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sabato 16 novembre 2013

La Francia debole è antipatica

Non si è spento il ridicolo della guerra preventiva al siriano Assad, già decisa da Hollande, che in Libia le “forze rivoluzionarie” che Sarkozy ci ha imposto di liberare si sparano nelle città. Parigi ha adottato una politica di forza che è manifestazione di forte debolezza.
Due presidenze deboli e avventurose non sono un caso – tanto più che succedono alla lunga presidenza minoritaria di Chirac. Svanito il bluff Mitterrand, la Francia mostra la sua vera dimensione: di paese ricco, sicuramente tra i maggiori in Europa, ma non più una potenza. Non la potenza che pretende di essere. La misura del vuoto è nell’arrendevolezza dei suoi tonitruanti presidenti di fronte a Angela Merkel: l’asse franco-tedesco non pende più – da tempo – verso Parigi ma verso Berlino.
Più grave ancora, se si può dire, è l’indigenza intellettuale che accompagna quella politica. La Francia ha avuto a lungo una funzione di preminenza culturale. Ce l’ha tuttora in alcuni paesi, l’Italia per prima, la Spagna, la Grecia, il Portogallo. Ma è impossibile riconoscersi nel “Monde” di oggi, che non sa essere altro che anti-americanista, roba da anni 1950. O nei suoi “filosofi” in vario modo guerrafondaisti, Lévy, Bruckner, Glucksmann.
La scomparsa della Francia è la difficoltà più forte che l’Italia, terzo incomodo dell’Unione Europea, trova in questo momento. Che vede nella stessa Ue il punto debole della sua integrazione internazionale (l’Italia ha rapporti ottimi con gli Usa, la Russia, e i mondi più lontani, ma pessimi in Europa). La Francia non è stata amichevole con l’Italia, che pure aveva creato, per tutti i suoi 150 anni di storia. Ma era un contrappeso utile nella bilancia europea. 

Problemi di base - 159

spock

C’era dunque un cieco che andava cantando, Omero, ma di cosa racconta, una guerra di dieci anni?

Per una donna: si faceva guerra per una donna?

Che cos’era il libero arbitrio?

E il mutuum adiutorium?

C’era in uso la famiglia, se ne parla molto: veniva da fame?

E Roma, era una città?

Dicono che Fellini sia vissuto qui: è possibile?

Dicono che la storia finisce, ma che storia è?

stock@antiit.eu

L’autore ha l’oro in bocca

Uno 007 della pirateria. Alle isole Ebridi, quando la notte è proprio nera, fitta di pioggia e di nebbia – e anche il mattino. Di un Fleming dimenticato ma molto migliore del modello alla lettura. Anche visivamente: James Bond è mozzarella di fronte a Philip Calvert. Che può pure cantare un inno alla “vecchiaia”, alla bellezza e all’agilità della voglia di essere. Nel suo modesto ruolo di best-sellerista, autore dei “Cannoni di Navarone”, poi alcolizzato, lo scrittore scozzese che imparò l’inglese da adulto testimonia la potenza creatrice del racconto.
Alistair MacLean, Ora zero: operazione oro

venerdì 15 novembre 2013

Bruxelles è un tribunale, non un governo

Il cosiddetto esecutivo di Bruxelles è un tribunale e non un governo. Un governo governa per il bene di tutti, un tribunale spartisce il diritto dal torto. È quello che i commissari di Bruxelles fanno ogni giorno. E ciò è la causa prima delle difficoltà persistenti delle economie che hanno avuto un problema: questi “giudizi”, in un mercato aperto, tendono a deprimere e non a risanare. Analizzando l’andamento dello spread italiano giorno per giorno si vede che esso è determinato, nelle oscillazioni negative, da annunci (condanne) di Bruxelles – quando non di questo o quell’esponente tedesco, Schäuble, Weidmann sopra tutti (da quando il governo tedesco è in crisi politica, non ci sono più le loro dichiarazioni settimanali, e lo spread naviga al ribasso).
La retorica europeistica riesce a camuffarlo, per quanto stereotipa. Ma il fatto è evidente per qualsiasi operatore. In un mercato aperto ogni presa di posizione di Bruxelles equivale a un giudizio. La Commissione non opera con i criteri di una funzione pubblica europea, in cui si fanno proposte, si discutono, si adattano, e si annuncia un provvedimento conclusivo. Che non si condanna. La Commissione si muove come una Procura della Repubblica: formula ipotesi di reato e cerca perfino di provarle.
Gli stessi commissari sono e si propongono come giudici, supposti super partes (“tecnici”), e non come  uomini politici e di governo. Non operano per il bene comune di tutti ma secondo procedure – leggi.

Evidente è poi che i commissari rispondono a certe logiche e non altre. Da alcuni anni rigorosamente a quelle di Berlino.  La tattica del risanamento inattuabile gestisce Olli Rehn, uno che non si sa se più incapace o più tedescofilo. Mentre la concorrenza è gestita da uno spagnolo, Almunia, sopranominato il tedesco di complemento – uno che ha sempre da ridire sulle banche italiane, che se la cavano tutto sommato bene, e nulla sulla Germania, dove il governo Merkel di centro-destra ha finanziato le sue banche, secondo un calcolo dei socialisti tedeschi, con 290 miliardi.

