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sabato 19 febbraio 2011

Gli Usa per un islam terza potenza in Asia

Il sovvertimento in corso nel Medio Oriente non potrà non avere effetti sul prezzo del petrolio, e un’altra crisi petrolifera colpirebbe soprattutto l’Asia, a partire dalla Cina, oltre che l’Europa. La valutazione in corso alla Farnesina del mutamento di strategie mondiali alla Casa Bianca comincia a trovare nel fattore energia un primo fondamento. In aggiunta, beninteso, alla estraneità in cui l’Europa è stata tenuta, malgrado l’interdipendenza e il legame privilegiato, dalle amministrazioni americane sulle loro intenzioni. Ora che il sovvertimento arabo ha preso, con la benedizione di Obama, e di Bill e Hillary Clinton, gli stati del petrolio, nel Nord Africa e nel Golfo, un primo orientamento si è precisato.
Queste le prime deduzioni del nostro ministero degli Esteri. La sovversione continua a essere di segno confuso: più democratica? meno democratica, cioè militare? Per ora è solo tradizionalista, e anzi islamista, in antitesi alla modernizzazione dei vecchi gruppi militari ora esautorrati, in Tunisia e in Egitto, che era anche laica. In assenza di lumi da Washington, che in teoria sarebbe contraria all'islamizzazione, ci si chiede perché Washington la sosteiene. Per irrobustire nel mondo arabo la componente nazionalista, è la risposta. Da indirizzare verso l’Asia, ora che l’antioccidentalismo non ha più senso.
Una analisi nel solco di dottrine tradizionali, ma quella del bilanciamento della potenza è una delle più durevoli - recentemente rilanciata da Kissinger come dottrina delle potenze regionali. Nella globalizazazione il mondo arabo deve confrontarsi con l’India e la Cina, suoi primi clienti e partner commerciali, più che con l’Europa,. E non più con gli Usa, che si presentano come il forziere sicuro delle rendite e gli averi finanziari - la globalizzazione si fa nel segno del dollaro.
Si parla del resto sempre meno di Medio Oriente o mondo arabo. L’area d’interesse è più vasta, e ha comune denominatore nell’islam. Comprende infatti anche l’Iran, di cui si dà per inevitabile un ripensamento della politica estera finora solitaria, con o senza l’opposizione al governo. E il Pakistan.

Salviamo Al Jazira - 2

Ben presto il benevolo intervento europeo per salvare il pluralismo, la libertà di opinione e Al Jazira si rivelò infruttuoso. Le Feste del 2017 e il Capodanno del 2018 furono insanguinati nelle capitali di ripiego, attorno al Mediterraneo, dove i combattenti della libertà del mondo arabo avevano trovato rifugio. Definitivamente lontani dal Golfo, dove l’Alleanza Al Qaeda-Ayatollah si era consolidata col contributo di avveduti manager cinesi, vecchi comunisti dalla mani e il viso di biscuit ma dalla mente rapida e il cuore duro, redattori e mezzobusti dell’emittente persero la speranza e la vita.
L’una dopo l’altra, alcune insieme, le belle annunciatrici furono trovate morte la mattina nel loro letto, seppure senza causa apparente. Qualche giorno più tardi la stessa sorte toccò agli uomini. Il Qatar, il paese dove erano diventati liberi e ricchi, era intanto stato spianato, comprese le loro ville con le piscine e le montagne false. Negli stessi giorni alle Maldive, avamposto appena conquistato dall’Alleanza, fu tagliato il collo agli ultimi turisti nascosti tra le palme, quelli che erano scampati allo tsunami.
Le polizie europee indagarono a lungo per trovare un nesso, ma non lo trovarono, un nesso non c’era. Invece si venne a sapere che non tutti i giornalisti e i redattori dell’emittente erano morti. A un censimento, complesso tra le polizie dei tre paesi, risultò infine che i più militanti si erano salvati. Nel mentre che loro stessi facevano sapere di essersi riorganizzati, seppure sempre con la vecchia sigla del’emittente. Un regolamento di conti tra fazioni evidentemente diverse e avverse, conclusero gli investigatori italiani. Ma nella perplessità generale, il regolamento di conti essendo nozione residua nella Nova Europa,e confinata all’Italia. Inoltre, non fu possibile nascondere a lungo che i morti non erano stati trovati nel loro letto. Ovvero sì, ma in una sorta di lento sgozzamento, che doveva avere provocato per ognuna delle vittime una serie di convulsioni, testimoniate dalle diverse direzioni che il getto del sangue aveva preso. Come se gli assassini, uccidendo lentamente i fratelli di Al Jazira, avessero voluto far rivivere come un incubo, la notte, al buio, gli sgozzamenti che essi per due decenni avevano esibito per dovere di cronaca. Con messaggio subliminale ma forse anche in chiaro: le polizie congiunte d’Italia, Spagna e Grecia non escludevano di ricevere anche loro i famosi video che avevano reso l’emittente autorevole.
Se non che l’attenzione fu presto deviata dal rapido accavallarsi di altri imprevisti eventi. I sopravvissuti riemerso a Zurigo, benché in forma anonima, e Londra. Dove Carlo III venne sfidato dal partito del figlio Guglielmo, che chiedeva l’abdicazione i favore del principe ereditario, e senza attendere lo proclamava monarca col titolo di Guglielmo V. L’insurrezione, avvenuta in contemporanea con l’arrivo a Londra dei sopravvissuti di Al Jazira, fu messa dai legittimisti sul conto della corruzione senza limiti di cui facevano carico all’Alleanza Qaeda-Iran. Ma con riserva: il re di Saint-James essendo anche il grande capo della massoneria, i legittimisti non si vollero precludere i legami con una potenza occulta, quale essa fosse.
Ma non fu la sola novità: altre, di ben più vaste conseguenze, erano intervenute dall’America. E proprio dall’asse Bel Air-Pasadena che era stata la prima scelta dei profughi politici di Al Jazira.
(continua)

La giustizia (non è) sportiva a Milano

Il dottor Palazzi ci impiega un anno per esaminare il trasferimento di Pandev dalla Lazio all’Inter, a prezzo zero, con gran vantaggio dell’Inter, che lo aveva “contrattato” quando la legge non clo consentiva. E decide di chiedere una semplice multa. Pandev era stato sottratto alla Lazio a parametro zero dal Collegio arbitrale della Lega Calcio, presieduta dal milanista Galliani. Che per la decisione aveva nominato a presidente del Collegio l’avvocato Mario Fezzi. Su indicazione dell’Associazione Italiana Calciatori.
Non c’è dubbio che la giustizia sportiva è molto milanese, come tutto nel calcio: a favore cioè di Milan e Inter, equamente bisogna dire. Fezzi è l’avvocato emerito della Rizzoli Corriere della sera nelle innumerevoli cause di lavoro della editrice. È una delle colonne della Milano che conta, ma poi “tutto si tiene” a Milano. Palazzi è un magistrato, ed è a capo della Procura della Federazione calcio: indaga cioè i reati. Non è milanese, ma è un magistrato napoletano a Milano, uno di quelli che eseguono per Milano la questione morale. L’Aic, l’associazione dei calciatori, è una sigla che sta per Demetrio Albertini, che come tutti sanno non è (più?) del Milan.
Si deve al dottor Palazzi, col supporto di Borrelli, altro napoletano di Mlano, e del milanesissimo on. sen. prof. avv. Rossi, il principe degli onesti, il colossale imbroglio di Calciopoli, che abbuonò delitti manifesti del Milan con l’arbitro Collina, sottraendo alla quadra milanese solo alcuni punti. Al solo fine di eliminare la Juventus, l’ultimo residuo sabaudo e non milanese nell’Italia da bere. Senza nessun reato, nonché provato, nemmeno opinato – corruzione? arbitraggi di favore (Collina, l’arbitro dei favori, essendo antijuventino e nella manica del Milan, che lo pagava)? squalifiche di favore (id.)?

