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sabato 4 novembre 2023

Letture - 536

letterautore


Circasse – La donna circassa fu a lungo celebrata, nelle corti e nelle lettere, nel tardo Settecento e nel primo Ottocento. Come tardo caso di schiavitù, ma soprattutto per la bellezza. La bellezza delle donne circasse, dalla pelle liscia e levigata, fu consacrata da Rousseau nell’“Emilio”, in contrapposizione a quella pelosa, bitorzoluta e foruncolosa della donna europea.

Dante – Era “islamico” anche prima di Asìn Palacios, 1919, e di Maria Corti. Una prima fonte si reputava “Abulola”, un poeta arabo dell’anno Mille (973-1047), Abul Ala Al Ma’arri, che in una “Epistola del perdono” narra il viaggio di un amico nell’oltretomba.
 
Un cattivo discepolo, lo dice il barone fisico e aforista di Gottinga Lichtenberg, “Lo scandaglio dell’anima”, p, 255 Bur: “Con molto rispetto Dante Alighieri, nella sua ‘Commedia’, chiama suo maestro Virgilio. Eppure se n’è servito così male, come nota il signor  Meinhard” ( Johann Nikolaus Meinhard). Come se Dante non sapesse di chi parlava, commenta il barone: “È una chiara prova che già allora si lodavano gli antichi senza sapere il perché”.
Vero o falso? D ante era molto colto. Però, Dante e Virgilio è un bel tema, specie dopo l’“islamizzazione” di Dante. Dante poteva avere miglior maestro di Virgilio? Che aveva fatto fare a Enea la discesa agli inferi – prima dei seguaci di Maometto?
 
Virgilio era molte cose nella retorica. Per Dante, lettore e diagnostico del “Manoscritto”, contenente le opere virgiliane, è dichiaratamente la fonte del bello stilo”, il fiume dell’eloquenza e la fonte dell’ispirazione poetica, come lo connoterà subito nella “Commedia”. Era nella retorica del tempo il poeta dei tre livelli, come da codifica nella “Rota Vergilii”. Della poesia umile nelle “Bucoliche”, della medietas  nelle “Georgiche”, e della tragedia e l’epica nell’“Eneide”. Un maestro e un metro, secondo il criterio dominante del πρέπον, il “conveniente”, che legava lo stile alla materia trattata. Dante indica in Virgilio il suo autore già nel “Convivio”, IV, 6, 5, come “persona degna di essere creduta e obbedita” - l’auctor, da augeo, “colui che fa crescere”.
 
Femminismo – “Il primo vero libro di Susan Sontag”, spiega a Nicola Mirenzi sul “Venerdì di Repubblica” Benjamin Moser, premio Pulitzer per la biografia della scrittrice, “è un testo fondamentale su Sigmund Frued, ‘The Mind of a Moralist’”, tradotto col titolo “Freud moralista”. Ma il saggio “porta la firma di suo marito”, dell’allora suo marito, Philip Rieff: “Susan lo scrisse dopo aver avuto David, a 19 anni”. Poi il matrimonio andò a male, “e nella separazione (il libro) fu barattato con il marito: lei gli cedeva il testo, lui il figlio”. Avendo Sontag sposato Rieff a 17 anni, la vicenda sa di etica tribale. Ma succedeva in America, nel 1950, lei si era laureata a 15 o 16 anni, lui era sociologo, professore all’università.

Inglesi – Sono stati a lungo inglesi, si sono detti inglesi, per via della lingua, anche gli scozzesi, che ora si distinguono, i tanti filosofi e scrittori scozzesi. Patrick Brydone, scrittore scozzese, parla sempre di “noi inglesi” nelle corrispondenze fittizie che manda dalla Sicilia nel 1770.
Brydone, gentiluomo di suo, era in Sicilia come chaperon di un giovane signorotto inglese, lord Fullerton, e usava naturalmente l’inglese, ma aveva commendatizie massoniche, che dunque più propriamente sarebbero state scozzesi.
Anche gli irriducibili irlandesi, da Swift a Oscar Wilde, prima di Yeats, si pensavano ed erano inglesi. Molto inglese era anche Walter Scott: la “scozzesità di cui fu l’ordinatore era considerata una eccentricità. – una “invenzione”.  

Isolani –Sono “per natura” animosi contro i “continentali”? È l’ipotesi di Patrick Brydone nell’ultima delle lettere che compongono il “Viaggio in Sicilia e a Malta 1770”: “Benché i siciliani siano in generale della gran brava gente e sembrino dotati di molta filantropia e di cortesia, bisogna pur ammettere che non nutrono gande simpatia per i loro vicini del continente. È strano”, prosegue Brydone, “e direi assai poco lusinghiero per la natura umana”, pensando all’Inghilterra nei riguardi del continente Europa: “Mi sarei augurato con tutto il cuore che noi inglesi fossimo un’eccezione”. E si consola: “Ora come ora siamo noi i campioni di questa animosità”, ma non i soli.

Italia - La fisica era “italiana” nel Settecento. Il barone Lichtenberg, il fisico e scrittore tedesco del secondo Settecento, che poi inviterà Alessandro Volta, da lui ammiratissimo, alla sua università, Gottinga, per un’esposizione dei suoi studi, progettò un viaggio in Italia per avere una conoscenza di prima mano degli ultimi sviluppi. Ne scriveva in questi termini a un amico il 30 settembre 1784 - prima dell’invito a Volta a Gottinga: “Faccio questo viaggio solo per allargare le mie conoscenze a vantaggio dell’università, perché oggi l’Italia è, forse ancora più dell’Inghilterra, la sede della vera fisica”.

Junius – Lo pseudonimo adottato nel 1917 da Luigi Einaudi (“per il fastidio di firmare ogni volta con lo stesso nome anche le lettere di carattere politico che incominciai allora ad indirizzare, fuori del solito campo economico, al direttore del Corriere della sera”), precisava il 24 settembre 1944, era tratto da un classico politico inglese, “The Letters of Junius”,  apparse a Londra nel 1772, e d’incerta attribuzione. Einaudi, che lo precisa per dire che non si rifaceva a Rosa Luxemburg, la quale aveva già in uso lo pseudonimo (“quando lanciò dal carcere prussiano la Junius brochure” – “caso mai amendue plagiammo istintivamente uno pseudonimo notissimo nella grande letteratura politica inglese”), ritiene che fossero opera di Sir Philipp Francis,, uomo politico del tempo, ma precisa che “ancora nel 1867 si poteva pubblicare una lista di 40 nomi” di possibili autori. 


Latino –“10 agosto 1769. Quando condussi Sir Francis Clerke dal professor Förtsch, che allora era prorettore, questi gli fece pomposamente e con retorica precisione un lungo discorso in latino. “Quando ebbe finito di parlare”, è Lichtenberg che racconta, “Lo scandalo dell’anima”, B 214, “gli dissi: «Vostra Magnificenza, gli inglesi non capiscono il nostro latino». Non sembrò molto alterato”. Era l’inglese dell’epoca.

Longanesi – “Egli trova facilmente il ridicolo in tutto. È la forza dei deboli”, C. Alvaro, “Quasi una vita”, 1943. A proposito di una battuta sui bombardamenti: “Ci stanno rovinando gli originali delle fotografie Alinari”.
È lo stesso autore di alcuni manifesti di propaganda di guerra”, prosegue Alvaro.

Maggio – Era un mese infausto ai matrimoni. Patrick Brydone lo nota in Sicilia, dove viaggiava nel 1770, ma come di una credenza comune. “Come la maggior delle nazioni europee anche i siciliani evitano con cura di sposarsi nel mese di maggio, e considerano i matrimoni celebrati in quel periodo estremamente infausti”. Colpa dei romani, dice il viaggiatore e scrittore scozzese: “Questa credenza superstiziosa risale al tempo dei romani, e forse anche più in là: gli autori classici ne parlano spesso, anzi sono stati loro a trametterla in quasi tutti i paesi d’Europa”. 

