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sabato 7 settembre 2013

La felicità fu Hitler

È il “romanzo” - ricordo in realtà - di una madre suicida, cinquantenne. Di un suicidio come “operazione paradossalmente vitalistica”, commenta Cusatelli, di una madre “per portare avanti la vita, per portare avanti la letteratura”, del figlio scrittore.
È il ricordo della madre di Handke, morta suicida l’anno prima, 1971. Di un’estranea tutto sommato, sebbene con “l’orgoglio che lei si fosse suicidata”. E il primo racconto non avanguardistico – progettuale, metodologico – dello scrittore.
Una donna piena di vitalità appare al figlio scrittore povera e banale, una semifolle come la condizione che precedette il suicidio. E grigia, monotona, senza risorse, senza amore, senza giudizio. Mentre visse un dramma interminabile, come avviene spesso a quelli senza storia, specie al confronto con l’Autore scialbo, quale emerge dai fatti elencati: figlia senza identità, in fuga, di amori squallidi, con figli non voluti senza padre, e aborti procurati, malattie “incurabili”, migrazioni, riemigrazioni, ubriacature, percosse, invalidità. In una vita breve. Una vita infelice, e felice. Di una che sentiva il “bisogno di raccontare”, di fissarsi di tanto in tanto. Al quale converte, sembra, il figlio – ma molte pagine sono ancora di incomprensibili tecniche narrative.
Perle (sfuggite?) sono la vita in Carinzia tra le due guerre e dopo, il (vecchio?) vagabondaggio tedesco, sformato, tra birra e botte, la vita al naturale, senza amore, senza desideri. E soprattutto la nazificazione come una festa - una verità assoluta, benché indigeribile e taciuta. Così come la guerra, finché fu vittoriosa. “Hitler alla radio aveva una bella voce”, la madre ricorda. E gli anni del nazismo, dall’Anschluss alla guerra vittoriosa, furono una festa per tutti, annota lo scrittore, per tutti i tedeschi: “Dovunque si guardava, una gran festa”. Il ritmo penetrò fin le plaghe remote e dissipate: tutti divennero parte di un avventuroso e gratificante disegno, “persino la noia dei giorni di lavoro prendeva un’aria di festa”, i paguri isolati si ritrovarono proiettati in comunità vivaci, simpatiche, “come se uno fosse dappertutto a casa sua”, si ballava, si rideva, e si facevano fotografie. Una liberazione.
Peter Handke, Infelicità senza desideri

Letture - 147

letterautore

Autobiografia – Dilthey, il filosofo dell’individuo nella storia, eleva la confessione a “comprensione di se stesso”. Ma con le corna, ramificazioni di vario tipo: “I movimenti universali attraversano l’individuo come un loro punto di passaggio; e noi dobbiamo cercare nuove basi per la  comprensione di tali movimenti che non hanno luogo entro l’individuo, se vogliamo intenderlo… L’individuo è soltanto il punto di incrocio per sistemi di cultura e per organizzazioni in cui è inscritta la sua esistenza: come possiamo intenderli partendo da lui? “ Ne sarebbe la prova del nove.

Bach Johann Sebastian non parla, viene prima dell’autore romantico il cui capolavoro è la vita. Ma ebbe mogli e figli, viaggiò a sue spese, cambiava posto ogni pochi anni, scriveva ogni giorno un pezzo d’opera, dirigeva scuole, cori e allievi, nessun altro maestro ha avuto tanti allievi capaci, riusciti. Non è il flemmatico dei tardi ritratti della tarda Germania – l’oleografia del primato tedesco lo vuole grave. Johann figlio, quando venne in Italia, era e si comportava da ragazzino, hanno una fisionomia pure i tedeschi. Johann Christian, Giovannino, fu organista a vent’anni al Duomo di Milano, mentre Johann Sebastian tardi fu accolto a Lipsia, per celebrare gli anni del duca di Sassonia. Organista a Weimar alla corte del pur pio duca Wilhelm Ernst, doveva suonare il violino nell’orchestra in uniforme da aiduco.

Cultura - Un lettore propone su “Sette” a D’Orrico Donna Tartt, il “Dio delle attrazioni”. Che è il meglio di tutto, scrive: “Donna fa il baffo sia al “Giovane Holden”, sia al “Senso di Smilla per la neve”, sia a Stieg Larsson, sia all’“Attimo fuggente”. Una silloge?
D’Orrico non è d’accordo: “Trovo Donna Tartt deliziosa (il suo taglio di capello che cade come una ghigliottina mi affascina), però negli ultimi quarant’anni sono stati pubblicati molti romanzi americani più belli di «Dio di illusioni»”. Romanzi? Americani? Sì, il “Giovane Holden”. Che però ha oltre sessant’anni. E il Dio, che Dio è? Il “Dio di illusioni” è giusto (in originale “The secret history”). Ma Donna Tartt ha solo cinquant’anni, si ama, e si prospetta un futuro. Non si confronta con Salinger, né con gli scandinavi, né con Hollywod.
I culturali è sempre stato nei giornali un servizio difficile: come catturare l’attenzione del lettore e farsi leggere. Ma volgarizzare la cultura? - una contraddizione in termini, direbbe la Scolastica..

Irlanda-Italia – Si approfondiscono i legami, nella ripresa di studi di Joyce e sui Svevo, tra i due scrittori: di amicizia ma anche di reciproca interazione. E più – così appare, in attesa di studi approfonditi – di Svevo su Joyce, sul secondo Joyce, quello che sarà dell’ “Ulisse” e di “Finnegans”: per l’umorismo, i giochi di parole, i giochi psicoanalitici.
C’è invece Napoli, benché non dichiarata (non percepita?) nei romanzi seri di Banville, l’ex Benjamin Black dei thriller. Un paio di idee potrebbero essere state riprese da Matilde Serao, “Il ventre di Napoli”. In “Dove è sempre notte” l’affidamento diretto dei bambini orfani o rifiutati, a mani sicure e amorevoli (gli amatissimi “figli della madonna” a Napoli) ma fuori e contro la legalità. In “Un favore personale” l’orrore dell’autopsia del caro estinto, della moglie (in Serao, in Banville è il marito) disperata cui è morto il marito, che più si agita al pensiero che il corpo possa essere squartato. Anche gli affetti familiari, chiusissimi, di “Teoria degli infiniti”, al capezzale del patriarca, potrebbero essere “napoletani”, da Domenico Rea di “Gesù fate luce”.
In entrambi i casi il gemellaggio dublinese è con una città di mare. Come se il mare d’Irlanda fosse Mediterraneo più che Atlantico.