venerdì 18 febbraio 2011

Che vuole Obama? La Farnesina valuta il ritiro

Che nuova politica stanno seguendo gli Stati Uniti nel Medio Oriente, Nord Africa compreso e fino all’Afghanistan? L’intervento unanime e coordinato a Washington contro il re del Bahrein ha avviato alla Farnesina un riesame delle strategie americane. L’emiro del Bahrein si è autonominato re, ma mantiene bene o male un Parlamento, ospita la famosa Sesta flotta americana, contribuendo alle spese, e ha all’Onu un’ambasciatrice ebrea. La discesa in campo coordinata, di Obama, dei Clinton, lei e lui, e di Ban Ki Moon, il segretario del’Onu (detto “la ruota di scorta” di Washington), contro il sovrano del Bahrein ha fatto capire che gli Usa hanno una strategia nei mutamenti in corso nel mondo arabo, hanno mutato cioè strategia. Tanto più che il Bahrein aveva rafforzato i legami con l’Occidente e con Israele per guardarsi dagli ayatollah. È da qualche tempo che Teheran rivendica la sovranità iraniana sull’emirato. E nella prospettiva certa che, dopo il Bahrein, tutti gli Emirati del Golfo verrebbero sovvertiti in poche ore senza resistenza, Abu Dhab, Qatar, Dubai, compreso l'Oman e forse anche il Kuwait.
Un primo risultato del riesame è che Washington possa puntare a regimi più duri nei paesi arabi, contro l’insorgenza islamista. Di militari senza il doppiopetto, come in Egitto. O di borghesie dichiaratamente occidentaliste come in Tunisia, senza gli equivoci tradizionalisti su cui si appoggiava Ben Alì. Ma negli Emirati non ci sono bonapartismi possibili: se si spazzano via gli emiri non c’è più niente, né una società né un gruppo politico o di potere. E ovunque, in una'rea socialmente tanto instabile, un semplice cambiamento di regime implica comunque un upgrading delle politiche antisioniste, un livello di maggiore militanza contro Israele. Il riesame insomma non si presenta facile, la nuova politica americana è tutta da scoprire.
C’è sconcerto in realtà, più che curiosità, per l’obamismo internazionale. Come se il presidente americano dicesse qualsiasi cosa gli viene in mente, tanto il Medio Oriente è lontano. Ma questo contrasta con la pianficazione della politica estera, che Washington cura da sempre. Ed è forse un effetto della delusione più grande che l’irrispetto dell’ambasciata Usa a Roma manifesta nei documenti di Wikileaks. Non per Berlusconi ma proprio per l’Italia. Da parte degli ambasciatore di Bush e degli ambasciatori di Obama. Un disimpegno atteso dopo la caduta dei blocchi, ma camuffato nel primo decennio dall'impegno comune nel Golfo e nelle guerre balcaniche, nel decennio successivo dalle pressioni di Bush. Ma non sfuggito alle altre capitali europee, Berlino Parigi, Madrid, e da qualche tempo perfino a Londra. Ora la costanza del (pre)giudizio sembra avere avvilito anche la nostra diplomazia - una sensazione che la stessa incertezza o ignoranza delle motivazioni americane di per sé conferma.
D’altra parte, in alternativa a una stabilizzazione di tipo militare, non si vede per il mondo arabo che un futuro “iraniano”. All’insegna cioè della sharià. Non necessariamente antioccidentale. Ma allora non si capiscono il Libano, l’Afghanistan e l’Iraq. Cioè, una revisione della presenza e del sostegno italiani alla pacificazione in corso, o guerra umanitaria, si imporrebbe. Tanto più in regime di ristrettezza della spesa pubblica: dopo aver tagliato università, la scuola, e i beni culturali, Tremonti ora dovrebbe mettere mano alla spesa militare, che per l’Italia è ingente.

Salviamo Al Jazira - 1

Nell’anno 2017 la santa alleanza Al Qaeda-Iran ha avuto ragione della penisola arabica, scacciandone le corrotte plutocrazie. Tutti i residenti del Qatar, quelli che avevano l’aereo personale e anche gli altri, cercano rifugio in Occidente. Il popolo del Qatar in fuga, mezzo milione di persone senza gli immigrati, trecentomila senza gli sciiti iraniani che furono la quinta colonna del’ivasore, cinquantamila famiglie, forti dei 150 mila dollari di reddito pro capite l’anno, un milione per ogni famiglia, partì sicuro di trovare rifugio in Svizzera, se non in California, dove il mare è tiepido, anche lì. Ma si scoprì che quel reddito esisteva finché esisteva il Qatar. Anzi l’emiro del Qatar. Senza l’emiro il reddito finì nella mani dei nuovi padroni, che se ne servirono per comprarsi in Svizzera e in California batterie multiple di missili di ogni portata, dai venti ai 20 mila chilometri, la metà della circonferenza del globo terrestre, che quindi fu sotto controllo ai punti cardinali, a Est e a Ovest, a Nord e a Sud, fuori portata restando gli apici delle direzioni intermedie, ma trascurabili, le zone vuote del pianeta, con testate di ogni tipo, convenzionali, chimiche, nucleari, batteriologiche.
Una crociata si apre allora, specie in Europa, per salvare al Jazira, i suoi redattori e mezzobusti, alcuni sono leggiadre signore, appena velate, fulcro dell’opinione pubblica negli Emirati e nell’intera penisola. Un’istituzione esemplare, Al Jazira, che pochi titoli el suo indice online bastano a spiegare: “Le amnesie della “Giornata della memoria”, “11 Settembre 2001, inganno globale”, con dvd, e “Perché l’Occidente merita di morire”. Non senza buona volontà. Nel convegno con la rivista “Rest”, sponsorizzata dal magnate della buona coscienza George Soros, che pure sarebbe uno scampato ai lager di Hitler, il 29 febbraio 2008 (la data non è fittizia, il 2008 è stato bisestile), l’emittente si costrinse a un compromesso: il dissolvimento di Israele in uno stato multiconfessionale a maggioranza islamica – l’islam del resto una tradizione ebraica vuole protettore benevolo dell’ebraismo, in Nord Africa, in Turchia e nel Medio Oriente, a differenza del cristianesimo in Europa.
A Bel Air e Pasadena, prima destinazione dei fuggiaschi, non li vogliono. Ci sono stati casi di cannibalismo, di una vezzosa annunciatrice è stato trovato solo il foulard: c’è un Al Qaeda americano che fa sparire i mussulmani. A Londra e in Svizzera li prendono se hanno grossi patrimoni. I grassi emiri e i loro figli sì, che da tempo ve li avevano depositati, uno degli ottomila figli dell’emiro del Dubai ha dichiarato un patrimonio che è il doppio di quello di re Carlo III. Ma i giornalisti, gli intellettuali, e le annunciatrici, benché ricchi per i parametri mediterranei, devono accontentarsi di capitali meno esclusive, Roma, Marbella, Skyantos. Dove è consentito alle donne, coperte dal casto foulard, di andare a prendere il gelato al caffè, seppure voltandosi verso il muro.
Non se la passano male – c’è sempre chi dice che Al Jazira fosse un’invenzione degli americani contro gli americani, una quinta colonna di battone colorate e finocchi. Ma sono isolati, si vedono tra di loro, la protezione è una forma di isolamento, e non si piacciono. La protezione del resto, pur impiegando i paesi europei le loro forze migliori, si rivela in troppi casi inutile. Anche perché, in assenza di una tv benevola, i redattori e i mezzobusti di Al Jazira alimentano sempre il famoso sito in cui non rinunciano a diffondere la verità – negli emirati del Golfo, benché ricchi e dissipati, la verità è sempre stata incontrovertibile: come i servizi segreti israeliani si erano impadroniti di Al Qaeda, e degli ayatollah, per distruggere il vero islam.
continua)

La repubblica delle banane di Fini

A Milano un’inchiesta dichiaratamente politica contro il governo. A Roma il presidente della Camera Fini che accusa di corruzione i suoi parlamentari, e il presidente del consiglio. Il presidente della Repubblca non ha avuto parole: s’immagina per lo sconcerto. Ma è un politico navigato, e forse è solo per pusillanimità. Il giudizio ingeneroso è di un amico di vecchia data del presidente, un amico politico, che ricorda i “tropi casi” in cui Napolitano avrebbe potuto dare una svolta al Pci e alla politica italiana, e non lo fece.
In realtà Napolitano resta sempre il presidente garantista. Che a tutti i costi non vuole passare per quello che scioglie i Parlamenti. E sa non da ora che ci sono troppe forze eversive che il berlusconismo addomestica. A suo tempo l’estrema destra, e sempre la Lega. I cui istinti animali restano sempre in agguato, come la sceneggiata sulla festa dell’unità conferma.
Ma le beghe caratteriali e storiche sul destino incompiuto del Pci non incidono: è Fini a sconcertare politici e cronisti, anche suoi fans. Che lo scoprono “indeciso” e “incapace”. E come lui gli Urso e i Ronchi, inetti come ministri e, si scopre, anche come politici, spazzati via da un Bocchino. Fini, insomma, non farebbe che scivolare, dal piedistallo che in un copo di genio si era eretto sfidando Berlusconi – non sarà che la sua personale Repubblica produce troppe bucce di banane? Il presidnete della Camera che dice corrotti Moffa e Pontone si è isolato da solo.