Pirandello –“Pirandello non dubita mai che qualunque idea gli venga in mente non sia importante. Fra le sue carte non ha niente di inedito”, C. Alvaro, “Quasi una vita”,1936. E l’anno dopo: “Pirandello aveva la spietatezza della castità. E così un forte disgusto della natura umana, e accentuate ripugnanze fisiche”. La tarda relazione con Marta Abba, stretta sul piano artistico ma fredda su quello umano, di cui si fa colpa all’attrice, come di una carrierista sfruttatrice, avrebbe altra radice.

Sesso – Era un fenomeno elettrico nel Settecento – “Lichtenberg”, il fisico di Gottinga che fu anche scrittore, “si diverte spesso a mettere in relazione l’elettricità e il sesso”, nota il curatore dei suoi aforismi e delle sue lettere, Anacleto Verrecchia. A proposito di Patrick Brydone, lo scrittore e naturalista scozzese che nel 1974 pubblicò un “Viaggio in Sicilia e a Malta”, dove a un certo punto, a Catania, proponeva di applicare il parafulmine, appena scoperto da B. Franklin, alle acconciature voluminose delle signore, annotava, al frammento D511: “”Brydone propone il parafulmine per la testa delle dame. Un parafulmine per la loro… sarebbe meglio”.    

Spinoza – È professore di spinozismo il Diavolo di Flaubert, ne “La tentazione di Sant’Antonio”. Di Flaubert che si vuole – la critica vuole – spinozista. In realtà lo era l’amico intimissimo di Flaubert, Le Poittevin, sul quale il Diavolo del “Sant’Antonio” è modellato, nell’aspetto e nei modi e al quale l’opera sarà tardivamente dedicata (era morto nel 1848, mentre Flaubert pensava di avere finito la sua “prima opera”, che poi gli prenderà 27 anni).


Traduzioni – “Pensate alla capacità di fare traduzioni automatiche di un libro di 500 pagine in un minuto e con un buon risultato”, Giorgio Parisi, il fisico premio Nobel, a proposito dell’intelligenza artificiale. Quanta letteratura in meno – bisognerà aggiornare i criteri letterari?
Ma non solo le traduzioni, anche la “scrittura” è a rischio.

Werther – Fu stroncato all’uscita da Lichtenberg, che pure rispettava Goethe e se ne voleva amico -  e coltivava personalmente l’idea del suicidio, ma alla modo degli asceti indiani e non per Schwärmerei, per sentimentalismo eroicizzante - in questi termini, nella sintesi del suo curatore Anacleto Verrecchia: “L’odore di una focaccia è una ragione migliore per rimanere al mondo che non tutte le argomentazioni addotte dall’’eroe goethiano”.


letterautore@antiit.eu

La scoperta di Eco “giovane romanziere”

Curiosamente, solo dopo quindici anni si possono leggere in italiano le Richard Ellman Lectures tenute da Eco ad Atlanta, alla Emory University, in inglese, sull’esperienza dello scrivere. Da “giovane” perché “mi considero un  romanziere molto giovane”, esordisce , a partire dalla “cogitazione” de “Il nome della rosa”. Ritrosia dell’autore, che non le considerava meritevoli di pubblicazione? Ma il brio non manca. Del resto la serie aveva già pubblicato con la Harvard Press nel 2008, e anche in francese, perfino nei tascabili, Livres de Poche. 

Già recensita da questo sito alla ripubblicazione francese, nel 2016, sotto il titolo "Il falso pentito Eco":

Altre divagazioni sul suo proprio lavoro, dopo la ”Postilla al Nome della Rosa”, e l’enorme paratesto a “Il pendolo di Foucault”, materia a un futuro ecobiblismo. Una rilettura dei suoi romanzi, senza “Il cimitero di Praga” per fortuna, e “Numero zero”. Con riuso di molti materiali già noti e discussi. Con la curiosa dissociazione, molto echiana, della difesa della “semiosi illimitata” di Peirce e insieme della necessità di limitarla, ancorarla. Con ampie esposizioni delle due “tecniche postmoderne” di cui vanta l’uso: l’“ironia intertestuale” e il “metaracconto”, la “riflessione del testo sulla sua propria natura”. Ciò che si definisce “doppia codifica”. Cose che il lettore trova senza spiegazioni fumose in Manzoni – in Dumas, Walter Scott.
Scivoloso. Subito su scrittura creativa e scrittura scientifica: la scrittura è “creativa” tra virgolette, e il termine è “malizioso”. Da logico post-scolastico, che però, invece di iscriversi alla neo-tomistica, si è ingolfato nella semiotica. Illuminandola con l’estro e il garbo, ma smarrito. Facendosi sempre perdonare per l’indefettibile autoironia: “Una volta ho perfino scritto, con  tocco d’arroganza platonica, che consideravo i poeti e gli artisti in generale come prigionieri delle loro proprie menzogne, come degli imitatori d’imitazioni, mentre in quanto filosofo io avevo accesso al vero mondo platonico delle Idee”. Ma smarrendo il fedele lettore: a quale Eco appigliarsi?
È un falso pentito, gli uditori cui si indirizzava configurando come un tribunale. Confessa – rivendica - “la passione per la falsificazione”. E non tutto, dice, rivela: “Per scrivere un romanzo di successo, un autore deve conservare il segreto su certe ricette”. Con un ghigno? Insensato. Sofistico: di ogni scelta dà ragioni diverse, probabilistiche, teoriche, tutte vere, cioè tutte false – talvolta le “falsifica” lui stesso: il relativismo è sofistico. Non cinico. Non scettico. Stimolante, ma a nessun esito.
Dei romanzi dà i tempi di lavorazione. Poco credibili – in tutto,  per i cinque romanzi di allora, fanno ventisei anni. Si vuole figurativo, e in quache modo lo è: produceva migliaia di abbozzi, schizzi, disegni di ogni personaggio, luogo, situazione – come Fellini, Günter Grass. E ricorda che Marco Ferreri si era proposto di fare “Il nome della rosa” al cinema perché tutto è preciso nel romanzo: “Il suo libro mi sembra concepito espressamente perché se ne faccia una sceneggiatura, i dialoghi hanno esattamente la giusta lunghezza”. Giusta, intende Eco, perché si svolgono dentro e tra ambienti da lui calcolati in minuziose topografie.
“Il nome della rosa”, primo successo planetario istantaneo, prima del “Codice da Vinci” e di “Gomorra”, finisce per non spiegare, “i lettori ingenui e di poca cultura” escludendo “da questo gioco” postmoderno “di scatole cinesi, da questa regressione delle fonti, che conferiscono alla storia un’aura di ambiguità”. Il suo obiettivo essendo “una sorta di complicità silenziosa col lettore colto”. Milioni di lettori colti? In effetti questo libro, una serie di lezioni a un pubblico colto, di un autore sui propri libri, di un semiologo sui propri segni, è eccezionale. È anche buona cosa – a parte l’effetto mercato, di convitare gli studenti americani, futuri mediatori culturali, a un incontro ravvicinato prolungato con l’Autore Celebre e il Celebre Semiologo? Poco ne resta.
Sono poche le confessioni. Forse solo una: che scrisse “Il nome della rosa” per caso. Invitato dalla redattrice sua amica di una piccola casa editrice a scrivere un breve racconto giallo, lui come altri “scienziati”, rifiutò vantando: “Se dovessi scriverne uno, lo farei di cinquecento pagine”, dopodiché la molla scattò. Si può anche credergli. Un quarto del materiale, “Autori, testi e interpreti”, è ripreso da “Interpretazione e sovrainterpretazione”, di vent’anni prima, che a sua volta si rifaceva al voluminoso trattato “I limiti dell’interpretazione”. E un altro quarto abbondante dalle “Mie liste”, di cui approntava un volume a parte – ricco, questo, di un’imponente selezione di immagini. Elenchi spenti, nulla della vertigine delle liste originarie di Rabelais. Il saggio centrale è di semiologia: il Lettore Empirico, il Lettore Modello, l’Autore Empirico. E anche il primo quarto, il più originale, “Scrivere da sinistra a destra”, è farcito di grammatologia indigesta: il condizionale controfattuale, il dispositivo, la decodifica, la doppia codifica.
Sarà questo il motivo per cui di Eco, di cui editano anche i ritagli, queste “Confessioni” non si pubblicano in italiano?
Umberto Eco, Confessioni di un giovane romanziere, La Nave di Teseo, pp. 224 € 20


venerdì 3 novembre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (42)

Giuseppe Leuzzi
Accompagnavano Caroline Flaubert fresca sposa in viaggio di nozze il fratello Gustave, il padre Cléophas e la madre. Era maggio del 1849, tra Rouen, capoluogo della  Normandia, regione della Francia settentrionale, e Genova, e poi a Genova per un paio di settimane. È fatto vero, non è un racconto di Brancati.


