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sabato 2 marzo 2024

Problemi di base identitari bis - 793

spock

È il popolo un pioppeto - tutti uguali?
 
Tutti figli di una stessa madre – poveretta?
 
Quattro quarti di che: di nobiltà, di arianità, alla Bretone, alla chitarra (dei Beatles)?
 
Si è forti perché si è forti, o perché si è deboli?
 
È l’armonia lo stesso suono ripetuto o una combinazione di suoni?
 
La dialettica dei distinti come più vera di quella degli opposti è solo fisima di Croce?

spock@antiit.eu

Quando Craxi salvò la vita di Gheddafi

Val la pena rileggere questa memoria di Sergio Romano, diplomatico e storico, non tanto per la ricorrenza dei venticinque anni, o quanti sono della morte di Craxi, quanto di un certo modo di fare politica, in epoca anche recente, sebbene suoni oggi inverosimile, nel rapporto pure di fedeltà agli gli Stati Uniti (dal “Corriere della sera” del 9 marzo 2011, “Opinioni-Lettere al Corriere”):

Corrisponde al vero che nel 1980 fu Bettino Craxi a salvare la vita a Gheddafi informandolo che gli americani lo volevano uccidere?Angelo Marzoratiangelo.marzorati@gmail.com

“Caro Marzorati,
accadde nell’aprile del 1986, pochi giorni prima dell’incursione aerea americana contro la grande caserma Bab al-Aziziya di Tripoli, costruita durante il periodo coloniale italiano, in cui Gheddafi ha fissato la sua residenza nella capitale. I missili dell’aviazione degli Stati Uniti fecero parecchie vittime e uccisero la figlia adottiva del colonnello (il suo letto è stato collocato all’interno di una grande teca di vetro in una stanza del palazzo), ma Gheddafi ne uscì indenne. L’intervento di Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, è stato confermato tre anni fa durante un convegno organizzato a Roma nella sede del ministero degli Esteri. Fra i partecipanti vi era Muhammed Abdulrramahan Shalgam, uno dei personaggi più interessanti della classe politica libica. Come ha ricordato Maurizio Caprara sul Corriere del 28 febbraio, Shalgam è stato ambasciatore a Roma dal 1984 al 1995, ministro degli Esteri dal 2000 al 2009, rappresentante della Libia all’Onu dal 2009 al momento, pochi giorni fa, quando ha preso pubblicamente posizione contro Gheddafi e ne ha denunciato i crimini contro l’umanità. Durante il convegno romano, Shalgam, allora ministro degli Esteri, disse che il messaggio di Craxi gli fu trasmesso da Antonio Badini, consigliere diplomatico del presidente del Consiglio. Giulio Andreotti, presente all’incontro, confermò la circostanza («credo proprio che dall’Italia partì un avvertimento per la Libia ») e aggiunse: «Quell’attacco americano era una iniziativa impropria». Le ricordo, caro Marzorati, che Andreotti era allora ministro degli Esteri e non si esprimerebbe in questi termini se avesse qualche dubbio sul ruolo del governo italiano in quella vicenda.
“La parola «impropria» appartiene allo stile distaccato e ironico di Andreotti, ma riflette perfettamente le preoccupazioni italiane per un «omicidio mirato» che avrebbe compromesso la politica del governo Craxi nella regione. In quali mani sarebbe caduta la Libia se Gheddafi fosse stato ucciso? Quali sarebbero state le reazioni, non tanto dei governi arabi (alcuni di essi sarebbero stati probabilmente felici della scomparsa del colonnello) quanto dei loro cittadini? Conveniva all’Italia che il Mediterraneo diventasse un lago americano?
“Resta da capire perché il Colonnello abbia risposto al gesto amichevole del governo italiano lanciando un missile che cadde nelle acque di Lampedusa. Al convegno di Roma Shalgam rispose: «Perché gli Stati Uniti usarono Lampedusa; la Libia reagì contro gli Stati Uniti, non contro l’Italia». Nell’isola esisteva effettivamente una stazione radio americana, ma è probabile che Gheddafi, pur apprezzando il gesto di Craxi, non abbia rinunciato ad agitare lo spettro dell’Italia colonialista, «nemico secolare» della nazione libica. Era il mito su cui aveva fondato il suo potere e non intendeva farne a meno”.

 

Gogol’ sulla traccia di Jean Paul

Due infatuazioni sul corso di San Pietroburgo, teatro del tempo vuoto dei suoi migliori abitanti, e anche degli altri. Per esempio di un artista, fenomeno straordinario a San Pietroburgo, città di “impiegati, mercanti, e artigiani tedeschi” – “un artista nel paese delle nevi, un artista nel paese dei Finni,dov tutto è fradicio, piatto, senza rilievo, lavato, grigio,caliginoso!” (niente a che vedere con gli “artisti italiani, alteri, ardenti come l’Italia e il suo cielo”). Un artista giovane e povero, segnato  dall’Apparizione, di una bellezza giovanissima e svergognata, al punto che “i sogni divennero la sua vita” – fino a una brutta fine. Il tenente dongiovanni, invece, vi si scontra con la dura bellezza tedesca, e col suo suo rude marito, ma la prende come deve, senza rancore. Fra tragedia e commedia la Prospettiva resta impassibile.
Un racconto degli “Arabeschi” pietroburghesi, di Gogol’ giovane, bene introdotto, riconoscente. Con una cifra “umoristica” straordinariamente simile, a proposito della città russa abitata da tedeschi,  a quella di Jean Paul. Una lettura che forse Gogol’ non ha fatto? Comunque ignota ai suoi critici.
La traduzione è rivista da Paolo Nori, l’ultimo  gogoliano.
Nikolaj Gogol’, La prospettiva Nevskij, Garzanti, pp. 96 € 5,90