Le spoglie di Marino all’Opera

Un figurone regalato a Bruno Vespa, vice-presidente dell’Opera di Roma. Parte con un autogoal l’offensiva di Ignazio Marino e Flavia Barca, assessore romano alla cultura, contro la stessa Opera. Partita con grande spiegamento di giornali, sul tema “l’Opera di Roma non è la Scala”, e minacce di commissariamento, l’offensiva ha finora registrato le barricate dei sindacati, e una comoda palla sui conti innalzata a Vespa. Che ha potuto replicare gongolante, alla vigilia del defenestra mento: i conti sono in ordine.
E non è finita. L’offensiva è in realtà contro Muti, questo sito scriveva un mese fa:

A questo punto maestro avrebbe deciso di lasciare. Ma sarebbe un secondo autogoal. Forse i sindacati faranno saltare la prima. Se si farà, Muti potrebbe dirigerla dimettendosi da direttore onorario “a vita”.

Queneau ritorna, con Parigi

Stesso libro, stesso autore, stesso traduttore, editore diverso in pochi mesi – o è lo stesso editore ricopertinato con nome diverso? Decisamente si vuole per questo Queneau di ritagli un po’ di fortuna. Che a una seconda lettura può pure dirsi meritata, almeno per qual quarto di testo a lui riconducibile – il libro raccoglia la rubrica “Conosci Parigi, da Queneau curata per due anni, nel 1936-38, sul quotidiano “L’Intransigeant”. Queneau è un parigino che ama Parigi, riposante.
Raymond Queneau, Conosci Parigi?, Clichy, pp. 273 € 13

giovedì 14 novembre 2013

L’ultimo viaggio si racconta meglio

Si parta dalla fine, “Vesch”, un contributo al “Verri” del dicembre 1967 dedicato al teatro: è una singolare constatazione del fallimento dell’avanguardia, nel luogo della stessa avanguardia, e con l’intento di farsene mentore e interprete. Beffardo: “Non c’è Solvejg che tenga, il che è esemplificato, volendo, dal fatto che il teatro della crudeltà, in quanto Teatro resta un’utopia, in quanto Della Crudeltà è teatro della crudeltà nei confronti del teatro, e in quanto Teatro della Crudeltà non è propriamente teatro perché è un libro: Le Théâtre et son Double”. Della neo avanguardia, o Gruppo 63. Che magari non fallisce perché la sua cifra resta l’ironia, formidabile strumento passatista – “la cosa morta, sul catafalco, si muove”. O lettura saggia del reale, da realpolitiker, se si riflette che “la Rinascente”, ultimo luogo neo avanguardista del teatro, dopo le piazze, i talk show, i tinelli e l’analista, è diventato il luogo – tecnicamente il “non-luogo” – per eccellenza della socievolezza e la rappresentazione del reale – Filippini dice contemplazione. Nell’afasia. Le altre opere teatrali qui  riunite, “Flettere flette amore” e “Giuoco con la scimmia”, riflettono questa impossibilità – l’ironia dissecca, a tan to più nella verbosità.
Si ripropone Filippini narratore e commediografo con le ultime celebrazione del Gruppo 63, Una neo avanguardia molto established, Furio Colombo, Eco, Sanguineti, Porta…, professori, dirigenti editoriali, politici. Filippini si toglie due anni, sì da potersi dire ventenne, e non già trentenne qual era. L’ultima avanguardia, vista cinquant’anni dopo, è autodistruttiva, sterile – questo si vede a Roma con malinconica esposizione celebrativa al Parco della Musica, curata da Achille Bonito Oliva, Porta, Spatola, Balestrini, Schifano, “I novissimi”, la dimenticata antologia poetica, e “La nuova letteratura”, l’antologia narrativa rimasta ignota. Il Gruppo 63 fu solo cassa d risonanza per i suoi autori. Molti dei quali non ne condividevano peraltro più o meno nulla, Eco furbesco, Arbasino divertito, lo stesso Sanguineti.
È diverso per i racconti, meno programmatici. “Settembre” sì, un racconto sul modo di scrivere un racconto, è legnoso, da maestrino – specie al confronto con la presentazione, che Bosco riporta in nota, di Umberto Eco alla prima pubblicazione, sul “Menabò” del luglio 1962. Ma già con qualche notazione discorsiva: “Il vero personaggio”, benché ipotetico, “ha trent’anni, ed è spacciato”. Il racconto del titolo, l’ultimo di Filippini, che apre il libro, è invece accattivante: una sottile ma ribadita a ogni paio di pagine, martellante, forma di estraniazione. Di astensione. Qui come incapacità di amare, di empatizzare, entrare nell’altro. Con cui l’autore solo sa vivere come guardandolo al microscopio, vivisezionandolo anche, nervetto per nervetto. Conscio della propria impotenza. O dell’amore come fotogramma al montaggio, di un montatore freddo. Bravo perché freddo. Filippini è un fingitore che non sa o non vuole fingere. Per questo anche “scrive” poco. Scrive moltissimo, scrive ogni giorno, è la sua professione, di redattore, editore, inviato speciale,  ma poco come autore-fingitore. Una sorta di tantrista, che il piacere esercita in limine, con l’attesa, il rinvio, l’astensione.
Di questa astensione riesce però a fare, specie in “L’ultimo viaggio”, quasi un romanzo, infine materia di racconto: l’estraniazione di un’estraniazione. Avendo deciso, da ultimo, dopo l’impasse cui confina la parodia, per lo “scrivere spoglio”. Sul vissuto proprio, delle “enormi stanchezze”, l’alcol, la salute, la solitudine (di Filippini, compagno muto di banco al giornale, resta l’immagine di una testa arruffata, al volante della indiscreta Dino-Ferrari rossa, in piazza Rondanini, una piazza minuscola al centro di Roma che allora era un parcheggio, che il suo sguardo smarrito dilatava e svuotava). Seppure praticando l’astensione: “So di cosa ho taciuto, ma non ricordo bene di cosa abbiamo parlato”, si dice. Un’esistenza forse, sicuramente una pratica letteraria dominata dalla dilettazione inconcludente.
Alessandro Bosco, lo studioso che ne coltiva il patrimonio letterario, fa in questa svelta raccolta dei testi creativi - racconti e teatro - di Filippini quasi un’edizione critica. Piena di appigli coinvolgenti. Con un primo bilancio esegetico.
Enrico Filippini, L’ultimo viaggio, Feltrinelli, pp. 293 € 9,50