Orwell - Davide Paolini esalta ogni domenica sul “Sole 24 Ore” un piatto. Un piatto di cucina, da mangiare. La zuppa inglese, per esempio, “azoto liquido”. In una rubrica che si richiama a Orwell,  “Come mi piace”: ”As I please” era rubrica giornalistica-radiofonica di Orwell negli anni di guerra.

Proust – Pone Wagner al centro della Prigioniera - ma è lui stesso Parsifal alla Ricerca, Tristano che rimemora.

Storia – È volubile. Uno legge la “Storia dell’Italia dal dopoguerra a oggi” di Ginsborg, scritta e pubblicata dopo la caduta del Muro, l’unica disponibile e apparentemente autorevole, “la storia Einaudi”, e non ci capisce più niente. Il centro-sinistra non c’è, che pure sono gli anni più produttivi della Repubblica, seppure pochi: il sistema sanitario, lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’ambiente? Il compromesso invece c’è dall’inizio, da Badoglio. De Gasperi sembra un lacchè degli americani, un impiegato tirato fuori dal Vaticano per gli Usa. E quanta mafia!

letterautore@antiit.eu

venerdì 6 settembre 2013

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (180)

Giuseppe Leuzzi

C’è risentimento contro i “socialmente utili”. Nelle loro stesse famiglie. Perché non fanno niente, non vogliono. Alcuni non hanno nemmeno un’altra attività propria: non intendono fare niente.
Quanto è prepotente l’ideologia sulla realtà. Prodi, che li ha inventati, sicuramente conosceva il dibattito sui rotten boroughs di un secolo e mezzo prima.

“Con la famigerata legge Pica del 1863 si rese un inferno il Sud, realizzando un genocidio con un milione di morti, mezzo milione di arresti, cinquantaquattro paesi rasi al suolo, azzeramento dell’apparato industriale”: Domenico e Francesca Canino sintetizzano così l’unità d’Italia, in fine a un fogliettone sulla banda Corea, dei bellissimi giovanissimi Pietro Corea e Rosaria Mancuso, per “Il giornale di Calabria” domenica, giornale molto democrat. Magari è vero.
La legge Pica, dal nome del promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, sancì a Ferragosto del 1863 lo stato d’assedio già in vigore da un anno nelle province meridionali del regno sabaudo.

Legambiente dice ecomafie le case abusive. Al Sud e al Nord. Tutto è mafia?
L’abusivismo era teorizzato da un’architettura fondamentalista (“il diritto alla casa”) ancora trent’anni fa. Con mostre a Castel Sant’Angelo e esposizioni ai festival dell’Unità.
Legambiente dice anche che in vent’anni ne sono state costruite 758.471. Così poche?

Il Napoli Calcio è l’unica squadra di serie A in attivo, accerta l’inchiesta di Andrea Di Biase, su “Milano Finanza” del 24 agosto. Da almeno sei anni. Pur giocando sempre per il primo posto, in Italia e in Europa.

Fuori il Sud dall’università
Non si capisce molto, la materia è stata aggrovigliata forse per non farci capire molto. Ma una cosa è certa: il governo lavora per limitare il numero dei meridionali all’università, ora che per le migliori facoltà sono prescritti gli esami di accesso. Sembra di sognare, ma è così.
Un’altra cosa certa è che la ministra Carrozza, pisana (sì, ma prima?), ha deciso che i bonus per la conseguita maturità, da far valere agli stessi esami di ammissioni, si modulano in base a un voto di maturità diverso per il Nord e per il Sud: si hanno “bonus maturità” a Milano con 87\100 per il classico e 84\100 per lo scientifico, a Bari con 97 e 94, a Catanzaro con 97 e 96, a Brindisi, Crotone, Enna e Vibo Valentia con 100. Sembra di sognare.
La ministra Carrozza dice. “È complicato avere un metodo obiettivo per equiparare le valutazioni, perché le commissioni (d’esame) sono diverse” . Come al confessionale. Dopo averlo fatto, non obiettivamente.   

La sindrome Reggio Calabria
Philippe Daverio, che si trova bene ovunque, ovunque ci sia qualcosa di bello, a Rai Uno Mattina Estate due giorni dopo Ferragosto sbotta: “Reggio Calabria è una città terribile. È un miracolo che la gente ci vada. Il museo possiede anche materiali formidabili, di una bellezza incredibile, ma non c’è nessuno. La città è una catastrofe. Grottesco pensare che i Bronzi possano essere un richiamo turistico”.
Non si può non dargli ragione. Sul museo se non sulla città. Anche perché i Bronzi, a parte gli eulogi di rito, pochi reggini li conoscono, non i cronisti dei giornali che ogni giorno li citano. Nel grande porto di fronte, a Messina, attraccano in media 150 navi crociere l’anno, per un totale di 400 mila crocieristi, ma non c’è un servizio per Reggio, vanno tutti a Taormina.
Daverio ha ragione eccetto che per il “nessuno”: ci sono invece molti custodi, che però non hanno il tempo di aprire le sale.
Anche il museo è un casus di sdegno inappropriato. Il rifacimento dell’edifici storico (di Marcello Piacentini) doveva essere un’opera del cetocinquantenario. Pronta per il 2011. Progettata, appaltata, e perfino subappaltata direttamente da Roma, da Palazzo Chigi. Dove si erano dimenticati della specialissima protezione antisismica da adottare
Reggio ha molte colpe. Ma tra queste anche quella di essere Italia. 