venerdì 1 marzo 2024

Problemi di base identitari - 792

spock


Che cosa costituisce una costituzione?
 
Tutti fratelli, tutti uguali, tutti anonimi?
 
La diversità è a pregio, o a difetto?
 
Si è perché si è stati?
 
È la tradizione immutabile?
 
Il primo melting pot  è stata New York, oppure Roma?

spock@antiit.eu

La follia russa

“Confesso che da qualche tempo ho cominciato a vedere e sentire cose che nessuno ha mai visto o sentito”: le letterine che si scrivono le cagnette Madgie e Fidèle, o lo strano caso della Spagna che non trova un re, e chiede a lui di farlo, gli impone anche il nome, Ferdinando VIII. L’impiegato (“consigliere titolare” nella rigida minuziosa tassonomia russa, di Pietro il Grande nientemeno) Poprišcin se ne approfitta per starsene a casa, accudito dalla pulitissima serva finlandese -“queste stupide finlandesi fanno le persone pulite sempre a sproposito” (ma più in generale sono le donne a disturbarlo, dopo un’infatuazione per la figlia del direttore, una volta che cercava il padre in ufficio: “la donna è l’amante del demonio”). Finirà in manicomio, tra docce fredde, nel gelo, e silenzio.
È uno dei “Racconti degli arabeschi”, 1835 (con “Il ritratto” e “Il corso Nevà”), anno prolifico, nel mezzo della decade prodigiosa di invenzioni, racconti, teatro. Subito caratterizzato, spiegherà il suo entusiasta lettore Nabokov ai suoi propri studenti americani, come “il più strano poeta in prosa che la Russia abbia mai prodotto”.
Il racconto prende una ventina di brevi pagine. Il paratesto tutto il resto. La metà del quale sono appendici - frammenti, note, appunti di Gogol’: “Il Vladimir di terzo grado”, “La mattina di un uomo indaffarato”, “La causa”.
Le memorie di un pazzo è tema ricorrente della letteratura russa dell’Ottocento, di Tolstòj anche (proposte per la prima volta in traduzione da Corrado Alvaro), e di Dostoevskij (“Sogno di un uomo ridicolo”)  – fenomeno analizzato  da Paolo Nori. Ma si direbbe della letteratura dell’Ottocento – celebri anche quelle di Flaubert.
A cura di Serena Vitale. Che pone il racconto nel quadro della “follia russa”, sotto la citazione dostoevskijana: “San Pietroburgo, una città di mezzi matti”. Per iniziare. E per finire con la citazione per intero: “Sono convinto che a San Pietroburgo ci siano molte persone che vanno in giro parlando da sole. È una città di mezzi matti ... È raro trovare così intensi, cupi, strani influssi sull’animo umano come a San Pietroburgo...” (Svidrigajlov, in “Delitto e castigo”).
Nikolaj Gogol’, Memorie di un pazzo, Adelphi, pp. 103 € 10

giovedì 29 febbraio 2024

Il mondo com'è (473)