Quando Mani Pulite tirava le reti

Vent’anni fa era un’altra giustizia – ma non persuasiva, nemmeno allora:
“«Micromega» pubblica 300 pagine di «i giudici stiano calmi» e «niente giustizia popolare».
“Andiamo alla chiusura delle reti? Sembrerebbe di sì, se i giustizialisti vogliono «giustizia». Tolta di mezzo la vecchia classe dirigente, tutta inquisita, i nuovi parlamentari dopo le elezioni si vogliono per definizione tutti santi. Così pure i salvati della vecchia politica”.

mercoledì 13 novembre 2013

Colpevole di marito

Alessandra Sarlo è, era, uno dei dirigenti più preparati della Provincia di Reggio Calabria. Capace, per consenso generale, e vogliosa di lavorare. Benché ereditiera e redditiera di vasto censo – palazzo Sarli è al centro di Reggio Calabria. Accantonata per la direzione generale dalla giunta di centro-sinistra, aveva vinto il ricorso amministrativo. Risultato: aveva avuto il titolo, ma non la funzione. Indecisa se protestare per l’evidente caso di mobbing, cercò un “lavoro” alla Regione, governata dal entro-destra. Gli furono offerti incarichi di rappresentanza, che rifiutò. Finché il presidente della Regione, Scopelliti, non la nominò commissario alla Asl di Vibo Valentia.
È partita allora la “caccia alla donna”, e ora Alessandra Sarlo è imputata di “corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio”. L’ha scoperta la giudice di Milano Boccassini, indagando sul marito della dirigente, il giudice di Palmi Vincenzo Giglio. Giglio è stato condannato a Milano in primo grado per contiguità con la ‘ndrangheta di Reggio. La moglie è colpevole, per il gup di Reggio Calabria, Domenico Commodaro, perché il marito mandò al consigliere regionale Franco Morelli, poi suo coimputato al processo per ‘ndrangheta, questo sms: “Ti confesso un piccolo segreto: mia moglie fa parte della piccola cerchia di persone a cui piace lavorare molto. Perciò, quale che sia la destinazione, per favore, che sia un posto fortemente operativo e non di mera rappresentanza”. 
Alessandra Sarli è dunque colpevole di marito – ma più che del marito, Vincenzo Giglio, dei cugini di lui, il medico e l’avvocato Giglio.
Ma, se non dovesse andare bene questo processo, un altro la attende. Due mesi dopo l’arrivo di Alessandra Sarli, la Asl di Vibo Valentia venne commissariata dal ministero dell’Interno per infiltrazioni mafiose, anteriori al primo commissariamento. Sarli fu messa allora a capo, previo concorso, della direzione regionale Controlli. Per questo sarà – eventualmente – giudicata insieme con Scopelliti e col direttore del Personale. Voler lavorare, in Calabria, è un delitto: i giudici se ne adontano.
L’ammazza-giudici
Il marito Giglio è peraltro condannato per niente. Per essere stato amico da sempre di Morelli. Si dice che abbia rivelato a Morelli notizie riservate sulle inchieste, ma non è così. Questo ha lasciato intendere la Pm Boccassini e questo il Tribunale di Milano ha recepito: nessun giudice darebbe torto alla Pm Boccassini, che ha fama di ammazza-giudici.
Nelle intercettazioni cui era sottoposto Giglio non dà notizie di indagini riservate, né su Morelli né sui mafiosi che gli avrebbero procurato i voti, né su nessun altro. E una richiesta del Giglio-imputato di produrre in Tribunale, che solo può ordinarlo, il registro segreto degli accessi alle inchieste riservate è stato rigettato. Non bisogna sapere chi può aver dato ai mafiosi le informazioni riservate?

La fama di ammazza-giudici è legata alla fine prematura dei giudici romani Squillante e Misiani, che Boccassini fece indagare per mesi da investigatori mandati da Milano al bar del palazzo di Giustizia quando prendevano il caffè. Un terzo giudice Boccassini avrebbe voluto coinvolgere con Squillante e Misiani, Augusta Iannini. Squillante e Misiani, uomini di sinistra, ne fecero una malattia e morirono, Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa, contrastò Boccassini ad armi pari – poi le prove “si ruppero”: le registrazioni erano state riversare su un cd che, caso unico nella storia, si ruppe.