Il business dell’accoglienza

Il ministero dell’Interno, cui l’accoglienza compete, e ne ha avrebbe l’intelligenza ma non ha l’organizzazione, tace. Ha taciuto il laico Amato prima, tace da ormai tre anni Maroni, che pure è leghista e quindi sospettoso. Le organizzazioni di accoglienza sono invece vocifere. La Rai si compiace di far parlare clandestini tunisini che lamentano la qualità dello shampoo al centro di accoglienza. Vuole alimentare il razzismo? No, è parte della stessa gestione dei clandestini: prepara il terreno per chiedere più soldi. Lo prepara ai “confratelli” del cosiddetto volontariato che è in realtà il terzo settore, la gestione privata di funzioni pubbliche. Secondouna tecnica che si dovrebbe dire del racket, ma tratandosi di anime che si vogliono pie è sufficiente dire del business. I clandestini che arrivano di notte, dopo lunghi percorsi in mare, su imbarcazioni di fortuna, restano al centro del problema immigrazione - la loro miseria cioè. Ma l’accoglienza è parte del problema dei clandestini, che è il business del volontariato. Che si alimenta col pauperismo, invece di disporre e proporre una vera politica dell’accoglienza.
L’accoglienza il volontariato sta riempiendo di sciocchezze. Si chiede casa e lavoro per nomadi che non vogliono lavorare, non vogliono sedentarizzarsi, e non vogliono andare a scuola. Mentre non ci sono abitazioni popolari per i residenti, trentamila solo a Roma, che non hanno la possibilità di pagarsi un affitto: licenziati e senza lavoro, padri di famiglia divorziati o separati, invalidi. Si vogliono rifugiati politici migliaia di clandestini senza identità, e senza nemmeno provenienza accertabile. La dichiarazione di rifugiato politico è la stella del mercato. Per i tunisini, magari, o gli egiziani che fuggono non da Ben Alì o da Mubarak ma dal regime democratico per il quale ci siamo congratulati. Perché ogni rifugiato porta una dote, cospicua benché sempre magra: italiana, europea, Onu, cumulabile. Senza beneficio per l’immigrato, a parte i pasti e il giaciglio. Un segmento d'affari non piccolo, poiché si aggira sul miliardo di euro l'anno. Le cifre sono difficili da mettere assieme, poiché sono disperse tra varie fonti, ma l'ordine di grandezza è di almeno un miliardo l'anno, confermato anche dalla consistenza numerica del volontariato del settore.
Non è ingenuità, né superficialità. È un imbrogliare le carte per gestire in esclusiva l’intervento pubblico, al fine precipuo, se non esclusivo, del benessere della stessa organizzazione caritatevole. Non è nemmeno un giochetto politico, di questo o quel gruppo contro un altro, o contro la politica dei respingimenti (che non si fa), o che altro, no: è la crescita del (proprio) business - un settore cui ora guardano avidamente anche i sindaci, compreso quello di Lampedusa: l’accoglienza rende più del turismo (per il quale, si sa, bisogna faticare...)? Non è innocente non sapere nulla di come sono organizzati gli espatri, all’origine e all’arrivo, dopo una pratica ormai ventennale degli stessi. Non sapere come è realmente organizzata la tratta, a parte le inverosimili cifre di mille, o duemila, o cinquemila dollari o euro pagati a trasbordo, cifra colossale e fuori portata in qualsiasi paese africano o asiatico. Di come prevenirla, di come punirla. Tutto ciò competerebbe al governo. Che magari sa, ma se ne guarda bene: il volontariato è una potenza che non si tocca.

giovedì 17 febbraio 2011

Troiaio a Milano

Il troiaio berlusconiano non cessa di stupire. L’esercizio politico della giustizia, una cosa che fa stare male solo a pensarci, da parte di donne senza scrupoli, cui la giustizia è demandata, è il meno. Il settimanale “Chi” pubblica un nugolo di foto di Capodanno 2009 nella villa sarda di Berlusconi: un delirio di ragazzette. Ma “Chi” non è di Berlusconi? Emilio Fede era registrato anche quando faceva il giurato a Sant’Alessio Siculo, al concorso “Una ragazza per il cinema”. Al quale Ruby concorre, che Fede celebra commosso, riferisce “Repubblica”: “Sottolineo che c'è una ragazza di 13 anni, se non sbaglio egiziana: mi sono commosso, ho solidarizzato, ma non soltanto a parole perché poi bisogna seguire con i fatti. Questa ragazza non ha più i suoi genitori, tenta una via (...) e allora mi sono impegnato per aiutarla.” La cronaca di “Repubblica” poi sottolinea (involontariamente?) l’ipocrisia degli inquirenti ambrosiani che hanno redatto le carte del processo.
Sant’Alessio Siculo è un paesino di un migliaio di abitanti in provincia di Messina, che si fa forte della bellezza architettonica e naturale della vicina Forza d’Agrò. Quindi Fede è intercettato e registrato ovunque. Da chi? Ruby fa poi sapere molte cose al telefono, sapendo di essere intercettata e registrata. Per conto di chi le dice? La ragazza è furba, si capisce da cosa dice e non dice. Morirà presto? Chi “cavalca la tigre”, direbbe il saggio orientale, non può scendere, pena lo sbranamento.

Ombre - 78

La Rai si compiace di far parlare clandestini tunisini che lamentano la qualità dello shampoo al centro di accoglienza. Vuole alimentare il razzismo? No, è parte della stessa gestione dei clandestini: vuole più soldi.
I clandestini che arrivano di notte, dopo lunghi percorsi in mare, su imbarcazioni di fortuna, restano al centro del problema immigrazione - la loro miseria cioè. Ma l’accoglienza è anch’essa parte del problema dei clandestini, il business del volontariato.

I migliori film in circolazione, secondo “il Manifesto”, sono “Qualunquemente” e “Parto col folle”.
Perché non “Mamma, come brucia”? Su Sky Hot scotta.

Formidabile ritorno della casa reale inglese, sugli altari e nei cuori del mondo, con “La regina” Elisabetta prima e ora con “Il discorso del re” suo padre, Giorgio VI. Pioggia di marketing gratuito, con Oscar a profusione e perfino la tentazione del Nobel. A cinque anni dal matrimonio farlocco di Carlo, il pesce d’aprile del 2005, i Windsor sono ben più solidi e belli. Sarà come dicono, che la regina è il grande capo della massoneria.
Ma in alternativa c’era il riavvicinamento al papa. Impensabile. E questo dimostra che Elisabetta, benché in età, è tutto fuorché fuori dal mondo.

Laura Sola, nomen omen?, giudice a Bologna, archivia la denuncia di una ragazza di sedici anni violentata da tre uomini. “Li conosceva”, argomenta la giudice. La conoscenza esclude la violenza… Ma dove le prendono?

Fa tenerezza Borrelli che cerca una foto sui giornali passeggiando davanti alla casa di Berlusconi a Roma. Se non fosse il manutengolo dei golpisti.
Ci sarà un giudice Garzòn anche per questi personaggi, quando Milano se ne sarà stancata. Ma, certo, Borrelli è solo un piccolo opportunista, in astinenza da visibilità.

I quotidiani di Lor Signori sparano con evidenza martedì in prima pagina festini romani di Berlusconi. La cosa è poi smentita, ma né il “Corriere”, né “Repubblica” né “La Stampa” mercoledì si smentiscono. E passi. Ma chi muove i tre giornali in contemporanea? Un Minculpop della questione morale?

Scrivevano le “vite degli altri” nella Repubblica Democratica Tedesca, dice Berlusconi sabato al “Foglio”. È vero. L’ultimo romanzo, o il penultimo, “È una lunga storia”, G. Grass ha costruito col meccanismo delle “vite degli altri”. Facendo ricreare a uno spione della Stati la sua propria vita con lo stesso meccanismo falsificante, sotto il grande vecchio Hoftaller, o Ombra Perenne.. Senza grande successo, però. Forse il genere non incontrava, se la Repubblica Democratica è finita vergognandosi di sé, non in Germania. In Italia è diverso, il sovietismo è perenne.

La Procura di Napoli, dopo avere occupato il “Corriere della sera” col malaffare di ogni tipo, prostituzione, droga, corruzione, intercorso fra mezzo governo e una Tommasi, all’improvviso tace. Ma la Tommasi non vuole tornare all’anonimato. Si procura interviste ovunque, aprendo, come assicura, le gambe, e dice: “Io telefonare a mezzo governo? Sapesse quante volte mi hanno rubato il telefonino!”. Si fa intervistare soddisfatta dal Dubai, si gode anche lei i petrodollari.
Però è da dubitare che dirà mai chi le ha rubato il telefonino. Primo perché è di buon cuore, con le cosce aperte. E poi perché morirebbe prima. La giustizia è severa.

Giorgio Israel ricorda sul “Foglio” venerdì che a trent’anni dalla sua uscita dal Pci incontra ancora persone che cambiano marciapiedi pur di non incontrarlo. È incredibile, ma è vero.

“È offensivo dire che la Consulta non è imparziale”, assicura il presidente della Consulta Ugo De Siervo. Esibendo la faccia da pinocchietto. Uno che si ricorda “piccolo democristiano” all’università, per questo emarginato al “Cesare Alfieri” di Firenze, allora istituzione liberale. Come se le sentenze non parlassero, o Gustavo Zagrebelsky.
In un certo senso, però, è vero: guardando alla composizione della Consulta non si può dire che non sia imparziale, tra le correnti Dc.