astolfo


Complotto – È di origine e natura letteraria, stabilisce U. Eco, che lo ha analizzato lungamente  in “Sei passeggiate nei boschi narrativi”, pp. 164 segg.. Un romanzo. La mania non sarebbe recente.
Eco, che ne fa “un esempio terribile” del condizionamento che la “finzione narrativa” esercita sulla vita quotidiana, la data all’inizio del XIV secolo, “quando Filippo il Bello distrusse l’Ordine dei Templari”: il potere è diventato occulto. “Nel XVII secolo nasceva un’altra storia, quella dei Rosa-Croce”, una “costruzione romanzesca” sulla quale “si è inserita nel XVIII secolo la Massoneria detta «occultista e templare»”, quella dei “costruttori del Tempio di Salomone”.
Con la rivoluzione francese il salto verso le demonologie contemporanee della storia. Avviato dall’Abate Barruel, il gesuita del contro-complotto, quello del giacobinismo, del rivoluzionarismo, “Mémoires pour servir à l’histoire du jacobisme”: dai Templari alla Massoneria (Voltaire, Turgot, Condorcet, Diderot e D’Alembert). Una setta però  anch’essa sottomessa, agli Illuminati di Baviera, che sono anche regicidi.
Per reazione a Barruel si sviluppa la leggenda nera dei gesuiti: “Più che alcuni scrittori «seri» (da Michelet a Quinet a Garibaldi e Gioberti), l’autore che rese  popolare questo motivo fu un romanziere, Eugène Sue. Ne «L’ebreo errante» il malvagio Monsirìeur Rodin, quintessenza della cospirazione gesuitica, appare chiaramente come una replica dei Superiori Sconosciuti di clericale memoria”.
Fin qui non c’entrano gli ebrei. “Il libro di Barruel non conteneva alcun riferimento agli ebrei. Ma nel 1806 Barruel ricevette una lettera da un certo capitano Simonini” che lo allertava sul ruolo degli ebrei: lo erano Mani e il Veglio della Montagna, “notoriamente alleati dei Templari originari”, “la massoneria era stata fondata dagli ebrei”, ebrei erano “infiltrati in tutte le società segrete”. Una lettera che sarebbe “stata forgiata da agenti di Fouché, il quale era preoccupato dei contatti di Napoleone con la comunità ebraica francese”.
Barruel non rilanciò l’ipotesi, preoccupato “che a pubblicarla si sarebbe corso il rischio di un massacro”. Ma i gesuiti, quando “iniziarono a preoccuparsi degli ispiratori anticlericali del Risorgimento, come Garibaldi, che erano affiliati alla massoneria”, la rilanciarono: “L’idea di mostrare che i Carbonari erano gli emissari di un complotto giudeo-massonco appariva polemicamente fruttuosa”.
Il complotto” ebraico apparirà più tardi, nel 1868. Naturalmente, sottolinea Eco, in un romanzo: “Biarritz” di Hermann Goedsche, “un impiegato delle poste tedesche”, che si firmava Sir John Retcliffe, e la scena centrale mutua dal “Giuseppe Balsamo” di Dumas. Trasformando i Superiori Sconosciuti di Dumas nei “rappresentanti delle dodici tribù di Israele, che si riuniscono per preparare la conquista del mondo, come viene palesato senza infingimenti dal Gran Rabbino”.
Cinque anni dopo un libello russo, “Gli ebrei, signori del mondo”, ripropone la scena “come se si trattasde di cronaca vera”, attribuendola  un “diplomatico inglese, Sir John Readcliff”, deformazione del Retcliffe-Goedsche, il postino tedesco.
In precedenza, nel 1864, “un certo Maurice Joly” aveva scritto un libello liberale contro Napoleone III. In cui Mntesquieu si trova a dialogare con Machiavelli-Napoleone III, come teorico cioè – secondo la vulgata machiavellica - del fine giustifica i mezzi. Joly finì male: arrestato e condannato a quindici anni, suicidia. Ma il suo libello è ripreso a fine secolo, nel 1896, sempre in Francia, in “Les Juifs, nos contemporains” di François Bournand: il convegno massonico del “Balsamo” di Dumas, come riscritto da Goedsche-Retcliffe, e il complotto di Machiavelli-Napoleone III diventano il discorso e il progetto del Gran Rabbino. Per una pubblicistica diffusa.
In parallelo, la vicenda si svolge anche in Russia – sempre sulla carta. Qui, in un periodo che Eco si dimentica di dire (ma è il il primo Novecento), maturano i “Protocoli dei Savi Anziani di Sion”, 1903. Di essi una tradizione, che Eco non considera, vuole autore Élie de Cyon, un medico russo-francese, di famglia ebraica, che li avrebbe scritti nel mentre che preparava la sua conversione al cattolicesimo (1908). Eco li iscrive nel “racconto”: il capo dell’Ochranà, la polizia politica zarista, Pëtr Ivanovič Rachovskij, un estremitsa anarchico passato a informatore della polizia e membro attivo delle Centurie Nere, organizzazione terroristica di estrema destra, perquisisce la casa del dottor Cyon, in quanto oppositore del capo del governo, il conte Sergej Witte, il primo primo ministro della Russia, carica creata con la prima Costituzione russa, da lui promossa dopo i moti del 1905. In casa di Cyon Rachovskij trova ricopiato (il medico aveva abitato a lungo a Parigi) il testo di Joly contro Napoleone III, in cui Machiavelli figurava essere il conte Witte. Rachovskij, nell’ipotesi “romanzesca” dello stesso Eco – ha un lampo, da forte antisemita delle Centurie Nere: togliere dal manoscritto il nome di Witte e metterci il Gran Rabbino. Attribuendo tutto a Cyon – il nome, in francese, si dice Sion. “Questo testo”, conclude Eco, riferendosi ai “Protoclli”, “rileva la sua forma romanzesca perché è poco credibile, se non in un romanzo di Sue, che i «cattivi» esprimano in modo così scoperto e svergognato i loro malvagi progetti. I Savi dichiarano candidamente di avere «un’ambizione sconfinata, una ingordigia divoratrice, un desiderio spietato di vendetta e un odio intenso”.
 