Sudismi\sadismi
Si può girare la Calabria parlando con persone colte, anche molto (Pasquino Crupi, ora deceduto, Saverio Siciliano, Tonino Perna,…), incontrare amministratori locali di forte progettualità, a Bivongi, Amendolara, Trebisacce, Rocca Imperiale, Altomonte, Cerchiara, Varapodio, dialogare con poeti eccellenti (Calogero, Guarna - citiamo i morti per non urtare le suscettibilità, i poeti sono permalosi), inoltrarsi per paesaggi sempre vari a ogni tornante e sempre spettacolari, bagnarsi in acque cristalline, il Tirreno blu, lo Jonio acquamarina, mangiare anche non male – anche se non sempre. Ma di questo non c’è traccia nei giornali della Regione, una lettura ogni giorno assassina.
Lo sfoglio della “Gazzetta del Sud”, del “Quotidiano di Calabria”, de “L’Ora di Calabria”, gli ultimi due anche “impegnati”, è un susseguirsi di reati e soprusi. Intervallati da melense cronache con le Autorità e il Vescovo, impensabili nel 2013 se non si leggessero. Un mondo senza respiro. Non si sa se vittima o causa del suo male. Ma invivibile.
    
Calabria
In quale altro posto l’oste che vi ha servito un ottima pasto in montagna viene ucciso il giorno dopo, con un colpo di pistola, da un compare con cui sta litigando?
Non il giorno dopo, per la verità, una settimana dopo, ma l’impressione è forte lo stesso. Senza motivo apparente: pare litigassero per il furto di un vitello. Che né l’uno aveva rubato né all’altro era stato rubato.

Cinquant’anni fa oggi, il 28 agosto, moriva Umberto Zanotti Bianco. Una vita dedicata alla Calabria, e nessuna celebrazione.
Zanotti Bianco aveva “scoperto” il Sud nell’incontro con Fogazzaro nel 1908, lo stesso anno del terremoto, ma prima del terremoto che lo porterà per sempre in Calabria. Fu lo scrittore vicentino a spiegargli la “diversità” del Sud.
 
Arrivano dei barconi fuori programma al porto di Reggio. Le autorità latitano, ma i reggini,  facendo catena, aiutano i migranti. E se ci fosse stato il terremoto?
Reggio, città a elevatissimo rischio sismico, non ha un piano di emergenza per il terremoto. Nemmeno sulle carte. Nessuna simulazione è mai stata effettuata. Nessuno sa dove sfollare in caso di sisma.
La Protezione Civile c’è naturalmente in città, con la Prefettura. Ma non se ne occupa. Così come non s’è occupata dei barconi. Vigila sugli stipendi.

Un ristorante raccomandato a Gizzeria Lido chiede 75 euro di conto, l’uno. Per un menù a voce.

Seduto al caffè a Tropea si paga la coppa di gelato il doppio che da Principe a Forte dei Marmi. Il giornale dice che il turismo a Tropea è diminuito del 35 per cento. Per effetto della crisi.
Altri giornali dicono che il turismo in Calabria si può avvantaggiare della crisi, offrendo il mare a prezzi modici.

Negli “Scritti autobiografici” di De Sanctis, la condizione degli studenti a Napoli, soggetti a permesso mensile di soggiorno, “a libido della polizia”, e alla messa domenicale certificata dal prete, con confessione, si conclude così: “Gli studenti in genere erano detti calavrisi perché, cosa davvero strana, i provinciali meno riducibili e più temuti dalla polizia erano, non  i pugliesi o gli abruzzesi, ma quelli di Calabria”.


Anche il mazzinianesimo fu “diverso” in Calabria. I Figliuoli della Giovine Italia di Benedetto Musolino, negli anni 1830 la più importante organizzazione neo carbonara nel Sud Italia, non erano considerati da Mazzini adepti della sua Giovane Italia – giusto assumevano, scrisse alla madre, “il nome fatto popolare”. Vi si parlava molto di Campanella e Telesio, e si operava prevalentemente nell’ambito del neo guelfismo (confederazione). Almeno fino al 1848, quando i Borboni, cancellando la Costituzione, radicalizzarono lo scontro.

leuzzi@antiit.eu

Due generazioni tradite in casa Alvaro

Un piccolo poema sinfonico della paternità, dell’amore coniugale, della famiglia, tra passioni e rifiuti. Lucrezia Francavilla ha ricordato in questa compilazione dieci anni fa il suo compagno Massimo Alvaro, a dieci anni dalla morte. Con le (poche, brevi, svogliate) interviste dello stesso Massimo in onore del padre Corrado, lo scrittore. E con i testi dello scrittore sul figlio, più spesso detto  “Cesarino”: poesie, racconti, rappresentazioni, divagazioni. Tanto resta da scrivere sull’amore paterno.
Un “apocrifo alvariano” chiama la compilazione nella nota introduttiva Nino Borsellino. Un’occasione per rileggere Corrado Alvaro. Una generazione è in queste poche righe della “Lettera al figlio”, febbraio 1945: “Ci richiudemmo come vecchi, nel guscio della casa; la nostra vecchiaia cominciò assai presto; e già prima dei capelli grigi furono grigi i pensieri”.
Massimo, bello e sportivo, di umori-amori incostanti, insomma un-altro-dal-padre, dovette combattere la guerra fascista benché antifascista per carattere. Fino all’arruolamento forzato nell’esercito repubblichino. Da cui disertò per combattere per un anno e mezzo con le formazioni comuniste sull’Appennino tosco-emiliano. Ebbe anche un figlio, Fabio, che poi vivrà negli Usa, con una compagna di cellula. Il che non lo salvò dall’espulsione dal Pci per “opportunismo e insubordinazione” – il partito a cui comunque rimarrà fedele. Anche per questo una storia emblematica – le due generazioni di mezzo del Novecento “tradite”.
Lucrezia Francavilla, a cura di, Cesarino, Iiriti, pp. 253 € 14,50

giovedì 5 settembre 2013

Problemi di base - 152

spock

Viene prima la depressione (di massa) o prima Freud?

