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sabato 13 giugno 2020

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (428)

Giuseppe Leuzzi

Core, la “fanciulla”, che Ate rapisce in matrimonio, significa anche “occhio”. Segna il passaggio, dice Calasso, dall’invisibile al visibile. Dal “serpente”, l’ignoto, violento, al “fiore del visibile, e quel fiore era Persefone”. Il cui rapimento si compì “nell’ombelico della Sicilia, vicino a Enna”, e il cui culto si celebrava a Locri in Calabria. Che la svolta epocale indotta dal connubio non si sia ancora prodotta?
 
“All’uso del dialetto in Italia corrisponde sempre una crisi del linguaggio colto e dunque della classe dirigente. Non è un caso che i tre maggiori scrittori dialettali italiani, il Goldoni, il Porta e il Belli, sono raggruppati intorno agli anni della Rivoluzione Francese, la quale trovò le classi dirigenti italiane del tutto impreparate, in un secondo momento, avverse” – Alberto Moravia, “Risposta a nove domande sul romanzo”, 1959 (ora in “L’uomo come fine”). È vero della Lega, specie nel Veneto, ma di più del Meridione. Mai si era parlato nel dopoguerra un dialetto - a Napoli, nella Calabria reggina, le aree sociali più disastrate - così chiuso e cupo, mentre usava addolcito e anzi italianizzato.
 
Procede cauta, malgrado l’ecatombe, l’inchiesta sulle responsabilità politiche nella gestione del coronavirus in Lombardia. Quando i fatti sono noti: il “miglior sistema sanitario d’Italia” aveva - e ha - le liste d’attesa più lunghe. Compresi i ricoveri d’urgenza: l’attesa al Pronto Soccorso si poteva farla durare fino a 24 ore – anche a 36 a Codogno, il focolaio della pandemia. Cose che sanno tutti.
Inutile dire cosa ne avrebbero fatto una Procura calabrese o siciliana, Gratteri per esempio  o Di Matteo, se il contagio si fosse diffuso in Calabria o in Sicilia. Il rispetto per se stessi è un male o un bene?
 
Alvaro antropologo cosmopolita
Riesaminandolo su consiglio di una lettrice per il “Robinson”, per la serie degli scrittori da riscoprire, Paolo Mauri ritorna sulla sua definizione di Corrado Alvaro come di “uno scrittore antropologo”. E lo fissa sulla memoria, che fatalmente è quella dell’infanzia e adolescenza, quindi del padre, dei collegi, e dell’ambiente natio. Dei quali, per la verità, poco si evince dalle narrazioni di Alvaro, mentre molto si sa di fatto. Ma è vero, è l’Alvaro quali siamo abituati a leggere, di “Gente in Aspromonte”, di “L’età breve”, e poi di “Mastrangelina”, della vita primitiva, violenta, del mondo dei bambini separato, della madre che a tavola serve e controlla, attenta ai sussurri, ma non si siede. Lo scrittore pero però aveva tutt’altro spessore, cosmopolita, in un’epoca in cui era difficile non essere provinciale, regionale. Un migrato mentale fin da subito, si può supporre, dai primi studi, in collegio prima dell’espulsione (dal collegio gesuita di Mondragone – lo espulse padre Lorenzo Rocci, quello del vocabolario greco) e in stanze d’affitto. Ne sono testimonianza il corposo volume Bompiani degli “Scritti dispersi 1921-196” raccolti da Mario Strati e Walter Pedullà nel 1995, e “Le corrispondenze per «Il Mondo» da Parigi, 1922-1925”, editate da Anne-Christine Faitrop-Porta. In questa prospettiva, rileggendolo, resta un fine antropologo, ma da esterno: non memorializza, osserva. Non condivide, come una rilettura può confermare, ma dettaglia.
In realtà Alvaro è perseguitato dall’origine: il paese, povero, poverissimo, e poi malfamato, il padre, l’orizzonte basso, l’allontanamento forzoso. Non si è riconciliato. Di fatto, tornando, una o due volte, malvolentieri – accettandolo per quieto vivere, per liberarsi dal rischio ossessione. E di poetica: ne media (non) molti umori ma come sa fare anche a Parigi, primo traduttore italiano di Proust (“La prigioniera”, sul “Mondo” di Amendola, 1922), e a Berlino.
Si fa presto a dire Calabria. Che è – può essere - molte cose. Già negli anni dell’infanzia di Alvaro. Tra San Luca e Polsi - asse oggi sfigurato dalla malavita - l’arcaismo è feroce. Solido, si direbbe, e elastico. Mitico, cioè violento e non idillico, come la parola ha finito per figurare.
 
Presentat’arm – la mafia nel 1956
In “Onora il padre”, 1971, Gay Talese racconta in apertura la tappa siciliana del viaggio di nozze di Bill Bonanno, figlio bello, alto e coltivato del boss di mafia newyorchese Joseph, altrettanto bello e imponente, come un “ritorno a casa”. Castellammare del Golfo come un luogo natìo, la famiglia allargata con le faide anche intestine come una necessità, benché rischiosa. Era il 1956 – fine agosto. Talese s’immagina troppo? È possibile. Ma le radici esistono, ben più larghe e impositive del dna, contano, pesano.
Castellammare Talese inquadra come “un tranquillo villaggio di pescatori ai piedi di una montagna”, come di fatto è. Di cui “un’informativa pubblicata” voleva “che l’80 per cento della popolazione maschile adulta era stato in prigione”. Questa è verosimile, l’informativa – inutile chiedersi se veritiera: dà l’idea. E l’arrivo in aereo della coppia a Palermo salutato da una folla in attesa, capitanata dallo zio calvo di Bill, John Bonventre, che si era ritirato in pensione l’anno prima “dagli affari” a New York, “portandosi dietro la fornitura di una vita di carta igienica”. Con concorso di baci e abbracci da parte della folla di sconosciuti, e sconcerto degli americanissimi sposini. Questo è verosimile, e vero. La coppia veniva da un ricevimento di nozze per oltre 3.000 invitati nei saloni dell’Astoria Hotel, il più in di New York, onorevoli, ecclesiastici, e tutte le “famiglie” mafiose di Stati Uniti e Canada – le mafie italo-americane. “Non c’era di fatto un grande allarme pubblico sulla mafia nel 1956”.
La folla in attesa in aeroporto Talese dice inquadrata dai Carabinieri in alta uniforme. Che “osservarono impassibili per qualche momento, poi si fecero di lato, aprendo un varco” nella folla al parco automobili “illegalmente parcheggiate in attesa”. Le automobili, dunque, “parcheggiate illegalmente”.
Il presidio militare Talese dice di “Carabinieri statueschi, in divise sgargianti, brandenti luccicanti sciabole argentate, torreggianti sulla folla”. L’alta uniforme dei Carabinieri contemplava la sciabola al fianco. Ma dentro il fodero, e non si sa quanto arrugginita più che luccicante. L’alta uniforme era di panno duro, e ad agosto a Palermo, all’aeroporto senza una linea d’ombra, non è pensabile. Ma c’è rispetto per la mafia in Talese, in altra narrativa formidabile narratore delle origini, “Ai figli dei figli”, 1992 - un mondo senza mafia, se non ridicola. Il problema è la mafia nel 1956.
 