Cosacchi – “Sono ovunque in Russia, ma sono diversi”, K.Hamsun, “Terra favolosa”, p. 31-32.  Sono lirici, di una poesia “la più sinceramente sentita e la più melodiosa” delle popolazioni della steppa, tatari, calmucchi, chirghisi. E sono diversi: “La steppa è unica e uniforme per tutti i popoli nel grande territorio della Russia. Ma il cosacco si distingue da tutti gli altri abitanti della steppa. Prima di tutto egli è l’abitante primitivo del luogo, mentre gli altri sono immigrati, alcuni avanzi dell’orda «d’oro» altri dell’orda «blu». Poi egli è guerriero, mentre gli altri sono  pastori o agricoltori. Non è mai stato schiavo sotto un khan, un pan oppure un bojaro, mentre lo sono stati gli altri - «kasak» significa «uomo libero», così ho letto”.
Le enciclopedie danno i cosacchi inizialmente (XIIImo secolo) popolazioni tatare, nomadi, delle steppe della Russia di Sud-Est.
 
Orda d’oro-blu-bianca – Il primo è l’impero (khanato) mongolo del XIIImo secolo, la parte nord-occidentale dell’impero di Gengis Khan (che dominava dal Pacifico alla Polonia), quando questo si frammentò, dopo la morte del fondatore nel 1227. Batu, uno dei nipoti di Gengis Khan, figlio del di lui figlio Djuci, lo aveva già organizzato a metà del Duecento. Fu la parte più estesa nata dalla frammentazione: con parti della Siberia e dell’Asia centrale, e una parte dell’Europa orientale: dagli Urali al Danubio. Limitato a Sud dal Mar Nero, dal Caucaso e dal Caspio. Un secolo dopo la costituzione l’Orda d’Oro si convertì all’islam, Durò circa tre secoli, fino alla sottomissione dei khan al nascente impero russo, a metà Cinquecento. La costituzione dell’Orda d’Oro si era avviata  con la conquista e il saccheggio delle città russe di Vladimir e Kiev, nel 1238 e nel 1240, cioè con la sconfitta del nascente principato russo.
La parte occidentale del khanato dell’Orda d’Oro fu detta dell’Orda blu. Partendo dal basso Volga, si espanse verso la Russia e l’Europa. L’insediamento dello stesso khanato si spostò verso Ovest, fino ai Carpazi – tra Ungheria e Romania (compresa la Transilvania, oggetto di un contenzioso anche aspro fra i due paesi, che la Ue per ora permette di trascurare).
La parte orientale dell’Orda d’Oro costituì l’Orda Bianca – approssimativamente l’Asia centrale e la Siberia meridionale.    
 
Tartari-Tatari – Non sono i cosacchi  - Knut Hamsun, “Terra favolosa” (1898), p. 32: “I tartari si trovano dappertutto nella Russia meridionale, anche nella terra dei cosacchi. Per lo più sono pastori, gente forte, molto intelligente, tutti, senza eccezione, sanno leggere e scrivere – mentre non tutti i cosacchi lo sanno fare”.
I Tatari furono detti Tartari in senso spregiativo, per assonanza col greco “tartaro”, uno dei nomi dell’inferno.


astolfo@antiit.eu

I morti scompaiono, e riappaiono

I morti compaiono, assassinati, e scompaiono. Parto della fantasia di Brignano, guardiano di un supermercato col culto di James Bond – in realtà curioso e invadente come Sherlock Holmes? Così sembra, si va avanti ridendo del comico che fa lo 007 de noantri. Finché una sceneggiatura inventiva non li fa ritrovare, uno ad uno, vittime del solito mondo perverso, di mariti femminicidi,  killer a pagamento, e cravattari – nel caso femmina, Grazia Schiavo, armata di balestra (un po’ di politicamente scorretto).
Una commedia degli equivoci, in cui ognuno è un altro, gialla-noir, veloce, brillante. Senza pretese, ma rischiando il cult - sarebbe bastato contingentare Brignano, che pure è attore sensibile.
Pondi, che si è formato con Vincenzoni e Tonino Guerra, sceneggiatore poi di cinepanettoni e disinvolti noir, tenta la commedia brillante, e ci riesce, spalleggiato da due comprimarie che non tradiscono una battuta, Gabriella Pession, Paola Minaccioni - attorno allo Sherlock Holnes balordo di Brignano.
Alessandro Pondi, Una commedia pericolosa, Sky Cinema

 


mercoledì 28 febbraio 2024

Secondi pensieri - 527

zeulig


Dio
– Quello di Platone (del dialogo sull’origine del linguaggio, “Cratilo”) è il più moderno – attuale, contemporaneo: Diòs come forma genitiva di Zeus, che ne esprime l’attività fondamentale, quella di essere dì òn zen, colui attraverso il quale viene data la vita.
 
Divenire
– È sfuggente – è il non-essere (la nientificazione dell’essere). Nella forma di Eraclito , il panta rei per cui tutto cambia, continuativamente. E, più conseguente, in quella di Cratilo: nel movimento-cambiamento si annulla ogni consistenza. Nel suo paradosso quello di Eraclito sembra un attardarsi, un indugiare: non solo non ci si può immergere due volte nello stesso fiume, ma neppure una sola volta, l’acqua che bagna la punta nel piede non è quella che bagnerà il tallone. Vivendo nel divenire non si può neanche parlare: nel momento in  cui si nominano le cose queste già sono altro. Paradossale, ma dà un senso all’essere.
 