“Ricordo di aver guardato i fondi europei per la ricerca scientifica destinati alle Regioni Obiettivo 1 del Mezzogiorno e di aver trovato che spesso non hanno generato ricerca avanzata o, addirittura, si sono rivelati dannosi”, Giorgio Parisi sul “Corriere della sera-Login”.
Non solo i fondi per la ricerca, tutti i fondi Obiettivo 1. Se si considera come con quei fondi l’Andalusia in Spagna o la Grecia o la Polonia sono diventati prosperi, è chiaro che il Sud è vittima di se stesso.
 
“Dai Greci i meridionali hanno preso il carattere di mitomani”, C. Alvaro, “Quasi un vita”,1938.
 
Il toscano? Un cattivo meridionale. Non a suo agio con l’intellettualità letteraria anteguerra, toscana, C. Alvaro le imputa i peggiori vizi del notabilato meridionale – “Quasi una vita”, 1939: “La retorica della tradizione, della religione, dell’arte, del disinteresse, serve freddamente ai toscani. È il vezzo dei loro intellettuali. È venuto fuori un tipo che riassume in sé il formalismo, il fiscalismo, il borbonismo, la prepotenza, il servilismo, la cavillosità del cattivo meridionale”. Si può usare il Meridione come una clava, per offendere e non per essere offesi, come capita.
 
Le proiezioni demografiche, per natura quasi certe, danno il Meridione fra sessant’anni, al 2080, ridotto dai venti milioni attuali di abitanti a 12 milioni. La “questione meridionale” si estinguerà con i morti.
Si riduce anche il resto d’Italia, ma di poco: il Centro da 12 a 9 milioni, il Nord da 27,5 a 24,5. Si direbbe che il Sud non ha più voglia di nascere.
 
Se Napoli fosse rimasta industriale
I tremila lavoratori della Whirpool che non si sono arresi agli ammortizzatori sociali, una comodità, da integrare semmai con un po’ di lavoro nero, e hanno cercato una nuova occupazione, e l’hanno trovata, riporta alla memoria quanto l’economista compianto Mariano D’Antonio, napoletano autoesiliato, amareggiato, a Roma, diceva del post-Bagnoli, della “Rinascita napoletana” di Bassolino, dell’ubriacatura della Napoli del “terzo settore” – in pratica del turismo culturale e dei bagni di mare: “Pensano di fare sviluppo con le pizze, tutti camerieri, la mancia è esentasse”.
La chiusura di Bagnoli era diventata un’ossessione. “La siderurgia a Posillipo” era anatema alla fine anche degli stessi dirigenti dell’Italsider, che non vedevano l’ora di di avere la chiusura imposta, dal municipio, dalla regione, dal governo. E la chiusura fu una celebrazione – “ne faremo una città del sapere”, “una città della scienza”, questo trent’anni fa. Gli ex Whirpool ricordano dopo trent’anni di città della scienza a venire, mentre il “terzo settore” combatte con furti, scippi, pistolettate, che Napoli era una città industriale al tempo dell’unificazione dell’Italia, la più industriale, tra cantieri a mare e a terra. Ed era il porto dell’Europa verso Oriente. E che se l’unità d’Italia fosse stata fatta con criteri diversi, come una federazione, o anche con uno stato unitario non “piemontese”, la storia sarebbe stata molto diversa. Il Meridione è diventato “questione” subito, nel 1873, subito dopo Porta Pia.

Ora invece, Napoli si può dire la capitale dell’esportazione dell’imprenditoria. Si poteva dire dieci ani fa, quando la Camera di Commercio di Milano censì gli “imprenditori” (titolari di aziende, amministratori, soci – se attivi) per città di origine. Il numero degli imprenditori nati a Napoli era il più elevato, quasi 400 mila – contro 365 mila romani, e 345 mila milanesi. Per effetto della proliferazione della micro imprenditoria nella stessa Napoli, ma non solo: Napoli risultava al secondo posto per il numero di imprenditori nati nella stessa città (il 90,9 per cento – dietro Bari, 91.4 per cento). Ma era al secondo posto anche per il numero di incarichi in imprese fuori del territorio: 108 mila imprenditori – seppure solo la metà di Milano, prima in classifica , con 231 mila imprenditori attivi in altre province.

 
Perché la Sicilia non è la California
Si leggono i giornali locali in Sicilia con un’impressione netta: il siciliano è sicuro di sé (self-assured). Anche quando conversa, o chiede, perfino se prega. Non manca di iniziativa, al contrario presume troppo. E la memoria torna di quando, quarant’anni fa, si celebravano a Palermo convegni sulla Sicilia come la California d’Italia (la California allora molto celebrata, come ottava potenza economica mondiale, subito fuori del G 7). Clima e natura. Storia e cultura. E inventiva: farmaceutica a Catania, e i microprocessori di Pistorio, bioingegneria, sempre a Catania, moda e turismo, di classe, anche di gran classe. E non è stata a lungo nulla, per il decennio delle stragi. Poi in ripresa, ma con juicio. E crede sempre alla mafia.
La sicurezza di sé, allora? C’è ma è un handicap. Troppe imprese brillanti si sono conosciute che non sono sopravvissute al fondatore - e anzi si sono fatte variamente imbrigliare (ma soprattutto sotto la nube mafia): Morgante (Italkali, un impero del sale che arrivava in America, alle strade americane – con miniere di salgemma attorno ad Agrigento che erano un tesoro, anche artistico, prima che gliele chiudessero), i cavalieri di Catania, Rendo, Costanzo, Graci, Finocchiaro, quelli dei fosfati, i primi ad arrendersi (senza bisogno della mafia, bastò Leoluca Orlando), Arturo Cassina (i figli Luciano e Duilio hanno tenato di continuare, ma sono stati stroncati), da ultimo Montante. Il terreno è buono e fertile ma poco ci cresce – fiori sul letamaio.
 
Il vino in Calabria
Il vino è il suo vitigno. Metodi e tecniche possono modificarne il sapore, qualche volta anche migliorarlo, ma la sostanza del vino è il vitigno che gli da consistenza, colore, sapore, profumo e ogni altra dote.
Il vino piace anche perché è vario, se è vario. C’è chi beve sempre un solo vino, ma ne apprezza le variazioni. È d’uso, anche da prima del “mercato”, quindi moltiplicare l’offerta, di “vini buoni”, che rispondano cioè a un vitigno locale di cui sono note le caratteristiche, che prospera per le speciali condizioni dei terreni, le acque, l’umidità e l’aria locali, moltiplica la varietà alla degustazione, e moltiplica il mercato, la domanda, la produzione.
La Calabria risulta avere un record di vitigni autoctoni, 180 vitigni antichi sarebbero registrati. E aveva fama di terra di vini ottimi. I viaggiatori dell’Ottocento vi trovavano molti motivi di disagio,  comunicazioni, traspori, alloggi. Ma tutti ne apprezzavano i vini. Il medico svizzero Rilliet, che lavorava a Napoli e accompagnò l’ultimo re Borbone in una parata militare attraverso tutta la Calabria, che descrive grande produttrice di seta, olio d’oliva e “vini famosi”, non lascia una sosta senza elogiare il vino locale, malgrado le pulci, i gallinacci tra i piedi, anche i porci, e gli altri noti inconvenienti.