Il disordine della legge     
Carabinieri severissimi durante il lockdown, in Calabria, in Sicilia. Ma sempre come scesi dal cielo, cattivissimi. Con multe da centinaia e migliaia di euro da cui ora è difficile liberarsi. Un ristoratore che non faceva cento euro al giorno col cibo da asporto multato di settecento perché la regione Calabria due ora prima aveva decretato il non-asporto. Decreto peraltro sentito alla radio, genericamente, e solo da uno dei due Carabinieri. O i soliti giornalai insolentiti e minacciati. Per vendere anche cartoleria, come da licenza. Oppure per tenere aperto la domenica mattina.
C’è, per i Carabinieri stanziali come per i vigili urbani in città, un problema di formazione-informazione. Quindi anche - di più - sulle regole mutevoli che
 il contagio ha imposto. Formazione-informazione che evidentemente non si fa – lavorare stanca. Ma c’è al Sud, nei Carabinieri di paese, un atteggiamento ostile. Prevenuto. Frutto evidentemente non di personalità o umoralità ma di scuola: il Carabiniere, milite, sottufficiale, ufficiale, viene mandato al Sud prevenuto. Con l’ordine di antagonizzare la gente. Che è la maniera sbagliata di applicare la legge.

Si capisce che, malgrado gli arresti mattutini di trenta-quaranta, anche settanta e ottanta, i delinquenti al Sud crescono e si moltiplicano.
La droga, certo, e il riciclaggio, i delitti ora più comuni, non sono certo da imputare ai Carabinieri. Ma una volta il Carabiniere era parte della comunità, la sua parte migliore, col medico condotto, il prete e pochi altri. Ora è un nemico.
Non è un novità. Per esperienza personale si può testimoniarla attitudine normale già negli anni 1960. Ma si vede che in cinquant’anni la cosa non è migliorata. Il quesito è sempre quello: perché antagonizzare gli onesti?
 
Sicilia
Sulla scia di Camilleri, che era sulla scia di Sciascia (la scia di Sciascia…), la Sicilia è “diventata una vera nursery di funzionari di polizia e di appassionati investigatori”, calcola Salvatore Ferlita su “la Repubblica-Palermo”. Compresi “un fanatico del caffè, un diabetico, e ora un indolente”.
Ma, dice anche Ferlita, “si moltiplicano gli investigatori di carte figliocci di Sciascia e Franco Enna”. E chi è Franco Enna? È “famosissimo autore di gialli e apprezzato scrittore di racconti di fantascienza”. Pseudonimo, di Franco Cannarozzo.
 
Ferlita elenca una ventina di investigatori made in Sicily – anche forestieri al lavoro in Sicilia, e viceversa. Ma solo investigatori in divisa, mancano quelli che all’induzione arrivano per altre esperienze, il biologo La Marca di Santo Piazzese, e altri.
 
2014, operazione Mafia Capitale, i siculi Pignatone e Prestipino esportano la mafia a Roma - che la Cassazione ora sancisce non esserci: nessuna minaccia, tutti volentieri si facevano  (si fanno) corrompere con le mazzette. Due giudici, non due mafiosi, il capo e il vicecapo della Procura della capitale.
 
Si direbbe la mafia ossessione sicula. Ma non di Camilleri, per esempio, e nemmeno, alla fine, di Sciascia, con tutta la “linea della palma” che sale, sale. Forse dei magistrati siculi. Ma anche qui  con eccezioni: Chinnici per esempio, Falcone, Borsellino, che i mafiosi semplicemente mettevano dentro. Di alcuni giudici, buon trampolino di carriera. Senza impegno (fatica), basta la parola.
 
Il Marty di Rovereto, cioè Sgarbi, chiedeva in prestito a Siracusa un Caravaggio, per una mostra su Caravaggio incentrata proprio sul “Seppellimento di santa Lucia”, nella chiesa di Santa Lucia alla Badia (chiusa, n.d.r.), di cui avrebbe finanziato con 350 mila euro il restauro – un restauro “in attesa da quindici anni”, dice Sgarbi. Una tempesta: mai Caravaggio si deve allontanare da Siracusa, sia pure il tempo di una mostra. Meglio perderlo il Caravaggio che prestarlo: Siracusa è città civile, ma si vede non troppo.
 
La critica locale, oltre che gli antisgarbiani di tutta Italia, assicurano che ora il restauro della “Santa Lucia” si farà. “Abbiamo un preventivo”, assicura Paolo Giansiracusa, “servono 42 mila euro e gli imprenditori ed esercenti di Siracusa daranno vita a una colletta”. Basteranno, ammesso che si raccolgano? Tanto più che non è il Caravaggio che ha bisogno di restauro ma la chiesa, troppo umida. L’orgoglio ha un prezzo, certo. Ma perché farlo pagare a Caravaggio?
 