Fascismo
– L’urfascismo di Eco, di Murgia non esce dalla categoria del “fascismo eterno” di Croce. Marcello Veneziani, da destra (in “Destra e sinistra”, a cura di Domenico De Masi), lo dice invece “una deviazione dell’ideologia moderna”, “un capitolo interno alla modernità”. Nel senso che già Del Noce ha enucleato, inserendo “il fascismo all’interno del più generale processo di secolarizzazione, e del paradigma moderno, prima che nietzschiano della volontà di potenza”.
Mai se ne è parlato tanto come nel Millennio, che pure si penserebbe molto lontano dal fascismo  - basti vedere gli sforzi del partito al governo in Italia, nato su un’ipotesi neofascista, che non sa cosa fare per scrollarsene le stimmate, e si tiene stretto al conservatorismo storico europeo. Sfugge alle categorie, volendone fare una categoria – dello spirito, della storia. Non specifica: il totalitarismo è sintesi qualificante, ma non dirimente (ci sono differenze tra il totalitarismo di Mussolini e quello di Hitler, e tra questi e lo stalinismo). È, è stato, un regime politico, dittatoriale. Come molti altri della storia – specie quella romana, a cui il fascismo mussoliniano si collegava - in varie modalità.
 
Il “problema del fascismo” – e del “neofascismo” - è che viene definito più spesso per opposizione, con le categorie dell’ antifascismo. Che potrebbe anche essere il metodo filologicamente più esatto, almeno per quanto concerne Mussolini, legandosi il suo fascismo direttamente al massimalismo rivoluzionario, e in modo indiretto agi eventi russi del 1912, alla “rivoluzione” di Lenin – che fu alla fine, tutti i conti fatti, il malapartiano “colpo di Stato” ben riuscito del “signor Lenin “. Ma  viene utilizzato per una definizione-negazione a priori che è invece un’affermazione, quale che ne sia la forma: un riconoscimento del fascismo pretendendo di negarlo - di delegittimarlo affermandolo.
Il caso più sintomatico (prodromo degli “urfascismi”) è la riflessione di Susan Sontag, “Fascino fascista”, pubblicata sulla “New York Review of Books” il 6 febbraio 1975 (ora nella raccolta “Sotto il segno di Saturno”). A commento del grande successo del fotolibro di Leni Riefenstahl, “The Last of the Nuba”, e del ritorno in circolazione dei suoi i suoi film, fino ad allora “maledetti” (di cui era proibita la visione) ma di culto, “Il trionfo della volontà” e “Olimpia”. Film documentari sul congresso del partito Nazista a Norimberga nel 1935, e sull’Olimpiade di Berlino l’anno dopo, programmati e finanziati dal partito e dal governo nazisti, da Goebbels (da Goebbels malvolentieri, su disposizione di Hitler). Il “fascismo eterno” si afferma nel saggio di Sontag, pur non così definito, irrimediabile.
Il successo di Riefenstahl suona sinistro, quarant’anni dopo. E Sontag cerca di rimediare. Attaccando la regista. Ma con argomenti falsi, cioè controvertibili.  Riefenstahl era nazista, afferma, anche se fu processata due volte dopo la guerra, e entrambe assolta. Fece un documentario di cinquanta minuti, “Berchtesgaden über Salzburg”, “un ritratto lirico del Führer nel suo buen retiro”, che invece non ha fatto. Godeva dell’intimità di Hitler – che invece non era intimo di nessuno, non delle donne. Aveva un rapporto strettissimo con Goebbels, che invece la invidiava e la odiava. I sette “film della montagna” che Riefenstahl aveva interpretato come attrice e le avevano doto la fama, regia di Arnold Fanck, e il suo primo da regista, nel 1932, “Das Blaue Licht”, “possono essere visti, retrospettivamente, come Siegfried Kracauer ha spiegato, come un’antologia di sentimenti proto nazisti” – e pensare che tra i Wandervogel, amanti della natura, c’era anche entusiasta Walter Benjamin. “In fatto di bellezza”, le concede, “non era razzista” , pensando al  lavoro sui Nuba (e Jesse Owens in “Olimpiade”?) Il suo lavoro “è anche esente dal dilettantismo e l’ingenuità che trovano in altre arti prodotte nell’era nazista”. Per questo “la più moderna sensibilità può apprezzarla”. I suoi film, “Trionfo della volontà” e “Olimpiade”, sono indubbiamente film superbi (possono essere i due più grandi documentari mai fatti)”, ma la sua filmografia non fa testo, “mentre molti registi (me inclusa) considerano il regista del primo sovietismo Djuga Vertov una provocazione inesauribile e una fonte di idee sul linguaggio cinematografico”.
Il successo di Riefenstahl Sontag concludeva attribuendolo a non malintesi femminismo – attirandosi una piccatissima contestazione di Adrienne Rich, la poetessa, femminista. Esaurito il dispetto, però, Sontag era lucida sul fascismo, specie sulle sue possibili reviviscenze, in due forme. Partendo dall’ammonimento: il fascismo non è una parentesi della storia. Una forma è un certo regime politico, dittatoriale e di massa. L’altra è un sentimento, prima che una politica,  o un’ideologia.
Una forma, questa, che sembra attuale. Ma fa male a qualcuno, oltre che all’arte – della stessa politica?
 