martedì 12 novembre 2013

Letture - 153

letterautore
Confessione – Sarebbe la penitenza – siamo in epoca penitenziale. Si confessano i peccati, per l’assoluzione dei quali si fa una penitenza. Il “Confiteor” è la confessione dei peccati.
Italiano - La “Dante Alighieri”, che non ha più dallo Stato in Italia nemmeno i pochi fondi per la rappresentanza, si finanzia con i corsi all’estero: sempre più persone nel mondo studiano l’italiano. È l’effetto della globalizzazione, che ha introdotto nel “mercato” miliardi di “nuove” popolazioni. Ma è indubbio che la lingua suscita ancora richiamo, per essere parlata da un “mercato” di soli 60 milioni di persone. Quasi, pare, alla pari del francese.
Milano – Mai tanto trascurata che da quando fa la politica, l’opinione e la letteratura in Italia. Dionisotti oggi avrebbe solo da lamentare se stesso, insomma il Nordico. Gli studi nordici, di Folena, Roscioni, Contini, Dionisotti stesso, hanno lasciato Milano prosciugata. Dimenticati totalmente Parini e Porta, che fecero la letteratura in mezza Europa, da Pietroburgo a Lisbona, e anche il Manzoni poeta non se la passa bene. Con tutti gli altri - Dossi, Arbasino, Testori è come se non esistessero. Si parla di Gadda perché, ancora, vende – e poi è stato toscano e romano, lo difende bene il Centro. Non “esistono” le grandi basiliche ambrosiane. E anche la Scala non se la passa bene, con produzioni mediocri.
Poesia – “Che ce ne facciamo dei poeti (wozu Dichter) nel tempo del bisogno?”. È verso di Hölderlin, dell’elegia “Pane e vino”. Che Heidegger legge come poesia della fine della poesia, dopo la fine di Dio. Di un poeta che invece continuò a poetare anche nella follia, lunga più della sua vita attiva.
Proust – L’immagine è insistente della “Ricerca” come di un bordello. Un mondo vasto, e estenuato, huysmansiano, ma chiuso: gli odori, i sapori, i suoni, l’infanzia, le zie, la politica, sono stanti o vengono da fuori, e restano infine fuori, se vive: il mondo della “Ricerca” sa di diverso. Con spreco di lussi anche e di titoli ma asfittico, senza aria: monomaniaco. Attorno a una certa concezione dell’amore, legata al sesso, colpevolizzato (rifiutato o condannato). Vissuto nella colpa, visto come perversione – Proust lo considera così. Al meglio vissuto come un coitus interruptus, la “karezza” della dottoressa Alice Stockham, a orgasmo sospeso.
Lo stesso Proust, che al liceo non si nascondeva, aveva elaborato una forte censura sociale (familiare, borghese) sul sesso, che personalmente visse come peccato e vergogna. Da qui il modo di procedere nella narrazione di “pervertiti”, al quale l’Autore si professa estraneo. Céleste Albaret è morta nel 1984 giurando fino alla fine sulla eterosessualità del suo padrone, o almeno sulla sua non omosessualità – uno che in definitiva aveva conosciuto del sesso quello che considerava una degradazione.

Scrivere - Era un esercizio, severo e incerto. Ora scriviamo tutti, messaggiamo, twittiamo, raccontiamo. Potendoci auto editare online. Come sembrano remoti le inchieste e i manuali “Perché scrivete?”

Venezia - È, non da ora, sotto lo stigma di “Morte a Venezia”. Disfacimento, putredine, afrore, impossibilità di pensare. Un’immagine che via via, lungo un secolo ormai, ha determinato la cosa. Per Venezia tanto più, che non è città “naturale”, di collie, portuale, di fiume (anse, incroci), ma essenzialmente umana: scavata, “fondata”, arginata, contro un natura mai doma e semrpe inclemente, variamente – friabilità, maree, paludismi.
Venezia può anche essere viva e pulsante. Ma non può vincere la maledizione di Thomas Mann.

Viaggio – Si apprezza in letteratura con la serendipità di Walpole, che anima la vita quotidiana e ha alimentato la “scoperta”. La possibilità di trovare per circostanze fortuite qualcosa di inatteso o di estraneo ai proprio progetti e all’anamke., alla vita ordinaria, necessitata.

letterautore@antiit.eu 

Milano da manuale, con la mala e la nebbia

Una “notte brava” fra i teddy boys, a Milano. Dovrebbe essere alla James Dean, fra bruciati (disperati), ma è alla Pasolini. Manierata, buona. Più nel genere favolistico, che forse era nelle corde naturaliter di Pasolini invece del maledettismo., Sceneggia la sua propria morte con quaranta anni di anticipo, si è detto. No, la notte di eccessi lega con lo sguardo attonito di un bambino, che alla fine fa  involontaria giustizia. Niente e che vedere con la delinquenza vera, di Quarto Oggiaro per esempio, come la ricordano oggi, per la recidiva di assassinii, intellettuali e scrittori all’epoca ragazzi.
Un mondo gay più che sottoproletario, di amicizie e corpi maschili, ma tristissimo, una notte di Capodanno. Che Alberto Piccinini, generoso, fa rivoluzionario, sulla base dei paratesti che hanno per molti anni sostituito l’inedito (riscoperto nel 1995 da Edoardo Bruno, il direttore di “Filmcritica”, cui Pasolini aveva mandato il dattiloscritto nel 1960-1961, che lo pubblicò infine per primo nella stessa rivista).
Variamente titolato da Pasolini tutto sommato incerto in questa gita fuori porta: anche “Milano nera”, “La ballata dei teppa”, “La rovina della società”, “La notte del gogna”, “Il Rospo si diveret”, “”I romanici”, “I goti”, “La polenta con le sevizie”. Naldini se ne ricorda un altro, “Polenta e sangue”. È la sceneggiatura del film “Milano nera”, da cui il nome di Pasolini scomparirà. Completato nel 1964, per la regia di Gian Rocco e Pietro Serpi (dei quali si ricorda solo un western al femminile, girato a Oristano, “Giarrettiera Colt”), che ebbe solo una proiezione, in una sola sala di Milano, scriveva il 2 febbraio 1996 Piccinini sul “Manifesto”, ma aveva delle ambizioni. Con la sceneggiatura base di Pasolini proponeva le musiche di Giovanni Fusco, il compositore dei film di Antonioni. E s’illustrava, invece che con Celentano come avrebbe voluto Pasolini, con Nico Fidenco, “Perché non piangi più”, orchestrata e accompagnata da Luis Bacalov.
Una sceneggiatura difficilmente è una buona lettura. Un racconto di Scerbanenco fa molto più Milano nera. Pasolini porta a Milano il suo schema dell’adolescenza incerta, ma disanimato, lezioso. Impossibilitato forse da una lingua che pensa originale mentre non lo è. Tutto a Milano vuol essere manierato, e gli stessi interpreti del teppismo ambrosiano per Pasolini sono bravi ragazzi, che stravedono per lo scrittore già maledetto e celebre. A Roma è diverso, la città gli si è conformata, le borgate come l’intellettualità e perfino il governo. Cinque anni appena dopo “Ragazzi di vita”, che il presidente del consiglio Segni, denunciandolo per oscenità, ha consacrato. Con l’assoluzione piena e la celebrazione del romanzo nel film “La notte brava”. Mentre “Una vita violenta” era in produzione. Milano sfugge a Pasolini, e il patetico resta in mostra.
Pier Paolo Pasolini, La nebbiosa, Il Saggiatore, pp. 191 + dossier fot., € 14

