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sabato 8 dicembre 2012

L’Europa è tedesca per colpa nostra

L’Unione Europea che dimentica l’Italia a Stoccolma, al premio Nobel per la pace, tra i paesi che l’hanno animata non è un incidente. È la maniera d’essere di Bruxelles: una burocrazia tedesco-francese. Con contorno di “ballerine” occasionali, quale è stato Monti, e qualche commissario spagnolo o inglese. Una burocrazia che fa gli interessi dei due paesi, convitando gli altri alle briciole. 
Si vede anche dal parterre del Nobel che Berlino ha fatto assegnare all’Ue: a Stoccolma molti leader europei non ci andranno nemmeno. Stanchi della vigilanza europea sulle banche che la Germania non vuole, o del bilancio che non si riesce a chiudere. Alcuni ci andranno, da Atene o Madrid, sperando che Angela Merkel finisca di vetare le soluzioni che pure si è impegnata a sostenere. Sono tre anni che niente si riesce a fare in Europa, se non le leggi di bilancio secondo il modulo tedesco. Ma non da ora, l’Ue è asfittica da molto tempo.
Risuscitata a Roma
Si celebra sempre la Ceca, l’Europa del carbone e dell’acciaio tra Adenauer e Schumann e si dimentica che, senza l’Italia, dopo il rigetto francese della Ced, la difesa europea, e del riarmo della Germania, non ci sarebbe stata nessuna Europa. La quale non per caso nacque a Roma, nel 1957, che laveva risuscitata. E si allargò, da ultimo, con la presidenza Prodi – un Prodi praticamente contro tutti.
L’Ue è tedesca e francese, però, più per demerito degli altri partecipanti che per prepotenza dei due paesi che ne traggono vantaggio. Il che è la prova del nove che l’Unione è altro che l’asse tedesco-francese: non si muove se gli altri non si muovono. L’Italia per esempio, come fu da ultimo con Prodi per l’allargamento, o l’Olanda per l’euro e la Bce.
Una riprova anzi al quadrato: l’Europa è asfittica da quando gli altri se ne sono disinteressati, l’Olanda in una lunga crisi politica, l’Italia per l’improvvidenza di Berlusconi e Tremonti. Anche coi loro governi l’Italia ha fatto del suo meglio per restare nei canoni dell’euro, senza mai barare (come hanno fatto invece Germania e Francia). Ma a malincuore, e senza mai farne una politica attiva, quale avrebbe dovuto essere. Anzi, con un senso inutile di ripicca. Riviste su youtube, le quindicinali tra Merkel e Sarkozy che hanno tenuto banco per tutto un anno, appestando l’Ue, si confermano roba da guitti. Ma l’Italia se ne è fatto bandiera per le sue piccole guerre civili - salvo inutili collere.

Liberare Firenze

“A Firenze c’è l’unico distributore automatico di pastasciutta”. Non è vero, li ha inventati Tokyo, che stravede per la pastasciutta. Ma è pure vero, c’è di che tramortire i bravi fiorentini. I quali cominciano infine a vedere il degrado della città – che questo sito mostrava qualche anno fa nel suo pezzo più cliccato:
Dopodiché non si esce dalla mota. Doninelli propone di lasciar fare ai fiorentini, ai privati. Per scrostare la città dalla patina del Rinascimento – semmai farne “la madre di tutti i Rinascimenti”. Ma più “privata” la città non può essere: si sono appropriati perfino delle Cascine, parco storico, l’unico della città, per sottopassi e mercati. Liberare invece bisognerebbe la città dalla congrega degli interessi privati. Al riparo quarantennale del Partito, il broker degli affari immobiliari e edilizi nei quali Firenze si sta spegnendo – un potere che il Rottamatore non ha nemmeno tentato di intaccare. Ciò che bisogna risuscitare è un interesse pubblico.  
Luca Doninelli, Salviamo Firenze, Bompiani, pp. 202 € 12,50

venerdì 7 dicembre 2012

Milano metropoli, al tempo di Porta

Hanno fatto un lungo percorso queste modeste prose del milanese Vigevani sulla sua città - omaggio dell’editore palermitano a Milano (alla banca?). “Luoghi, persone, ricordi di una città che è diventata metropoli” di un inerte provincialismo – quanto più vivo Porta, due secoli fa.
Alberto Vigevani, Milano ancora ieri, Sellerio, pp. 238 € 13

Letture - 120

letterautore

Citazione - La citazione è per i più una eco, la frase famosa o curiosa. La “mite intermediaria” di Thomas Mann, gesta auctoris per auctores, “una quanto mai moderna arte”. Colpa veniale se si perdona a personaggi di ben maggiore qualità, come lo stesso Mann – che “dopo di me”, dice nelle prefazioni che ama a se stesso, “citare è stato sentito come un’arte, simile a quella d’inserire il dialogo nella narrazione, si sono cercati analoghi effetti di ritmo”. Similmente per le identità false, gli pseudonimi o eteronimi.

In musica la citazione è tutto, in letteratura è diverso, che ha funzione conoscitiva prima che estetica. L’originale è soggetto a tagli redazionali e refusi, agli errori di copisti, editori, proti, e ciò malgrado si persevera: Platone è sempre materia per l’ipse dixit, o Marx e Lenin, cosa hanno veramente detto. La filologia è un imbuto sul nulla.

Confessione - Borges vuole scrivere “una storia che abbia la qualità del sogno”. Ne ha scritte molte, tutte sognanti, ma non ne è contento. Gli manca la più onirica di tutte, che è la vita. Ma è difficile che un memorialista si faccia apprezzare, parlandosi d’abitudine addosso, il suo diventa un esercizio di autocompassione. È vero che l’epoca vuole viscere in vista, ma le confessioni vengono bene quanto meno uno ha da dire. Fanno bene gli scrittori americani a confezionarsi strane biografie, dopodiché non hanno più nulla da spartire con quanto narrano, non che si veda, non che se ne debbano giustificare. La confessione porta a galla il peggio di sé, lo dilata, lo moltiplica, lo metastasizza. O la solitudine, che è la stessa cosa.

Scrivere è certo operazione mentale, che altro? Ma la censura, diceva Melchiorre Grimm, ha fatto dei francesi scrittori superiori, più considerati, saggi. La scrittura è misura. La confessione scritta invece dilaga perché ciò risponde alla sua natura. La confessione come genere letterario è interminabile, insopportabile logorrea - se è letteratura è già scremata, e ben costruita, dai tempi di Esiodo, di Virgilio, quello che si intende per confessione sono i mal di pancia e le insonnie, il sogno vigile. È genere infetto, da sbirri e confidenti, e divani da analista.

Filologia – Può essere un imbuto sul nulla. Errori o burle di copisti. Falsi anche.

Giornalismo – “Citizen Kane”, o “Quarto Potere” Borges trovava nel 1941, all’uscita, “un film opprimente”.  Che “perdurerà, come «perdurano» certi film di Griffith o di Pudovkin”, ma nessuno andrà a rivedere. Per soffrire “di gigantismo, di pedanteria, di tedio”.
Orson Welles “non è intelligente, è geniale: nel senso più notturno e più tedesco di questa mala parola”. Un filma “banale” nella prima parte, del milionario che accumula. “Oppressivo” nella seconda, che unisce “al ricordo di Kohelet quello di un altro nichilista: Franz Kafka”. Attorno a pletore di giornalisti che, come gli scrittori, “sono essenzialmente orribili”.

Ironia – Si può pensare tutta la “Ricerca” una colossale forma d’ironia, altrimenti tutto rasenta il ridicolo: la gelosia in mille pagine (mille!, di uno, il narratore, che non è  mai stato innamorato, si sa, si sente), i froci, le lesbiche, le puttanelle, i borghesi pieni di sé, il padre-Cottard, la madre-Verdurin (o madame Straus e le altre madri alternative), gli stessi duchi, a loro volta snob. Ma non senza compassione, che ne è la chiave: l’autoconsolazione.

In letteratura è trivella, su multistrati di significati, parodia, scherzo, critica indiretta (occhio critico) - se sottolineata è peraltro censoria, ridicola. Oppure è cinica: in entrambi i casi settatrice, disseccatrice.
L’ironia è la narrazione il cui oggetto è la narrazione – tutto Proust.
L’ironia non regge una narrativa, solo l’aneddotica. Bisogna lievitarla – alleviarla – al modo dell’Ariosto, per una lettura multiforme, più immaginativa che critica, esagerata, e diventa patrimonio popolare.

No, l’ironia (Swift, Voltaire, anche Sterne) è un impianto - una posizione nella vita, una rigidità: per questo dissecca. Il ruolo è semplice, è il cazzaro, il Ketzer tedesco, che è un po’ eretico. Ed è molto frequentato: Tersite, Bertoldo, Marcolfo, Giufà, Candido – anche se è spessa la tradizione di chi aborrisce Candido, fino a Mauriac: l’ironia dissecca chi la pratica.