StoriaCe la raccontiamo.
“La storia racconta storie”, Arthur Danto.
“Viviamo su un racconto storico” – “nessuno vive nell’immediato presente: tutti colleghiamo cose ed eventi mediante il collante della memoria, personale e collettiva (storia o mito che sia)” (Umberto Eco).
 
Suicidio – “È la sua speranza”, dice lo scrittore Hamsun di un essere, “un buffalo”, a cui “è andato tra le corna il giogo, e deve tenere il collo torto, e camminare tenendo la testa piegata da un lato”: “Somiglia ad un uomo che è nei guai, e pensa che vi è ancora una via d’uscita, si può rendere breve la vita quanto si vuole. Nietzsche ha ragione: questa soluzione ha dato conforto a tanti e tanti uomini che erano nella notte….” (“Terra favolosa”, 100).
 
Verità – È romanzesca. È ipotesi di U. Eco, di passaggio, in una delle Norton Lectures tenute a Harvard  quarant’anni fa (“Sei passeggiate nei boschi narrativi”, p. 111): fra i tanti altri motivi d’interesse, “penso che noi leggiamo romanzi perché essi ci danno la sensazione confortevole di vivere in un mondo dove la nozione di verità non può essere messa in discussione, mentre il mondo reale sembra essere un luogo ben più insidioso”.    

zeulig@antiit.eu

“Makari” il Belìce

Il ricordo del terremoto che nell’agosto del 1968 distrusse la valle del Belìce nell’entroterra siciliano, col ricorso all’archivio. Una “grata memoria” nel disastro. Della proficua attività che Danilo Dolci, il dimenticato apostolo della nonviolenza, triestino sicilianizzato per scelta, era riuscito a mobilitare con la motivazione e l’inclusione, si direbbe oggi, dei giovani di quella landa semiabbandonata. E dell’attenzione nazionale sulla disgrazia, con la Rai inevitabilmente in primo piano. Con Sergio Zavoli inviato. Con l’allora presentatore del telegiornale Piero Angela - all’origine della trasformazione del Belìce in Bélice nella parlata comune, con i primi convulsi annunci della catastrofe.
Una rievocazione un po’ scontata – non manca la mafia, che si prende gli appalti della ricostruzione.
Curiosamente, due giorni prima, la stessa Rai aveva sulla rete 1 una splendida produzione Palomar, la casa di produzione di Degli Esposti che sa fare la Sicilia bella, della serie semiseria “Makari”, centrata proprio sul Belìce. Sul Belìce della ricostruzione. Senza la mafia – oppure con la mafia degli architetti. E con i locali, i sopravvissuti, spinti, invogliati, finanziati perfino, a emigrare, ad andarsene. Il paese lasciando a una “ricostruzione” in forma di opera d’arte, di ferro-cemento – uno che ritorna non trova la tomba di famiglia dove mettere un fiore, il cimitero non c’è, è un “Cretto”, opera d’arte in cemento armato. Un monumento assolutamente voluto da Ludovico Corrao, che si era appena illustrato quale difensore di Franca Viola (la prima donna, minorenne, che aveva denunciato il violentatore, rifiutando il matrimonio riparatore, ed era il sindaco -  poi sarà a lungo senatore (Sinistra Indipendente). Ma una sorta di Super Mafia Museale – che i locali com ambizioni artistiche ha degradato a “artigiani”.
Il documentario è un episodio della serie Rai “Di là dal fiume e tra gli alberi”, che quest’anno, all’ottava stagione, esplora l’Italia, dal Sud al Nord. Serie benemerita sotto vari aspettai. Ma è sempre la Rai, la mozione degli affetti.
Lucrezia Lo Bianco, Belìce, epicentro di memoria, Rai 5, Raiplay

martedì 27 febbraio 2024

Problemi di base storici - 791

spock


“Invecchiando, le persone non maturano”, Paolo Virzì?
 
Non c’è vita senza storia – senza memoria?
 
La storia  è narrazione - ce la raccontiamo?
 
La storia è fatta di imperi?
 
Senza storia niente futuro?
 