lunedì 11 novembre 2013

Partita a cinque

È una corsa a cinque. È come se: tutto lavora nei due schieramenti per sdoppiarsi. Già alle prossime elezioni, alle Europee in primavera ammesso che il governo Letta tenga, ci potrebbero essere cinque schieramenti, due a destra, due a sinistra, e Grillo. Gli sdoppiamenti potrebbero essere cosa fatta già entro Natale.
È l’esito quasi obbligato del neo guelfismo. Della ricostituzione del centro, si chiami o no Nuova Dc. Con aporie anche forti, ma la tendenza è quella.
Berlusconi lavora per sganciarsi dal governo. Per coprire con la crisi politica la vergogna dell’espulsione dal Parlamento. Ma anche per lasciare soli Alfano e gli altri. Tenendosi i propri voti. Recuperando l’astensione di febbraio con una politica più aggressiva. Riagganciando più solidamente di prima la Lega e Storace, che, con qualsiasi legge elettorale pensabile, non potranno che legarsi a un partito forte elettoralmente.
La scissione nel Pd, se è nei fatti, e ancora più decisa che tra i berlusconiani, è aggrovigliata. Non c’è un dominus del voto. C’è una divaricazione forte anche nella parte ex Dc del partito, tra Renzi e Letta. Il minacciato ritorno ai Democratici di Prodi e alla Margherita di Fioroni è, in cifra elettorale, un ritorno del neo guelfismo al meno: nell’Ulivo, come poi nel Pd, è l’ex Pci che ha sempre portato i voti, i vecchi democristiani di sinistra ne hanno pochi. Mentre la parte ex Pci, data allo sbando, travolta da Renzi, è tornata combattiva. Gli ex Pci puntano inoltre a recuperare, sganciandosi dagli ex Dc, una parte dell’astensione di febbraio e dello stesso voto per Grillo.
La marcia del neo guelfismo, insomma, ora è titubante. L’asse Epifani-Letta potrebbe ancora portare, accentuando la divaricazione con Renzi, a ricomporre la minacciata frattura del Pd. A meno che Renzi non decida - in dipendenza dalla legge elettorale – di fare da solo.

Nietzsche per tutti

Un filosofo per tutti. Non si arresta la premiata fabbrica Nietzsche, che Colli e Montinari hanno messo in moto con l’edizione critica. Una Nietzsche mania, per studiosi e profani, ora dilagante anche in Germania, che pure era riottosa, specie a fronte degli entusiasmi italiani e francesi – un Nietzsche filosofo “latino”? c’è da pensarci, specie ora che la Germania agita la questione “i latini e noi”.
L’inchiesta di Ferraro e Fornari, con contributi di Giuliano Campioni, Courtine e altri studiosi, è una riproposta, meno apodittica in omaggio al tempo della crisi, della vecchia formula editoriale “cosa ha veramente detto”.  Che se ne ricava? Quello che aveva detto Deleuze proprio mentre Colli e Montinari avviavano l’edizione critica, cinquant’anni fa: a ogni generazione avremo un nuovo Nietzsche. Quello di oggi non è più il “ribelle aristocratico”, come lo voleva Losurdo dieci anni fa. Su questo Campioni è incontestabile: “Una caricatura che ci riporta a un Nietzsche totus politicus assolutamente improponibile: i testi non permettono questa lettura” – come non permettevano, intende, l’altra lettura del totus politicus, nazistoide. Oggi Nietzsche è quello che era, libertario, anarchico, destrutturante. E una lettura per tutti perché, spiega sempre Camponi, “ha esercitato e trovata la filosofia, come dice Foucault, lì dove la filosofia non c’era: nel quotidiano, nell’opera d’arte, nel gesto, nella divisione del tempo, nella giornata, nella musica….”.
In attesa di proclamarlo un grande scrittore (affabulatore). E l’innovatore (semplificatore) dopo Lutero della prosa tedesca.
Chi ha veramente letto Nietzsche?, a cura di G.Ferraro e M.C. Fornari, “Il Ponte”agosto-sett. 2013, pp. 148 € 15

Il mondo com'è (152)

astolfo

Democrazia - Con o senza la rivoluzione, è in contrasto con se stessa nel momento in cui si fa “causa”: la democrazia è minacciata da tutti quelli che vogliono imporla. Si vive in libertà se non si è obbligati. E non si può stare in causa tutta la vita.
Le missioni militari di pace si potrebbero abolire senza nessun danno.