Ottant’anni dopo un altro viaggiatore, il fiorentino Orioli, fa dei vini locali che via via assaggia una collezione fantastica, il vino alla viola, alla mandorla, al pesco selvatico – con la consulenza del suo grande amico Norman Douglas, che già ne aveva fatto assaggio entusiasta prima della Grande Guerra.
Altrove basterebbe per uan promozione in grande stile, per di più gratuita. In Calabria no, non interessa. Coltiva pochi vitigni, i rossi gaglioppo e magliocco, i bianchi greco, ansonica, mantonico, pecorella, e li lavora poco. Si può dire che non produce quasi vino. Giusto 90 mila ettolitri l’anno, poco più della Basilicata - ultima regione in Italia per la produzione di vino, se si eccettua la valle d’Aosta. Il Molise, con una superficie di un quarto, poco meno, e altrettanto montuoso, ne produce due volte e mezzo. Un sola cantina calabrese, o due, è fra e 103 italiane nella graduatoria per qualità di “Wine Spectator”, bibbia del settore. Fra i cento produttori vitivinicoli nazionali classificati per fatturato da “L’Economia”, da 624 a 10 milioni di fatturato, non c’è un produttore calabrese.
Ora che il vitigno “diverso” va a premio sul gusto “internazionale”, la Calabria il vino lo trascura  – renderà bene, ma è faticoso. Spariti gli ottimi bianchi della costa tra Scilla e Palmo, non un  tralcio sopravvive. Per l’eccezionale zibibbo Bagnara festeggiava con famose Sagre dell’Uva negli anni 1950. Gustav René Hocke censiva con grandi lodi anche un ottimo Greco di Gerace, un vino bianco derivato dall’uva greca, molto diffusa tra Metaponto e Gerace. Anche il nome sembrava ben trovato, un brand nato, e invece: mentre sul vitigno greco altre aree d’Italia hanno costruito, seppure con difficoltà, degli imperi, il Greco di Gerace si è perso. Il Greco di Lamezia, tentato una diecina d’anni fa, è scomparso dopo tre o quattro anni. Il Critone, che al greco aggiungeva una modesta quantità di sauvignon, per un esito molto gradevole, pure. Il Cirò bianco, che era al 100 per cento di uva greca, da qualche anno si mescola al trebbiano, per farne un “vino da tavola”. Manca più la capacità o l’ambizione?  
“In viaggio”, la memoria di Orioli sul suo viaggio a piedi attraverso la Calabria, ha i vini una costante nelle notazioni di varia natura. Giuseppe “Pino” Orioli, sodale e compagno di Norman Douglas, il grande scrittore di “Vecchia Calabria, caprese di adozione, che lo accompagna nella  rivisitazione, nella primavera del 1933, è entusiasta, dell’aria, i profumi, i ragazzi (e le ragazze), e dei vini: “Il cibo non è certamente raffinato ma il vino è delizioso”, è notazione costante. Si tratta di vini locali, e anzi personali, degli osti e degli anfitrioni dei viaggiatori. Ma il colore e il sapore sono già regionali, “jonico, “reggino”. Le notazioni ritornano encomiastiche quasi a ogni pagina. Non c’è vino che beva che lo deluda – ed era la sola bevanda all’epoca rinfrescante, o perlomeno coadiuvante nelle lunghe scarpinate (il viaggio si faceva a piedi). A Doria, frazione di Cassano, gusta “il vero vino calabrese, quello con il gusto di viola che rimane così piacevolmente sul palato”. A Pellaro, alla fine, gli “lascia ancora in bocca quell’inconfondibile gusto di mandorle” – e questo è il gusto tirrenico, come opposto a quello “jonico”. Un arsenale pubblicitario formidabile, di cui in altre contrade, per esempio lo smagrito Friuli, si sarebbe fatto una miniera.
A Crotone si rifornisce di “bottiglie scelte di vino Cirò e Melissa”, dall’“inconfondibile sapore ionico”. E subito dopo, a  Tiriolo, si delizia dei “vini locali”, più delle donne, che allora si ammiravano per l’abbigliamento tradizionale: “Quelli calabresi non sono stati standardizzati, ringrazio Dio per questo” - anche Soldati sarà reiteratamente di questa idea sui vini, che sono meglio locali, variati.  non standardizzati. A Spezzano Grande compra “bottiglie di vino eccellente”. A Gioiosa “il vino, questa volta, ha il gusto ionico delle mandorle e non delle viole, e visto che stavamo lasciando le coste ioniche per quelle tirreniche, lo bevemmo con estremo gusto”. Il vino di Pellaro, sotto Reggio Calabria, è “una scoperta”. Ci ritorna più volte - “lascia ancora in bocca quell’inconfondibile gusto di mandorle, che è una specialità di questi vini”. Anche a Metaponto, finita la trasvolata della Calabria, trova “una piacevole sorpresa”, il vino: “Vino calabrese d’alta classe, non come quel veleno nero pugliese che di solito vendono nelle stazioni”. Allora come ora, i pugliesi vendono il vino nelle stazioni, i calabresi no.

leuzzi@antiit.eu

I palestinesi come i buchi nel gruviera

"La Cisgiordania, dove milioni di Palestinesi normalmente vivono, ha visto anch’essa uno scoppio di violenza”, dopo il 7 ottobre, “con oltre cento palestinesi uccisi in raid delle forze armate israeliane e in scontri tra israeliani e palestinesi. I coloni israeliani, spesso col sostegno dell’esercito, hanno anche scacciato schiere di famiglie palestinesi dalle loro terre”.
L’intervistatore principe del settimanale riassume un colloquio dettagliato con Hagai El-Had, attivista israeliano, già direttore generale dell’organizzazione non profit B’Tselem, che si occupa del rispetto dei diritti umani nei Territori Occupati da Israele, l’ex Cisgiordania o West Bank. “Cosa è successo dopo il 7ottobre?”. “La politica israeliana di ripulire l’Area C il più possibile dalle comunità palestinesi non è un obiettivo nuovo. L’area C è poco più del 60 per cento della Cisgiordania -  in pratica, tutta la Cisgiordania al di furoi dei maggiori centri abitati e le città palestinesi. I maggiori centri abitati palestinesi sono come i buchi nel formaggio svizzero, dove il formaggio è l’Area C, comprendente tutto: la valle del Giordano, le colline di Hebron Sud, parte della Cisgiordania settentrionale.
“Queste comunità palestinesi sono state sotto minaccia e pressione della violenza militare e della violenza dei coloni e ogni genere di pressione per anni. La frase legale che descrive la cosa è la creazione di un “ambiente coercitivo”, che spinga i palestinesi ad abbandonare di loro propria volontà….” Specie attraverso il divieto di concessione edilizia.
“Quello che è accaduto dopo il 7 ottobre è una escalation di queste procedure. Lo Stato israeliano, attraverso i suoi coloni, tenta di avvantaggiarsi del fatto che tutti gli occhi sono su Gaza e sta intensificando drammaticamente  la pressione sulle comunità palestinesi… Tredici comunità palestinesi hanno dovuto fuggire sotto minaccia (“in horror”) nelle tre settimane dal 7 ottobre”. “Quando dice «comunità palestìnese» ci si riferisce a gruppi di varia entità. Cosa s’intende per comunità palestinese”? “Talvolta può essere un gruppo di poche famiglie, una cinquantina di persone che vivono in un posto, ma anche comunità più grandi. Un piccolo villaggio. Tra cento e duecento persone, che hanno abitato la stessa terra per decenni. Alcune comunità sulle coline di Hebron Sud, quello che stanno facendo è di far fiorire il deserto. …. E Israele sistematicamente li spoglia. Intendo non solo di tutto quello che hanno costruito, ma, per esempio, privandole dell’acqua corrente, degli allacci all’elettricità, ai servizi essenziali…..
“E anche, per essere chiari: tutto ciò che sono venuto descrivendo, tutti questi vari meccanismi che lo Stato è venuto usando, sono avallati dai tribunali israeliani, e dal sistema legale israeliano. Non sono fenomeni casuali che capitano a una singola sfortunata comunità lontana dagli occhi dello Stato. Al contrario, tutto questo è parte di un progetto di Stato israeliano in corso di tentare di forzare, di ripulire, il più possibile di palestinesi fuori dell’area C…”.
L’esercito interviene in molti modi. “Non vi sia consentito di avere acqua corrente e elettricità. Magari avete l’elettricità dai pannelli solari, che vi sono stati donati da un’agenzia umanitaria europea. Ma questi pannelli possono venire confiscati dall’esercito con la scusa che non sono legali. Oppure l’esercito arriva e fa esercitazioni suoi vostri campi. Oppure i coloni arrivano e insolentiscono. Picchiano le persone, le minacciano. Oppure arrivano i soldati e fanno lo stesso. Ci sono posti di controllo. Ci sono minacce. Da anni….”
Isaac Chotiner, The Gaza-ification of the West Bank, “The New Yorker”,  novembre, free online