È il passato che traccia il futuro?

spock@antiit.eu

La laconicita' scalda Bruxelles

Due mondi distanti: la Sabina remota, delle nozze campestri alla pizzica dell’organetto, e la grigia  Bruxelles di vetrocemento. Due persone avvinte dal caso, un uomo solo e solitario, vecchio, rancoroso, laconico. Una nipotina rimasta sola, mai riconosciuta dalla madre, il padre appena morto per covid. Un incontro obbligato, pieno di incomprensioni, con qualche affetto.
Una storia senza morale. Non dell’emigrazione – se non di felice, anche idilliaca, integrazione. Non dell’inurbamento, tra la tiepida campagna e la fredda città. Non della famiglia, stretta e scomposta – o di una vita tra il figlio che se ne va disprezzando il padre (per finirte a fare lavori occasionali) e il padre che lo maledice. Una sorta di storia verità, senza lieto fine, anche se non amara, non del tutto. Ma piena di senso, di sentimenti forti.
Un racconto lungo, oltre due ore, che si regge tutto, scena per scena, sul vecchio solitario, cui Michele Placido dà robusta consistenza, grandiosa nei silenzi, le pause - un’immedesimazione che gli è valsa un Nastro d’argento. Ma anche, in parte, sulla bambina-verità che sta come tutte dentro le cuffie, dietro a se stessa, nella forma del pattinaggio artistico, competitiva.  
Daniele Vicari, Orlando, Sky Cinema Due

lunedì 26 febbraio 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (552)

Giuseppe Leuzzi

Solo una multa su dieci s’incassa a Palermo, muta stradale, poco più, una multa e mezzo s’incassa a Napoli. Vigili incapaci? Multe pretestuose? “Buoncuore”?
Ma quella di fare cassa con le multe si direbbe la sola infamia di cui il Sud non si obera.

Con l’eccezione di Bari, che si colloca ai piani alti della classifica per multe stradali, per incasso totale se non pro capite, le città del Sud che fanno più multe sono quelle dello Stretto, Messina e Reggio Calabria. Le peggio amministrate. Ma appena si scende dalla macchina un multatore in agguato drizza le orecchie, sono ubiqui.
 
Sinner - colpirne uno per coprirne cento
Mentre si moltiplicavano, e si moltiplicano , le soffiate della Procura di Torino per azzannare gli Agnelli (quanti giorni risiedeva la vedova Agnelli in Italia, magari in clinica, e quanti in Svizzera?) Cazzullo apriva, sempre sul “Corriere della sera”, il fuoco su Jannik – non paga l’Irpef, risiede a Montecarlo. È così che la capitale (mondiale, secondo molti indici) dell’intrallazzo fiscale si fa capitale morale, scaricando “la spazzatura sui piani di sotto”, come Malaparte notava settant’anni fa, quando Milano era solo una fiera campionaria. La resilienza, si sa, è anzitutto fiscale.
Per smontare Cazzullo, Augias ha dovuto invitare nella sua trasmissione Lorenzo Bini Smaghi, un banchiere, ex direttivo della Bce, presidente di Société Générale, quarta grande banca francese, quindi spesso in Francia, e farlo parlare per mezzora, per spiegare quanti giorni Sinner passa a Montecarlo. Dove tutti i tennisti si allenano, con le loro équipes tecniche, e quindi risiedono. Non è bastato.
Colpirne uno per coprirne cento, mille, milioni. Chi ha detto che i lombardi non sono furbi, sono mercanti, sono furbissimi.
 