Italiano Gli italiani parlano in versi senza saperlo. Sciascia porta gli esempi (“poesia romanesca”, 77) che fondano l’osservazione di Silvio D’Amico: “Mezza granita di caffè con panna”, “Si prega di chiudere la porta”. Solo gli italiani fanno versi quotidiani? O è l’abitudine a guardarsi l’ombelico, degli italiani, dei siciliani, dei palermitani?

Sia l’italianità lo sguardo, la seduzione, il desiderio, la furberia. È italiana Trieste (Svevo, Saba), è italiana Genova (Montale, De André), e perfino Torino (Cavour, De Amicis, Gozzano, Pavese). Non lo sono Manzoni, Cattaneo, gli scapigliati, che costruiscono la gelosia dai libri. La “passione” di Stendhal manca proprio a Milano e dintorni: l’occhiata, l’illusione, l’appuntamento rinviato. Milano non si differenzierebbe da Francoforte, se non perché non ha il fiume, e ha meno il gusto delle idee.

Leggere - L’identità è privilegio di chi legge, sia pure il manovale friulano che legge “La Gazzetta dello Sport” la domenica pomeriggio alla stazione di Colonia. Un manovale friulano a Colonia resta un manovale friulano a Colonia, ma leggere lo situa tra l’antico Egitto e la costellazione Andromeda, in ruoli ambìti, eroe, amante, artista, poeta, o anche traditore, in ozio. La lettura crea questo portento. Ci si può arrivare di testa, ma con limiti, che la lettura invece abbatte, fino alla perdita di sé, che è prova di esistenza, leggendo secondo la ricetta dei maestri antichi, leggeri - tutto altrimenti si fa esatto, saputo, ridicolo.

Rousseau dice che leggere fa male. Voleva per questo limitare l’apprendimento delle lingue: “Lo spagnolo e l’italiano non servono ad altro che a dare la possibilità di leggere libri nocivi”. Leggere libri in italiano è dunque nocivo. In ottima salute dev’essere il popolo basco, che ha una lingua senza scrittura.
Anche McLuhan dice pericolosa la lettura. Ne “Gli strumenti del comunicare”, 1956, diceva che l’elettronica priva l’uomo della sua identità e della morale: “Le persone vanno al lavoro principalmente per leggere”. Tutti ogni tanto dicono sciocchezze.
Ma è pure vero che a un certo punto non bisogna più leggere, la lettura salva sempre, da se stessi e dagli altri. Mentre più spesso c’è poco da leggere, o da giustificare l’ozio. Perché la lettura è occupazione oziosa. Bisogna essere per l’educazione permanente, mescolarsi, lasciar scadere la ragione, e la morale. Dall’ozio comunque escludere la lettura: chi pensava e scriveva molto nell’antichità, Omero per esempio, Platone, Aristotele, Aristofane è uno che lo diceva anche, a un certo pun-to chiudeva i libri, il poeta e il filosofo sono gente d’azione.

Pseudonimo – Fu la mania degli anni Venti-Trenta, di Pessoa, Traven, Lucio D’Ambra, innocente gusto rétro. Non si nascondevano. Se non per quello che esibivano, semmai, l’intellettualismo. L’intellettuale, si sa, è dannato alla sterilità per l’ipocrisia che lo rode malgrado se stesso, anzi proprio per questo, per le sue buone intenzioni. Si crea mondi irreali per la voglia di filosofare, ma la buona disposizione è fatale che degradi a protervia. Il rovesciamento non è isolato, tutta la realtà partecipa dell’irrealtà. Quello dell’intellettuale è però voluto, nell’assurdo programma di conoscere tutto, sistematizzarlo, e perfino, con la forza del pensiero, cambiarlo.

letterautore@antiit.eu

Minimarx cercasi del sottogoverno

Perché non cambia il governo? Perché è teatro, direbbe Platone – “teatrocrazia”, la struttura che appare. Mentre conta (“governa”) il sottogoverno. Si dice “le corporazioni”, ma è il sottogoverno. E quello non è in crisi: è il governo dell’Occidente. Forse è il governo delle democrazie.
In Italia dichiaratamente, con i governicchi che vorrebbero tornare con la una legge elettorale proporzionale – ma anche con questi governi del maggioritario, sempre a loro volta di coalizione, di correnti o costole. Altrove, anche nel regime presidenziale americano, la democrazia più efficiente, c’è sempre un potere di blocco di piccoli gruppi e perfino personale. Che è la leva del sottogoverno. I governi-governi sono in qualche misura monocratici - ora, per esempio, in Russia.
Ci vorrebbe un Minimarx del sottogoverno: è quella la struttura reale. Che passa attraverso le crisi, e con esse si fortifica. Per attaccarsi al governo, esprimerne uno, bisogna attaccarsi al sottogoverno: gli statali, i sindacati, il sistema degli appalti, il sistema dell’erosione-evasione fiscale, e anche la casta ovviamente, ma più per le assunzioni facili che per le prebende. 

giovedì 6 dicembre 2012

Se Monti è Passera

Ma è Monti o è Passera? E chi è Passera, se non Banca Intesa, cioè Bazoli? L’interrogativo si ripropone se un ministro di tre o quattro dicasteri non trova nient’atro da fare che il (piccolo) politicante. In una con l’altro ministro di Banca Intesa, Elsa Fornero: due titolari di importanti funzioni all’interno del governo, alle quali sostituiscono periodiche intemperanze. Senza che il presidente del consiglio abbia mai nemmeno tentato di richiamarli all’ordine.
La natura politica di questo governo si precisa dal lato deteriore. Ha vissuto con la rendita dell’unità nazionale, che gli ha garantito Napolitano, ma si definisce da alcuni mesi con insistenza quale governo politico: 1) Monti moltiplica le occasioni, in alternanza con la sua diplomazia contabile europea, di farsi “tirare la giacca” quale uomo della Provvidenza; 2) Passera e Fornero moltiplicano le occasioni di scandalo.
Ciò in contrasto con i partiti che lo sostengono, inevitabilmente. Per ora col Pdl, che ha trovato vantaggioso scoperchiare il gioco. Tatticamente, per uscire dall’imbuto delle finte primarie. In prospettiva col Pd. Politicamente: Monti ha sacrificato troppo e troppi.  Se il Pd non vorrà identificarsi con l’Udc. Il cui futuro è però incerto,se sarà il partito di Monti e\o del Pd.

Le Pussy Usa

Senza le foto nude in chiesa, non eccita molto contro Putin.
Compilato negli Usa, non sarà un libro di propaganda?
Pussy Riot. Una preghiera punk per la libertà, Il Saggiatore, pp. 144 € 12

Secondi pensieri - 126

zeulig

Assoluto – È pensabile, non realizzabile. L’eternità, l’onniscienza, l’infallibilità: sono il divino, a cui si dà la caccia come a un’utopia, un qualsiasi desiderio. È una ginnastica.

Dio - Nella sua storia non bisogna sottovalutare gli ebrei. Giacobbe era uno che lottava con Dio, “Genesi” XXXX, 23-33. Nei primi libri della Bibbia, fino a Mosè, prima della riscrittura clericale, Dio è uno che si diverte, banchetta, furoreggia, impaziente, geloso, prepotente e anche mafioso, e ogni tanto vorrebbe sterminare pure i suoi – sarà divino ma è, come si sa, molto umano, e copia gli ebrei.

Dio è doppio in Pascal: il Dio dei filosofi, della ragione, che non può essere il vero perché ha le stesse debolezze di quell’orgogliosa facoltà, e il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, che si rivela nella storia, anima la vita d’un popolo, parla tramite i profeti.

Oppure si può prenderla in altro modo, questa storia di Dio va affrontata. Partendo per esempio da Simone Weil, secondo la quale “il cristianesimo primitivo ha fabbricato il veleno della nozione di progresso con l’idea della pedagogia divina che forma gli uomini per renderli capaci di ricevere il messaggio del Cristo... Il cristianesimo ha voluto cercare un’armonia nella storia. È il germe di Hegel e di Marx. Mi sembra che ci siano poche idee più completamente false: cercare l’armonia nel divenire, in ciò che è il contrario dell’eternità”. E ancora: “L’idea di progresso è l’idea atea per eccellenza, e la negazione della prova ontologica sperimentale, giacché implica che il mediocre può di per sé produrre il meglio. Tutta la scienza moderna concorre alla distruzione dell’idea del progresso”. Dunque Dio è la scienza moderna – è ancora la verità e la vita. E la fine della storia è al di là. “Il progresso è un sintomo”, dice Turgenev. Della fine della storia?