 

giovedì 2 novembre 2023

Una intelligence per burla

Meloni burlata, si potrebbe pensare che il capo del governo italiano non ha voluto essere da meno degli altri capi di governo europei e si sia prestata - la burla russa come un monumento. E invece no, i suoi servizi, diplomatici e d’informazione, ritenevano i comici russi un vero presidente dell’Organizzazione per l’Unità Africana. Ma allora, che ci stanno a fare? Nemmeno chiedere informazioni all’Oua? I servizi hanno scoperto la burla solo quando è stata pubblicata, quaranta giorni dopo il fatto.
Si arriva al capo del governo senza nessun filtro, né diplomatico né di intelligence. Per di più dopo una serie di burle analoghe ad altri personaggi in vista di cui si è parlato ampiamente. E il capo della diplomazia a Palazzo Chigi, Talo, veniva dalla gestione della sicurezza informatica al ministero degli Esteri.
In questa epoca dell’informazione, si sopravvalutano i “servizi”. Ma a che servono?
Quelli italiani si pagano ingigantendo le mafie. Non hanno saputo informare l’Italia che Hillary Clinton e Sarkozy volevano creare un inferno alle sue porte, in Libia. Si sono rifatti ingigantendo i banditi, di cui fanno dei supereroi, inafferrabili, invincibili. Prima le camorre di “Gomorra”, poi sparite per un paio di colpi bene assestati di giudici e funzionari di polizia. Poi la ‘ndrangheta, di cui come già per le camorre, fanno un impero. Misterioso, remoto. Per di più assortendolo di Madonne, che trovata!, quella della Montagna, quelle che fanno gli inchini… Quando gli ‘ndranghetisti, brutti, sporchi, cattivi, e noti, basterebbe prenderli. O si teme che il business si esaurisca?
Quanto alla mafia propriamente detta, è bastato prendere Riina: la mattanza è finita. Ma chi ha dato a Riina le coordinate esatte, luogo completo di n. civico e orario al minuto secondo, degli spostamenti di Falcone e Borsellino, quello ancora, dopo trent’anni, aspettiamo di saperlo.

Com’eravamo tra le due guerre, e anche dopo

Una cornucopia di annotazioni, riflessioni, abbozzi, racconti minimi. Ordinata dallo stesso Alvaro nel 1950 – premio Strega l’anno successivo. In forma di diario, dal 1927 al 1947. I ricordi anche di una vita, esumati spesso tal quali, non sempre riscritti. A partire dall’istintivo non-fascismo, anche per un errore d’intelligenza politica – lasciando il “Corriere” nel 1919, fu consigliato di cercare  Mussolini, e lui rispose: “Non ci vado, perché non mi piace quello che fa e perché secondo me non ha avvenire”.  Salvo riconoscere, a metà percorso, nel fascismo “un tentativo di europeizzare l’Italia”.
Molto è il residuo del lavoro giornalistico. Qualche pettegolezzo. La potenza di Edda Ciano, nel 1933. O Margherita Sarfatti che dice di Mussolini, nel 1934: “È un teppista”. E incontri, eventi, personaggi coperti per lavoro. Di Berlino a lungo, su modi di essere, di pensare, di capire il mondo dei tedeschi, compresi Walter Benjamin (“critico acuto abbeverato di cultura francese”) e Karl Kraus. Della Turchia. Della Russia sovietica – “atmosfera antierotica”. Di Napoli, dove diresse il giornale di Achille Lauro, ”Il Risorgimento, nella prima metà del 1947. Appunti datati, ma di interesse oggi: una sorta di summa degli anni tra le due guerre, e anche dopo. Con una folla di personaggi: Zavattini, Pirandello, Longanesi…
Molte le riflessioni sul proprio lavoro, di scrittore. “Nella cultura italiana c’è una certa inumanità, per eccesso di realtà o per troppa metafisica; ciò spiega la diffidenza in cui è tenuta dal popolo”. A Charmettes, la residenza di Rousseau, il guardiano ne spiega così il rapporto con madame de Warens: “Sapete, Rousseau era come i fiammiferi svedesi”. “Come?” “Si accendeva soltanto sulla sua scatola”. Molte curiosità. La monaca irlandese bellissima che a Perugia accetta per 300mila lire di farsi scarrozzare per la città in automobile da un uomo ricco – ci ricostruirà un’ala di ospedale. E i viaggi – “i viaggi prolungano la vita”. La Puglia, “il paese delle architetture”. Il Mediterraneo, “un mare che fa paesaggio”.
Si riedita con una prefazione di Saviano.
Corrado Alvaro, Quasi una vita, Bompiani, pp. 320 € 18 

mercoledì 1 novembre 2023

Ovetto scherzetto di Giorgetti

Ci aveva già provato Giorgetti a Pasqua, uomo di punta del partito che non mette le mani in tasca agli italiani, a metterle sui vitalizi dei pensionanti. Un uovo avvelenato - che oggi, notte di Halloween, si può ricordare come ovetto scherzetto. Allora non con l’Inps, che non aveva ancora commissariato, ma con l’ausilio del fido Ruffini, che dirige le Entrate non per scienza ma perché viene dalle esattorie – più si paga meglio mi sento. Sul cedolino di aprile ha caricato “debito Irpef anno precedente”, fino a 500 euro. Poi il mese successivo, a fronte dei ricorsi, l’ha restituito, come “credito Irpef anno precedente”. Ma non per intero, trattenendosi un decimo: a chi aveva sottratto 493 euro ne ha restituiti 439. Furbo, vero?
Obiezioni? Col 730 l’anno prossimo – se ne parla a novembre 2024.                                                          
Una furbata? Si. Assurda? Sì: non doversi fidare delle Entrate e dell’Inps è uno scenario terrificante. Ma i Fratelli d’Italia e la Lega di popolo e di governo sono riusciti a crearlo: una voragine si apre.

Halloween per adulti

Si riprogramma, dopo un anno, un “classico” delle disgrazie accidentali – seguito di “Halloween Kids”, ultimo di una trilogia avviata prima del covid, tredicesimo capitolo di una saga di Halloween, delle morti di bambini e ragazzi per caso, opera di bambini e ragazzi. Ai quali però il film non è indirizzato, non essendo da loro visibile.
La trilogia si fa forte di Jamie Lee Curtis, produttrice e interprete della serie, che però si ricicla, dai ruoli brillanti a testimone e broker delle morti accidentali – scrittrice, madre, personalità locale. Più una descrizione del male, di disgrazie, seppure accidentali, che un accumulo di suspense.
David Gordon Green, Halloween Ends, Sky Cinema, streaming HD su Altadefinizione

martedì 31 ottobre 2023

Governo ladro, di pensioni

Brutta sorpresa giovedì per i pensionati: chi poco e chi molto pagheranno in anticipo il “ricalcolo” delle  ritenute fiscali per l’anno 2023. Che non si farà sul 730, a opera e con le regole delle Entrate, ma ad arbitrio dell’Inps.
Di Micaela Gelera, la contabile sconosciuta appena nominata commissaria dell’Istituto da Meloni. La beneficata ha tirato fuori per il capo del governo il coniglio salva-conti: un prelievo fiscale anticipato sulle pensioni. I pensionati, chi poche decine chi centinaia di euro, pagheranno il loro tributo al governo che non mette le mani in tasca. Specie quelli delle gestioni speciali, ex Indpad, ex Inarcasse, ex Inpgi.
Un “ricalcolo” non annunciato, non spiegato, imposto. Non sull’avere – ci saranno pure casi di saldi attivi nei confronti delle Entrate – ma sul dare. Non si applica la stessa regola alle retribuzioni, che sono protette dai sindacati, né agli altri redditi, protetti dai fiscalisti. Solo alle pensioni. E se non basta il cedolino di dicembre, l’anticipo restante verrà recuperato a dicembre – “Qualora il rateo di pensione mensile non sia sufficientemente capiente per il recupero integrale del conguaglio si procederà al recupero del residuo debito fino al definitivo saldo”, intima Gelera.
Obiezioni? Sì, col 730, fra un anno.
La miracolata commissaria Inps ha esumato un Casellario Centrale dei Pensionati, che non esiste, solo sulla carta, e se ne è servita per ricalcolare in anticipo quanta Irpef i pensionati dovranno ipoteticamente pagare per il 2023. Con criteri suoi, di Gelera: non sono le Entrate che determinano criteri e pesi fiscali, e scadenze, è la fiduciaria di Meloni.