Commovente il telegiornale di Sky nella guerra del suo padrone a Berlusconi, con falsi sondaggi, false interviste, e tribune martellanti nei sei canali in contemporanea. Giovedì lo ha martellato con una prostituta che si pretende laureata e unicamente interessata alla politica. Dichiarandosi quindi “delusa dal governo, non da Berlusconi”. Che anzi, dice nell’intervista, ironica, sarcastica, e con gaudio dell’intervistatrice, non è una prostituta: “Le mie tariffe sarebbero troppo alte”.
Il tutto facendosi pagare, dai 300 euro in su - Sky, a differenza della signorina, fa tariffe popolari (anche se per buggerare i suoi clienti e non farsi buggerare).

mercoledì 16 febbraio 2011

La giustizia è politica a Milano

Poiché, quando si farà il processo a Milano, Ferrarella negherà, è bene conservare questa aperta confessione di ipocrisia, in prima pagina sul “Corriere della sera”: “Se l’inchiesta (di Ruby, n.d.r.) è «una farsa» e «una vergogna», allora il presidente del Consiglio ha in mano un’arma formidabile e fulminea per far saltare il banco dell’accusa già prima dell’inizio del processo fissato al 6 aprile: chiedere di andare subito a sentenza scegliendo il rito alternativo del «giudizio abbreviato»”. Berlusconi, se si ritiene innocente, deve farsi giudicare. Cioè condannare.
Ma tutto il pezzo merita di essere conservato:
http://www.corriere.it/politica/11_febbraio_16/Le-prove-gli-indizi-e-la-sfida-della-difesa_a680f19a-3995-11e0-bd09-192dc2c1a19a.shtml
È possibile che solo Ferrarella non sappia che a Milano i giudici fanno ciò che vuole la Procura? Cioè, si limitano a sancira le condanne. No, perché non è un fesso: chi crede alla terzietà dei giudici? Lui poi lo sa meglio degli altri, perché è un giornalista della Procura.
Anche Sergio Romano invita Berlusconi a farsi condannare: “Accettare il giudizio”, lo consiglia solennemente nel commento. A Mosca non lo avrebbe consigliato a nessuno. E in che cosa Milano differisce da Mosca? Che la corruzione vi è libera. Per il potere del denaro, che, diceva il dottor Schacht, il banchiere di Hitler, ha natura magica (“la magia del denaro sta nella sua natura proteiforme”). È così che la giustizia si vuole a Milano politica, dai tempi di Sofri, e democratica: ladri acclarati di miliardi non si indagano, si ascoltano liberamente i telefoni di tutti, specie degli avvocati, i Procuratori della Repubblica passano più tempo con gli editori e i signori del denaro che nei loro pur lussuosi uffici, e i nemici si confezionano a loro piacimento. Si sono sempre fatte stragi impunemente a Milano. La città è contagiosa.

Il mondo com'è - 56

astolfo

Corruzione– Come quantità non ce n’è probabilmente più in Italia che in Francia o Gran Bretagna, paesi di eguale popolazione, e sicuramente meno che in Germania. Ma in quei paesi è tradizionale, legata al potere, mentre in Italia è un’insorgenza democratica: raccomandazioni, licenze, sussidi. In quella forma è produttiva: si spende di più per lavorare più rapidamente, e si vede dalle opere pubbliche, dai loro tempi, i costi, la tenuta. Nella forma italiana è dissipatrice.
C’è un limite alla funzione democratica della corruzione spicciola, oltre il quale essa diventa accumulo sperequativo (di cariche, retribuzioni, pensioni, sussidi), o amplia i disservizi in misura tale che anche il beneficio particolare ne è eroso. Per esempio per ferroviere che abbia bisogno di spostarsi in città, o ricoverarsi in ospedale. Come per l’infermiere con doppia occupazione che debba fare il pendolare. La sperequazione viene corretta, è subito materia di denuncia. Il disservizio invece no: è superiore all’interesse particolare. È come il crimine, ha bisogno di un esercizio superiore della legge, e prima ancora di una legge che lo punisca.

Democrazia - È bella e miserabile. Rapace anche.
Non ha contenuti. A meno di non imporle delle regole. Ma allora l’incessante movimento di emersione – alla luce, alla libertà, alla dignità – della melma umana, che è la sua caratteristica, rischia d’incepparsi.

È estenuata quando è apparente o totale: i benefici particolari sono sommersi dal danno generale. È muscolare se funziona all’opposto, per un benessere generale, anche contro un danno per molti. Benefici. Tipico il caso della Gran Bretagna, dove Margaret Thatcher, invisa a gran parte del suo partito, ha governato per dieci anni con solide maggioranze, imponendo un ordine faticoso, irto di sofferenze reali, disoccupazione, emigrazione, vincoli ai consumi, e perfino una guerra per alcuni scogli remoti. Thatcher ha finito per rimettere in sella i privilegiati e i potenti, ma quasi contro il loro volere, e comunque col supporto determinante del ceto medio, che fa le maggioranze, e che il disordine precedente aveva annichilito. È anche riuscita a domare le bestie feroci degli stadi, gli animals, dove oggi anche le mamme, i nonni e i bambini possono divertirsi in allegria.
Si dice in questi casi che la maggioranza ha ceduto a una minoranza, ma ha ceduto in realtà a una ragione e a un beneficio, anche se indiretti. La democrazia è un scelta costante.

È bella (funziona) perché è mutevole. La rappresentanza popolare, la divisione dei poteri, la mediazione incessante sono poca cosa rispetto al ricambio. Morfologicamente è un caleidoscopio, lento, di gruppi di ogni colore sociale che entrano nel potere, ne comprendono i meccanismi, se ne avvantaggiano, e lo rivitalizzano. È il meccanismo della speranza rinnovata.
Le democrazie bloccate – quella italiana, quella giapponese – possono produrre più guasti, pur restando in un ordinamento democratico (elezioni periodiche, libertà di organizzazione e espressione), di un regime totalitario. Per esempio, in Italia, l’enorme numero di morti politici, la corruttela elevata a criterio d’ordine (la spartizione o lottizzazione), l’inefficienza e gli altissimi costi delle opere e dei servizi pubblici. In una tale situazione il sistema dei controlli (checks-and-balances) è d’altronde regolarmente inceppato. Mentre le istituzioni democratiche fatalmente derivano all’inconsistenza: sono simulacri la Rai e i media della libertà di opinione, o il Csm della divisione dei poteri, e più spesso costruiscono una ragnatela impenetrabile nei congegni della democrazia.
Mutevolezza non è incostanza: ogni esperienza democratica deve potersi realizzare. Ma si completa solo se poi si mette da parte, si completa democraticamente. Un governo interessato a una gestione ferrea del territorio cederà il posto a un governo spontaneista, che a sua volta favorirà un governo unicamente interessato al sociale, eccetera. Un potere democratico si compie nel momento in cui cede il passo.

Il cambiamento è necessario per mantenere aperta e diffusa l’opinione pubblica, dandole una funzione di controllo realmente popolare, invece che, come è, di parte,e più per gli interessi costituiti e opachi. Solo così si dà un senso democratico alla cultura di massa, che altrimenti è niente più di un mercato di consumo.

Democrazia Cristiana – Tre punti sono assodati nella storia, che non si fa, della Democrazia Cristiana: 1) l’Italia è “democristiana” anche nelle regioni comuniste, dove è comune il solidarismo, le amicizie cioè e i favori, in ragione del bisogno, invece dei diritti; 2) la Repubblica è il vero Risorgimento, con l’ingresso di tutti nella vita pubblica; 3) la Repubblica democristiana è la vera rivoluzione capitalistica, e quindi liberale, italiana: consumi, lavoro, risparmio, mobilità, nel quadro di un reddito che si moltiplica e si diffonde, grazie alla scelta dell’atlantismo e dell’europeismo. Anzi quattro: il quarto è l'eversione delle istituzioni, la giustizia in primo luogo, la burocrazia, la Rai e gli enti pubblici, a uso di partito e quasi privato. Ma questo è noto e studiato, anche perché nel frattempo ha backfired.
L’Italia più ricca è la più cattolica: Lombardia, Triveneto e, in parte, l’Emilia. È l’Italia dei Borromeo, della Controriforma: del “lavorerio”. Secondo Max Weber, “Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo”, il secondo dei grandi saggi sul captale in ambito cristiano, il pietsimo, che si lega alla vecchia ascesi medievale, contribuisce al ricuito risparmio-investimento. Anche Loyola, col suo “uomo nuovo”. I Popolari, e poi la Dc, si propongono anti-capitalisti, ma per un rigurgito di anti-Risorgimento laico, non anti-affari.
Il Kingdom of influences è migliore del Kingdom of prerogatives, dice Weber hobbesianamente, “Sulla Russia”, a proposito della democrazia. Certo, solo in Italia, fra i paesi più ricchi, il cesarismo del voto (Weber, “Le sette protestanti”), o patrocinio, è così diffuso. Ma (id.) è perché il cattolicesimo resta il più possibilista: si può sbagliare, pentirsi, ricominciare, perdersi, e salvarsi. L’apprezzata flessibilità italiana, dei modi di produzione, della finanza, degli stili di vita, si deve a questo possibilismo.

Federalismo – Se non assortito da un principio di responsabilità (fiscale, di spesa), sarà la grande piaga italiana. Poiché già lo è. Si decentra nel presupposto che,l a distanza rappresentativa ravvicinata, la pluralità degli interessi sia più viva,e e meglio tutelata, che non dalla rappresentanza politica nazionale. Si decentra anche in omaggio alla democrazia, contro lo statalismo vorace e un potere “assente”. In teoria è così: ogni entità bada meglio ai propri interessi, e la democrazia mette più salde radici. Ma non in Italia, dove vige l’intreccio famiglia-gruppo-fazione, e l’omertà e la protezione sono rispettati e anzi ambiti. Inoltre, il decentramento arriva senza che ci sia stata una fase accentratrice, quella che impone le regole del gioco – insegna i “fondamentali”.
Si prenda l’urbanistica, da tempo localizzata, e espressione del massimo disordine. Non si pianta un albero o una pietra, non si apre una strada, una piazza, un parco, una piscina, una palestra, un parcheggio, se non dopo avere accontentato i comitati di quartiere, i verdi, i condomini, tutti i partiti, e le fazioni dei partiti, i comitati tecnici e di valutazione ambientale, e ancora, aver vinto tutti i ricorsi amministrativi e aver spuntato, con attese di anni, le denunce penali. Al di sotto di questi checks disordinati, il paese va avanti nell’improvvisazione (abusivismo, occupazioni, condoni, indulti,).