Infallibilità – Si proclama del papa in materia divina nel mentre che dello stesso si afferma, e si pretende, la massima fallibilità umana – l’incorenza come una virtù, o quasi. Il papa Pio IX, che proclamò l’infallibilità del papa in materia di fede, ne è l’esempio più insigne, massimamente incoerente, per debolezza, pregiudizio, ambiente, età.
Esiste come dogma, e quindi è inspiegabile, se non come scudo della chiesa contro i suoi molti nemici. Ma l’inimicizia contro la chiesa è inspiegabile – contro la pratica ecclesiastica, i dogmi, contro la religione quando non offende nessuno.

Numerologia – È arte (filosofia) ebraica? Si può dire, se Pitagora, come vuole Campanella, è anch’egli “di stirpe giudaica, benché nato in una città greca”, Samo. Campanella, grande conoscitore delle Scritture, lo afferma sull’autorità di sant’Ambrogio”, per “la santità e la serietà” del santo stesso. Ma più per gli argomenti (nel par. “Ad Sextum” del cap. V dell’“Apologia per Galileo”): “Pitagora insegna il distacco dai cibi e l’unità di Dio, sebbene sostenga che gli angeli siano secondi dei, e tutto spiega con i numeri (come fece Mosè nella costruzione del tabernacolo, e Salomone quando sostiene che tutte le cose sono state create «in numero, peso e misura»), e emula Mosè nella costituzione della legge, tutte cose che erano usuali per gli Ebrei. Sembra piuttosto che sia nato a Samo da famiglia giudaica, così come gli Spartani nel «Libro dei Maccabei» vengono detti della stirpe di Abramo”.

Pentimento - “Non pentirsi di nulla è la saggezza suprema”, Kierkegaard dopo Spinoza può sostenere con più verità: pentirsi per deprecare, denunciare, cioè giudicare, la colpa degli altri, di fatto è non pentirsi, pentimento è cancellarsi, giusto la metafora della prigione.

Riso – “Si ride non per allegria”, dice il Kleist di Christa Wolf in “Nessun luogo. Da nessuna parte”. Può essere, c’è la risata diabolica. Ma non si può sapere se il diavolo non è felice.
In Christa Wolf è peraltro solo un preziosismo – il solito capovolgimento (la Germania ama “capovolgere”: Marx Hegel, Heidegger se stesso). Allo stesso Kleist Christa Wolf fa dire che “presto non si piangerà più per tristezza”. Finezze?

Per Hegel ride chi si ritiene superiore. Ma si ride pure per letizia e ingenuità - ridono spesso, senza motivo, le fanciulle. Ride di essere nato Gesù Bambino. Dice Aristotele che l’infante non ride prima dei quaranta giorni, quando è fuori pericolo, con la mamma, ma Gesù neonato nei quadri spesso ride. Anche van der Weyden, che lo figura rachitico, lo fa ridere, e Salomon Reinach sa perché: il riso dell’infante è “rituale”, una presa di possesso della vita. Plinio, che lo attesta di Zoroastro alla nascita, ne fa un segno di origini preternaturali. Gli stessi vecchi riderebbero volentieri, secondo Sophie de Grouchy: più spesso piangono, spiega la filosofa, ma “uno spettacolo doloroso è per loro pericoloso”, e tra gli acciacchi riderebbero volentieri di essere in vita. Il riso latita nei testi sacri, ma ha dunque funzione rituale: da rito a riso il passo è breve. Hegel dice comica pure la contraddizione, ma è un comico tragico, non si ride.

Il riso è datore di vita, spiega Frejdenborg: “Il riso si semanticizza come  nuovo splendore del sole, come la nascita solare”. E Calvino: “Solo il riso garantisce che il discorso è all’altezza della terribilità del vivere e segue una mutazione rivoluzionaria”, Calvino lo scrittore. “Ho proclamato santo il riso”, disse Nietzsche, che propose un “risario”, e sarebbe stato suo titolo di merito. Rabelais assicura che il riso fa bene alla tiroide. Ridevano i fenici, che al contrario dei sardi uccidevano i figli, e i traci quando qualcuno moriva, a qualsiasi età. Si ride in Ucraina ai fune-rali, come tra i neri in America, e in Cina in casa dei moribondi. Il rapporto è dunque stretto tra il riso e la morte – come tra l’amore e la morte, e la vita e la morte. In Lessing il riso accompagna la collera, un binomio da indagare: la collera è per i greci antichi cosa buona.

Storia - “Solo il bene è profondo”, dice Arendt dopo aver scoperto la banalità del male. Trascura san Paolo e “la forza del peccato”: la storia è anzitutto insensata.

Non si può rinunciare alla storia: la storia divenuta reale non ha più fine, l’ha capita pure Debord. Si va per accumulo, soverchiando i segni meno.

È una bagascia, rotta a tutto. Anche alla teodicea. La storia nei fogli della fortuna, quando il pappagallo li estraeva dal cesto, si componeva di tre “estasi” del tempo: il retaggio, il destino, la fortuna. Ora tutto è possibile. Pure decostruire la decostruzione, destabilizzare la destabilizzazione. Disorganizzare la disorganizzazione. Come operazione critica, certo, ricostitutiva. E faziosa: frantumare la frantumazione, dell’io, la società, il mondo. Ma per quale legge e quale ordine? È operazione reazionaria, su cui si misurano l’Occidente, il papa, Freud, l’imperialismo trionfante dei signori del denaro – altrimenti impensabile.

zeulig@antiit.eu

La 7 di Bazoli

La 7 perde 120 milioni, lamenta Ben Ammar, socio di Telecom, padrona della rete. Erano in passato sempre tanti, ma le perdite si contenevano sui 60-90 milioni, annui, da sempre. Ora che finalmente l’emittente è, teoricamente, in vendita, lo sbilancio si è quasi raddoppiato. Il perché si sa, per pagare lo sforzo informativo – per dare, sempre teoricamente, un appeal alla rete. Ma Telecom Italia è un gruppo ancora semi-pubblico (la rete telefonica lo è, le tariffe devono tenere conto delle sofferenze Telecom, soprattutto l’esosissimo canone), e seppure bene intenzionato non  dovrebbe permettersi simili sbilanci. Nell’inerzia: dell’Agenzia per le Telecomunicazioni, del padrone Telecom, dei padroni di Telecom.
Si è pensata La 7 legata a Franco Bernabé, l’ad di Telecom che la gestiva fino a poco tempo fa col fidato Stella. Ma l’interesse dirimente è di Bazoli, il capo di Intesa-San Paolo e dominus del gruppo telefonico. Che non è un banchiere, come ha spiegato lungamente l’altro ieri Carlo De Benedetti alla presentazione del libro di Mucchetti e Geronzi, ma un politico Dc che Andreatta proiettò sul mondo bancario. Che l’ha messa in vendita, ma teoricamente.

mercoledì 5 dicembre 2012

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (164)

Giuseppe Leuzzi

Non fossero stati Monti e Grilli, due milanesi, a fare il pasticcio dell’Imu, fossero stati due del Sud, non li avremmo impiccati? A piazzale Loreto.
Imporre una tassa onerosa ai più, e imporre, per due volte, di pagare uno che la calcoli.

“Perché non c’è l’apologia della mafia nel codice penale?”, si chiedeva questo sito l’altra settimana: “Nell’editoria, i media, gli spettacoli”. Prontamente Napoli ha arrestato i cantanti che incensano il camorrista, il carcerato, il latitante. Ma ancora nulla per i tanti giornalisti, scrittori, case editrici, che riempiono le edicole e le librerie con mafiosi edificanti.

Il Nord ci preoccupa, molto. C’è la siccità. Piove. Nevica. Non nevica. C’è la nebbia. C’è il ghiaccio. Oppure, col sole, c’è la polvere. Anche le mosche, e molte zanzare, di ogni tipo. Poi ci sono i ladri, che rubano.
Bisogna ammirare tanta pienezza di sé: il Nord smentisce il vezzo culturale del millennio, che si dice smarrito nella frantumazione del sé.
Ci preoccupiamo pure per i casi di parricidio: i figli ammazzano i genitori. Ma, forse, non abbastanza.

Il Sud si lamenta ma non protesta.  È convinto che, senza il Nord, è fottuto. È il destino delle puttane, che si fanno improsare per sopravvivere. Mai contente.

La criminalità si vuole “organizzata”. “Organizzare”, nel tedesco del lager, significava rubare (è nella biografia di Primo Levi, p. 278). Dunque c’è un lager.

C’era fino alla guerra, anche nei lager tedeschi, la Mafia del Nord (ne parla Primo Levi nella “Tregua”).

Chi è chi
Il gioco dei caratteri nazionali (“il tedesco è…”, “l’italiano è…”) non è innocente.  All’origine e nell’effetto. Ci indulge anche l’Enciclopedia Einaudi, ma non vuol dire.
È un gioco di potere, i qualificativi si precisano e si impongono in corrispondenza dei ruoli. In Germania si può dire che gli italiani sono mafiosi, in Italia non si può dire che i tedeschi sono mafiosi. Anche se lo sono: assassini, taglieggiatori, usurai, per un numero di delitti ogni maggiore che in Italia, in totale e pro capite.