La donna forte anti-sindacati

Semplice “attuario”, tecnico delle assicurazioni, Gelera è diventata commissaria Inps per volere di Meloni - della sorella Arianna, pare. Che le ha anche assegnato una retribuzione di 150 mila euro.
Gelera è commissario, non presidente. È cioè una sola al comando, di mediocre curriculum ma con poteri pieni, anche se l’Inps è l’istituto assicurativo più grande d’Europa.
Il commissariamento non è stato disposto per una situazione periclitante dei conti Inps, ma per estromettere i sindacati dalla dirigenza. Un compito che richiederà un commissariamento di lungo periodo. Ammesso che Gelera e Meloni sopravvivano al prelievo forzoso sulle pensioni. Formalmente solo anticipato, di fatto forzoso: non annunciato, e non disposto dalle Entrate, che hanno procedure specifiche. Col pretestuoso Casellario Centrale dei Pensionati, che non esiste – per dirla con l’italiano di Meloni.


Horror gay

Uno sconosciuto avvicina una bambina e la incarica di dire ai genitori che “loro” stanno arrivando. Quando arrivano, capitanati dallo sconosciuto, è il finimondo: il gruppo ha avuto visioni, +stato comandato di raddrizare le cose, non c’è vilenza che non si conceda.
Il modulo horror, di una minaccia più grave della precedente, di cui pare che il regista indiano sia specialista, seppure al modo di Hollywood. Solo che non ci sono donne, a parte due megere dei “loro”, e la bambina – i genitori sono una coppia gay.
M. Night Shalamyan, Bussano alla porta, Sky Cinema

lunedì 30 ottobre 2023

Il mondo com'è (467)

astolfo


Ignatius Sancho
– È stato il primo africano a esercitare il diritto elettorale in Gran Bretagna, nel 1776. Schiavo affrancato, negoziante di coloniali, musicista, polemista, per l’abolizionismo, in innumerevoli lettere, e in due drammi.
Era nato nel 1729 su una nave negriera in rotta verso l’America. La madre morì subito dopo l’arrivo al mercato di destinazione, nella Nuova Granata, la colonia spagnola oggi suddivisa fra Colombia, Ecuador, Panama e Venezuela. Il padre si suicidò subito dopo. Il gentiluomo cui il bambino era stato venduto se lo portò con sé a Londra – Ignatius, così battezzato da nome del vescovo spagnolo, aveva due anni – e lo lasciò in affido a tre sorelle di Greenwich. Che lo soprannominarono Sancho perché così si immaginavano il Sancho del “Don Chisciotte”. Con loro Ignatius visse per diciotto anni. Alla maggiore età passò nelle case di Lord Montagu (John Montagu, secondo duca di Montagu), un gentiluomo che frequentava le tre sorelle di Greenwich, e aveva provveduto a fargli apprendere lettura e scrittura, consigliato personalmente le letture da fare, avendo rimarcato nel giovane africano una forte disposizione alla letteratura.
Ignatius servì in varie case dei Montagu come maggiordomo. Nel 1768 Thomas Gainsborough ne fece il ritratto, tra una posa e l’altra di Lady Montagu per il suo proprio, famoso, ritratto. Ebbe anche la possibilità di sposarsi, con una giovane africana delle Indie Occidentali – con la quale avrà sette figli. E nello stesso 1768 scrisse una lettera presto famosa a Lawrence Sterne, per invitarlo a unirsi al movimento abolizionista – Sterne fu sorpreso dalla coincidenza, poiché stava scrivendo una scena a Lisbona che era dispiaciuta al suo viaggiatore, di disprezzo verso un africano, rispose eloquentemente a Ignatius, e rese pubblico lo scambio. Ignatius divenne così un personaggio pubblico.
Lord Montagu lo aiutò anche ad affrancarsi, come commerciante, con un suo proprio negozio di coloniali. Ignatius divenne presto parte prominente del movimento abolizionista della schiavitù, con varie pubblicazioni letterarie (saggi, drammi), e lettere a giornali – firmate talvolta “Africanus”.
Il negozio gli servi anche come salotto, che personaggi in vista frequentavano: lo stesso Gainsborough, l’attore shakespeariano David Garrick, il violinista torinese Felice Giardini, molto famoso a Londra, tra gli altri. Ignatius si dilettava infatti anche di musica – autore di una “Theory of Music” di cui però non resta traccia, e di quattro collezioni a stampa di canzoni e danze.
In quanto “provvisto di mezzi propri”, aveva il diritto di votare, e lo esercitò, nel 1776 e nel 1780 – l’anno in cui morì. Divenendo per questo molto popolare, come “lo straordinario Negro”, etichettato come il primo africano a esercitare il diritto di voto. 
 
Newgate Calendar
– Era il bollettino inglese delle esecuzioni capitali. Mensile, inizialmente pubblicato dal direttore della prigione londinese di New Gate. A metà Settecento la testata fu piratata da piccoli editori che vi pubblicavano chapbooks, brevi storie, molto colorite, di crimini e criminali per qualche verso famosi, specie per la crudeltà. Pubblicazioni economiche, che presto divennero le più diffuse.  
 
Red Letter Scare
– Il panico della “lettera rossa”, si diffuse a Londra nel 1924, alla vigilia delle elezioni parlamentari. Una lettera da Mosca che sarebbe stata scritta e inviata da Zinov’ev, in qualità di presidente dell’Internazionale Comunista, al Comitato Centrale del partito Comunista britannico per incitarlo a un’attività di agitazione a fini di sovversione politica. Una lettera pubblicata dai giornali con grande clamore quattro giorni prima del voto, che allarmò molto il pubblico, suscitando un’ondata di repulsione contro il laburismo, oltre che contro il partito Comunista. Un documento fabbricato, probabilmente dal Secret Intelligence Service britannico (Sis), per favorire il partito Conservatore al voto – che poi vinse, contro le previsioni.
 