Alberto Samonà, di grande famiglia sicula, persiana nel lignaggio paterno, spagnola per parte della bisnonna principessa Monroy di Pandolfina e di Formosa, uno zio o prozio accademico e importante narratore, Carmelo Samonà, un altro, Giuseppe Paolo, creatore di Samonà e Savelli, l’editrice del Sessanotto, neo assessore alla Cultura della giunta regionale siciliana, di centro-destra, poeta, scrittore, organizzatore culturale attivo e di idee, subito all’opera per una commemorazione della Shoah, si scopre che si è illustrato non molti anni fa, nel 2001, con un inno alle SS, e appena un anno fa con l’“estremo saluto al comandante” Stefano Delle Chiaie. In Sicilia si può.
 
Palermo abbonda di falsi, spiega Sergio Troisi su “la Repubblica-Palermo”. L’oratorio di san Lorenzo, dove nel 1969 fu rubata la “Natività” di Caravaggio, non più ritrovata, è teatrino sacro settecentesco creato da Serpotta in cui quasi niente è originale: strumenti musicali, figurine scolpite, perfino i piani di appoggio. Lo stesso per molti monumenti, ricostruiti o riadattati: Porta Felice, Casa Professa, la facciata di san Francesco, la volta affrescata di san Giuseppe dei Teatini, l’elenco è lungo. 
 
Rievocando le sue estati con Sciascia a Racalmuto, per il docufilm “L’infinito istante” sulla sua ultracinquantennale attività, il fotografo Giuseppe Leone, “della contea di Modica”, ricorda Vincenzo Consolo inquieto, e triste: “Era molto emotivo. Si rattristava per il suo isolamento”, a Milano dove risiedeva: “Si sentiva staccato dal contesto letterario del Paese. Negli ultimi anni gli dicevo di tornare a vivere in Sicilia. Non l’ha mai fatto, forse aveva paura”.

leuzzi@antiit.eu

La vita osservata

Il Libro Primo (I-XXIX) Bertolucci intitola “Romanzo famigliare (al modo antico)”, poi “O città sospirata…” e “Eterna giovinezza”. Il  secondo (XXX-XLVI) “La pazienza dei giorni”, “Nell’alta valle del Bratica”, “La partenza” - per Roma. La scansione di una vita, fino ai quarant’anni, nel 1951. Quando cambia mondo, su sollecitazione di Longhi, suo maestro di studi e di vita, che lo ospiterà anche a lungo a Roma, ritenendolo sprecato nell’angustia provinciale.
Si ripropone, con un saggio di Nicola Gardini, il problema Bertolucci. Della sua poesia narrativa. Non di eventi, non c’è un plot, di osservazioni. Non una antologia, persone e eventi giustapposti. Naturalmente scelti, a comporre un’aura. Prosaico quasi di programma, non c’è effetto musicale nemmeno occasionale.
La famiglia, i genitori, i nonni e bisnonni, la moglie, i figli. La materia non gli manca: già nei primi anni 1980, quando modella il poema, i figli Bernardo e Giuseppe sono quello che si sa. E Nina, la moglie, che è bella (sempre giovane) e compagna, fino all’ultimo, agli anni, ai decenni, della depressione di Attilio, che si vedeva in giro funereo – forse per effetto dello spaesamento: Attilio sarà cittadino laborioso ma a disagio. Nina soprattutto, che lui ricorda neo laureata e subito supplente in una scuola di suore vicino casa, “s’e fatta allungare appena il grembiule nero\ che portava al liceo”. Provincializzata da un’infanzia cosmopolita: nata in Australia, nel Nuovo Galles del Sud, da padre italiano e madre australiana di ascendenza irlandese, laureata a Parma con una tesi su Catullo. Suo è il poema. Non si dice perché Nina si voleva discreta, dietro i suoi uomini.
La partenza per Roma, che chiude il poema, è per A. e N. “trasferimento imprevisto,\ quasi senza ragione  a metà della vita e sul declinare dell’anno”. La nostalgia, quindi, nella consistenza pur durevole della famiglia, della tradizione, al tempo dei grandi cambiamenti. Che si risolve in chiave di elegia, sulla traccia di Esiodo, delle opere e i giorni declinati in ambito familiare, personale. Non delle care memorie: della vita come viene. A uno che la osserva nel mentre che la vive.
Attilio Bertolucci, La camera da letto, Garzanti, pp. 400 € 18


venerdì 12 giugno 2020

Il popolo dei mingong, migranti poveri in Cina

Cos’ha deciso la terza sessione del tredicesimo Congresso Nazionale Popolare cinese l’ultima settimana di maggio? Non si sa. La materie erano importanti: il coronavirus, la recessione, il rapporto con gli Stati Uniti, Hong Kong. Ma nessuna decisione è stata comunicata. Forse non è stata presa: il Congresso è solo la cinghia di trasmissione del partito Comunista Cinese, un organo di pura rappresentanza. È la non piccola anomalia del paese che molti in Italia e in Europa già considerano guida. Perché fa e promette affari, con larghezza – ce n’è per tutti. Poco importa che lo faccia anche con durezza.
I problemi si può solo provare a ipotizzarli da quello che si sa della Cina oggi, anche se poco. Unanimità nel confronto con gli Stati Uniti, con un senso di sfida. E un difficile rilancio dopo il lockdown
Sul rilancio della produzione, per attutirne il crollo, Pechino fa ancora sicuro affidamento sulle “catene di valore” mondiale di cui è riuscita – capitali pubblici e privati insieme - a fare perno sulla Cina.  Ma con un punto specifico cinese: l’assistenza, se non il salvataggio - per i mesi di non-lavoro e di mancati introiti vitali - dei lavoratori migranti interrni, mingong, che in Cina cono un’enormità, 290 milioni, e sono classificati come “lavoratori a basso reddito”. Quasi tutti, l’85 per cento del totale, senza assicurazioni sociali. E fuori anche dall’assistenza locale ai poveri, perché il cambio di residenza è scoraggiato dalle leggi malgrado l’ingigantirsi delle migrazioni interne – la Cina è una grande Italia degli anni 1950-1960. 