EuropaSi appresta a celebrare un secolo di quanto era grande. Nel 1914 era europeo mezzo mondo, ora è l’Europa delle ‘ndrine, piccole cosche.
È dissociata, ne presenta i sintomi – si può vederla così. Si difende ritirandosi. Si vuole migliore, ma si ritrae. Mentre la vera guerra di difesa è l’attacco, altrimenti manca la spinta morale. Era europeo mezzo mondo nel 1914, ora l’Europa non sa dove sta.
Si ritrae, dice, per un fatto di civiltà politica. Ma dov’è la civiltà del ritirarsi? Ognuno deve rispondere di sé. Né, a ben guardare, l’Europa si adatta alle nuove domande del mondo, è anelastica. L’America imperialista è molto più flessibile alla globalizzazione – che peraltro ha disegnato e congegnato.

Si può dire che l’Europa teme l’inferno, benché secolare, e Dio lo pensa con sé. Cioè, pensa che Dio è un cretino. Non intimorisce nessuno ma digrigna i denti.
Non è neppure vero che l’Europa scappa: sta lì e si lagna. Per la storia della colpa, che è degli altri. Del papa prima, ora degli Usa, una volta era dei gesuiti, in inglese è degli olandesi, in olandese degli inglesi, è sempre degli ebrei ma non si può dire, e dei tedeschi, dei neri, dei gialli e dei mussulmani. Si fa colpa ai tedeschi della Schadenfreude, la gioia maligna per le altrui disgrazie, che è invece universale, in Italia è il tanto peggio tanto meglio di Togliatti, Kant che l’ha analizzata lo sa, e l’insistenza è solo un tentativo d’inoculare al mondo l’impotenza che la Schadenfreude sottende. È così che l’Europa può atteggiarsi a donna virtuosa che le altre ritiene puttane. Ha la presunzione d’una cultura che nega, piegata alla violenza che depreca. E auspica che gli Usa le suonino all’Iran, alla Siria, ai mussulmani tutti. E magari poi alla Cina, all’India.
Un castrato che godesse delle scopate tra vicini, del contagio venereo, di Sansone e il “pereant omnes”. Per la gioia maligna.

Guerra – È sempre offensiva, ma la grande furbata è di dirla difensiva: di farsi fare la guerra. Per esempio di Stalin da quel demente di Hitler. Grandi elogi in effetti si celebrano nella storia diplomatica – si celebravano quando ce n’era una - del “farsi fare la guerra” che si vuole fare, una sorta di scaramanzia: Bismarck con Francesco Giuseppe nel 1866 e Napoleone III nel 1870, l’Intesa col kaiser e Francesco Giuseppe nel ‘14, Stalin con Hitler.
Muro - Se ne può interpretare la caduta come la caduta dell’Occidente? Dell’Europa, e quindi dell’Occidente – gli Usa hanno anche sul lato Pacifico e un latino: l’impero sovietico come manifestazione dell’Europa.
Nella storia l’impero comunista sarà stato ben europeo, inclusi  i morti propri che l’idea non contemplava. Sarà stato anzi l’ultima Europa. Quella di Bruxelles è delle zie, che unifica le proprietà organolettiche del vino da Marsala a Cochem, e i tassi di interesse – questi già con difficoltà.

Una tradizione obsoleta vuole l’Occidente in veste talare, come quello del cristianesimo. Mentre l’Occidente è quello che ha perduto la fede, unico al mondo. Anche nel comunismo. Nel nome del quale però si è fatto grande, Stalin sarà stato l’ultimo conquistatore europeo, che a Mosca diede il dominio delle menti di mezzo mondo, seppure feroce e brutto. E ancora non smette, a venticinque anni dalla caduta del Muro, col globalismo trionfante.

Settanta – Scalfari ricorda nel suo recente “L’amore, la sfida, il destino” di aver cominciato a contare a settant’anni – di avere avvertito l’età. Gli etruschi contavano le età per cicli di sette anni. Dal quinto al decimo ciclo si era maturi, cioè fino ai settant’anni. Dopodiché si era anziani e saggi, fino al dodicesimo ciclo, cioè agli 84 anni. Considerato che da allora l’aspettativa di vita è cresciuta di un venti per cento, c’è di che essere ottimisti.
Non che prima mancassero le occasioni. Tiziano per esempio, che morì di 91 anni, dipinse da ultimo alcuni delle sue tele migliori, quelle che più emozionano, per le quali dovette limitarsi a spalmare l colore coi polpastrelli invece che col pennello.

Seneca, l’esperto della vecchiaia, morì peraltro prima, uccidendosi a 70 anni a causa del suo pupillo Nerone.