Nord e Sud, nazioni latine e nazioni germaniche, sono nozione romantica. Delio Cantimori lo spiega nell’introduzione alla “Storia dei papi” di Leopold von Ranke: “La «Storia delle nazioni latine e germaniche», che il Ranke chiamerà più tardi «preambolo» di tutta la propria opera, è ancora legata alla tematica all’antitesi della quale si compiaceranno i filosofi della storia e della politica e gli storici dell’ultimo Settecento e del periodo romantico: nazioni o popoli nordici e popoli e nazioni mediterranei, romanzi e teutonici, latini e germanici, che celavano spesso a loro volta l’altra contrapposizione: cattolici e protestanti”.
Già nel 1819 Sismondi , l’economista svizzero e storico dell’Italia medievale e della Francia cui tanto si rifece Marx, produceva un “De la littérature du Midi de l’Europe”.

Jean Gottmann, “La politique des États et leur géographie”, geografo tenuto in grande conto da Ernst Jünger (“Il nodo di Gordio”, p. 139) ha il concetto di “iconografia regionale”: ricordi storici, saghe, miti leggende, simboli, tabù. In cui si viene riconosciuti e ci si riconosce.

Calabria
Pavese, al confino a Brancaleone, sente “inutile” il cuore.
Sente anche se stesso estraneo. Incapace di stabilire alcun contatto. Offeso più che indignato dalla persecuzione. Senza curiosità.

Quando Budda lasciò la casa del padre, narra Roberto Calasso in “Ka”, 62 erano le scuole di pensiero. Sei i maestri eminenti. Uno di questi, Kakuda Katyayana, sosteneva che l’essere umano si compone di sette elementi permanenti e che, quando qualcuno viene assassinato, non vi è né uccisione né uccisore né ucciso. Lo stesso per la nostra giustizia.

Sono di Calabria il vescovo bisbetico e le formose sunamite che lo allattano e se ne impregnano, nella novella dell’abate Casti.

“Quel furbo Calabrese tutto vizio…” è nei “Rimorsi” di Du Bellay, LXII, pieno Cinquecento. Che rifaceva Orazio.

La religiosità va con l’eresia, la reazione col giacobinismo. Da Gioacchino da Fiore a Campanella, e incluso l’asilo ai Valdesi nelle terribili persecuzioni di Pio V, culminate con gli eccidi del duca di Alcalà vicerè di Napoli a San Sisto, Montalto e Guardia, la storia “provvidenziale” va in Calabria nel senso della secolarizzazione del mondo all’estremo. È paganesimo? È anarchismo? È passione? È lo strapotere della logica. Che sempre è perfida. Da qui la mitezza estrema, fino alla sfinimento – e le terribili collere d’un momento.

Uno dei ritratti più vivaci di Norman Douglas in “Vecchia Calabria” è dell’impiegato nevrotizzato perché non fa colazione, la mattina prende solo un caffè. Chi non fa colazione la mattina, spiega Walter Benjamin (in “Colazioni”, un brano di “Senso unico”) è uno che non vuole interrompere i sogni, la condizione onirica: “Chi ripugna al contatto del giorno, sia per paura degli uomini sia per desiderio di raccoglimento intimo, sdegna la prima colazione. Evita così la rottura tra il mondo della notte e il mondo del giono””. Non si fa colazione per misantropia.

C’è una diversità di tratto, notevole, fra gli scrittori calabresi che sono rimasti in Calabria, La Cava, Seminara, Delfino, Zappone, e quelli emigrati, Répaci, Strati, Abate – Alvaro sta in mezzo. È l’umbratilità, una sorta di pudore: un’esposizione minima dei sentimenti, le collere, le passioni, le delusioni, indiretta, allusa. Potendo contare naturalmente su un linguaggio inespresso condiviso.
Walter Benjamin ha una ragione più sottile per questo, nel breve brano “Pompa di benzina”, compreso in “Senso unico”: La scrittura, per essere efficace, deve nascere da “uno scambio rigoroso con l’azione”. Senza forzature, sia pure pedagogiche o a fin di bene: “Le forme modeste danno alla scrittura più influenza nelle comunità attive del gesto universale e pretenzioso del libro”. È come quando si olia la macchina: “Non si inondano di olio i pistoni, si versano alcune gocce su snodi e giunti nascosti che bisogna individuare”.
  
La Calabria è “quel posto che dà un calcio in culo alla Sicilia” nell’osceno Théophile Gautier delle “Lettere alla presidentessa”.

leuzzi@antiit.eu

L’amore è comico, se non è egoista

Luciana Floris raccoglie qui due saggi, “Sul problema dell’amore” e “Il Tipo Donna”, vecchi di un secolo e attuali. Affascinanti, come tutto di questa filosofa, e anche istruttivi. Il primo già tradotto nel 2005, il secondo e più famoso nel 1992.
Lou Andreas Salomé non ha ancora trovato il suo interprete. Il biografo Peters ha sgonfiato i pettegolezzi sotto cui gli amici l’avevano seppellita, col dire (Nietzsche, Rilke) e col non dire (Rée, Freud, Andreas): svampita coquette, o peggio interessata allumeuse (Floris la vuole “strega” - una che fu sempre socialissima?). Ma non c’è una “sistemazione” del suo pensiero, pure fertile per molti aspetti. Se non per la parte del femminismo della “differenza” (Lou non è femminista: nel saggio rinomato su Ibsen annota del personaggio Hedda Gabler la “profondità vuota”, come “un abisso sul nulla”).
“Sul problema dell’amore” è del 1900, e corona i quattro anni passati con Rilke - in un rapporto pieno, passionale, affettivo, creativo per entrambi, e d’incomparabile accumulo di esperienze, soli, in società, in viaggio. Espone i temi che poi amplierà nella sua opera maggiore, “L’erotismo”, scritto nel 1910 su insistenza di Martin Buber, dell’amore che è creatività e religiosità. L’erotismo Lou connette alla creatività artistica. Per il comune “infantilismo”, l’ingenuità. Per il comune parossismo, o acme, o concentrazione in un rapporto\opera. Per la comune “intermittenza” - l’acme non è costante.  E al senso del divino.
L’anno dopo “L’erotismo”, l’incontro con Freud e la folgorazione della psicoanalisi. Che nel 1914  arricchirà, in contrasto non polemico con Freud, anzi dai lui privilegiata come interlocutrice, con questo “Tipo Donna”, con la “differenza” della donna, amante, madre, madonna – successivamente con non meno radicali distanze rispetto alla pulsione di morte del maestro (“Nella paura della morte c’è qualcosa che fa pensare a un senso di colpa: con essa si manifesta forse la vendetta della vita non abbastanza amata. La morte è un pregiudizio”), e con la categoria del “narcisismo femminile”Ma anche qui non scherza: “Il Tipo Donna” è un formidabile colpo d’incontro al cuore di Freud, ai “Tre saggi sulla teoria sessuale” (la sessualità maschile è “la più coerente, anche la più facilmente accessibile alla nostra ragione, mentre nella donna interviene persino una specie d’involuzione”). Con due critiche, al “fatto” in sé, e all’opportunità di definire un maschile e un femminile in modo netto e così antitetico. Il saggio inizia con i famosi tre ricordi infantili, dei bottoni gioielli, della moneta d’argento divisa in due col mendicante, in due monete d’argento entrambe, e della discesa nella miniera di sale di Salisburgo, con le sue pareti brillanti.
L’amore è arduo
Filosofare l’amore è arduo, perché inevitabilmente patetico (coinvolgente). Lou non arretra: “Nell’amore, l’egoismo non apre i suoi confini diventando caritatevole e buono, ma piuttosto si acuisce e si affina come per diventare una potente arma di conquista”  (p.29). Molte citazioni sono possibili. Nella passione “è come se nella nostra vita interiore si producesse una crepa sottile attraverso la quale ci potessimo riversare, inebriati, su tutta l’esuberanza della vita fuori di noi mentre stiamo vivendo l’egoismo più sfrenato”. Oppure, siamo sempre nella stessa pagina 30: “Colui che ama si sente potente e capace di sfidare il mondo intero, come se lo avesse conquistato tramite questa intima unione  di se stesso con qualcosa che lo attraeva quale quintessenza di tutte le più belle, diverse possibilità del mondo”. L’erotismo coniuga “l’egoismo con l’essere sociale (con l’essere totale): è l’unica funzione che “coinvolge tumultuosamente l’intimo di tutta la persona, implicando al massimo l’intero suo essere” – come solo, oltre a esso, sa operare il cervello, “questo rampollo molto più giovane, tardivo, tenero nello sviluppo” (35). Dell’erotismo “l’effetto più benefico sta nel fatto che favorisce uno sviluppo più ampio e libero del nostro sé e un libero gioco delle nostre forze; mentre sono ben altri sentimenti, molto meno personali e colorati, a ridurre il sé di una persona a causa di un altro – per esempio la compassione, il senso del dovere, la stima” (52).
L’egoismo è inderogabile: “L’amore dura finché ognuno resta se stesso nella coppia” (54). La “forza amorosa” si lega “alla morte in tutti quei punti in cui non si dimostra fertile per la nostra vita interiore” (62). Che è una tautologia – la caduta dell’interesse, della curiosità viva – ma non del tutto: “Il segno più pertinente e inalienabile di ogni amore è un eterno rimanere estranei nell’eterna vicinanza” (70). Nel rapporto con Rilke l’amore si era precisato come amore di sé, il primo preliminare: la “celebrata lotta dei sessi” nasce, a letto, “in quell’egocentrismo acuto, in cui la donna sembra sopratutto donna e l’uomo uomo”. Non dal rapporto, ovvero sì, ma con se stessi: “Nell’amore diveniamo «dono», ci diamo a noi stessi”. E ancora, con Lullo, l’amore cortese, il due in uno e viceversa: “«Dandoci» noi ci «otteniamo». È solo qui che c’è amore, creazione, un compimento naturale e il culto del divino”.
Il corpo è conservatore
Poi c’è il corpo. Il corpo è il “terzo” nel rapporto. Che si anima “comicamente” per il mondo animale, anche per gli esseri umani – che un tale coinvolgimento si risolva nell’atto. Per gli adolescenti anche dolorosamente: il “pudore iniziale” non è solo inesperienza o pregiudizio, è anche “spontaneo”, di chi l’“estremo coinvolgimento affettivo”, questa esperienza rivoluzionaria, si ritrova a doverlo svolgere a letto. “Il corpo è il potere più conservatore” (68). Perché è tetragono. Ma più perché, alla fine, “l’amore è sia la cosa più fisica sia quella apparentemente più spiritualistica e più superstiziosa che dimora in noi” (70).
Il corpo, Lou chiarirà scrivendo a Freud, le donne lo sanno, “l’essere corporeo, che separa la cosa dalla cosa, la persona dalla persona, sta nel «segreto manifesto» di essere per eccellenza il principio di unificazione dei processi interni e esterni: il nostro corpo non è nient’altro che la parte di esteriorità più vicina a noi, inseparabile dalla nostra intimità, dall’identità; ma noi ne siamo anche staccati, al punto che dobbiamo imparare a conoscerlo, a studiarlo dall’esterno come ogni altro oggetto”. Uno spettacolo: il corpo “è al crocevia delle pulsioni che ci fanno rompere l’isolamento, per collegarci a tutte le cose, nell’universale parentela dei corpi, come se l’universale parentela si conservasse nel nostro essere fisico, il ricordo primitivo della comune identità, di cui le pulsioni amorose che ci gettano l’uno contro l’altro sarebbero le vestigia”. Hobbes non approverebbe, ma è bello pensarlo. “D’altra parte, si sviluppa in ognuno un’ostilità nei confronti del corpo a seguito della resistenza che oppone la tendenza all’io proprio”. Insomma, c’è “un rapporto equivoco con l’essere corporeo”.
Lou Andreas Salomé, La rivolta dell’eros, Stampa Alternativa\ Nuovi Equilibri, pp. 118 € 12