L'Europa delle donne

L’Europa si ritrova governata da tre donne: Christine Lagarde alla Bce, Ursula von der Leyen alla Commissione di Bruxelles, Angela Merkel domina dei nordici (nonché dei mediterranei) – e una donna potrebbe andare a presiedere l’Eurogruppo. Hanno grandi poteri e mostrano di volerli esercitare. Potrebbe essere una rivoluzione, non solo di genere. O potrebbe essere stata - niente per ora cambia?
Lagarde si distingue per avere adottato, dopo una prima grave incertezza, la linea del suo predecessore Draghi. Merkel è ferma alla sua sempiterna mediazione, contro i dominanti sovranismi, ma non esce, e ormai sono dodici anni, dal “troppo poco troppo tardi” che è diventato il suo trademark. Von der Leyen ha idee giuste: ricollocare l’Europa nel digital divide e nell’ecobusiness. Ma prima dovrebbe rivoluzionare la burocrazia europea, il modo di essere dell’indecisione.
L’Europa, malgrado il cambiamento radicale di personale, resta ancorata all’indecisione. Il fantasma dell’inattività post-crisi bancaria, 2008, che l’ha caratterizzata, unica fra le tre grandi aree economiche mondiali, della ripresa lenta e debole dell’economia, non sembra avere capito la lezione. Gli annunci sono strepitosi dopo il blocco dell’attività, ma niente poi è stato deciso, né si sa come e quando si deciderà di intervenire. Fermi ora al blocco imposto dai governi cosiddetti “frugali”, che però non è un blocco, se Berlino volesse veramente, e Bruxelles con Berlino.
Un giorno si dirà che nella crisi spaventosa del 2020 l’Europa era governata dalle donne. Ma con che esito?




Heidegger ancorato ai vecchi primati nazionali

La questione Heidegger – tra nazismo e antisemitismo - vista da un altro punto di osservazione: l’identità tedesca, ossessione dei suoi discorsi politici, di alcune lezioni e di molte annotazioni nella prima metà degli anni 1930: “Chi samo noi? Che significa avere un’identità – in particolare che significa essere tedesco?”.
L’idea è venuta allo studioso dell’università di Barcellona, autore di un “Heidegger and the emergence of the question of being”, nonché ultimamente di un “Heidegger’s Black Notebooks and the Question of Anti-Semitism”, con la domanda che apre i “Quaderni neri”: “Chi siamo noi?” - noi tedeschi, non noi esseri umani. Un interrogativo non casuale: la questione Adrian analizza su tre tracce. Soprattutto rivedendo lo Hölderlin di Heidegger, acculato alla nozione di “Germania segreta” (Geheimes Deutschland) che era stata invece elaborazione dell’antimodernista Circolo Stefan George, di due dei suoi membri più rilevanti, Norbert von Hellingrath e Max Kommerel. La nozione di “Germania segreta” era stata comune a tutto il romanticismo, a Fichte, Schiller, Herder, Heine tra i tanti, che spesso, commossi, “evocano una grande, misteriora, celata e ignota Germania che deve ancora venire”. Mentre Hölderlin, proprio lui, ne aveva concezione diversa, e definita: “Tutti i gli accenni di Hölderlin alla «Germania segreta» si riferiscono al suolo nativo (Heimatboden) e al radicamento (Bodenständigkeit). Ma il suolo natio e il radicamento sono intesi non in forma materiale quanto piuttosto in termini poetici e linguistici. Secondo Hölderlin, l’essenza del tedesco è costituita dal suo linguaggio natio” – allo stesso modo, si può aggiungere, come la concepirà Hannah Arendt. E da una poesia che “istituisce e fonda il sito storico per l’esistenza del popolo”.
Nasce in questo ambito anche, va aggiunto, l’allontanamento di Goethe dal mainstream della Grande Germania o Germania segreta, che avrà tra gli epigorni, fra i tanti, Thomas Bernhard.
La “Germania spirituale segreta” è citata apertamente in un discroso del 1934 indirizzato agli studenti stranieri, “The German university”. Il nuovo spirito, spiega Heidegger, è stato risvegliato da tre grandi poteri che hanno operato tra il 1770 e il 1830: “1) La nuova poesia tedesca: Klopstock, Herder, Goethe, Schiller e i Romantici; 2) la nuova filosofia tedesca: Kant, Fichte, Schleiermacher,  Schelling, Hegel; 3) la nuova politica degli statisti e militari prussiani: von Stein, Hardenberg, Humboldt, Gneisenau, Clausewitz. Poeti e pensatori hanno creato un nuovo mondo spirituale nel quale la prevalenza della natura e i poteri della storia erano ritenuti in una tesa unità nell’essenza dell’assoluto”. Una conclusione heideggeriana, ambigua, che però il prosieguo spiega, con due definizioni restrittive di libertà, in questo nuovo spirito tedesco: “Libertà significa: l’obbligo di sottomettersi alla volontà dello Stato. Libertà: responsabilità per i destini del popolo”.
Fatta la tara dell’eloquio, un Heidegger in linea con la coda dei “primati nazionali” ottocenteschi, del secolo delle nazionalità. Che però assume una diversa coloratura alla luce delle altre due tracce seguite da Adrian. I riferimenti insistenti al völkisch , popolare, e alla “germanicità”, Deutschtum. Che lo apparentano alla destra conservatrice. Meglio impersonata, ma allora con più acume politico, da Ernst Jünger. E soprattutto la duratura insistenza, fino agli ultimi giorni, tardi anni 1970, sui caratteri anzionali, di americani, inglesi, russi e, in questo quadro, ancora ebrei, come distinti dal Deutschtum.
L’esito è noto, anche se sottovalutato: un’identità tedesca definita in termini di storia, tradizione e linguaggio, ma anche di destino e missione.,
Jesus Adrian, Who Are We – the Germans? Heidegger on the German and Jewish People, free online


