federutility nel 2010 - con la previsione di un aumento formidabile dell’occupazione nel settore da 160 a 550 mila persone. Ma non tutto è chiaro: “Sono cifre imponenti che perciò meritano una attenta verifica. Sono frutto di un censimento uniforme su tutto il territorio nazionale? Sono dati ricavati da un campione di aziende o da tutte e 147? Le opere si riferiscono solo agli acquedotti cittadini oppure comprendono le infrastrutture di collegamento? In funzione di quali parametri varia in misura così forte la previsione di nuova occupazione?”. C’è imbroglio? C’è: si chiedono soldi per niente.
“Ma soprattutto”, continua Macrì, “è importante verificare se la stima degli investimenti ha tenuto nel debito conto due obiettivi prioritari. Primo: l’eliminazione delle perdite di rete e dei furti d’acqua dalla rete e dai pozzi abusivi. Recuperare 100 mc di acqua al secondo eliminando le perdite di rete costa al massimo 100 euro per la ricerca e altrettanto per le riparazioni: 200 euro dunque a mc. Mentre per fare un pozzo con le stesse potenzialità di produzione e profondo 20 metri può costare fino a 25 mila euro”. L’economista fa l’esempio di un Comune di 30 mila abitanti che ha ridotto una previsione di spesa per aumentare la disponibilità idrica da 2,1 milioni di euro a soli 80 mila euro, quanto costava la ricerca e riduzione delle perdite di rete”. L’acqua come sorgente di corruzione?