martedì 4 dicembre 2012

Dante ricercatore in Francia

Curato da Luciano Formisano il primo, ordinario di filologia romanza a Bologna, da Paola Allegretti il secondo, docente di filologia dantesca. Opere di riferimento per studiosi e non di lettura. Sulla base degli “attribuibili” della Edizione Nazionale delle Opere di Dante, così detti da Gianfranco Contini, che ne curò la prima pubblicazione nel 1984.
L’edizione Allegretti riedita Contini, completando l’Edizione Nazionale avviata col sesto centenario della morte di Dante, 1921. L’edizione Formisano è la prima di un progetto di riedizione di Dante, del Centro Pio Rajna, che dovrebbe completarsi per il settimo centenario nel 2021.
“Il Fiore” è la riscrittura abbreviata, in 232 sonetti, del “Roman de la Rose”. Con l’attribuzione a Dante, Contini ipotizzò un soggiorno in Francia dell’allora giovane poeta, nel 1286-87, poco dopo la pubblicazione e il successo del “Roman de la Rose”, 1280. Il “Detto d’Amore” è coevo, e anch’esso rielabora il “Roman de la Rose”, in 480 versi (che si suppone fossero in origine 720), con una metrica più semplice, il settenario a rima baciata che usava Brunetto Latini. L’attribuzione a Dante è ancillare a quella del “Fiore”, di cui riprende stilemi e figure.
Le attribuzioni spostano la bilancia complessiva di Dante. Da poeta-narratore, d’invenzione (la “Divina Commedia”), a stilista e linguista. La ragione principale dell’attribuzione a Dante del “Fiore”, e conseguentemente del “Detto”, è che l’io narrante in due sonetti si riferisce a se stesso come a Ser Durante, la forma completa del nome di cui Dante sarebbe il vezzeggiativo. Ma di più ha inciso in Contini la sua idea di Dante come di un formidabile sperimentatore linguistico. Uno scienziato della poesia, un ricercatore, uno che studiava senza requie: “La tecnica è in lui una cosa di ordine sacrale, è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile dall’ansia di perfezione”.
Dante Alighieri, Opere di dubbia attribuzione: il fiore e il detto d’amore, Salerno, pp. 800 € 39
Dante Alighieri, Il fiore e il detto d’amore La Lettere, pp. 500 € 60

Problemi di base - 126

spock

Se la vita è morte, come l’amore, la morte non sarà vita, e amore?

E come è possibile?

E perché interrogarsi, se tanto non si sa niente?


A quando il papa su facebook?


Perché il Centro di Casini e Montezemolo si chiama nuovo se sono in scena da quarant’anni, Casini di  quasi sessant’anni, Montezemolo di quasi settanta?


E Pisanu, settantacinque, parlamentare per venti legislature, in tre o quattro partiti diversi?


Perché le banche italiane soffrono in Borsa più di tutte le banche europee in Borsa, se stanno meglio negli attivi e nella redditività?


Perché il mercato, che è la cosa più immorale di tutte, sparare sulla Croce Rossa, si pretende morale?

Il mercato è che ognuno può chiamarci a casa e tormentarci con qualsiasi cosa?Perché il mercato, che è la cosa più immorale di tutte, sparare sulla Croce Rossa, si pretende morale?

spock@antiit.eu

lunedì 3 dicembre 2012

Ombre - 157

Si legge Cuffaro, il suo libro del carcere, e si simpatizza per lui contro i suoi giudici. Che tristezza.

Istruttivo Sky Tg 24, che per tutta la serata e la notte di domenica fa solo la vittoria di Bersani. Gli abbonati sono tutti democratici?
L’abbonamento costa seicento euro l’anno. La tv è di Murdoch, uno di vera destra.

Domenica di pieno impegno per la gioventù democratica della capitale: dopo le primarie, è mobilitata a San Silvestro, a manifestare in “una delle piazze simbolo dell’aridità e dell’inospitalità di Roma”. Che è la città che ha più parchi e spazi verdi, vecchi e nuovi, nonché alberi in tutti “i pizzi”. “Lottare” bisogna, quindi anche per quello che si ha. Ma con occhio predone: non basta mai.

Forti le immagini dei due funzionari Digos che, con un impiegato portacarte al laccio, entrano al “Giornale” ad arrestare Sallusti. Il Tg 5 ci fa l’apertura e quasi una diretta. Sky Tg invece non usa quelle immagini. Il Tg 2 nemmeno. Il Tg 1 si limita a dire la notizia senza immagini. La sinistra si fa destra, e la destra sinistra. E l’informazione?
Poi, in  serata, gli altri Tg si adeguano.

Escono statistiche dure sul lavoro: centomila posti persi in un mese, disoccupati a tre milioni, e ”scoraggiati”, quelli che non cercano più lavoro, a uno e mezzo, di cui la metà giovani. Il commento di Grilli: “Tutto previsto. Andrà peggio nel 2013”. Del ministro dell’Economia.

Escono notizie drammatiche sul lavoro. Ma i titoli sono per il duello Bersani-Renzi. Per tenere su la disputa. La regia di questo evento è stata da tutti i punti di vista eccezionale: imporre il nulla. Senza spendere, sfruttando gratis l’informazione.

Il governo ancora non ha messo a punto la legge per il salvataggio dell’acciaio a Taranto ma la giudice di Taranto Todisco già annuncia che la impugnerà davanti alla Corte Costituzionale. È così che uno diventa filosiderurgico. E anche un po’ misogino.

Soave, in dibattito sorridente con Amato, il direttore dell’Agenzia delle Entrate Befera concorda che è ingiusto far pagare gli interessi sui ritardi provocati dalla stessa Agenzia nell’esazione. Interessi del 12 per cento. Composti.
Dev’essere un personaggio sbagliato lo Scrooge dickensiano: l’usuraio è uno che non fatica, ha una rendita di posizione.