Ruggero Vasari
– Immaginava un secolo fa una sorta di intelligenza artificiale. Si ricorda per essere stato, con Vinicio Paladini, l’artefice dei contatti stretti fra la cultura italiana e quella russa nei primi decenni del Novecento. Autore di drammi futuristi espressionisti, ebbe uno spicchio di notorietà con “L’angoscia delle macchine”, un dramma che prefigurava l’universo totalmente meccanizzato di molte distopie successive.
A Berlino nel 1923 conobbe e frequentò la poetessa Ol’ga Fëdorovna Revzina, che l’anno dopo sarà inviata da Mosca a Roma - era una spia – all’ambasciata sovietica, e sarà da lui introdotta negli ambienti delle avanguardie artistiche , il Teatro degli Indipendenti dei Bragaglia, i circoli, le riviste  – con lo pseudonimo di “Elena Ferrari” il “colonnello” Revzina divenne anche poetessa di nome.
 “Poeta, drammaturgo e gallerista cosmopolita, Vasari frequenta gli ambienti dell’avanguardia di Berlino e Monaco all’indomani della Prima guerra mondiale, fungendo da vero e proprio ambasciatore del futurismo italiano all’estero e ponendosi come ponte culturale con circoli espressionisti” (Antonella d’Amelia, “La Russia oltreconfine”, 117-118). A Berlino, luogo di transito dopo la rivoluzione d’Ottobre di scrittori e artisti russi (Šklovskij, la futura Esa Triolet, Remizov, Belyi, Erenburg, Berdjaev, Bulgakov, molti esiliati sul “piroscafo dei filosofi”), animato da molte avanguardie artistiche dopo la sconfitta, Vasari animò nel quartiere di Charlottenburg la galleria d’arte Casa  Internazionale degli Artisti, ispirata al modello berlinese della Casa delle Arti russa, e vi espone Boccioni, Depero, Prampolini, Pannaggi. Fondò e diresse il periodico “Der Futurismus”, per sostenere il primato del futurismo italiano nell’innovazione teatrale e dell’architettura scenica. Mentre per la rivista “L’impero” mandava corrispondenze approfondite sulle avanguardie russa, tedesca e francese. Nel 1922 aveva organizzato a Berlino, a marzo, una mostra che fece epoca, “la Grande Mostra Futurista”, al Graphische Kabinett, una elegante galleria sul Kurfürstendamm, dove ai futuristi italiani aveva affincato artisti di altri paesi, specialmente russi. Vera Idel’son vi aveva esposto un quadro astratto, intitolandolo “Compenetrazioe  degli io del poeta Vasari”.
Con Vera Idel’son Vasari avviò un rapporto stretto, coinvolgendola in numerose iniziative futuriste. Soprattutto a Capri. Dove nel 1924 organizzò al Quisisana una rappresentazione  di “teatro sintetico” con Marinetti rimasta negli annali per i fischi. E l’anno dopo, sempre al Quisisana, un “Superbalfuturista”, sempre con Marinetti, che invece divertì.
È attorno a “L’angoscia delle macchine” che raggiunse notorietà negli ambienti teatrali, e più inteso il rapporto con Vera Idel’son. Nel 1924 “L’angoscia delle macchine” doveva andare in scena al Dramasticher Theater di Berlino, regista Fred Antoine Angermayer, costumi e scene di Vera Idelson, ma il teatro fece bancarotta prima. Idel’son allora adattò scene e costumi per la VolksBühne, il teatro del popolo, ma il progetto poi abortì (bozzetti e costumi saranno pubblicati l’anno dopo dal periodico d’avanguardia “Der Sturm”, con un numero speciale dedicato al dramma di Vasari). Idel’son non si diede per vinta: essendosi spostata a Parigi nel 1926, il 27 aprile 1927 metteva in scena “L’angoscia delle macchine” al teatro Art et Action. Con due recensioni entusiaste: una su “L’Impero”, anonima ma molto ampia e in stile Vasari, e una, anch’essa entusiasta,  a firma Giuseppe Mazzesi, su “La Gazzetta”, il giornale di Messina, di cui Vasari era originario. “Ampliando il diapason tematico dei drammi di Karel Čapek (“R.U.R”, 921) e Romain Rolland (“La Révolte des Machies”, 1921) e del film muto italiano “L’uomo meccanico”, 1921, Vasari descrive un mondo del futuro meccanizzato , in cu su una stazione aerospaziale tre despoti, Bacal, Singhar e Tonchir, dominano un regno delle macchine e un popolo di robot” (Antonella d’Amelia, cit.).
Oltre che di Idel’son, si deve a Vasari anche l’avvicinamento all’arte italiana di Niklaus Strunke, l’artista lettone che, a Berlino con una borsa di studio del suo paese, è convinto da Vasari a studiare e operare in Italia.  
Su wikipedia Vasari vanta la bio più scarna, una riga – legarlo alla nobile famiglia Basile-Vasari di Santa Lucia del Mela (Me).

astolfo@antiit.eu

L’allegria del funerale

Per celebrare Matthew Perry, l’anima della serie, morto a 54 anni nella vasca da bagno, si esuma lo spettacolino messo su qualche tempo fa con tutti i protagonisti, oltre Perry, Jennifer Aniston, Lisa Khudrow, Matt Le Blanc, etc.,  Attorno a un tavolo con un presentatore incaricato di identificarli uno per uno, soprattutto gli uomini, imbolsiti o incanutiti, che li identifica uno per uno, con scenetta d’accompagno. E negli ambienti del vecchio sceneggiato, l’appartamento di New York, interni tirati su dentro un vecchio capannone, i protagonisti a ricordarsi l’un altro questo o quell’aneddoto. Tutti col sorriso e la risata, dopo abbracci e baci. Tutti fuori ruolo. Specie Perry, quasi muto. Ma anche i più loquaci e effusivi, Le Blanc soprattutto, o Aniston. Gli ideatori e sceneggiatori della serie, ora vecchissimi, hanno riequilibrato un po’ lo spettacolino, ma potevano poco.
Queste “reunion” sono ormai un genere a parte, dai Rolling Stones in giù. Forse un affare. “Friends” era una sit-comedy brillante, per questo era andata in tutto il mondo – si parla di una ventina d’anni fa. La “reunion” serviva per programmare a buon mercato un paio d’ore d’intrattenimento, sperando che qualche milione di fan delle decine di milioni della serie si scuotesse. Ma è un invito alla malinconia, tanto lo squallore. Le “reunion” sono anche un genere che già non se ne può più – sembrano il rinfresco dopo il funerale, come è l’uso in America.   
Ben Winston,
Friends – The Reunion, Sky Documentaries

domenica 29 ottobre 2023

Ombre - 691

Grande manovra economica: “Pannolini, iva al 22 per cento – pannolini e seggiolini per l’auto usciranno dalla categoria dell’Iva agevolata, che era al 5 per cento”. Per il latte in polvere l’Iva sale solo dal 5 al 10 per cento”. Per agevolare la maternità, del governo che non mette le mani in tasca?
È vero che si possono mandare gli infanti anche senza pannolini, in Italia fa caldo. Ma è pure vero  che Meloni sembra sempre più una figurina dei videogiochi – è anche sempre lì a dire qualcosa (con l’unica parlata romanesca antipatizzante, quella nasale).
 
In Cisgiordania “dall’occupazione del 1967 a oggi i coloni sono passati da poche decine a 700 mila, in 279 insediamenti. Dal 7 ottobre gli omicidi sono stati 110”. Di chi? A opera di chi? Il “Corriere della sera” non lo dice, la vecchia pagina dei giochi enigmistici esuma per le pagine della guerra.
 
Non si è letta finora una sola critica di Netanyahu e del suo governo. Nonché della sua politica di colonizzazione – i sui coloni sparavano anche prima del 7 ottobre. Di un personaggio e un governo che pure erano fortemente contestati come antidemocratici. E hanno lasciato sguarnita la frontiera con Gaza per dare mano ai coloni col mitra in Cisgiordania.
 
Fa il tifo anche la Consob. Fra le centinai di società che monitora, solo sui bilanci della Juventus trova da ridire – che il club affida ai contabili più titolati. Che la Consob sia una cellula interista – magari all’insaputa del vegliardo dimenticato che la dirige? Non sarebbe una novità: era interista anche il Procuratore che con le carte della stessa Consob ha messo lo stesso club sotto processo.
 
Il megaprocesso annunciato un anno fa dalla Procura contro la Juventus la stessa Procura ha poi abbandonato alle procedure, le è bastato il danno che la “giustizia sportiva” dell’onesto Chiné ha provveduto su suo input a infliggere al club. Ma non c’è da lamentarsi,  altrove c’è la guerra, c’è chi sta peggio. E poi quasi quasi Chiné e la Consob fanno un favore alla Juventus rendendola simpatica: le allargano il mercato.
 
Che la Consob sia gestita da tifosi piuttosto che da Savona dà anche un po’ l’idea dell’Italia: è inutile farsi illusioni. Anche il Savona, ottantasettenne aggrappato alla poltrona, non permette illusioni.  
 
Moti commossi tributi di giornalisti di sinistra, Vecchio, Merlo, Cazzullo, a Buttafuoco, giornalista di destra, nominato al vertice della Biennale di Venezia. Si aprono nuove carriere, chiudendo i giornali.
 
“Al “Venerdì di Repubblica” tocca scusarsi perché un “Serafino”, corrispondente della Aspesi, aveva attribuito alla ministra Roccella la giustificazione dell’eccidio di Hamas in Israele il 7 ottobre come “un disegno di Dio”. Può capitare, supposto che Serafino sia reale, che la lettera sia reale. Può anche capitare che Aspesi condivida l’odio contro Roccella. Ma un giornalismo notabilare, da vecchi arnesi  del “così non si può più andare avanti”?
 
Tocca a Vera Politkovskaja, la figlia di Anna, uccisa nel 2006, a Mosca, da “sconosciuti”, difendere la Russia, su “Repubblica”, pilastro dell’atlantismo, sul supplemento “Robinson”, con abbondanza di riferimenti. Nella sintesi del settimanale: “I miei connazionali, in Europa, vengono espulsi dalle università, i loro figli vessati nelle scuole; confiscati i loro immobili,  anche se non sono criminali; licenziati per la loro cittadinanza”. L’Europa in armi.
 