giovedì 11 giugno 2020

Cronache dell’altro mondo - il cinismo del razzismo 60

Più di 27 milioni di lavoratori negli Stati Uniti non ha assicurazione sanitaria
Circa 35 milioni di lavoratori, nel settore privato, non ha il congedo malattia: chi si ammala non si paga.
Il risparmio si è molto ridotto negli Stati Uniti con la crisi dei mutui 2007-2008: la Federal Reserve stima che quattro famiglie americane su dieci non hanno abbastanza risparmi per coprire tre mesi di spese di emergenza senza nuove entrate, come il trimestre passato in lockdown  per il coronavirus. Mentre la durata media di ogni recessione, dal 1945 al 2001, stima la stessa Federal Reserve, è di almeno dieci mesi.
Il salvataggio delle banche nel 2008-2009 fu fatto a favore degli investitori e a danno dei mutuatari, spiega Francesca Mari sulla “New York Review of books”. A opera dei presidenti Bush jr. e Obama, con un intervento pubblico di 700 miliardi di dolari. Spesi per salvare chi aveva investito nei mutui spazzatura. Mentre decine di migliaia di mutuatari hanno semplicemente perduto la casa – e i ratei già pagati.
Il produttore-distributore cinematografico Hbo mette fuori circolazione “Via col vento”, dichiarandolo razzista. Nel mentre che infuriano nelle città americane le manifestazioni e qualche sommossa antirazzista. Lo fa come promozione pubblicitaria, gratuita. Col rischio di alimentare il razzismo, se c’è, o di rinfocolarlo - Dolan, Greenblatt, Stankey, i padroni-dirigenti di Hbo - Warner - At & T, sono tutti solidamente bianchi.


Il nemico di se stesso

“Ci sono dispiaceri che lentamente corrodono la mente come un cancro”. La paura della follia, che è già follia – “la mia propria follia”, continua il narratore di questo romanzo, “è che domani possa morire senza essere riuscito a conoscere me stesso”. Sulla duplice ossessione Hedayat costruiva nei primi anni 1930 a Teheran questo breve denso romanzo della pace interna impossibile.
Un giovane problematico incontra la ragazza dei suoi sogni – che lo porta a pensare reali i sogni. È l’inizio di un discesa all’inferno, che lo condurrà, passo dopo passo, fedelmente registrato, alla follia tanto temuta. Con scrittura secca, senza arzigogoli.
Tradotto in America negli anni 1950, “La civetta cieca” sarà avvicinato alla narrativa di E. A. Poe. Ma con più verosimiglianza il nome da fare è Kafka. Non per la scrittura, per l’insondabilità – il muro. Di fatto il romanzo è molto iraniano: ha radici nella mistica e la poetica della tradizione – di un altro Iran, cioè, anche se i quarant’anni di tirannia islamica non ne hanno spento gli umori, tuttora percettibili nella poesia, che non si traduce, e nella cinematografia. E, per quanto riguarda Hedayat, nei numerosi racconti che ha lasciato, oltre questo romanzo, scritti talvolta in francese (gli studi Hedayat aveva fatto al liceo francese di Teheran) – alcuni tradotti quarant’anni fa nei Narratori Feltrinelli.
Hedayat, ostracizzato, dalla ricca aristocratica famiglia e da se stesso, dalle sue paure e ossessioni, morirà a Parigi suicida nel 1951 – sepolto peraltro tra le celebrità del Père Lachaise. Di 48 anni, dopo un’attività intensa di traduttore in patria, di Kafka appunto e Poe, e di Maupassant, Rilke, Čechov, Sartre, Schnitzler, e di critico letterario. Aveva già fatto a vent’anni un soggiorno a Parigi, con identico tentativo di suicidio, salvato dal fiume da un pescatore intempestivo. Dopo gli studi di ingegneria a Bruxelles, presto abbandonati. Tornato a Teheran, lavorò alla Banca Nazionale, per un periodo breve, di malavoglia. Fu a lungo in India, da neofita vegetariano, per recuperare l’antico persiano pahlavi, e immergersi nello zoroastrismo di una comunità parsi.
Tradotto dall’originale da Anna Vanzan.
Sadegh Hedayat, La civetta cieca, Carbonio, pp. 135 € 14,50


mercoledì 10 giugno 2020

La peste è sempre occidentale

Al 9 giugno, secondo i conti dell’ECDC, lo European Center for Disease Prevention and Control, il coronavirus vede sempre l’Europa in testa per contagi, 2 milioni 84.509 (il conteggio parte dal 31 dicembre). E anche per morti: 179.385. Seguita dagli Stati Uniti per numero di contagi, un milione 961.185. E per numero di morti, 111.007.
Ma cresce il Sud America, rapidamente: per numero di contagi, circa un milione 250 mila casi. E per numero di morti, circa 75 mila.
Il resto del mondo, specie l’Asia, ma anche l’Africa, è stato finora relativamente risparmiato. L’Asia, malgrado la sovrappopolazione, conta un milione 375.372 contagi.
Anche l’Africa è relativamente risparmiata: i contagi sono stati 196.570, le morti 5.346 – meno di un terzo della Lombardia.
Il virus si può dire sempre “occidentale”, specie se si conta anche il Sud America.
Oppure le statistiche sono benevole nei paesi controllati – tanto, la verità è inutile ai cittadini, il potere fa già da sé abbastanza paura.


Appalti, fisco, abusi (174)

Gli abbonati a Sky  Sport e Sky Calcio hanno pagato quattro mesi senza un solo programma da vedere. Senza nessun abbattimento dell’abbonamento. Senza nessuna possibilità di rifarsi.
 
L’Eni publico, allora Agip, vantava la benzina meno cara. Dacché è privato, la fa pagare in autostrada dieci-quindici centesimi più della concorrenza – Esso, Tamoil, Q 8. Sfruttando la posizione di semi-monopolio delle concessioni lungo le autostrade e la strade consolari acquisita quando era un ente pubblico.
Paga così un dividendo elevato al Tesoro – un servizio come una (ulteriore) tassa.
 