Finisce a coda di pesce Napolitano. Come in tutte le vicende della sua lunga storia politica. Di fronte a un Pm che voleva incriminarlo con le intercettazioni non ha esitato ad adire la Corte Costituzionale. Di fronte a una gip che palesemente viola la divisione dei poteri non ha nulla da dire. “Meglio non surriscaldare la questione”. Come se la chiusura dell’acciaio in Italia fosse una quisquilia. Solo legittima difesa, niente difesa dello Stato per questi statisti.

La légalité tue”, la legalità uccide, dice il francese. Ma l’uso che delle leggi fa Taranto - il procuratore Sebastio, la giudice Todisco – è peggio: non al servizio della giustizia ma dei loro poteri, al coperto della solita “questione di principio”. Un qualsiasi giudice può distruggere a suo arbitrio mezzo paese.

L’Ilva, l’acciaio italiano, è un fatto. Discutibile, l’industria non piace, ma è un fatto non sopprimibile. Come sono niente al confronto i Passera e i Napolitano, al confronto dell’acciaio, e di una giudice sovrana.

L’acciaio a Taranto ha pochi sostenitori. Così come pochi nemici, i più sono ovviamente indifferenti. Ma i nemici, nei giornali, nelle tv, sono quelli che ancora si commuovono alla “dismissione” dell’acciaio a Bagnoli.

Piovene scrittore “nero”

Piovene fu fascista. Non al modo dei giovanissimi - allora, negli anni di guerra, alla fine del fascismo – Spadolini o Scalfari di cui fu la moda pubblicare i (pochi) scritti di regime. Si poteva non esserlo, e Colorni, fra i tanti, non lo fu. Ma Sandro Gerbi non indulge alla deprecazione. Il rapporto tra Piovene e Colorni sottotitola “Un storia italiana tra fascismo e dopoguerra”. Interessato, come con Montanelli di cui è biografo, agli stati di ambiguità, di debolezza più che di opportunismo. Un modo di essere, a volte senza colpa, se non da vittima. Qui ricostruisce, nella storia di un’amicizia, la “malafede” rivendicata da Piovene - “La malafede è un’arte di non conoscersi, o meglio di regolare la conoscenza di noi stessi sul metro della convenienza” (“Lettere di una novizia”). Il quale, dopo che fascista, senza necessità, e antisemita, fu subito e disinvolto comunista.
È un racconto che, rivisto in più punti e rimpolpato rispetto alla prima fortunata edizione del 1999, farà testo nella storia del fascismo intellettuale. E in quella di un certo razzismo nord-orientale, veneto e lombardo – lo stesso, si può aggiungere, che da fine Novecento alimenta il leghismo. La nuova edizione si arricchisce di belle pagine di foto, anch’esse molto narrative, di utili cronologie di Piovene e Colorni, di una bibliografia quasi raddoppiata, e di un paio di documenti. Uno è il testamento di Colorni, preciso e commovente, come tutto di quest’uomo. L’altra è una lettera di Rossana Rossanda da Milano a Alicata a Roma, responsabile culturale del Pci, inimmaginabile se non fosse stata scritta. Riguarda la pubblicazione del “Lungo viaggio attraverso il fascismo” di Zangrandi, al quale l’editore Feltrinelli aveva chiesto di espungere gli articoli antisemiti di Piovene. Zangrandi insiste che bisogna parlarne, perché quello è comunque un delitto, Rossanda e Piovene preferirebbero di no, perché sarebbe stato comunque un attacco al Partito. La sorpresa è lo spaccato della “Milano «antifascista»”, compresa la moglie Mimy, che ricatterebbe Piovene chiedendogli di non impegnarsi in politica e limitarsi ai romanzi, con l’argomentazione “« tu non puoi parlare, perché in altri tempi, ecc.»”.
Piovene fu fascista
Gerbi riporta la malafede al bisogno secolare di “dissimulazione onesta” o di “nicodemismo”. Ma queste sono forme di resistenza, di difesa e opposizione di fronte al signoraggio o all’intolleranza religiosa. Mentre Piovene fu fascista – come Montanelli, Malaparte, e altri poi diventati, “tali e quali”, comunisti.  Piovene, in più buon cattolico, si è fatto poi l’esame di coscienza, nella raccolta  “Coda di paglia”. Seicento pagine di cui dirà, alla vigilia della morte: “Mi sono troppo romanzato – Falsità delle confessioni”, ricorda lo stesso Gerbi in apertura, nella “Nota” a questa riedizione. Piovene ha sempre rivendicato una sorta di “ambiguità costituiva”. La memoria di Piovene al processo di annullamento del primo matrimonio, che Gerbi ripubblica, per quanto caricata strumentalmente per facilitarne l’esito, è ossessiva su questo aspetto. Una posizione personale, quindi, ma non isolata. Altri, perfettamente democratici, rivendicano ultimamente un diritto-dovere di libertinismo intellettuale, di poter dire tutto e il contrario. La coerenza non si vuole italica: l’intellettuale limita il suo compito al “buon italiano” del tema in classe, ad abbellire gli slogan del momento - “l’intellettuale è proletario per natura, è il proletario per eccellenza” è fulminazione di Piovene appena caduto da cavallo, certo (purtroppo) non opportunistica.
Un punto, tuttavia, nell’ottica di Gerbi resta importante in tema di etica sociale. Il suo è uno dei tentativi più convincenti di situare l’antisemitismo italiano fuori dall’aneddotico e insieme dalla perversione – poiché fortunatamente non si è spinto a tanto, non nella misura degli altri paesi europei. Piovene è facile assolverlo, poiché, oltre che di Colorni, fu amico fraterno di altri insigni ebrei, per esempio di Saba, e sposò in seconde nozze l’amatissima Mimy Pavia, di famiglia israelita, che molto ne facilitò il lavoro e ne coltivò la fortuna postuma. Ma su troppe esperienze intellettuali in Italia pesa il provincialismo, un’ottica chiusa nella quale l’ebreo, ancorché indistinto, offre l’unico raffronto, l’unico specchio di autocoscienza possibile – un po’ come oggi il meridionale. Sono arzigogolati gli avvitamenti di Piovene, non richiesti, al culmine della sua amicizia stretta con Colorni, attorno al biblismo e legismo ebraici, e uno si chiede: perché? Perché non aveva altro modo di pensarsi. Un provincialismo che Piovene conferma da corrispondente del “Corriere della sera” a Londra, e da inviato nella guerra di Spagna, con cronache di nessun interesse – melensaggini al confronto delle contemporanee corrispondenze da Parigi o Berlino e le cronache di viaggio e di guerra di Corrado Alvaro, che ancora si leggono con interesse, di uno che pure era nato e cresciuto nelle remote montagne della remota Calabria.   
L’esito più incisivo del lavoro di Gerbi è però di diversa natura. Ed è ciò che fa l’interesse della narrazione, sempre avvincente. Una sottile filigrana letteraria che Gerbi rafforza in questa riedizione nei rinvii in nota. E che si può riassumere in questa sua formula: “Piovene scrittore «nero»”. Il libro fu accolto con piacere dagli italianisti alla sua prima uscita, ma senza profitto. Piovene “nero” è invece una chiave di cui la critica del Novecento dovrebbe tenere infine conto: inquadrate in questo genere le sue opere, specie “La Gazzetta Nera”e “Le furie”, ma anche le “Lettere di una novizia”, sconcerterebbero meno.
Sandro Gerbi, Tempi di malafede, Hoepli, pp. XIX + 296 €18

domenica 2 dicembre 2012

Il mondo com'è (120)

astolfo

Cellulare – Per i molti il telefonino non è un mezzo di lavoro o di contatto, ma un modo di sentirsi vivi per essere sempre presenti. Per la nevrosi (paura) di non essere, di non essere considerati.

Facebook – Il fenomeno è semplice. McLuhan già nel 1956, “Gli strumenti del comunicare”, diceva che l’elettronica avrebbe privato l’uomo della sua identità e della morale: “Le persone vanno al lavoro principalmente per leggere”.

Google - Simpaticamente legge i pezzi sul sito, e ne estrapola le frasi “migliori”, con sicuro fiuto letterario.

Guerra. Non può essere “giusta”, se non per una o più delle parti in causa. C.Schmitt, “Il Leviatano”, p. 84: “La guerra di stati non è né giusta né ingiusta. È un affare di Stato, e in quanto tale non le occorre essere giusta”. La “buona causa” è “un concetto discriminatorio di guerra (che) trasforma la guerra d Stati in una guerra civile internazionale”. Cioè una guerra di tutti contri tutti. Una guerra “totale”.
“Si è detto”, aggiunge Schmitt, p. 87, “che possono ben esistere guerre giuste, ma non eserciti giusti”. Non senza ragione sembra implicare il filosofo del dirotto: “Quando in chiusura del «Principe» Machiavelli afferma essere giusta la guerra, se è necessaria per l’Italia, e umane («pietose») le armi, se in esse riposa l’ultima speranza, tutto ciò suona ancora umanissimo a paragone della completa oggettività delle grandi macchine il cui perfezionamento si è realizzato in modo esclusivamente tecnico”. Macchine statuali e belliche.