Che ha fatto di male la Grecia a Angela Merkel, cui fa vincere le elezioni?

O è vero che la Grecia vuole distruggere la Germania?

Si chiama Ue per Unni Esperti?

Si può fare giustizia con l’ingiustizia?

Si può fare il giusto facendo la cosa sbagliata. E il contrario?

Che bisogno c’è del giusto?

Renzi torna ricaricato l’estate dalla California: sarà un androide?

Il papa scrive a Putin e non  a Obama: non c’è più religione?

spock@antiit.eu

Il lupo che non volle diventare cane

È la prima storia in Italia, e forse al mondo, di un lupo – se si eccettuano i due racconti del “ciclo artico” di Jack london, “Zanna banca”  e”Il richiamo della foresta”. La moralità è semplice: il lupo che non vuole diventare cane è un monito all’uomo, sulla natura irriducibile. E trova qui modo di manifestare la sua natura “lupigna”, specie nella lotta con il cane di un soldato tedesco nell’occupazione.
Perri è lo scrittore oggi dimenticato di “Emigranti”. Che fu un successo del 1928 ma lo rese inviso al fascismo e lo isolò nell’editoria, nella sua fioritura come autore. Si dedicò allora alla fiaba. Ne promosse la prima raccolta, negli anni 1940, per la Utet, prima di quella di Calvino. E ne scrisse: fu molto favolista anche nei racconti, sull’Aspromonte, su terra d’origine, e di carattere urbano-borghese. Il “Lupo Kola” è del 1960, l’ultimo suo racconto pubblicato
Francesco Perri, Storia del lupo Kola, Rubbettino, ill. pp. 144 € 10

mercoledì 4 settembre 2013

Il mondo com'è (146)

astolfo

Borboni – Era a Napoli l’università, per i sudditi continentali del regno delle Due Sicilie. Gli studenti fuori sede, ricorda De Sanctis negli “Scritti autobiografici”, erano tenuti negli anni 1830-1840 a un permesso di soggiorno mensile, rinnovabile “a libido della polizia”. E alla frequentazione domenicale della Congregazione di Spirito dell’Università, o di quella di San Domenico Soriano, con messa e confessione certificate.

Destra-sinistra – Al compromesso si adagia anche la chiesa, con la beatificazione in contemporanea di Giovanni XXIII, papa appeaser, e Giovanni Paolo II, un resistente. Del comunismo, che però non si dice – si vuole non esistente, per la destra e per la sinistra.

Ecumenismo – È l’applicazione del nordismo al cattolicesimo: la resa della chiesa di Roma al vento del Nord. Povero, ingessato e repellente come è tutto del Nord, in qualsiasi rito ci si trovi ad assistere, la messa, il battesimo, il matrimonio: freddo, beghino. Tutte le funzioni del cristianesimo romano sono state reindirizzate a mimare il luteranesimo – con un’infiorettatura di esotico, nei paramenti, la gestualità, i canti. Ma tutto sempre estremamente “povero”, alla maniera protestante del Nord. Insignificante anche.
Le liturgie sono semplificate, impoverite, la coralità, la tonalità è sempre spenta. Cerimonie tutte in qualche modo lugubri, in quelle volte alte di chiese monumentali, sotto frontoni e colonne, nella luce che dalle vetrate scende come su un campo abbandonato, uno sfasciacarrozze.

È termine e concetto della chiesa di Roma, che lo intende come aggiornamento al protestantesimo, con una coda di ebraismo – al protestantesimo luterano e anglicano. L’islam sì, perché no, poiché i devoti italiani praticanti sono per un dieci per cento mussulmani, ma in subordine, da corpo estraneo. Trascurata l’ortodossia, ben più attiva ed elevata – eh sì - del minimalismo protestante, io e il mio Dio. Che però, certo, ha più mezzi. 

Islam - Diventa anche italiano. La popolazione residente di fede islamica si avvicina al 5 per cento. Ma tra i praticanti d’ogni religione gli islamici potrebbero già essere al dieci per cento.

Gli ismailiti, che fino a qualche anno fa erano sinonimo di simoniaci, perché si compravano il loro capo, l’Aga Khan, a peso d’oro, ebbero per molti anni, racconta Marco Polo,  uno zaim, un duce, uno come Bin Laden ma molto ricco, detto anche Vecchio della montagna e Zaim degli assassini, una setta di terroristi. Che furono poi eliminati dai Mongoli in Iran e dai Mamelucchi in Siria.

Ortodossia – Ritorna dal basso. Trascurata dal Vaticano, ritorna al Sud anche se per tracce minime, per iniziative locali, nel quadro del neo grecanesimo, al coperto della politica europea di protezione delle minoranze. Il Vaticano Secondo si definisce Concilio ecumenico, ma è in realtà proteso a recuperare riti e sensibilità protestanti. Nel mito del Nord. Assente, a parte un po’ di galateo, la terza grande area, quella ortodossa. Grande anche come sensibilità e ritualità.

Parlamento - “Bisogna rifarsi qui al modo in cui i Parlamenti cessano di essere organi del concetto borghese di libertà e istituti di formazione dell’opinione, per convertirsi in unità di lavoro. Conversione il cui senso equivale a trasformare degli organi sociali in organi esecutivi. Bisogna qui rifarsi alla padronanza della tecnica del plebiscito che si compie in uno spazio in cui non soltanto il concetto di popolo ma anche le alternative emerse in argomento hanno rivestito un carattere molto equivoco. Bisogna inoltre rifarsi alla sostituzione del dibattito sociale e politico con l’argomento tecnico, che corrisponde alla sostituzione del ceto politico con gli esperti. In questo contesto si situa anche il prosciugamento della palude della libertà di opinione che è oggi la stampa liberale. Qui, ancora una volta, bisogna riconoscere che le tecniche sono molto più importanti dei singoli che producono l’opinione all’interno delle tecniche stesse”. È un testo del 1932, di Ernst Jünger, “Der Arbeiter”, il lavoratore.