Più cara di quella Eni, la benzina Ip. Azienda anch’essa ex Eni, con alcune posizioni strategiche in autostrada, concessioni che coprono un vasto raggio di strada o autostrada.
 
Lottomatica servizi non lavora sabato e domenica. Ricaricando i cellulari a un punto Lottomatica, bisogna aspettare lunedì per telefonare…
Si penserebbero le ricariche in automatico. Lottomatica gioca su due giorni di valuta?
 
Da quando ha comprato Gillette, Procter & Gamble, uno dei grandi gruppi chimici e petroliferi che hanno promosso nel 1974 l’Earth Day, la Festa della Terra, e ne sono sostenitori, non fa che moltiplicare le denominazioni, le qualità, i formati, dei rasoi e dei loro contenitori. Propendendo per l’usa e getta, per guadagnare qualche centesimo di più. Contenitori e rasoi di plastica povera, appiccicaticcia, non riciclabile, invece dei vecchi materiali resistenti, riutilizzabili praticamente all’infinito.
 
La stessa società vanta una serie di detersivi biodegradabili, che tappano gli scarichi.


Piovene ha i calori

Un libro di umori. Una sorta di auto-pamphlet, di resa dei conti con se stesso, oltre che con il mondo: le furie sono dell’autore, che le rammemora passeggiando. Incontri, visioni, allucinazioni. Di persone, conoscenze, cose vista, cose note, lette, discusse, immaginate, con  buona dose di realismo. Che Piovene rivendica: “Io non sono un fantastico, nemmeno un inventivo, e nemmeno un realista, ma sono un visionario di cose vere”. Come si vogliono tutti i narratori. E i giornalisti d’invenzione. Anche se la cosa è forse una tara, in termini di verità – Piovene resta persona inquieta, ma anche controversa.
Sul giornalismo, che ha praticato ogni giorno per decenni, è cattivissimo fin dal primo giorno di pratica: “C’erano, in alto, i divi, che non comparivano, con uno speciale diritto. Era il diritto di promuovere bugie senza esserne convinti”. E via di questo tono: amicizie, mori, passioni, riserve, ostilità. Da ansioso, si direbbe, un po’ angosciato.  O uno sfogo da menopausa, se si può  dire così, per un uomo, la fine delle illusioni. “Ai pretesti si deve il riuscire a non vivere in una dimensione sola, un universo folto di relazioni, pieno di porte spalancate. Senza prestesti niente metafore, cioè poesia”.
Guido Piovene, Le furie, Bompiani pp. 352 € 13


martedì 9 giugno 2020

Problemi di base canini - 571

spock


È il cane il migliore amico dell’uomo - o è l’uomo il migliore amico del cane?

 

Quanto buono?

 

Perché tante violenze sui cani: incroci, addomesticamento, appartamento?

 

“Se non ci fossero i cani io non vorrei vivere”, Schopenhauer?

 

“Il cane, come l’uomo, ha sempre prurito”, Jean Paul?

 

“Il palcoscenico non è un canile”, Goethe?

 

È Mefistofele un cane barbone nero, id., “Faust”?

 

Manca Proust: perché Fido non avrebbe momenti proustiani?

 

E Stuart Mill: perché al cane è negata la libertà?


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Hemingway, o la caccia ala felicità

Una prima prova - o un brogliaccio, ma in bella copia - de “Il vecchio e il mare”, il racconto della pesca del marlin record. Con la stessa figura di Santiago, il “vecchio”, qui suddivisa tra Josie - che il nipote-editore suppone essere Joe Rusell, quindi un americano, col quale Hem andava a pesca a Cuba – e Carlos, il mozzo, entrambi con l’eloquio del protagonista del racconto che sarà premio Pulitzer 1953 e premio Nobel 1954 (menzionato specialmente nel Nobel all’autore).
È il racconto dell’aggancio di un marlin gigante, dopo molti giorni di pesca alla sua ricerca, che però riesce a sganciarsi e andare via. Ambientato nel 1933, per i particolari della cronaca – sbirri del dittatore cubano Gerardo Machado e manifestazioni contro. Ma scritto probabilmente dopo la guerra, del 1945-46 – “Il vecchio e il mare”, pubblicato con immediato straordinario successo sulla rivista “Life” nel 1952, è del 1951. Una scrittura da vita vissuta, da gite in barca meridiane dentro la giornata di lavoro: con le mani già piagate dalla lenza nella lunga corsa vorticosa del marlin preso all’amo, ma senza l’impianto favolistico, alla “Moby Dick”, che sarà de “Il vecchio e il mare”.
Il racconto è stato ritrovato e viene pubblicato – in anteprima su una nuova edizione de “Il vecchio e il mare” in calendario per fine anno - da Seán Hemingway, archeologo (“La tomba di Alessandro”), curatore per l’arte Greca e Romana del Metropolitan Museum of Art, nipote in linea diretta dello scrittore – figlio di Gregory, il figlio prolifico di Hem (otto figli) che però aveva carattere e gusti femminili. Il titolo è stato scelto da Patrick, il secondo figlio di Hemingway, zio di Seán, traendolo da “Verdi colline dell’Africa”, il racconto non romanzato di un safari in Africa, nell’inverno 1933-34, gli stessi anni a cui il racconto fa riferimento. È il titolo di una sezione di “Verdi colline”, a sua volta ispirato dalla Dichiarazione d’Indipendenza, che annunciava “Vita, Libertà e la ricerca della Felicità”.
Sono pochi i materiali non pubblicati di Hemingway, spiega Seán in un’intervista che accompagna la pubblicazione sul “New Yorker”, quasi tutti racconti autobiografici della seconda  guerra mondiale.
Ernest Hemingway, Pursuit as Happiness, “The New Yorker”, 8-15 giugno 2020