Islam – È orientale. Del tipo di cui Goethe disse, nel “Divano orientale occidentale”, p. ): “L’orientale scopre in tutto l’occasione di ricordarsi di tutto… Abituato a connettere e a incrociare le cose più lontane, non si fa alcuno scrupolo di dedurre l’una dall’altra… le cose più contraddittorie”.
Goethe lo rilevava a proposito della lingua, o del gusto in letteratura – del “buon gusto”, ossia del pudore: “Di ciò che noi chiamiamo gusto, della separazione cioè del conveniente dallo sconveniente, non si può assolutamente parlare in quella letteratura”. Da tempo le “Mille e una notte” non scandalizzano il “nostro gusto”. Ma l’inabilità al principio di non contraddizione è stata intanto estesa alla “mentalità” islamica (araba), specie in politica.

All’opposto del rifiuto c’è un multiculturalismo realista più del re. A Natale del 2008, tra i presepi che esibivano la moschea, e quelli che eliminavano il Bambinello dalla capanna, molte famiglie islamiche si sono meravigliate e lamentate dei Natali poveri, dimessi a scuola. A opere di maestre magari beghine, ma vittime dell’età dei diritti, dall’algido moralismo cosmopolita, quando non della stupidità. Come le missionarie che vanno a sputare al loro Cristo sulle ferite infette della grande miseria africana.

È bastato poco ad Ahmadinejad per prendersi l’attenzione dei media in tutto il mondo. Il presidente iraniano è personaggio di poco conto, non rappresentativo, a capo di un paese che non ha mai registrato un solo episodio di antisemitismo. Ma gli è bastato dire che Israele sarà cancellata per fare la copertina in tutto il mondo.
C’è estrema sensibilità, in Italia, in Europa e nell’Occidente, su tutto quanto riguarda Israele, e su tutto ciò che si richiama all’islam: un senso generale di rifiuto. Un’avversione del resto non ingiustificata. Per il terrorismo odioso, dei kamikaze, delle bombe nelle moschee, le chiese e le sinagoghe, nelle scuole, nei mercati, contro i preti e i cristiani a uno a uno – è qualche secolo che i preti non ammazzano più nessuno, i cristiani, ma vengono ammazzati. È anche perché è un genere letterario opportunistico, essendo proficuo, quindi odioso.

Il rinnovamento politico dell’islam comincia con Khomeini, e ne riflette le ambiguità. La rivoluzione khomeinista passò come quella dei fiori – un po’ come oggi con le “primavere” arabe. Ma Khomeini non era un uomo pio, era un politico durissimo. Che passò un accordo anti-Usa con lo Sdece francese, i servizi segreti. Non un mistico. La ricca tradizione iraniana anzi dimezzò, anzi “atterzò”, anche la modernità faceva parte dell’Iran. E la ricca religione di Qom, la razionalità e la fede, ridusse a “oppio dei popoli”.
C’è distinta una razionalità nella domanda di Dio, e c’è il trucco, la confusione, la furbizia, di chi usa la religione come strumento di potere - “oppio dei popoli” poteva dirla il sarcastico Marx.

Italia - Non sa capitalizzare la sua storia.
Salvatore Scibona, il nuovo John Fante, sta in Italia un anno e non impara l’italiano.
Centomila studenti americani a Roma, Firenze e nelle altre città di tradizione universitaria, che non imparano nulla dell’Italia, a parte la pizza. Non l’italiano. L’Italia comunque non se ne cura, a parte gli affittacamere.
La cittadinanza italiana è difficile da ottenere. Ma non è molto richiesta. I più, soprattutto asiatici, sono in Italia, magari protetti dalla chiesa, in attesa di passare in Germania, in Canada o in Inghilterra, terre di domicilio eletto.

Le vespe che nascono dalla carcassa di un povero cavallo si dicono progenie di nobile destriero, il favorito di Nettuno, etc. Così gli “italiani d’oggi”, che si dicono eredi degli immortali antichi romani invece che dei loro cadaveri. Lessing, “Favole in tre libri”, 38.

Il telefonino lo usa quotidianamente un italiano su due, e lo usa attraversando la strada, guidando in città e per tornanti, parlando coi figli: non si vuole perdere neanche la più trascurabile occasione di contatto. L’Italia è sempre il paese delle piazze, delle passeggiate, dello struscio, del bar Sport, del contatto continuo, costante. Ma il telefono, già mezzo di contatto, è in questo uso una barriera. Come se l’italiano (su due) volesse erigere una barriera attorno a sé, o se ne sentisse attorniato e volesse romperla.

I calciatori Nesta e Totti hanno deciso nel 2006,  a trent’anni, e dopo essere stati omaggiati di una insperata vittoria al campionato del mondo, di non giocare mai più nella Nazionale di calcio. Per dedicarsi alle carriere nei club, dove sono pagati. Due casi unici, in Italia e all’estero. Ma le competenti autorità non hanno reagito e i due atleti sono amati dopo d’allora come prima. Senza contraccolpi di popolarità. Senza neanche un rimprovero isolato.
Si moltiplicano da allora invece le deprecazioni alla Montanelli, l’italiano indignato (“mi vergogno di essere italiano”). E le solite statistiche europee, che mostrano l’Italia al fondo di ogni cosa, meno ricca, meno pulita, meno educata, soprattutto in matematica, meno laica, meno progressista, restia perfino all’eutanasia e perfino meno bella. E più sprecona, più ladra, più corrotta, più mafiosa, anche se meno assassina e meno pedofila.

Twitter – A una ricerca di sei mesi fa, i dieci personaggi più influenti in Italia, a giudicare da twitter erano nell’ordine: Arianna  Ciccone, Andrea Sarubbi, Beppe Grillo, Beppe Severgnini, Giuseppe Civati, Giuliano Pisapia, Luca Sofri, Gianni Riotta, Roberto Saviano, Sandro Ruotolo.
Civati è uno che si voleva candidare alle primarie del Pd. Andrea Sarubbi è il deputato Pd “metà uomo metà twitter”. Arianna Ciccone ha un Festival internazionale del giornalismo.
Cinque giornalisti dunque, sei con Saviano, e quattro politici.
La ricerca è stata effettuata da Klout sui personaggi più importanti del G 20. È per questo che l’Italia è poco rappresentata internazionalmente? Tutti opinion makers, gli italiani di Twitter, ma di che cosa?