Resistenza – È un ingrediente per la beatitudine: molti nuovi santi la chiesa ha proclamato per una qualche forma di opposizione al nazismo, e ora, con Giovanni Paolo II, al comunismo. Le resistenza ultima sarà stata di destra.

Terrorismo – È terrorista: sfrutta la sorpresa, colpisce indistintamente, più spesso gli indifesi, i musulmani e i poveri compresi, non è politico (non chiede, non tratta), scomparirà. Il terrorismo s’identifica con i film e i telefilm sul terrorismo, con l’idea del male: dà sempre l’dea di finto, di artefatto. L’Europa non sarà abbattuta dal terrorismo, o l’America.
Le origini remote (psicologiche) del terrorismo non sono i crociati (religiose), né la stagione breve del colonialismo (politiche), e neppure naturalmente l’“eccessiva” integrazione o l’eccessiva
libertà, di cui peraltro solo in Occidente i terroristi di ogni bordo possono godere, e se la godono.

Il terrorismo islamico ha fondamenti storici precisi. Il disegno politico khomeinista della teocrazia, dopo il bonapartismo che aveva afflitto i paesi islamici, a partire da Nasser, 1952, succeduto a sua volta al feudalesimo pre e post-coloniale (tribalismo). La frustrazione storica della cultura araba e islamica, troppo presto implosa dopo lo splendore – ma per i colpi dei turchi e non dei crociati.
Il mondo arabo-berbero in particolare ha sempre convissuto con l’Europa, non la sente ostile malgrado tutto, non le classi colte né la massa povera, e non trova comunque, nemmeno nella sua parte integralista, altra area economica e culturale con la quale meglio s’integrerebbe: nessun arabo e nessun islamico si pone come interfaccia altro arabo-islamico.

Gli islamici hanno coscienza piena, tutti, via tv e via emigrazione, della libertà che da loro non c’è e in Europa sì. Mentre sulle donne il diritto di parità è da tempo acquisito, la subordinazione è un residuo della tradizione, per quanto robusto, per la comodità delle stesse donne.

astolfo@antiit.eu

Napoli, nella buona e nella cattiva sorte

Di più colpisce, di una città che non si pone limiti, e di questo libro sempre nuovo dopo un secolo e passa, l’introduzione di Pascale, scrittore della “leva narrativa del ‘66”. Che in prosa argutamente semplice appende Pasolini ai ripetitori delle frequenze da cui ripugnava. E Benjamin, “la città porosa”, alle sue metafore. Pascale non si applica ai napoletani, e la mancanza si sente. Ma al semplice senso pratico da cui “Napoli” rifugge sì: come non evitare crolli, come non dare aria alla città e acqua pulita. E poi c’è Matilde Serao, molto sicuramente napoletana e di molto senso pratico – oltre che di una scrittura sempre nitida. Pulita. “Tutti ben vestiti grazie alla bassa manovalanza napoletana”, Pascale sintetizza l’economia politica della scrittrice. Nella sporcizia, avrebbe potuto aggiungere.
L’introduzione muta anche la lettura, distogliendola dai pezzi forti famosi del “Ventre di Napoli (vent’anni fa)”, 1884, il lotto, ancora il lotto, col monaco e l’“assistito”, con furti e usure, il lotto clandestino. E le fattucchiere, la vajassa, le capere, i luciani, l’infinita folla di caratteristi – i personaggi individuati del vecchio teatro. Di Matilde Serao recuperando il gusto e la serietà del reportage, da “umile cronista”, la brillantezza dell’esposizione. L’usura ordinaria è un capolavoro, specie al raffronto con la socionarrativa delle mafie alla “Gomorra”: qui è la natura e la sostanza del crimine.
Che altro dire? Qui - nella sedconda e terza parte, 1904, è vero - ci sono già lo scippatore che “in pieno giorno, in pieno Rettifilo, tra mille persone”, si avventa su un lui, su una lei e “gli strappa l’orologio, le strappa gli orecchini”, i partiti “ferri vecchi”, l’elettore che “si tura il naso”, e il destra-sinistra – “cattolici italianissimi”, “anticlericali credenti”, “democratici imperialisti”, liberali forcaioli, “repubblicani assolutisti”, “socialisti monarchici”, realisti antimonarchici. E la città, ha imparato a leggere, che allora non sapeva? I numero priobabilmente sì, Maradona 10, Cavani 9... È Napoli, nella buona e nella cattiva sorte. 
C’è perfino il popolo orbato del “suo” deputato – il popolo della Vicaria. Che piange e si straccia le vesti. Anche se il deputato è socialista, Ettore Ciccotti – ma sarà fascista (infine antifascista). E ha soltanto perso le elezioni.
Matilde Serao, Il ventre di Napoli, Bur, pp. 178 € 8,90

martedì 3 settembre 2013

Joyce triestino – e sveviano?

Manca ancora il Joyce sveviano. Il nuovo Joyce dell’”Ulisse” e di “Finnegans” dopo Trieste, esperienza rifondante, per il plurilinguismo e per la familiarità con Svevo. Con l’umorismo, la psicoanalisi, i giochi di parole. Ci vuole passione per questo, filologica e anche di autostima, e questa Italia alla deriva né è digiuna.
Marucci riscopre il Joyce scrittore italiano e se non altro lascia aperto il varco. Nelle lettere, nelle amicizie, negli scritti italiani, specie in “Anna Livia Plurabelle”, e in Svevo.  
Franco Marucci, Joyce, Salerno, pp.312 € 16

Ombre - 188

Venticinque giorni per scegliere il presidente della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.Non si ricorda un conclave così lungo. Tra laici (ex) comunisti.
Però, l’hanno scelto donna.

Anche il papa si fotografa con le minorenni. Che aspetta la Boccassini?

Quindici grillini più i quattro di Napolitano: c’è un nuova maggioranza in Senato, esulta “Repubblica” con la flottiglia locale. Dimenticato Scilipoti, l’etica siamo noi – e la politica?