Non affettarsi, non fermarsi mai. La vecchiaia ora non è più apprezzata. Ma lo è stata a lungo. Con motivo. Papi e imperatori sono stai migliori in età avanzata. Leone XII per esempio, eletto nel 1878 a 68 anni, di salute cagionevole, che regnò per 25 anni, e le cose migliori le fece dopo gli ottanta, per esempio la “Rerum Novarum”, a 81 anni, e la critica dell’“americanismo” o materialismo a 89. Innocenzo X, eletto nel 1644 a settant’anni, regnò fino i suoi 81, e seppe confrontarsi col giansenismo, con gente come Arnauld e Pascal. O il papa regnante Francesco, eletto a 76 anni e subito incontinentemente attivo.
Mentre ci furono papi giovani da dimenticare: Giovanni II, diciannovenne. O Benedetto IX, che solo Voltaire tiene in vita, nella derisione, come colui che “comprò e rivendette il pontificato” .

Fernando de Rojas, “La Celestina”: “Nessuno è così vecchio che non possa vivere un altro anno, né così giovane che non possa morire oggi”.

Stalin – Si giudica nella storia complessivamente, ma non c’è conquistatore, questo è innegabile, maggiore. Ora che si va a celebrare Yalta, la Cosa emergerà.
Non si può sottovalutare Stalin, che non ha paragoni tra i cesari. E d’una massa di servi ha fatto in vent’anni una potenza, alle plebi dell’Unione Sovietica sterminate imponendo la scuola, le vaccinazioni e il lavoro, il potere va indirizzato a un fine. Anche in guerra non rinunciò ai due milioni di tedeschi del Volga, i tedeschi neri – mentre gli Usa confinavano i giapponesi americani.
È vero che liquidò i generali mentre era sotto assedio, ma in Russia si fa così. Lo zar Paolo I mise a riposo o esiliò i colonnelli e i generali mentre preparava con Napoleone una spedizione in India. Ma nelle cose di guerra Stalin non andò a casaccio, quello era Kutuzov, il generale filosofo di Tolstòj. Churchill, un altro che esonerava i generali, ne boicottò i piani vincenti in Libia, Grecia e Iraq.
Stalin non credeva a Hitler come non credeva a Churchill, non poteva: lo statista cerca di capire, non crede. A Casablanca criticò la resa incondizionata e lo sbarco in Sicilia, invece che nell’Atlantico, ma per diversivo. L’alleanza con Hitler pagò con i morti in cambio di metà Europa orientale. L’altra metà la ebbe a Casablanca, un anno prima di Yalta: non c’è impero territoriale più vasto, non c’è mai stato.

Sempre gli zar furono migliori del loro tempo, Pietro il Grande, Caterina II. Un buon dittatore sa che non può mettersi contro il popolo. Lo zar Alessandro a Vienna era più democratico di Metternich e del re di Prussia. Già nel Cinquecento, con l’opričnina, lo zar si mette col popolo. Anche come tattica: l’opričnina portò i boiari impauriti a chiedere aiuto allo zar, che così poté ammazzarli tutti nel suo palazzo. Il capo è col popolo anche quando è terribile: Ivan o Stalin.

Urss – È stata l’ultima potenza europea. Erede della Russia contro l’Orda d’Oro che non s’arresta: Tashkent fu presa nel 1865, Samarcanda nel 1868, Bukhara, la città di Avicenna, il primo filosofo occidentale, riconquistata nel 1920, con la deposizione dell’emiro.
È stata l’ultima potenza europea anche a Occidente – una sua breve storia è pure questa - e la Germania sotto sotto la invidiava. È questo che Hitler, “o noi o loro”, intendeva. La Germania Federale ha perciò scalpitato contro Adenauer, che giocava in difesa. E ha progettato poi di conquistarla, prima con Brandt, il neutralismo, poi coi marchi. Che hanno fatto crollare il Muro.

astolfo@antiit.eu

La privacy in rete, per multare le vittime

C’è  una Polizia Postale, e c’è anche unì’Autorità per la Privacy, costosa. Ma non c’è riservatezza nella rete: chiunque può sapere tutto di chiunque. Anonymous scorazza liberamente per tutti i siti che vuole, non c’è protezione. Cioè c’è, per gli enti pubblici anche certificata, ma non tiene. Né c’è repressione: la Polizia Postale non ha messo a segno mai un successo contro un qualsiasi hacker. Solo per restare agli ultimi mesi, sono stati visitati liberamente i siti dell’Interno, della Difesa, e della Polizia. Che si penserebbero i più protetti. Oltre a quelli  del Vaticano, di Equitalia, dell’Enel, del ministero dell’Istruzione, e di ogni altra bestia nera degli irriducibili – no tav, black bloc, centro sociali, ecc. on un po’ di spasso da ultimo: Anonbymous soprattutto bersaglia il presidente della Regione Calabria, Scopelliti.
Cioè, le autorità di controllo ci sono. Ma per multare chi si fa visitare da Anonymous, per la vulnerabilità del proprio sistema di protezione.  Sempre Scopelliti è stato multato sette mesi fa dall’Autorità per la Privacy: 120 mila euro – lo stipendio di un consigliere dell’Autorità.

domenica 10 novembre 2013

Ombre - 197

Vent’anni di illegalità, abusi, ruberie alla Rcs, la Rizzoli-Corriere della sera, non smuovono la Procura di Milano. Si è mossa perfino la Consob. Perfino l’iperaziendalista sindacato dei giornalisti. E il sindaco Pisapia, che ha sottratto almeno una “preda” al saccheggio aziendale, il palazzo di via Solferino. Ma la Procura no. Bruti Liberati non legge nemmeno il giornale che gli fa da confidente?

Luigi Gastrini, l’agente segreto che accusava gli inglesi del rapimento di Emanuela Orlandi, si è beccato otto mesi, per false propalazioni. Il pentito Onorato può invece dire al processo del giudice Montalto che Craxi fece uccidere Dalla Chiesa, con Andreotti è vero. E che Riina fece Martelli ministro della Giustizia (per introdurre il 41 bis?). La giustizia non è uguale per tutti.