Vince Gallani, ma a Monza ha votato uno su cinque. Che rappresentatività ha il  neo senatore? Che radicamento hanno Galliani, e il suo santo Berlusconi, che pure Monza hanno gratificato tanto?
 
Alberto Barachini, ex giornalista, ex socialista, Forza Italia, sottosegretario all’editoria, propone Giuliano Aamto, 85 anni, alla presidenza alla “commissione futuro”., la commissione governativa di studio dell’intelligenza artificiale. E Amato, ex socialista, ex presidente di numerose autorità, accetta. Il futuro è nel passato. Ma quello socialista lo fanno sempre inglorioso.
 
La Juventus mette la parola fine alla farsa di Calciopoli che l’ha mandata in serie B, dopo 17 anni. Cìoè mette la parola fine una parte della famiglia Agnelli, ora Elkann, che era per Calciopoli, per questioni loro, e non vedeva l’ora di chiudere la vicenda – di strappare il club all’ala Umberto Agnelli. Affari loro, ma una vergogna nella vergogna. Di quando Guido Rossi, consigliere d’amministrazione dell’Inter passato al vertice della Federazione Calcio, assegnò lo scudetto d’autorità alla sua squadra – che al processo risultò non meno imbricata con la federazione arbitri della Juventus. Il governo del calcio è talmente senza vergogna da lasciare a bocca aperta.

La santità del nulla

Le tentazioni di sant’Antonio eremita. Nel deserto, l’Antonio della Tebaide. Con le note lusinghe diaboliche: il sesso, l’ambizione, l’intolleranza, la violenza. Da parte di un Diavolo professore di spinozismo (panteismo).
È una sorta di autoritratto. Flaubert è vorace, bulimico, insaziabile, e dunque, poiché non può avere tutto, vive del desiderio di vivere (Sartre): Antonio nel deserto è ascetismo e desiderio insieme. O non è ritenzione, il piacere orientale prolungato nell’astensione, nell’eccitazione diluita? In questo senso, è molto più flaubertiano.
È la prima opera conclusa di Flaubert, 1849, a 28 anni. Che lui pensava conclusa e lesse febbrilmente, per quattro giorni di fila, agli amici Bouilhet e Maxime di Camp – col quale si apprestava al lungo viaggio in Oriente. Spernacchiato dagli amici, rinunciò alla pubblicazione ma non all’idea. Dopo tre rielaborazioni, pubblicherà infine anche queste “Tentazioni”, nel 1874, su spinta di Turguenev – dicendo: “È l’opera di tutta la mia vita”. Merita dunque rispetto, è ventisette anni di lavoro.
Un’opera composita, non di genere definito. Sotto forma teatrale, ma non è dramma. Fa largo spazio al contesto storico, erudito. Ma non è storia. È antifrastiscamente un gioco al massacro delle figure della religione, ma non è un libello. Piuttosto un lungo, ripetuto interrogarsi sulla fede e l’allucinazione, credere come volontà di credere. È il primo testo poi pubblicato in cui Flaubert esercita la scrittura fatta con le letture, con i libri dell’erudizione – pratica poi satirizzata in “Bouvard e Pecuchet”:
È narrativamente una sorta di sceneggiatura, con lunghe didascalie e tratti dialogati. Nata sulla “Tentazione di sant’Antonio” di Brueghel a Genova, palazzo Balbi, che Flaubert a 24 anni visitò (era a Genova con la famiglia per il viaggio di nozze della sorella Caroline, sorvegliato speciale del padre Cléophas, benchérà infine libero, ma ormai nella configurazione psicologica indelebile di paguro). Nata come idea teatrale, cosi Flaubert ne scrisse subito all’amico intimo Le Poittevin – alla cui memoria sarà poi dedicata.
È figurativamente il corrispondente dei ghirigori del futuro Art Nouveau. Di un Oriente pittoresco, tra India e deserto. Non molto inventivo, molto è il “Faust” di Goethe. Forse robusto sul piano filosofico, a proposito di piacere o voluttà, di verità, di una certa idea del divino, fra le tante qui praticate o combattute, e del tutto è niente. Sotto lo spettro di Spinoza, come gli studi francesi si accaniscono ad argomentare, ma anche di sant’Agostino, in tema di passione e di colpa.
Antonio è Flaubert, anche lui: è l’artista che sceglie di vivere solo, il deserto. Flaubert era un eremita in casa. Quando la poetessa Louise Colet, con la quale pure si confidò per anni, si presentò a casa sua a Croisset, una sorta di tebaide, la tenne al cancello, benché piovesse a dirotto. Le “Tentazioni” sono il suo amore per l’arte, la sua passione esclusiva.
La vulgata biografica vuole che Flaubert ogni anno andasse a Rouen quando si esibiva un marionettista cantastorie, soprannominato Sant’Antonio perché sceneggiava la vita dell’eremita. Nello studio a Croisset tenne sempre al muro un’incisione di Callot sulle tentazioni di sant’Antonio, che si era comprato presto, nel 1846 – dopo quella di Brueghel il Vecchio che si era comprata a Genova l’anno prima. E si dice che quando la Prussia invase la Francia nel 1870, abbia seppellito il manoscritto delle “Tentazioni” in giardino per salvarlo dagli invasori. Furono queste “Tentazioni” che lo risollevarono dalla sconfitta ingiuriosa: “Quest’opera stravagante mi impedisce di pensare agli orrori della Comune”, la rivolta popolare a Parigi che seguì l’invasione e la sconfitta: “Quando troviamo il mondo troppo malvagio bisogna rifugiarsi in un altro mondo”, confidava a un corrispondente. Senza mancare di humour: “Ecco più di trent’anni che sono nel deserto a lamentarmi sempre!”.
Edmond de Goncourt ne annota le stranezze nei “Diari”, non del libro ma delle confidenze di cui Flaubert lo faceva materia. Quando glielo sintetizzò come una sorta di fissato, un martire che si lasciava incantare dal niente, da “piccole masse nebulose, grandi come capocchie di spillo e cigliate sui bordi”, dopodiché si rifaceva il segno della croce e tornava a pregare, “lo strano”, nota Goncourt, “è che sembra stupirsi del mio stupore”.
Più forse serve ricordare quanto Pavel Florenskij, iperflaubertiano, dice nel lungo saggio “Antonio del romanzo e Antonio della tradizione”: “È con la freddezza del chirurgo che egli incide l’anima, le esalazioni più fragranti degli ideali, le migliori tra le fantasie umane, e tutto trasforma in un mucchio di rifiuti, nella polvere grigia e letale del nulla”. La santità del nichilismo, dunque. Ma “con tanta soavità e armonia che il lettore è disposto a seguirlo”. Di Antonio si sa che il palestinese Ilarione, che volle incontrarlo personalmente nei suoi propri vagabondaggi, fa dire: “La verità non esiste e non è necessaria”. 
La traduzione, curata da Bruno Nacci, lega la trattazione al genere della vite dei santi, e aiuta a districarsi, anche grazie a un glossario, fra le innumeri sette che, più del diavolo meridiano, tentavano il santo anacoreta – Antonio visse tar III e IV secolo: gli Ariani naturalmente, e gli Asciti, Apollinaristi, Valentiniani, Cainitu, Novaziani, Colliridiani, Marcioniti, Rencratiti, Cerinziani, Merinziani. Sant’Antonio ora non dice niente ai più, ma è stato forte nella devozione (sant’Antonio da Padova) e nella tradizione (sant’Antonio Abate o l’Eremita). Michela Murgia nel “Viaggio in Sardegna” trova a Ottana, al centro dell’isola, per sant’Antonio Abate il 16 gennaio, la celebrazione del rito dionisiaco della fertilità, con maschere. Perché il 16? Perché “la festività di sant’Antonio Abate ha sincretizzato in forma cristiana quasi tutti i rituali legati al culto dionisiaco”.

Gustave Flaubert,  Le tentazioni di sant’Antonio, Carbonio, pp. 176 € 16,50