“I migliori vanno via perché all’estero ci sono maggiori opportunità”, dice un’astrofisica calabrese in forza al Max-Planck-Institut, il Cnr tedesco. La logica stride. Ma anche così: non sarebbe il caso di dare una medaglia a chi resta, alla resistenza?

Questo non era previsto: l’assenza dei Tomahawk britannici nel “diluvio di missili” – “Corriere della sera – che si abbatteranno sulla Siria. Ma non è una notizia per i giornali italiani.
I Tomahawik della regina mancheranno perché i Comuni non vogliono bugie.  Un’altra non notizia.
È anche la prima volta in un secolo che britannici e americani non saranno insieme. Ma neanche questo – fatto epocale? – è una notizia: nessun giornali italiano ci fa la prima pagina, nessun commentatore ci ammonisce.

“Tra il 1992 e il 2012 sono stati accertati 537.575 reati ambientali”, informa Fiorenza Sarzanini su “Io Donna”, “con 399.998 persone denunciate e arrestate”. Poi dice che la carceri sono insufficienti.

“Questa volta l’obiettivo non è abbattere il regime ma dargli una lezione”, spensierato annuncia “un ex stratega del Pentagono ora analista dell’American Enterprise Institute”. Di nome fa Michael Rubin, ma il pensiero è quello, dell’O.K.Corral. Nel 2013.

La condanna di Berlusconi in Cassazione è stata redatta, assicurano Luigi Ferrarella e il “Corriere della sera”, “non dal presidente (Esposito) e nemmeno solo dal relatore Amedeo Franco, ma anche dagli altri tre consiglieri, Ercole Aprile, Claudio d’Isa e Giuseppe De Marzo, e da tutti revisionato”.
Cos’altro ha il “Corriere della sera” da farsi perdonare? E Ferrarella?

Strana sentenza, quella dei cinque grandi magistrati della Cassazione contro Berlusconi: non dimostrano niente. Argomentano, cioè si difendono.
Immaginando le varie voci, e modulandole, interruzioni e sovrapposizioni comprese, si legge come si ascolta un talk-show.

E dire che il giudice Antonio aveva solo da rendere giustizia al fratello Vitaliano, altro giudice emerito. Un perseguitato dei berlusconiani, che gli hanno tolto i 220 mila euro, annui, di Garante della protezione ambientale a Taranto - gli Esposito sono ex finiani di Monti.

Stefano Fassina, responsabile per l’Economia del Pd e vice-ministro dell’Economia, dice l’abolizione dell’Imu una vittoria di Berlusconi, che pagheremo con l’aumento dell’Iva. Autolesionismo? Stupidità? E a chi la racconta?

“Il Sole 24 Ore” collaziona e vende in edicola gli scritti postumi del cardinale Martini: “Credo. La vita eterna”. Il business della vita eterna non è male.

“L’Occidente salvi l’onore in Siria”, scrive Bernard Henry-Lévy. Che si vuole filosofo. Non reazionario. E fa l’opinione del “Corriere della sera”. Stupidaggini simili non  si dicevano neanche all’epoca d’oro delle cannoniere. Sarà l’epoca dell’incontinenza.

“Se restiamo in Italia”, dice a “Milano Finanza” Màximo Ybarra, ad di Wind, “escludendo le persone molto anziane e i bambini piccoli, la penetrazione (dei cellulari) è del 200 per cento”. Due telefonini per ognuno.

lunedì 2 settembre 2013

La recessione – 5

Tutto quello che dovreste sapere ma non si dice:
Gli italiani che vanno dal rigattiere, dal “compro oro” e al monte dei pegni, sono aumentati in due anni dall’8 per cento endemico al 28 per cento: un italiano su quattro vende o dà in pegno mobili e preziosi.

Duemila posti di lavoro perduti ogni giorno lavorativo da due anni almeno. Le statistiche Istat vengono in ritardo ma non smentiscono quello che tutti vedono.

La disoccupazione è al 22 per cento in Campania, al 7,5 in Lombardia.

In sei mesi 6.500 fallimenti. Trentacinque al giorno.
La statistica dei tribunali fallimentari non interessa “Il Sole 24 Ore”, che non ne fa nemmeno una breve nelle sue 30-40 pagine: la parola d’ordine è alla ripresa.

Chiudono i negozi in serie, cambiando il panorama urbano: ovunque vetrine sporche, serrande rotte, e corrispondenza ammucchiata nel vano porta.
Chiudono pure molte banche, di quella a dieci sporti vetrati, per la trasparenza, moltiplicando la sporcizia.

“Fiducia delle imprese ai massimi”, titola a tutta pagina “Il Sole 24 Ore”. Che in piccolo spiega: “In agosto l’indice Istat risale a 82,2, il miglior risultato dall’agosto 2012”. Certo, può sempre andare peggio - siamo all’82,2 rispetto ai 114 punti dell’agosto 2007.

Nel testo, poi, tutti gli interlocutori, imprenditori o esperti, sono pessimisti. La crisi è anche l’effetto di un’informazione deviata: incapace? manipolata? 


La spesa dei turisti spagnoli in Italia nei primi sette  mesi si è quasi dimezzata – hanno speso quanto i canadesi, l’1,6 per cento del totale. Quella dei cinesi è aumentata di un terzo.
La Germania, malgrado il boom, ha ridotto abbondantemente la spesa in Italia dopo molti anni.

Gli spagnoli spendono in Italia la metà degli olandesi, o belgi, o austriaci, anche se sono tre e quattro volte tanti.