Un solo richiamo in tutt’Italia, nelle settimane d passione per il voto palese, al mandato parlamentare “senza vincolo di mandato”. Che è nella Costituzione, art. 67 - ma è di tutte le costituzioni, a partire dal 1789. Un richiamo non del presidente della Repubblica, della Costituzione garante. Né di un costituzionalista – sono tutti in corsa per un posto al Csm o alla Consulta (vi si guadagna molto, più di un banchiere). Il richiamo è del professore Sartori, ottantanove anni. Ma a seguito di un monito di Scalfari.

È dunque Scalfari il protettore della Costituzione italiana. Anche se lavora per un cittadino svizzero.

Il richiamo e il monito di Sartori e Scalfari è del resto al grillismo. Non a Grasso né a Laura Boldrini: loro presiedono le Camere, ma così, per finta.
Anche per farsi belli – più di quanto sono, ovvio.

Il papa telefona per rincuorarla a una signora che si è sposata a trent’anni, dopo un lungo fidanzamento (“stavamo insieme”, dice), salvo poco dopo chiedere l’annullamento al tribunale ecclesiastico e ottenerlo, perché lui non è religioso. Il papa non doveva telefonare a lui, per il dialogo?

La signora a cui il papa ha telefonato ne dà notizia, con servizi fotografici e tutto quanto. Il papa voleva solo fare propaganda ai tribunali ecclesiastici?

Apre il cinquantenario della morte di Togliatti “Il Sole 24 Ore”. L’altra domenica, in abbondante anticipo. Celebrativo. Con una pagina su una photostory. Che non è nemmeno una mostra fotografica, è il ricordo di un fotografo. Di come fotografò la camera ardente di Togliatti. La Confindustria sarà feticista?

O gesuita? Era gesuita, diceva Gioberti, l’arte d’impadronirsi dei morti.

Surrealista è la difesa del maschio, e dell’Europa

“Roma, la Città Eterna, quel mattino riecheggiava del suono delle sue innumerevoli campane, l’esercito occidentale aveva, infatti, riportato una vittoria in Afghanistan”.  Questo è improbabile, ora come allora. E infatti il papa non ci crede. Scorrendo “i giornali a uno a uno”, mormora “con voce lugubre: Signore, Signore, perché ci abbandoni?” Si chiama Pio XIII, e forse per questo la serie d’improvviso s’è interrotta al Pio XII – dopo Pio XII ci sarà un ultimissimo papa, e si chiamerà Benedetto, nel libro beninteso.
Pubblicata a Parigi nel 1931, la profezia s’inquadra nel “pericolo giallo”, che già ottant’anni fa infettava la “capitale dell’Occidente”. Il manifesto surrealista del 1925 l’aveva già proclamato: “Spetta ai Mongolo accamparsi ora nelle nostre piazze”. Per questa riedizione con più verosimiglianza.
In apertura, un refuso mette i cavalli tartari e le orde “in marcia verso l’Oriente”, ma è della caduta dell’Occidente che si parla. Preda delle orde asiatiche, che non sarebbe una novità, e del femminismo. Questa seconda profezia non viene sottolineata in questa riedizione, ma è la chiave della storia, più della re-invasione. A capo dell’orda è una Diavola, l’Arcimaga, uscita dalle messe nere. E con notevole anticipo sulla teologia femminista, che Dio vuole madre. Nonché sull’ateismo contemporaneo, quello dello shopping, avido di ritualità – che è quello che i messaneristi soprattutto invidiano ai religiosi, il sacerdozio (i paramenti, le celebrazioni, le formule “magiche”). È un male? Gli autori, forse il satanista Ernst Gengenbach e il surrealista Robert Desnos, opinano per il no. A capo dell’orda c’è il piacere, in forma sadomaso. – il loro è un Occidente in vena di correzioni.
Il racconto non è all’altezza della visione. L’Arcimaga ha una segretaria-schiava, “bionda e affascinante, alta e magra, il viso di un ovale puro, e lunghi occhi peni di sorprese”, che domina col feticismo, e alla cinquantesima pipa d’oppio diventa la sua servizievole amante. Valentina è molto meglio. La fine dell’Europa invece non è altrettanto ovvia. Crocifisso e bruciato il papa Pio XIII, resta il problema di eliminare tutte le croci del mini-continente. Che sono tante: quelle dei cimiteri, quelle dell’elsa delle spade, sia pure di rappresentanza, gli incroci stradali, “la forma crociata di certi fiori campestri”, e le parole crociate si potrebbero aggiungere.  “Gli elementi di resistenza morale erano forti e, malgrado il terrore, e la coda di esecuzioni e deportazioni massicce, le popolazioni rimanevano fedeli, in fondo al cuore”, fedeli all’Europa e a se stesse. Resistono, e sconfiggono l’invasore. Al comando in un giovane papa, che si farà chiamare Benedetto XVIII, un ninja della resistenza, invincibile, invisibile. La guerra, insomma, non è perduta, non ancora.
La storia non finisce qui: il papa ninja soggiacerà al “mistero della donna”, e sarà la fine di tutto. Ma questa è un’altra storia: il surrealismo – Desnos ne è uno degli alfieri – sarà stato in realtà una ghenga d’uomini, in petto antifemminista
Jehan Sylvius-Pierre de Ruynes, La papessa del diavolo, Castelvecchi, pp.  € 14,50