Europa – Il tema “De eversione Europae” è remoto e ricorrente. Il primo mito europeo, anzi, il ratto di Europa, è eversivo. E l’Europa, forse perché è il posto dove la storia scritta più ha contato, più continuativamente, e politicamente, ha tenuto fede a questo destino movimentista: Celti, Dori, Parti, Daci, eccetera, i Romani, i mille anni di barbari fino ai mongoli, l’islam, la rivoluzione dell’ ’89, il nazionalismo, il colonialismo, la rivoluzione del ’17, il nazismo.

Fede – Disse Pertini di Moro (in Scalfari, “La sera andavamo in via Veneto”, 368): “Si umiliò davanti ai brigatisti perché credeva in Dio”. No, Moro non aveva fede – se non in un Dio lagnoso, invocazione di comodo nella disgrazia (esicasmo): la fede porta al martirio, religioso o laico, perché è la prima forma di rispetto verso se stessi. Poi viene la convenienza.

Governo – “Oggi, la volontà di non governare”, registra D.H.Lawrence (“Apocalissi”, 59). Non in Italia né altrove i politici governano: possono favorire o rallentare (sottogovernare), ma non decidere. Altre forze, altri interessi scelgono. Prima che da Marx, questo è stato detto dai liberali, A. Smith, Tocqueville. Dice Tocqueville (“Souvenirs”, 9-10): per una strana coincidenza sono i comunisti che portano all’equivoco della politica-fa-tutto, della grande macchina partitica, della burocrazia onnipotente, con gli ambigui concetti di avanguardia e di massa. E poi, successivamente, con una superficiale lettura di Lenin, ridotto a piccolo giacobino, o al giacobinismo dell’adolescenza – Rousseau confuso con l’illuminismo.

astolfo@antiit.eu

martedì 15 febbraio 2011

Draghi candidato inglese all’euro

Non se n’è parlato oggi all’Ecofin, e non è stato un buon segnale. Mario Draghi è per il momento candidato unico alla presidenza della Banca centrale europea, ma nessun ministro europeo se n’è congratulato con Tremonti: la sua resta al momento un’autocandidatura, anche se avallata dal ministro italiano dell’Economia. E in un certo senso, negli umori ipersensibili di Bruxelles, si è bruciato proponendosi con un’intervista al “Financial Times”. Il giornale londinese, pur affettando europeismo, resta a Bruxelles la bandiera della City e quindi dell’euroscetticismo in senso stretto, dell’attacco costante all’euro - nonché, con l’“Economist”, il giornale delle banche di affari angloamericane.
Dopo il ritiro di Weber, altro autocandidato come Draghi, la corsa al rinnovo a novembre della presidenza della Bce appare per il momento deserta. Ma se non c’è il nome, si conosce già il percorso della candidatura. Il successore di Trichet sarà scelto anche lui di comune accordo da Parigi e Berlino. Dovrà essere eurofan senza se e senza ma. E potrà non essere tedesco, ma dovrà avere la piena fiducia di Berlino. Quella di Draghi appare al momento la candidatura più lontana da questo percorso. Il suo prevedibile (in parte annunciato) allineamento con la dura politica di rientro dal debito che la cancelliera Merkel proporrà tra un mese all’Eurozona non dirada i dubbi sui noti legami che Draghi ha con le banche d’affari anglosassoni, reputate oggi le grandi nemiche dell’euro.

Se l’euro va sotto tiro con la crisi italiana

Potrebbe un italiano alla presidenza della Banca centrale europea costituire un argine più solido per la tenuta dell’euro in caso di crisi politica italiana? È l’ipotesi su cui sta ragionando la Farnesina, per poter proporre in chiave diplomatica la candidatura di Mario Draghi al vertice della Bce in autunno.
Il ministero degli Esteri lavora sull’ipotesi che: 1) il governo resterà paralizzato, a) per le divisioni istituzionali, b) per le divisioni politiche, c) per le iniziative della magistratura, d) per questi tre fattori in concomitanza. E che: 2) la speculazione punterà sul debito italiano. Un’ipotesi drammatica, che si giustifica col fatto che un attacco al debito italiano sarebbe più catastrofico per l’euro di qualsiasi altro scenario negativo finora configurato.
L’idea è di fare di questa debolezza un punto di forza, per l’Italia e per la candidatura italiana a capo della Bce. I primi approcci non sono stati incoraggianti. In prima istanza, nessuno vuole pensare possibile un’ipotesi del genere. Si ritiene anzi che l’accettazione fra un mese, in tutto o in parte, del piano tedesco di rientro dal debito dovrebbe rafforzare l’euro anche in caso di crisi politica in Italia. In ogni caso, si ritiene che l’Italia farà come sempre, con questo governo o con un altro, quello che deve fare, tagliando le spese e aumentando le tasse. Ma, soprattutto, si obietta che in caso di crisi del debito italiano sarebbe opportuno che a capo della Bce non ci fosse un italiano.

Il reo e le erinni: giustizia a Milano

Magris registra sul “Corriere della sera” domenica la leadership soft della Germania di Merkel in Europa. Alla fine deve fare un amaro confronto fra il centro-destra tedesco e il centro-destra italiano. Non volendone gravare l’Italia, denuncia “la melma che sale dai tombini e che non è certo la fregola di signori attempati, di cui troppo si parla, bensì l’indistinzione fra vero e falso, vita e recita, politica e talk show, bigotteria e bestemmia, fatti e notizie che li riportano e inventano”. Infine.
La cronaca d’altra parte ricorda, nello stesso giorno, il sempre più frequente passaggio in Germania dei servitori dello Stato a remunerativi incarichi privati. Per ultimi il presidente della Bundesbank Weber, il presidente della Repubblica Kohler, e alcuni ministri. L’ultimo cancelliere socialdemocratico, Schröder, è passato alla Gazprom – forse per mantenere le quattro mogli.
Lo stesso giorno in cui Magris denuncia i fatti inventati dalle notizie, lo stesso giornale, il “Corriere della sera”, pubblica la foto della “non conclamata” (Sgarbi), all'epoca, prostituta bocconiana Tommasi col ministro La Russa, due interisti allo stadio ad agosto. Ma non dice che la foto è occasionale e la Tommasi già preparava il suo marketing. La Russa aveva smentito il giornale, che non aveva potuto controbattere, sulle rivelazioni napoletane dell’illustre bocconiana.
Non c’è invece take, per quanto esperto e lusinghiero, che dia un’immagine accettabile delle giudici che a Milano a Pasqua condanneranno Berlusconi, o di Valeria Fedeli, la capa dell’antiberlusconismo a Milano. Uno vorrebbe ben essere contro Berlusconi, e per la giustizia e per le donne, ma come si fa? Da una parte c’è un signore lasciato a settant’anni dalla moglie, con gran squallore di trombe, che subisce improvvisa l’angoscia della vita sfuggita, il fascino vergognoso delle ragazzine. Dall’altra queste veroniche erinni, che si erigono a tribunale di una condanna già pronunciata. E la giustizia?
All’apparenza è tutto divertente: Milano, si sa, è frou-frou. Anche fregare Berlusconi con queste donnette. Anche cambiare governo, e magari votarne uno, si fa a cuor leggero, non muore nessuno. Non fosse per la giustizia. Di cui Milano arcigna – Milano, dietro l’apparenza, è durissima – s’è impadronita, e da vent’anni usa come una clava per gestire l’Italia, sottraendole ogni libertà, la quale è primariamente politica. Altrove tutto sarebbe molto squallido, qui bisogna invece averne paura.
Delle due teste dell’idra che ci stritola, ha scritto questo sito, una è destinata finalmente a cadere. È possibile, anche se Milano domina perché “tutto vi si tiene”. Ma non è consolante. Intanto le teste sono tre: resterebbero sempre o Bossi e i giudici di Milano, o Bossi e Berlusconi. E poi Milano non è solo la politica dell’antipolitica, il golpismo dei giudici: è un universale ramificato conflitto d’interessi, o uso della funzione pubblica (giustizia, opinione) a fini privatissimi. Di Rizzoli Corriere della sera contro Mondadori, di Bazoli contro Geronzi, di Intesa “banca dei preti” contro Unicredit-Mediobanca-Generali, e in queste ore dello svuotamento di Unicredit, appena venduta a 2,40 euro.

Jabès meticcio e assertivo, nella disperazione?