astolfo@ antiit.eu

L’apologia del tradimento di sé

A un anno ieri dalla morte di Christa Wolf, a 82 anni, si ritrova con sorpresa questo delizioso desueto pastiche dei sentimenti letterari. Romantici. Iperromantici. Con la zavorra del romanzo storico, purtroppo, seppure leggera. Christa Wolf fa incontrare due simboli incarnati del romanticismo, Karoline von Günderrode e Heinrich von Kleist. Li attornia di corrispondenti, amici, amanti, parenti, ammiratori, conoscenti. Un parterre delle glorie della letteratura tedesca, con echi di Goethe, di molti patrono e corrispondente, da alcuni odiato. E li segue con trepidazione. E questo è forse la vera zavorra della pièce, più che i falsi dialoghi d’epoca: ne fa una  sacra rappresentazione.
È una carrellata cinematografica incalzante, unitaria, di primi piani che si sovrappongono in un interno. Il giurista Savigny, “l’uomo che si fa da sé il suo destino. Ricco, indipendente, sovrano”, il dottor Georg Wedekind, giacobino dichiarato e framassone, di nobile schiatta, i fratelli Brentano, “tutti affascinanti, compreso l’uomo, ognuno a proprio modo. Gli occhi scuri, la fronte pallida, i crespi capelli bruni. Impronta italiana”, Clemens, Bettina e Gunda (Kunigunda), Lisette von Esenbenck, la giovane donna forse più colta di Francoforte, specialista di letteratura francese e inglese, buona conoscitrice di lingue slave, studiosa d’italiano e spagnolo. E von Kleist, che ancora non ha scritto “l’opera”. E Karoline von Günderrode, innamorata non corrisposta di Savigny - “dove io sono di casa l’amore esiste solo a prezzo della morte”. Il finto ricevimento potrebbe pure essere quello del matrimonio di Gunda Brentano con Savigny, nella bella proprietà dei Savigny a Trages, cui Karoline presenziò. Non che i Brentano fossero da meno: erano i figli di Pietro Antonio, il commerciante lombardo all’ingrosso le cui due mogli furono entrambe corrispondenti di Goethe, e la cui casa a Francoforte, “Alla Testa d’oro”, nella Sandgasse, fu il punto d’incontro della buona società francofortese.  
Il “romanzo” si vuole di Karoline e Kleist. Che non si sono mai incontrati ma si parlano, nella comune ambizione alla poesia. E nel comune disagio nel genere – “maschile e femminile, così come sono concepiti, sono di ostacolo all’umanità”. Questa e altre interlocuzioni (suggestioni di dialogo) Christa Wolf riprende dalle lettere e le opere dei due poeti: “Non siamo fatti per quello cui aspiriamo”, “Invidio i fiumi, che si riuniscono”,.”Anch’io sarò un giorno un cadavere nella memoria degli uomini. È questo che chiamano immortalità?” Tutto il pastiche è composto con grande virtuosisimo da frasi dette o scritte dei vari personaggi. Così di Lisette von Mettingh, personaggio di contorno compreso in mezza pagina, fresca posa del futuro grande botanico Nees von Esenbenck, s’impongono ingombranti l’amore più che sororale da lei provato per Karoline, con sua propria sorpresa, di cui racconta in una lettera, e la gelosia per il rapporto a suo avviso troppo stretto fra Karoline e Bettina. Lei è sempre “la” Günderrode: l’uso lombardo (tedesco) ne marca la differenza – come nel romanzo epistolare che ne aveva tratto la sua amica Bettina Brentano (poi sposa) von Arnim.
I due si parlano in colloquio muto. In realtà in monologo, ora di lui ora di lei. Fratto, come la scrittura: breve, allusiva. Algida, e ostica ai più. Il lettore deve sapere molte cose per apprezzare. Sapere più della scrittrice: è, sulla traccia esile dell’amore infelice di Karoline per Savigny, un intreccio di idee. Quelle dell’epoca e quelle a venire. È il 1804, Karoline e Heinrich si suicideranno, lei nel 1806, lui nel 1811. Di illusioni, delusioni, e approssimazioni. In un parterre di eletti che non si ritrovano, in “nessun luogo, da nessuna parte”. In realtà voraci conquistatori della letteratura nei loro anni, la cui disperazione è l’ambizione. “Chi sono io”, si chiede Kleist: “Sottufficiale senza spada. Studente senza scienza. Funzionario senza incarico. Autore senza opera. Malato nell’animo”.
Junker prussiano, a 15 anni alfiere del re di Prussia, Kleist è un altro che “impazzisce” tornando dalla Francia, come poi Hölderlin, e Nietzsche. Malati di libertà li vogliono gli editori italiani, rivoluzionari che Napoleone tradiva. No. Von Kleist torna deluso da Parigi, e con l’esaurimento nervoso, perché la mancata invasione dell’Inghilterra lo ha privato della possibilità di eroicizzarsi in una guerra. Era balbuziente. Era ambiziosissimo. Odiava Goethe.
Karoline von Günderrode si pugnalerà al bordo del Reno, con un sacco pieno di pietre attorno al collo per poter eventualmente anche annegare, quando l’amante filologo Creuzer tornò dalla moglie. Creuzer, di cui si traducono ora, dopo quasi due secoli, i saggi su simbologia e mitologia, non era che un “poligrafo d’antico stile” secondo Erwin Rohde, il filologo amico di Nietzsche, che fu l’editore nel 1896 delle lettere e le poesie sue e di Karoline. A Savigny, suo precedente amore, Karoline aveva indirizzato la composizione “Il bacio in sogno” (“Da un romanzo inedito”: “Con un bacio m’ha insufflato la vita…”) due giorni prima del suo matrimonio, al quale poi lungamente presenziò, prima e dopo la cerimonia. Karoline è – ma qui non è detto – autrice di poesie di duratura profondità e fantasia (che incredibilmente non si traducono - ne ha una “A Eusebio”…) e “la” bellezza inarrivabile, inattingibile, della poesia, per avvenenza, sapienza, grazia, giovanissima.
Il pastiche è insomma pasticciato. Un’esibizione di perizia, del formalismo cui il Diamat ridusse la Germania comunista nel dopoguerra, come già la Russia. Un testo di ripicca, lo dice Anita Raja, dopo l’espulsione dalla Germania Orientale di Wolf Biermann, poeta e musicista, e la sua successiva privazione della cittadinanza nel 1976. Chi protestò in favore di Biermann, come Christa Wolf, fu escluso dal sindacato scrittori e dai suoi piccoli privilegi. Ma è della libertà nelle Germania Est come di quella sotto Napoleone, un desiderio degli editori.
Sacra rappresentazione
Sono due false rappresentazioni, sia di von Kleist sia di von Günderrode. I personaggi sono noti, vivono al di fuori di questo travisamento, e non sono gli stessi – non quelli dell’ottica della rappresentazione. I romantici hanno scritto molto attorno a se stessi, soprattutto in Germania, soprattutto le donne. Anche Karoline von Günderrode, malgrado i pochi anni vissuti, e le difficoltà pratiche (viveva dai 19 anni in un convento, una specie di suora laica), e von Kleist. Lettere lunghissime, che però nascondono più di quanto dicono, di quelli che “spaccano il capello” dei sentimenti, una sorta di scissione a catena, le cose e i fatti dovendo seppellire sono l’aura della morte. La morte in epoca romantica, e fino al simbolismo un secolo dopo, non saprebbe uscire fuori dalla serra dell’autoinganno di Praz, del compiacimento. Ineliminabile in chi scrive molto, curato, senza mai trascurare il già detto, una virgola, una sfumatura, pretenzioso. E poeta molto, con esercizio attento, acuto, delle varianti, sorvegliato e non d’impeto. Solitario perché eroicizzante, ma molto socievole. Il suo mal di vivere porta a concepire indotto, di serra appunto, artificioso.
È la debolezza del romanzo storico, quando non sia arbitrariamente manipolato: se deve rispettare i suoi personaggi, non può farli interagire convenientemente, non per la narrazione. Christa Wolf li fa poi parlare come nel Seicento le preziose – le “preziose ridicole” di Molière. A lei fa dire, dopo varie vaghezze sovrasensibili, che siamo noi, in qualche modo, il nostro destino,  “che segretamente provochiamo noi quel che ci accade”. E a lui, che vanta di aver visitato molti mondi, Magonza, Francoforte, Heidelberg, Parigi, per cercarvi modelli di vita che non ci ha trovato, che “a volte avverte fin dentro il midollo il fastidioso moto rotatorio del globo terrestre”. Senza grandezza in realtà, nulla più della pariniana ipocondria.
Ma c’è di più. La costruzione di Christa Wolf, che pure fu editrice e studiosa di Karoline von Günderrode (il suo lungo saggio bio-critico, “L’ombra di un  sogno” è ora in C.Wolf, “The Author’s Dimension”, selezione di saggi, letterari e autobiografici), depista il lettore. Che esce dalla storia non amandola, frastornato e più arrabbiato. Tanto più per essere opera d’autore: Christa Wolf è una forte scrittrice ancorata al Diamat, il materialismo dialettico o comunismo compiuto, come lo pensavano a Berlino Est, fino a dopo la Caduta del Muro. A quale precetto del Diamat – il lettore non può non chiederselo – rispondono gli umbratili repartees della rappresentazione? Al genio nazionale. Al nazionalismo. Con mano trepida, molto partecipe, al punto di falsificare il tutto.
Una pulsione di morte ne è l’essenza. Si dovrebbe dire del romanticismo eterno. Ma nell’accezione tedesca, del culto wertheriano della morte. Che retroillumina la tebaide di Berlino-Pankow, che di queste efflorescenze si compiaceva, e la stessa roccia Christa Wolf. Di lei si volle dopo la Caduta farla passare per spia della Stasi, la polizia segreta. Mentre ne fu IM (inoffizieller Mitarbeter), collaboratrice confidenziale per tre anni quando ne aveva trenta, probabilmente non volontaria, giacché fu dismessa per “reticenza”, e fu poi spiata a sua volta. Ma proprio per questo è una che non può dire “non c’ero”. E più per le tante fughe per le quali è famosa nei suoi scritti, nella falsa Troia di “Cassandra” o in questo falso romanticismo. Rimproverata ultimamente per la sua fedeltà, si giustificò dicendo: “I miei lettori mi volevano là”, nel mezzo del regime. Per lavarsene la coscienza nel mentre lo celebravano? Il romanzo storico prende così un’inverosimgilianza al quadrato, quando l’autore abusa dei suoi personaggi, o è ipocrita.
 “Dentro di me io porto un cuore, come una terra del Nord il germe di un frutto del Sud. Si sforza, si sforza, ma non riesce a maturare”. Lo scriveva Heinrich von Kleist a un’amica, Adolphine von Werreck, da Parigi, il 28 luglio 1801. La citazione, in epigrafe al “romanzo”, non è avulsa.
Christa Wolf, Nessun luogo, da nessuna parte, E/O, pp. 118 € 7,50 (ebook € 5,99)