Il governo di polizia

Tre anni di governo per creare danni, e poi per rimediarli. Due sono già passati, tra Monti e Letta, uno è ancora necessario, tanto i danni sono stati profondi. Remota, anzi assente, è la funzione di governo propria, quella per la quale si fanno  governi: dare pace alla società e, da un secolo e mezzo in qua, anche prosperità.
L’Italia è tornata al governo ottocentesco, di polizia. Seppure sotto le spoglie androidi di Monti, di Letta, “tecnici”, inemotivi. Col vocabolario stinto dell’economicismo. Si diceva policé, alla francese, il governo della buona politica, in traduzione si vuole ultimamente solo autoritario. 
È il governo di polizia nella sua configurazione peggiore: applicato alla punizione di tutti i cittadini, con le tasse. L’insegna dell’Autorità è la punizione, al coperto della giustizia. Che non è nulla più di un apparato repressivo.
Meno, molto meno, questa polizia si applica alla punizione dei criminali: in Sicilia non c’è più mafia, a Napoli è scomparsa la camorra, a Milano non c’è spaccio, la cocaina si vende liberamente. E gli evasori fiscali? Quelli si sanno, sono esibizionisti, ma questo Stato li cerca altrove, col metro da sarto.

La scoperta della Calabria

Il sottotitolo è “Avventure fra le montagne della «Vecchia Calabria»”. Che questa incredibile (per scelta, presentazione, stampa, prezzo) collana di viaggi illustra con foto dello stesso Bevilacqua. Passeggiatore compulsivo, promotore del Wwf e del Cai in Calabria, da trent’anni iconografo riconosciuto, praticamente unico, con Alfonso Picone Chiodo, per le sue numerose pubblicazioni, della Montagna. Della Calabria cioè, che è tutta montagna.
La storia della Calabria è costiera, la natura è montanara: vertiginosa, sorprendente, e chiusa, perfino cupa. Bevilacqua ha saputo infine fotografarla, dare alle sue forme un linguaggio comprensibile ai più, nelle asperità, le connivenze, le sorprese, le luci, i colori. Qui intervalla i racconti di escursioni, utili anche come guida pratica, con la migliore letteratura di viaggio. Norman Douglas naturalmente in dose più abbondante, il nume ispiratore. Da cui il metodo sembra tratto, poiché si salta da Antonio Barca, “uno dei maggiori appassionati dell’Aspromonte”, che sui Piani di Carmelia ha creato e gestisce “il grazioso rifugio «Il Biancospino» e a Norman sarebbe piaciuto moltissimo”, a Alexander von Humboldt, “uno dei più grandi esploratori di tutti i 
tempi” – Douglas scriveva per associazioni. “Norman” Bevilacqua richiama anche per la profondità, psicologica (personale), culturale, di simpatia con gli uomini e le cose, che sempre erompe e fa questo libro bello: amabile a leggere, e di impatto durevole. Un caso anche raro, in Italia, di scrittura di viaggio.
Con qualche reticenza. Ricorre ovunque il disboscamento dissennato della Sila e dell’Aspromonte, senza mai dirne la curiosità principale: che fu opera della famiglia Feltrinelli. Che fu all’origine delle fortune della famiglia negli anni 1920-1930. E anche, se vogliamo, dell’Aspromonte, di una piccola parte di esso, Gambarie, la sola ancora attrezzata per l’ospitalità, con alberghi e locali pubblici. Il primo chiosco sorse a Gambarie, alla vigilia della guerra, a opera del signor Carlo, un lavorante lombardo o veneto dei Feltrinelli: un capanno in legno, a ristoro dei cacciatori, allora numerosi, aperto la gran parte dell’anno.
Bevilacqua non colma un vuoto, questa Calabria-Montagna è ancora vuota, ma segna un inizio molto buono. Lui stesso dice che la Calabria non si può conoscere perché è impossibile: “Se consideriamo che in Calabria, a occhio e croce, ci sono circa 700.000\800.000 ettari di montagne che possono essere percorse a piedi per gran parte prive di sentieri segnati, dal Pollino all’Aspromonte, più tutte le zone collinari contermini, che spesso presentano anch’essi ambienti di eccezionale bellezza, ecco, allora, che non basta la vita di un uomo per conoscere davvero tutta la natura calabrese”. Non è vero, e lui ne è la dimostrazione – ma non è in vasta compagnia.
Perché è la Calabria?
La stessa collezione che ospita il suo libro mette in risalto che la conoscenza della Calabria “interna”, naturalistica, orografica, antropologica, è ferma al primo Ottocento e a viaggiatori quasi tutti stranieri, nonché alla “Vecchia Calabria” di Douglas un secolo fa. Bevilacqua segna infine una ripresa. Sembra poco ma è moltissimo. Egli stesso sa di essere – essere ritenuto – un eccentrico, se non un maniaco. Quando si può fare tutto comodamente in fuoristrada.
Giustamente allora Bevilacqua parla di sé, sotto la falsa modestia dell’omaggio a Douglas. Per il ruolo per molti aspetti di pioniere nella presentazione della Montagna, dell’immagine che ne fa – ne farà – la sostanza. Anche nel problema esistenziale che bizzarramente – il quesito è un po’ revulsivo – pone all’inizio: perché restare in Calabria. Non un suo problema, s’intuisce per fortuna, ma dei suoi amici che di continuo glielo pongono. A cui, forse per non dispiacere loro, Bevilacqua non oppone la semplice verità: perché la Calabria non è un problema, non può esserlo nemmeno per spirito polemico, quello è un problema di chi se ne va – può esserlo, non lo è di tutti. Che deve “giustificare” la sua scelta di un’altra identità, sempre ardua e ultimamente contestata, dal leghismo e non solo.
Scegliere un altrove è sentito come cruccio da tanti intellettuali meridionali, una mistura di colpa, rimpianto, e avversione. Mentre altrove non lo è. Il fenomeno è infatti esteso, non si va via solo per disperazione. Molti milanesi hanno scelto Firenze o Roma, da ultimo Gadda e Arbasino (ma lo stesso Manzoni: quando non era in Toscana, dopo Parigi, se ne stava a Brusuglio), dove sono evidentemente a loro agio, senza problemi per loro né per Milano. A Napoli invece, in Sicilia, in Sardegna, e di più in Calabria, andare via si vuole un problema e una colpa. In Calabria di più perché non ha le positività, di storia, cultura, aggressività, di Napoli e della Sicilia, o di recupero della tradizione in Sardegna, anzi è tutta in perdita, ogni respiro vi va conquistato. Ma questa è palesemente una condizione interiore, di disadattamento, più che un una condizione reale, regionale. Bevilacqua lo risolve col “viaggiare restando”. È una soluzione, ma presuppone un’innecessaria colpa Calabria.