Una sentenziosità oscura che respinge. Respinge nel suo complesso, non per le cose cui si applica, talvolta lampeggianti - o c'è una stagione per l'incomprensione? Il Proust della "Ricerca" resta sempre incomprensible, mentre Bataille, oscuro trent'anni fa, è diventato godibile: il cervello procede a fasi alterne, della storia personale, del tempo, della cultura?
La sentenziosità respinge in sé - Jabès, Cioran, come Rochefoucauld, Chamfort - perché è assertiva nella disperazione. E la colpa può essere del genere frammento, che è per sé assertivo, oppure - ma non è la stessa cosa? - del moralismo che sempre emerge dietro il frammento. Di un frammento, beninteso, che non sia parte di un discorso: il caso di Nietzsche, indisponente nei florielgi, appassionante per intero.
La sentenziosità suona bene nelle culture imperiali: il diritto ormano, il liberalismo anglo-americano (puritano, o scozzese-americano), la religiosità orientale (vissuta). Equivoca in quelle meticce? Come è di Jabès, figlio di ebrei italiani, educato ad Alessandria d'Egitto alla scuola francese, infine cittadino e poeta francese a tutti gli effetti. Nelle esperienze incerte l'apoditticità suona ridicola.
Edmond Jabès, Il libro dei margini

lunedì 14 febbraio 2011

Letture - 53

letterautore

Germania – Il profondismo tedesco è adolescenza, buio, balbettio. Anche in Nietzsche, Heidegger. Per le radici immarcescibili del romanticismo, che sono l’eroico-patetico. Il prototipo, Kleist, ne è la caricatura: campagna georgica, ipocondria, suicidio, occultismo, eroismo, verginità, e perfino lo spionaggio.
Lucio Colletti, “Sull’anomalia tedesca” (“Lettera Internazionale”, inverno 1988-89) dice che lo psicodramma va da Lutero fino a Wittgenstein. Lutero è in effetti poco agostiniano e molto sentimentale. Un Blut u. Boden che può talvolta appassionare. La Germania è operosa: costruisce per esempio grandi sistemi di lavoro, di organizzazione dell’economia - ne ha costituiti tre, di primario livello, in mezzo secolo fino a Ehrard, senza contare quelli di guerra. È impegnata: non c’è socialismo senza i tedeschi. Ma pretende di essere saggia, anzi d’impersonare la filosofia, e questo è strano: su quel terreno, con l’eccezione di Kant, che però è scozzese, produce solo confusione.

Il tedesco Kundera vuole “una lingua di parole pesanti” (“L’insostenibile leggerezza dell’essere”, 199). Sono pesanti le parole, o è la lingua che è diventata pesante? È questo il tedesco cui pensa Heidegger quando dice che non si filosofa se non in quella lingua? Una lingua limacciosa, confusa.

Lo specifico è la Gemütlichkeit, la gentilezza d’animo e l’interesse per gli altri. Una sensibilità però deviata, attraverso i vari traumi recenti, verso la schizofrenia. È anch’essa ora un voler essere, sempre nel Sonderweg di Fichte (e Lutero?), il destino speciale, una dimostrazione di primariato.

Si può scrivere semplice – preciso e chiaro – anche in tedesco. Sono semplici Lutero, Böll, Grass a volte, Heine, Goethe. Sono complicati Th. Mann nei saggi e i quattro quinti o cinque sesti dei filosofi. La complicatezza è dovuta talvolta alo scrupolo scientifico, filologico. Ma più spesso alle cattive idee – che poi sono una: tedesco è meglio.
Quanto della confusione mentale dei tedeschi è dovuto ai residui celtici (visionari) e al ritornante romanticismo, di cui Wagner è epitome, e quanto a Lutero? Cioè alla teologia diffusa e alle pratiche di devozione (v. Cantimori, Jünger). Quanto dell’antirazionalismo – dell’antiromanità, o antilatinità – si apparenta all’invettiva di Lutero contro Roma? Alla purità, all’estremismo?

La tradizione letteraria è fisico-faceta. Molto espressiva sempre, e violenta, anche sul lato rabelaisiano – o sassone alla maniera di Tolkien, merry. Heine, Goethe, Schiller mantengono questa tradizione attraverso le svenevolezze romantiche e le truculente gotiche – Goethe e Heine se ne liberano viaggiando in Italia.
Ma perché gli eccessi gotico-romantici fanno più presa sul tedesco moderno, con le loro propaggini espressioniste, ribellistiche, disperate? La miscela di romanticume e biedermeier è micidiale – v. Mosse, “Le origini culturali del Terzo Reich”. Potrebbe essere questa miscela una valanga formatasi a valle del luteranesimo? Nella sua forma più tedesca, pietistica, senza cioè lo sfogo della confessione. E quanta parte vi ha certo illuminismo massonico, per esempio la lavateriana Schwärmerei? Con corteo di esorcisti visionari e mesmerizzatori (Giarrizzo, intr. a Goethe, “Il Gran Cofto”). Che Schiller bolla nel “Visionario”, e Goethe (ib., p.24) riduce a “dilettanti della misticità e del gergo apocalittico”.

Böll, Grass, Lenz? Sono tedeschi come ce n’è sempre stati, pieni di buona volontà ma inutili. Mentre Schiller è stato rimosso dalla Germania federale. E anche prima. O Max Weber.
Nello strano tentativo, ritornante, di agganciarsi a una lingua – e a una cultura – morta: la lingua e la filosofia greche sono ben morte. Con tutto quel’affannarsi di costruzioni e decostruzioni semantiche. Che possono fare ottimi giochi di parole ma si presentano e sono presentate come distillati purissimi, sempre più puri (in traduzione poi…).
Abel Hermant, “De la médisance”, giudica i tedeschi incapaci di pettegolezzo, cioè di acredine ironica: non c’è ironia nella letteratura tedesca sulle cose, sul mondo. È vero, vedi Thomas Mann, Grass, che possono passare per scrittori ironici. Mentre H.Heine è considerato poco tedesco. E dalla grecità Socrate è espunto. Il tedesco, quello federale ma anche quello di prima, ama comunicare con bonomia, “costruttivamente”. Diluisce la critica, l’animosità, la violenza in oceani di assicurazioni preventive e spiegazioni successive, fino a ritenere responsabile la banalità. E si attribuisce da sé un vizio, la gioia di nuocere, Schadenfreude. Che modo è di esercitare la verità, ambizione tedesca? La Germania è solo malata di filosofia.
Gli intellettuali vi sono stati e sono tipicamente impegnati, compresi tutti i filosofi. La contesa fra Heinrich Mann-“Zola” e Thomas Mann-“Impolitico”, che fa tipicamente impegnati i letterati francesi e disimpegnati i tedeschi, è iperimpegnata, anzi politicizzata all’estremo, volgare. I tedeschi sono i letterati che più hanno praticato la politica e ne hanno scritto. In chiave moderata, poco, e in chiave rivoluzionaria-reazionaria, di preferenza e molto. Quello che riesce loro afono e atono è la democrazia, le sue modeste virtù – l’esclusione della politica come passione. Il problema quindi è un altro, vedi la Scuola Germanica o Spasmodica di Lewis Carroll, “Photography Extraordinary” (la condanna, via tecnica fotografica, del Romanzo – naturalmente una condanna alla Carroll). Con la democrazia danno loro fastidio le piccole virtù o consolazioni: tecniche, erotiche, l’amicizia, il silenzio, la perdita di tempo, eccetera.

Scalare il K 2, girare il mondo in bicicletta, imparare il tedesco, se ne può fare a meno. Ma si capisce almeno una cosa; l’insicurezza dei tedeschi (l’ansia di riconoscimento, o petizione di benevolenza, l’umore instabile, gli stacchi bruschi, l’ancillarità delle donne) viene dalla lingua. Prevedibile ma troppo estesa – senza limiti. Si ha sempre bisogno di un vocabolario. Ma un bambino tedesco sarà portato da andare avanti senza rete e quindi soffrirà di vertigini.
Non c’è la sfida della lingua (essere spiritosi, sentimentali, sportivi, intelligenti, leader), della strada (la famiglia è iperprotettiva), delle compagnie (l’amicizia e l’eros sono “protestanti”, riservati), della scuola (il “destino” si decide a quattordici anni, o si andrà all’università a diciotto anni oppure al lavoro), mentre si forma un accumulo immenso di sensazioni e irrisoluzioni (nodi, problemi), filosofiche, storiche, letterarie, musicali, mitiche, della dittatoriale Kultur, dal prestigio schiacciante fin nelle catapecchie più umili, se ancora ce ne sono. Il disprezzo dei piccoli passi (Zivilisation) alimenta un ingombro di tiranti sempre meno elastici, una cultura totalitaria, cioè soffocante. La lingua tedesca che Fichte dichiara pura (riecco la Grecia) e quindi veicolo di primati.

“È bella la Germania. Così apertamente impenetrabile. Così sinistramente innocua. Così diversa e uguale dappertutto. Così immemore di sé” – G. Grass, “Dal diario di una lumaca”, p.74.
La Germania come ossimoro?

Manzoni – Chi ha suggerito Lucia Mondella, che sa di campagna – “cotonina e villatico” dice Dossi, “Amori”, 37 – al cosmopolita Manzoni? Un esercizio di signoria del conte Manzoni a Brusuglio? Troppo bello, un’avventura scomposta in tanto virtuismo borghese. Lucia è creatura spenta.
Come autore romantico è illeggibile: tragedie, inni, Renzo e Lucia, Innominato. È invece pregevole autore settecentesco, ironico il giusto, dal sorprendente punto di vista sempre, di storie, digressioni, costumi. Con sottile propensione gotica – o influenza (W. Scott).
Anche nel trattamento della peste: tratta a lungo della peste flagello divino, senza menzionare le carestie terribili che l’hanno preparata, che sono colpa dell’uomo – come ripetutamente spiega Ripamonti. La politica in realtà non lo appassiona.