lunedì 8 giugno 2020

Ecobusiness – aspettando l’idrogeno

Sono violenze in forma di cura quella che si si perpetrano sugli animali domestici: addomesticamento, addestramento, incroci.
L’agricoltura è la massima produttrice di CO2.
Gillette, da quando è Procter and Gamble, tra i promotori dell’Earth Day, la Festa della Terra, moltiplica le plastiche, usa e getta, invece che i contenitori e i rasoi a lunga tenuta.
Lo stesso le macchine tedesche, sempre nuove, ogni mese, ogni settimana, ogni giorno. Tutte molto impegnate per salvare la Terra.
Cina e India sono i massimi inquinatori, perché hanno grandi popolazioni,  e perché usano combustibili fossili. Per l’effetto anche della globalizzazione, del relativo arricchimento di questi semicontinenti asiatici a lungo alla soglia della povertà. Per la prima volta nei tremila anni della storia umana, tutta l’umanità accede a un livello degno – mediamente - di vita, a danno dell’ambiente.
Un milione 850 mila le vetture circolanti a Roma. Più 170 mila veicoli industriali. Più 450 mila motocicli: quasi 2 milioni e mezzo di veicoli a motore (i numeri sono arrotondati rispetto agli ultimi dati censiti, nel 2017: 1.764.533 rispettivamente per le tre voci, 156.801, e 393.144).  Per una popolazione di 2,9 milioni.
L’idrogeno rimuoverebbe buona parte dei problemi ambientali, quelli derivanti dai combustibili fossili, specie nella circolazione, ma necessita di forti investimenti. “Nei prossimi dieci anni l’idrogeno potrà costare meno del petrolio”, spiega Alverà della Snam, ma ci vuole ancora uno sforzo di investimento: “Con il sole si può creare idrogeno fatto da rinnovabili e i prezzi stanno scendendo velocemente. Nel 2010 costava 710 dollari per megawattora, oggi siamo a 125 dollari e si potrà arrivare a 25 dollari per megawattora”, cioè meno degli idrocarburi.


L’identità è coappartenenza

Due conferenze con le quali, dopo la denazificazione, Heidegger riprende, spiega Gurisatti nella presentazione, “la «distruzione fenomenologica» della storia del pensiero e dei suoi fondamenti  logici e onto-teo-logici”. Una distruzione apodittica, su questo non c’è dubbio, ma confusa. La “differenza” – tra l’essere e l’ente – si direbbe la libertà, come spazio e come “cosa” (azione, volizione). Ma in Heidegger tutto si complica, a nessun effetto – il pensiero scorre a volute informi, specie su quest tema, quello che dà il titolo al volumetto, “Il principio di identità”.
Il  secondo contributo, la “distruzione” della metafisica nei suoi “fondamenti onto-teo-logici”, culmina con una beffarda rivincita (p. 95): “Il pensiero senza-dio, che deve rinunciare al dio della filosofia – cioè al dio come causa sui – è forse più vicino al dio divino”(e probabilmente nell’originale Heidegger intendeva il Dio maiuscolo). E qui si capisce, anche se a nessun esito.
Il primo contributo, “Il principio di identità”, dell’essere e dell’ente che coabitano e si coordinano o si contraddicono, si co-appartengono, è invece una tautologia, ma fumosissima. Giocando con Platone, “Sofista”, “esso stesso a se stesso lo stesso”, e con Parmenide, “lo stesso è sia percepire che essere”, si arriva all’Ereignis, l’evento – uno dei contributi con i quali Heidegger si immortala, e che ogni volta ridefinisce (qui alla p. 44). Giustificandosi così: “Il pensiero ha impiegato più di duemila anni per comprendere in modo appropriato una relazione così semplice come la mediazione all’interno del’identità. Come possiamo quindi noi ritenere che basti un solo giorno per realizzare il raccoglimento pensante nella provenienza essenziale dell’identità?”  
Alla fine, si dirà di Heidegger come di uno che provò a rinnovare il vocabolario, con esiti incerti? Le note di Gurisatti, più che di filosofia, trattano di filologia, anzi di linguistica, anzi di glottologia. Ma inafferrabili, per lo più, anch’esse.
Martin Heidegger, Identità e differenza, Adelphi, pp. 101 € 10


domenica 7 giugno 2020

Ombre - 516

Il generale dei Carabinieri Pappalardo, e le interminabili jacqueries che tenta di alimentare, Aldo Grasso mette sul “Corriere della sera” tra i novisti incontentabili: ”La società che tentano di abbattere ha aperto loro infiniti interstizi e occasioni per esprimersi e manifestarsi”. Di diventare ministri, di “fare” la politica, come no, e discettare in tv. È tempo di alluvione….
 
“In un anno e mezzo abbiamo portato a casa reddito di cittadinanza, abolizione dei privilegi della casta e lotta alla corruzione”, può di rivendicare incontestata con il “Corriere della sera” Roberta Lombardi, deputata regionale grillina. Lotta alla corruzione, i grillini? A Roma per esempio? E la casta che ci opprime, in tv, in rete, nei (cattivi) pensieri?
 
“Quest’anno solo 2 miliardi  per l’Italia dal Recovery Fund” europeo, “la Repubblica” scopre ieri. Si può essere giallorossi, ma perché non leggere – il testo del piano Ue è pubblico, da una decina di giorni?
 
Trump dice che prende l’idrossiclorochina contro il virus, l’Oms pronto mette l’idrossiclorochina fuorilegge. Un giorno o due dopo, alla pubblicazione, lo studio che dice l’idrossiclorochina dannosa è dichiarato sbagliato, e i suoi datti contraffatti. Ora, l’Oms lavora per Trump? O non sarà Trump che commissiona ricerche false?
 
Lo stesso quesito si pone per Twitter: non è che Twitter lavora per Trump, censurandolo? Non sarà Trump che ha fatto nominare ala censura di Twitter un politico, un suo dichiarato nemico?
 