Perché non è la Val Gardena?
C’è insomma anche qui, irrimediabile l’odio-di-sé – ingiustificato anche quando è giustificato. Perché Bivongi e la valle dello Stilaro non sono Selva e la Val Gardena?  E come potrebbero esserlo? O il turismo cafone. Che in Calabria non c’è: il turismo non c’è (ha fatto mai Bevilacqua il Gran Paradiso, in fila sui sentieri, in coda?), mentre c’è la sporcizia e la strafottenza. Lasciano perplessi anche alcune pagine “douglasiane”. L’invidia, o il malocchio, come psicologie calabresi. In Douglas erano una spiritosaggine, riprenderle non più. Specie se si assommano alle mafie, alle ecomafie, alla cattiva politica e alla speculazione – alla speculazione? Per non dire forse la maleducazione, invasiva con l’irresistibile incontrollabile democrazia-demagogia-demografia - demo è parola rispettabile, ma non quando non la si fa rispettare. Questo è. E la violenza, le rabbie irrefrenabili. Nemmeno di sopraffazione, solo violenza: si spara per collera. Contro un popolo che più inerme e mite non si può immaginare, quasi incapace – si può dire popolo, non si può dire società, e anche questo è un problema, se non il problema. Perché in certe famiglie non si coltiva che la violenza - raramente contrastata - e spesso a buon diritto, sotto le specie della rivalsa sociale.
Un caso fra i tanti. Si prenda ciò che il politicamente corretto chiama “disastro ambientale”, la sporcizia cioè, le discariche più o meno velenose, e l’abusivismo illimitato, oppressivo. Di cui la responsabilità è, sempre per la correttezza, imputata alle “ecomafie” e alla “corruzione politica”. Mentre è l’esito della democratizzazione. Giusta e necessaria ovviamente, ma illimitata e aggressiva. Il favoritismo, o “corruzione” politica, ne è un aspetto – da cui il deprecato notabilato andava esente (Salvemini avesse saputo…). L’esasperato anarchismo proprietario un altro. Se mi costruiscono davanti, di dietro e sopra la casa, non posso dire nulla, hanno il “diritto” di farsi o migliorarsi la casa. Costruzioni naturalmente mai finite, perché i soldi scivolano e i mutui vanno pagati – il “diritto” è, non innocentemente, della banca. L’ascesa da Delianuova al Montalto, di cui Bevilacqua riesuma qui il racconto di Douglas, fatta personalmente numerose volte, come tanti altri del resto, non è vero che il calabrese non ama la montagna, non meno dell’abruzzese o del piemontese, e più volte a stagione per molti anni, da quando il moto alluvionale democratico non ha avuto più limiti, diciamo da 35-40 anni, è impossibile: tutto è stato recintato, e non per preservare alcunché, perché tutto al contempo è stato abbandonato, gli orti, i meleti, i castagneti, la cava di pietra verde e la stessa industria del legno (c’erano mobilieri in paese che non ci sono più, si e comprato a lungo in Brianza, ora c’è l’Ikea), il lavoro di almeno un secolo, forse due, buttato lì, alle felci e l’inselvaggiamento, sotto l’albagia neo padronale. La piazza di questo stesso paese montuoso, il più elevato dell’Aspromonte, aveva un affaccio sulla ex valle delle Saline fino al mare, che ora non ha più: un parallelepipedo di quattro piani alti per trenta metri di fronte lo ingombra. Non terminato e non abitato.
Ma il libro non si segnala per le assenze quanto per le presenze. Con molte pagine infine, queste sì douglasiane, di amore-di-sé meridionale. Di curiosità e comprensione, che aprono orizzonti al lettore. A partire dalla semplice ‘mpanata, uno dei tanti modi d’insaporire il pane, che era il solo alimento – companatico, parola disusata, era lo stuzzichino per far ingollare più pane, roba sapida, salami, pecorino, sottolii, e anche le concrezioni di latte di pecora ancora calde nel loro siero, una volta che le ricotte sono state estratte e messe in forma per il mercato o la conservazione. La capanna da pastori a cono nella valle del Trionto sopra Longobucco, rivestita di fronde di ginestra: una copertura che lascia passare il fumo e il vapore acqueo del fuoco all’interno, ma è impermeabile alle piogge – “una funzione analoga a quella del Gore-tex!”. Le “Pietre”, voluminosi ammassi calcarei che segnano i crinali e gli altopiani, soprattutto nell’Aspromonte, Pietra Cappa, Castello, Salva, di Febo, Mazzulisà, qui col contorno di “un centinaio di giganteschi pini larici alti sino a 40 metri e con diametri di 2 metri alla base e decine di querce, una delle quali raggiunge gli 11 metri di diametro alla base”, Rocche di San Pietro, dell’Agonia, degli Smaleditti, etc., con modeste "meteore" eremitiche. O il culto della Madonna, così diffuso ma inesistente fino a un millennio fa, introdotto nell’ambito della latinizzazione, in tutte le forme immaginabili, facendo aggio sulle antiche forme di religiosità femminili, in sostituzione dei santi “meridionali” (greci, bizantini).
Fare l’elenco delle sorprese è inutile: sono il libro, il piacere della lettura. L’impegno di Bevilacqua,  riuscito, non è da poco: mostrare che “la bellezza regna sovrana nei canyon e sulle «timpe» dolomitiche del Pollino, nelle forre e tra i dirupi andini dell’Aspromonte, nelle abetine svizzere e nei fiumi cristallini delle Serre, nelle pinete scandinave e nelle valli arcadiche della Sila, nei boschi selvaggi dell’Orsomarso e nelle faggete nebbiose della Catena Costiera occhieggianti verso il Tirreno”.   
Francesco Bevilacqua, Sulle tracce di Norman Douglas, Rubbettino, pp. 292 € 7,90