Tolstòj - Si legge “Guerra e pace” come un’epopea, e una Bildung a ritroso, di chi dalla nobiltà della stirpe, del censo e dello spirito è indotto in quella che sarà chiamata la massificazione – la guerra totale, a massa, lo spirito delle consorterie. Ma si può leggere come un traditore – della classe, della nazione, della tradizione – evidentemente, poiché è stato fatto. Evola lo fa, e con lui molti negli anni 1920-930, quando il conte non fu amato, anche se sempre apprezzato. Se non come un opportunista, dei buoni sentimenti.
L’opera è la lettura che se ne fa.

Ughi – Uto Ughi, che riempie sempre la sala grande all’Auditorium di Roma, fa il concerto come Sanremo: un’esecuzione, poi un dialogo col pubblico (battute, gag, applausi, risate), poi un altro “pezzo”. Che di preferenza fa corto e molto brillante. È un virtuoso, e di questo si compiace, perché sa che questo il pubblico apprezza. Ughi è infatti appassionato della diffusione della musica.
Il festival di Sanremo sembrerebbe freddo, che impedisce ogni emozione: la musica non sommerge, non trascina, non porta via come sarebbe nella sua natura. Ma questo il pubblico ama, e anzi solo questo sopporta, il divismo (la battuta, l’exploit).

letterautore@antiit.eu

La poesia di J.Roth, meglio in traduzione

Il narratore e giornalista J. Roth è ”essenzialmente un poeta”, secondo l’intuizione di Mittner La raccolta è notevole per anticipare temi e stile dei romanzi, come un tema sinfonico, una ouverture all’opera. Soprattutto la fatica di reggere il cambiamento: “…Gli pesa l’eternità” (p. 28), “Un tempo ho conosciuto la gloria – non so dove”(36), “Er lebt im Sterben – er stirbt im Sein”, vive morendo, muore vivendo. Notevolissima la traduzione di questa edizione Moby Dick, opera di Claudia Sartoni, che ricrea la poesia con una trasposizione letterale: un piccolo capolavoro, tanto più in quanto appare nient’affatto faticato.
Joseph Roth, Poesie

domenica 13 febbraio 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (80)

Giuseppe Leuzzi

La Fantasia in do maggiore di Schubert, n. 10, imita col piano il mandolino. Ma certamente non è nostalgia, a Vienna non manca il mandolino, come potrebbe essere? Le parole, le cose, e anche le note hanno un solo senso e devono essere monotone in questa guerra di aggressione Nord-Sud.

La grecità dionisiaca di Nietzsche (come poi la contesa nazi-fascista su grecità vs. romanità, o Heidegger vs. i “South Winds”) è un Mediterraneo ottenebrato. Un Walhalla al sole.
Discende dall’Apollo iperboreo. Che non è invenzione di Nietzsche. Ma contrasta con l’evidenza, dei testi e della storia.
Quanto i mediterranei sono vittime di questa immagine: mettersi la maschera dionisiaca (che cos’è?) per autoflagellarsi? Essere rimasti indietro, nella tecnica e nello sviluppo (del capitale e dei processi) è un fatto. Flagellarsi non è un atto dovuto.

Il vino “ariano”
“Uno studio sulla variazione genetica dei vitigni ha dimostrato che molte varietà apparterrebbero ad un’unica grande famiglia”, scrivono all’unisono il “New York Times” e il “Corriere della sera” a fine gennaio. Ma trascurano il Mediterraneo e il Vicino Oriente, dove Noè ha inventato il vino, naturalmente con la vite e l’uva. La “scoperta del Sud” si arricchisce dunque con l’obliterazione della Bibbia, alla quale pure la teoria del genoma aveva fino ad ora fatto grande posto, e questa è una novità: dove andremo a finire? La superiorità del Nord usava confermarsi con la Bibbia.
Entrambi i giornali s’illustrano con gli stessi dati genetici e identica cartina della “rete”, che escludono presenza mediterranee. Ci sono dei vitigni francesi, ma dell’Atlantico, qualcuno dell’Alto Rodano – il Pinot nero non si può escluderlo. E ci sono dei vitigni portoghesi, dunque anche loro atlantici. La mappa e le parentele, con i gradi di nobiltà, sono prevalentemente tedesche. Il vino è deboluccio in Germania, perché il sole vi è scarso, ma è evidentemente antico. A meno che anche il genoma del vino non sì inquadri nell’“arianesimo”, per cui la Germania si lega all’antica Persia, Armenia e Georgia comprese – dove Noè si sarebbe spostato per inventare il vino.
Non parla del Mediterraneo, né del Vicino Oriente, nemmeno lo studio all’origine degli articoli, del dottor Sean Myles, genetista della Cornell University, che ha tracciato il genoma delle 1009 viti possedute dall’Usda, il ministero Usa dell’Agricoltura, 950 vinifera e 59 silestris. Nelle tabelle che elencano i 1.009 vitigni dell’Usda tuttavia la proporzione è inversa: 88 vitigni sono greci, 60 francesi, 52 italiani (più 14 silvestris), 33 russi (Caucaso), e poi compaiono quelli tedeschi.

Aspromonte
La derivazione dal greco aspros, bianco, e il latino mons, montagna, non sembra congruente come etimologia. Ma una mescolanza greco-romana nel lessico e nelle forme grammaticali, specie all’interno della regione, nota Cesare Lombroso, “In Calabria”, la piccola pubblicazione in cui raccolse le sue impressione nei tre mesi che passò nella regione nel 1862, medico con le truppe antibanditismo. E porta a es. mala panta e mala pasca, tutti i mali, “bestemmia composta di una parola greca e una latina”. Così cotraro e caruso, (καρυσο, tosato), per ragazzo.
Più spesso parole greche si frammischiano a parole latine, non altrimenti entrare nelle lingue neolatine: ceramida, tegola, è kéramos, catoio, scantinato, è katoikeo, io abito. Mentre sono latini: mancupatu, per povero, meschino; trappitu, per molino,frantoio, e palmenta, idda, ista, esti.
Il toponimo greco-romano è comune in Calabria (Misafumera, etc.). Si è parlato a lungo greco e latino insieme, fino al Cinquecento inoltrato.

“Questi boschi, così temuti, in effetti non sono poi così temibili, e questi famosi briganti calabresi sono come i bastoni ruotanti di La Fontaine: da lontano sono qualcosa, da vicino non sono niente”. A un certo punto del suo viaggio a piedi, quattromila miglia nel 1830, per la Calabria e la Sicilia, il ventiseienne ginevrino Charles Didier colloca questa osservazione. Che è sbagliata, i briganti ci sono e c’erano, ma è vero che da vicino sono solo briganti. Il timore-che-non-è-vero-timore, però, il pregiudizio o voce pubblica, non è senza effetto: “Il terrore che ispira rende il calabrese cattivo, perché niente demoralizza di più popoli e individui del disprezzo e dell’odio pubblico”.

Liberato da rapiti e rapitori, l’Aspromonte torna la montagna che è sempre stata. Sorridente, accogliente, piena di voci: spiriti, folletti, anime morte. Di fresche sorgenti, di cui ogni abitante della montagna, anche remoto, anche emigrato, resta sempre esperto. E di boschi e prati ubertosi: il bosco sul mare. Ospitale, ai brezzi, ai minoici (micenei), ai greci, dell’Ellade e di Bisanzio, l’odierna Turchia, ai latini (romani), ai saraceni, agli ebrei, ai massisti, la rivolta di massa contro la leva di massa, ai garibaldini e ai briganti.

C’è una cospicua “materia d’Aspromonte”, un ciclo cavalleresco attorno alla Montagna, intesa come ultimo baluardo della presenza bizantina da conquistare, nei secc. IX-XI, poi sfruttato dai normanni, e nel tardo Quattrocento-primo Cinquecento, dagli Estensi e da altre signorie quando si vollero trovare antenati illustri. Un ciclo pieno di versioni e diversioni, sull’originale di un troviero normanno, come i più noti Reali di Francia e la materia di Bretagna, o arturiana. Ma è ignoto in Calabria. Lo hanno studiato un giovane olandese per la sua tesi di dottorato nel 1937, Roelof van Waard, “Études sur l’origine et la formation de la chanson d’Aspremont”, Groninga, e il toscano Marco Boni sessant’anni fa, nella volgarizzazione di Andrea da Barberino. L’uno lo inquadra nell’itinerario del pellegrinaggio in Terra Santa, Boni nel ritorno al volgare dopo l’umanesimo dotto, nella scorrevole ottava toscana.
Carmelina Siclari, che da Reggio ne ha tentato la lettura e la contestualizzazione storica, non è potuta andare oltre un breve saggio per le edizioni Novecento, e un’edizione (autoedizione?) sconclusionata di una delle edizioni del Quattro-Cinquecento - quella, si presume, redatta per gli Estensi.

Mafia
“Mafia pronta a un nuovo affondo”, annuncia il Procuratore di Palermo Ingroia una domenica di fine gennaio sul “Sole 24 Ore”: il passaggio alla terza Repubblica sarà una fase ad alto rischio, e il latitante Matteo Messina Denaro potrebbe diventare il regista di una nuova stagione stragista. Ma non dice che strage si prepara, o chi glielo ha detto, né cosa sta facendo per impedire questa catastrofe. E c’è una Terza Repubblica?
Il Procuratore di Palermo non sembra nemmeno preoccupato, nella bellissima foto a colori che illustra la pagina. L’Italia, dice a Galullo, inviato del giornale milanese, è una Repubblica fondata sulle stragi. Dei padroni. Cioè del “Sole”, o di chi altro?