Heiko Maas, il ministro degli Esteri tedesco, si fa bello con Mastrobuoni su “la Repubblica”: la Russia è impresentabile – “I motivi per cui nel 2014 abbiamo deciso di continuare le riunioni del G 7 senza la Russia, ossia l’annessione contraria al Diritto internazionale della Crimea, non sono cambiati”. Eccetto che per il Nord Stream 2, con cui monopolizzare l’export di gas della Russia verso l’Europa? Che la Germania si sta facendo fare da società russe di ingegneria, anche se non ne sono (molto) capaci, dopo che le italiane e le svizzere si sono ritirate in ottemperanza all’embargo.  
La Germania sembra extraterritoriale. Dismesse in Cina e nel mondo mussulmano, il regime delle capitolazioni vige in Europa per la Germania?
 
Pare che l’imbalsamazione degli animali domestici sia da qualche tempo il nuovo must. Di chi ha e anche di chi, ufficialmente, non ha. Mentre non si trovano più cimiteri per le persone, i morti umani bisogna cremarli. Sarà l’Italia, grande paese delle grandi fortune nascoste, hanno ragione i tedeschi che ce lo rinfacciano, e di nessuna virtù?
 
Dopo lo stadio della Roma i puri e duri del Campidoglio, fortezza di Grillo, hanno tentato di pedonalizzare Monti. Big business anche quello, migliaia di mq. Di garage e seminterrati da affittare a migliaia di euro, il mq.. Chiamando il progettino “isola ambientale”. Gli è andata buca anche qui. Ma non ci sono giudici a Roma?
 
L’Anac del professor Merloni, l’Autorità Anti Corruzione, grande sede a Roma e ottimi stipendi a giudicare dalle macchine, sospende il presidente benemerito dell’Autorità portuale di Trieste, che ha rianimato in un colpo lo scalo dopo un secolo di depressione facendone uno dei primi in Europa, perché la sua nomina, sei anni fa, quando già del Porto era commissario, aveva un vizio di forma. Le Autorità, che dovrebbero proteggere gli utenti e la comunità, sono una delle istituzioni peggiori della disastrata Italia, costose e dannose.
 
Il curioso è che, nei sette anni di attività dell’Anac, non ci sono stati corrotti in Italia né corruttori, non che l’Aurorità ne abbia manifestato conoscenza. Sembra che non stia in Italia. Oppure no, è proprio l’Italia?
 
Il Recovery Fund si nasconde nei dettagli, spiega Fubini sul “Corriere della sera” per la festa della Repubblica. La quale invece, dopo l’annuncio d Bruxelles, operativo fra un anno?, fra due?, si ritiene a cavallo: pacche (congratulazioni), brindisi, inni alla gioia. La Ue come il diavolo.
 
“Sono sempre stato contrario alle sanzioni contro gli Stati perché in realtà colpiscono i popoli e rafforzano i dittatori”, Romano Prodi a Marco Ascione sul “Corriere della sera”. No, favoriscono gli affaristi – mediatori, importatori, speculatori: le sanzioni vanno col “mercato”.
 
Immemore del disastro cui il suo ospedale ha contribuito, il direttore sanitario del San Raffaele di Milano dichiara il contagio finito: “Il virus è morto”. E insiste. Ma Milan l’è on gran Milan.


Dispersi nell'analogia

Daumal è recuperato da Calasso ne “Il cacciatore celeste”, il suo “libro degli amici” sugli autori tra le due guerra. Di gente che viveva sopra il vulcano senza (pre)occuparsene. O della fine delle avanguardie, profetiche e sterili – che evaporano al momento della “produzione”, si sfilacciano, l’autore lasciando solo e confuso: Daumal chi? un pazzo? Un autore cui Adelphi malgrado tutto è fedele: ne ha proposto tutto, o quasi tutto, e questo “Monte Analogo” in più edizioni.
Questo “romanzo d’avventure non euclidee e biblicamente autentiche”, come le vuole l’autore nel sottotitolo, era in catalogo Adelphi già all’inizio del’attività, nel 1968. In un catalogo cioè che si caratterizzava per l’insofferenza verso il “nuovismo”. Forse perché pubblicava gli autori di Bobi Blazen, catastrofici per snobberia, prima che lo stesso Calasso e Luciano Foà indirizzassero l’editrice. L’edizione 1968 era da un trentennio circa già negli Adelphi, Daumal ha un suo pubblico. Ora Claudio Rugafiori ne propone una riedizione, riveduta, e ampliata con altre note e riflessioni di Daumal sul romanzo in progress.
Daumal è degli anni 1930: muore nel 1944, ha iniziato il “Monte analogo” nel 1938, al compimento dei trent’anni ma minato dalla tubercolosi. Avvia cioè qualcosa che non pensa di concludere, non ne ha un disegno prestabilito. Lascia quindi un’opera aperta, come l’impianto. Otto alpinisti, amici, partono alla ricerca del Monte Analogo, la vetta più alta del mondo, un’isola che è un continente. Che appare e scompare, con la luce e la riflessione. Una visione, un desiderio. “la montagna è il legame fra la Terra e il Cielo”. Ma la meta è raggiunta, per riflessione: il viaggio è verso il proprio “centro”, facilitato, dall’uso delle analogie. Se non che s’interrompe prima dell’ascesa, al Campo Base. E non per un termine simbolico: l’autore è morto.
Non un romanzo d’avventure. Né sperimentale, come sembra a tratti - s’incontrano pagine di segni ortografici, parole curiose, sogni irrelati. Neanche di riflessione. Daumal, appassionato di filosofia indu, conoscitore del sanscrito, locupleta la singolare spedizione di sogni, fantasie, visioni, aneddoti, miti, canzoni, ragionamenti, ognuno significante per sé ma non congruenti. Un viaggio aperto. Ma di forte malinconia, come un rimpianto della vita – “Cercando se stessi, si vede che non si è niente, vedendo che non si è niente si desidera divenire, desiderando divenire si vive”.
Condiscepolo di Simone Weil, con la quale si dedicò a studiare il sanscrito, nella classe di filosofia di Alain al liceo Henri IV. Daumal non ne media le accensioni. Anche nella deriva misticheggiante, l’estensione è inerte, quasi meccanica, dell’immaginario, prolissa più che fantastica o coinvolgente.
René Daumal, Il Monte Analogo, Adelphi, pp. 144 € 18