“Inutile ricordare che non esiste il delitto in sé”, ricorda Giovanni Papini, al meglio un secolo fa nella prosa lacerbiana “I cattivi”, per cognizione e giudizio della legge: “Lo stesso atto viene giudicato in modi opposti a seconda dello scopo, del momento, del motivo, e del numero. L’uccidere, ad esempio. Chi uccide per difendere sé e le sue robe è assolto”, e così via – chi uccide per la patria, chi uccide senza volere, e una lunga teoria di altri aventi diritto che lo scrittore trova nelle leggi.
Tutto quello che fa un mafioso, dalla minaccia all’avvertimento, al danneggiamento, alla violenza alla persona, più spesso a danno di un altro mafioso, è deplorevole, esecrabile. Ma raramente viene punito – tardi, marginalmente: una qualsiasi lite di condominio, in ambito urbano, sarebbe repressa con più prontezza. E da qualche tempo, attraverso la collaborazione, viene redento. “Non sarebbe male sapere una buona volta cosa i cattivi pensano dei buoni”, conclude Papini. I cattivi, i meridionali.

Le guerre di mafia sono la natura e il destino delle mafie. Guerre che si combattono non per vincere ma per il principio. Per il potere cioè, che è sempre esclusivo. Chi combatte per fare del bene sa limitarsi.

La forza della mafia è la paura della morte. Che si accompagna a nature miti e sensibili.
È la sola forza della mafia, non l’omertà, non l’intraprendenza. Il mafioso imprenditore, o giudice, è un ibrido equivoco: nasce dall’accettazione-padronanza, da parte di ceti altrimenti borghesi, di borghesia del danaro o della toga, della violenza dei bruti, ed è comunque una parentesi, fino al prossimo ascesso di brutalità. L’omertà è invece una sciocchezza.
Se la cultura meridionale si urbanizzasse, introiettando la violenza quotidiana, la morte compresa, scontandola, la mafia perderebbe la sua terribilità.

Mafiosi per essere troppo miti? È un ipotesi, non una scusa, da non trascurare in un’analisi dei fondamenti della mafia: si riscontra in tutte le aree mafiose, a Napoli, nel Salento, in Calabria, perfino in Sicilia, una singolare mitezza, al limite della sdolcinatura, nella popolazione comune con la quale si viene in contatto per i minuti eventi della vita quotidiana, quasi uno specchio rovesciato della singolare violenza, anzi crudeltà, dei mafiosi, gente dall’occhio spento tanto è feroce.
È una compresenza che comunque va indagata. Altrove, dove il crimine non è tanto forte né diffuso da sovvertire .l’equilibrio sociale, la vasta popolazione non criminale non è sentimentale e nemmeno riservata, non è passiva. Anzi costeggia il crimine, lo sfida o lo usa, fino ai limiti della legge. Si vede a Roma nel mercato politico, a Milano in quello finanziario.

I mafiosi si pentono tutti. Anche i capi, in segreto: temono il carcere.

La mafia è siciliana, irlandese, russa, ebrea, cinese. È letteratura, godibile ancorché del genere splatter. C’è in Italia, fra gli storici, chi fa risalire alla mafia siciliana, a Cosa Nostra come la definì il pentito Joe Valachi, la storia americana del dopoguerra – non male: alle origini della pax americana ci stava Joe Gambino…. Non è buona letteratura, ma è indice di fantasia, di potenza ricostruttiva-narrativa. Ma dal punto di vista criminologico, per la lotta al crimine, è il paradigma mafioso produttivo oppure dispersivo? Un diversivo? È lecito dubitare: i megaprocessi sono dispersivi. Troppe assoluzioni rispetto al tempo dell’indagine, alle forze impiegate, ai costi materiali e di tempo\personale.

Milano
“Risvegliare la città!”, titola Giangiacomo Schiavi un appassionato, teso, articolo per “Io Donna”, a commento delle fotografie di Marco Anelli, che mostrano una città straniante, straniata. Una città che voglia tornare a essere quella che era vent’anni fa, chiede Schiavi, una comunità. E un riferimento per il Paese.
Ma da vent’anni Milano è il riferimento del Paese. L’unico anzi che ha l’Italia di essere. E ben compatto in questo, intollerante di ogni quisquilia di dissenso. Milano artiglia l’Italia anche con la divisione, Berlusconi e Bossi da un lato, il “Corriere della sera” e la Procura dall’altra. “Milano era allora una città riformista, tollerante, capace di accogliere tutti quelli che avevano qualcosa da dare”, ricorda Schiavi accorato. In questo però non è mutata: continua a prendere. E sul Paese ributta i rifiuti.

Non si può fare un “Contro Milano”, la città non gradisce. Si può fare un “Contro Roma”, o “Contro Torino”, sono stati fatti, e in qualche modo accettati. Ma “Contro Milano” no, la città è suscettibile.
Malaparte, che ha voluto farlo, ancora oggi trova difficoltà a farsi pubblicare da Milano, benché sia uno che venda – giusto, ultimamente, qualche titolo, da Adelphi, che a Milano si vuole “eretica”.

“Da Milano si vede l’Italia”, pare abbia detto Salvemini. Si vede male, ma si fa. Con durezza.

Nessun dubbio che il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo non avallerà il processo immediato per Berlusconi. In altra città il dubbio sarebbe d’obbligo, a Milano no.
I tempi sono stati scelti anche per far attendere Berlusconi al giudizio immediato da due suoi nemici dichiarati, i giudici Oscar Magi e Nicoletta Gandus, in alternativa.

Senza vergogna si è preso il calcio. Con gli interisti Rossi e Borrelli in Federazione, alla giustizia sportiva, i milanisti Albertini e Donadoni sempre in Federazione, al settore tecnico, alla valutazione degli atleti, e quindi al calciomercato, Galliani alla Lega Calcio, e quindi ai contratti, Collina, l’uomo delle cene settimanali al Milan e consulente Opel, lo sponsor del Milan, agli arbitraggi, e la “Gazzetta dello Sport” per prendere in giro l’Italia.
Dopo che gli ascari napoletani avevano fatto il lavoro sporco.

Guardando Milano da lontano, da fuori, essa appare come un’ampia piovra che avviluppa dei suoi tentacoli, ancorché immateriali, la penisola. O meglio una gigantesca efflorescenza, per esempio un’orchidea velenosa che gentilmente e fermamente tiene costretta l’Italia dentro le sue volute, infiltrandone del suo velenoso tropicalismo ogni fibra, un’efflorescenza cancerogena aggressiva. Oppure come una metropoli. L’unica in Italia e per ciò stesso dominante. Un agglomerato, direbbe Simmel, che muta le sensibilità, anzi le appiattisce, col bombardamento continuo di stimoli veloci ed effimeri. I rapporti non vi sono umani ma di affari (concorrenza, opportunità: una divisione del lavoro per un migliore impiego del tempo), la socievolezza mirata a un fine, la giustizia un ring tra i tanti, senza colpi proibiti.
Conoscendo Milano se ne ha la riprova. Ma se è evoluta nel senso della metropoli, straniante, minacciosa, trionfante, la metamorfosi è recente, con la specializzazione nella moda e il marketing e la leadership del made in Italy, una gigantesca Madison Avenue. Parallelamente allo svuotamento dell’Italia manifatturiera e tecnologica, il cui riferimento è stato per un secolo abbondante Torino, e dell’Italia politica, cioè di “Roma”. Si può dire Milano la capitale “morale” dell’Italia vuota, sebbene piena di soldi. Una metropoli anonima, come le S.A., le società anonime che il business privilegia, e opera per riflesso condizionato. Un ambiente più che una società, senza contatto umano se non finalizzato al suo stesso automatico . Il reticolo di Simmel, o pelle sensibile, che reagisce automaticamente (subliminalmente) a stimoli anche rapidi ed effimeri,

Nessuno meglio di un immigrato da Napoli o Agrigento conosce Milano, dalla A alla Z e negli interstizi. Nessuno meglio dei lettori del “Corriere” della Puglia, la Calabria, la Lucania.
Nessuno vede le tv di Berlusconi con più devozione dei napoletani e dei siciliani. È sul mercato meridionale che prospera l’industria formaggiera lodigiana.
Il problema è la sudditanza.

leuzzi@antiit.eu

La Fiat di Fruttero-Lucentini, fuori da Mirafiori

A pagina duecento siamo ancora alla descrizione del paesaggio – un tributo alla tecnica del best-seller, che il tomo sia pesante? Affardellato di molta gnosi, insomma di filosofia. E l’assassino è il padrone della Fiat... Una parodia del giallo, così lunga? Ma la trovata è geniale, sotto il titolo macbethiano - o dickensiano. Più che geniale il parallelo Gnosi-Grande Progetto, come rifacimento dell’accoppiata Dio-Fiat. Scritto a Torino, da due collaboratori emeriti della “Stampa”, è anche un segno di liberalità da una parte, di coraggio dall’altra – a Milano un parallelo analogo, Dio-Corriere della sera per esempio, come lo prenderebbero? E fa sapere, in anticipo di quasi trent’anni, che ci può essere un’altra Fiat, oltre quella di Mirafiori.
Carlo Fruttero e Franco Lucentini, A che punto è la notte