L’uomo della Provvidenza
Si ride di De Luca, un “personaggio” di Crozza, di “Striscia la notizia”, di qualsiasi battutista, in tv e fuori, mentre è stato un ottimo amministratore della Campania, per la parte sanità e  agroindustria, e da sindaco autore, praticamente da solo, del rifacimento di Salerno, letterale, ora nuovamente una piccola capitale. Dell’università-campus di Fisciano, del porto, del lungomare e della ora ricchissima economia dell’entroterra, dell’agroindustria di Battipaglia e Eboli, della cultura, come il  recupero della Certosa di Padula, la più grande d’Italia.
Con Moro già negli anni 1960 ogni città e ogni borgo della Puglia era servito da aree industriali e da tangenziali (complanari). E dopo Moro, negli anni 1980-1990 fu la volta del Salento, area semidepressa, a rifarsi, produttivamente (artigianato) e culturalmente (uso sapiente dei fondi italiani per i centri storici e di quelli europei per le “lingue tagliate”). Dapprima con Gennaro Acquaviva poi con D’Alema e Buttiglione, e la fregoli Poli Bortone.
La Calabria l’unica stagione di rinnovamento l’ha vissuta con Giacomo Mancini. Il leader socialista, che accortamente ha operato in sintonia con Riccardo Misasi e Emilio Colombo, pesi massimi della Dc. L’autostrada. L’università. L’aeroporto di Lamezia. Il porto di Gioia Tauro.  Soprattutto una programmazione urbanistica, che oggi fa grande la differenza fra la “sua” Calabria, il cosentino, dove le abitazioni sono perfino finite, si comincia dal tetto, e le strade pulite. Mentre il reggino, già naturalmente ricco e ricchissimo, è brutto, sporco e cattivo, ingovernabile - seppure nell’affluenza (una sorta di applicazione del paradosso di Mandeville, “vizi privati pubbliche virtù”: il reddito reale, quello esibito, vi è probabilmente il doppio, almeno, di quello statistico, mentre i servizi pubblici sono da Terzo mondo).t
In Basilicata tutto ha fatto Emilio Colombo. Ed è molto, moltissimo, anche se in pochi anni. Un hub energetico, tra petrolio e gas, e fino al sito per le scorie nucleari (Rotondella). Una rete Anas senza buche, e senza france. Un’agricoltura di primizie. Il recupero archeologico. L’università. Colombo ha fatto cioè anche quello che ora la Basilicata critica e rifiuta, ma può permetterselo da un posizione di vantaggio.
All’Abruzzo è bastato Gaspari, nemmeno un politico di primo piano nazionale, per uscire dal sottosviluppo (per arrivare a un reddito pro capite superiore alla media nazionale). È bastata l’autostrada: è bastato cioè legare l’Abruzzo economicamente, e anche socialmente (abitazioni contro occupazione), come una sorta di conurbazione, a Roma.
C’era una volta, nelle teorie dello sviluppo, il demarraggio – il salto dal sottosviluppo al circuito virtuoso dello sviluppo. Il momento in cui le risorse, minerarie, agricole, ambientali, finanziarie, tecniche, culturali, umane avviavano un accrescimento o miglioramento costante – un trend  positivo. Il caso più clamoroso è naturalmente la Cina, che ha compiuto il Grande Balzo non come lo aveva voluto Mao, imposto dall’alto, che fu un disastro, ma come lo ha progettato un personaggio diminutivo, una sorta di anti Mao, Deng Hsiao Ping. Che semplicemente mise insieme le quattro “modernizzazioni” – di agricoltura, cioè, industria, servizi, e in più la difesa.
L’Uomo della Provvidenza può quindi essere piccolo e riservato, non deve esibire la mascella. Deng poté agganciare il decollo, anche lui Uomo della Provvidenza, a maggior ragione che i nostri quattro, Moro, Mancini, Colombo, Gasparri, in virtù di un assetto statuale rigido, monocratico, e quindi di decisioni inappellabili – così come il Grande Balzo di Mao era stato, inappellabilmente, verso il disastro. Al Sud, in mancanza ovviamente di un regime cinese, le condizioni di mercato per il decollo non si possono realizzare, ormai è noto. Per problemi di capitalizzazione, di risorse, anche umane (anche umane, malgrado le nuove università), di infrastrutture, non si arriva al famoso fai-da-te, a processi autopropulsivi. Ci vuole una spinta, e una mano ferma.
 
Il mercato dell’antimafia
Fra le precondizioni che negano l’autopropulsione – il “decollo” economico – del Sud la prima è il racconto del Sud mafioso. Che è il vero leghismo, protettivo, a fin di bene, e solo meridionale, non c’è che dire, forma mentis, modo di essere, modo di agire. Un ingegnoso autoavvilupparsi di lacci e catene – questo sì meccanismo autopropulsivo.
C’è una cultura del Sud mafioso che è una spessa forma “industriale”, come oggi si dice, economica cioè, creatrice di carriere, fortune, ricchezze, che è l’antimafia. Come una grossa pagnotta lanciata al cane – quando ai cani si dava il pane. Un “mercato” che si regge sulla lotta alla mafia, che invece non fa. Le mafie dell’antimafia sembrano eterne. Mentre basterebbero i Carabinieri. Chi vive al Sud lo sa bene. Ma sa anche che non c’è rimedio – i Carabinieri sono militari, obbediscono.
Si può protestare ma è inutile. I tribunali sono del business. E l’informazione pure. Si può votare, perché no, votare e votare, e non succede nulla, anzi le mafie si moltiplicano. E allora è quasi meglio mangiare il gelato, e nemmeno votare, uno rischia di arrabbiarsi.

Quando la mafia era a Milano

Ci fu un tempo quando la mafia era a Milano, e veniva perseguita dai siciliani. Al cap. I dei “Promessi sposi” , subito dopo il lago di Como:
“Fino dall’otto aprile dell’anno 1583, l’Illustrissimo ed Eccellentissimo signor don Carlo d
Aragon, Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di Burgeto, grande Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia, pienamente informato della intollerabile miseria in che è vivuta e vive questa Città di Milano, per cagione dei bravi e vagabondi, pubblica un bando contro di essi. Dichiara e diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese, non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza salario, o pur con esso, s’appoggiano a qualche cavaliere o gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad altri... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei, abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a’ renitenti, e dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più stranamente ampie e indefinite facoltà, per l’esecuzione dell’ordine. Ma, nell’anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto signore, che questa Città è tuttavia piena di detti bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il costume loro, né scemato il numero, dà fuori un’altra grida, ancor più vigorosa e notabile”.

Ce n’erano 60 mila in Lombardia, secondo lo storico Ripamonti, lo storico di Manzoni. Cifra sicuramete esagerata. Ma perché facevano paura. Don Abbondio diventa “don Abbondio” a causa loro. I due che incontra, spavaldi e impuniti, non sono spaventapasseri: “Avevano entrambi intorno al capo una reticella verde, che cadeva sull’omero sinistro, terminata in una gran nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava fuori d’un taschino degli ampi e gonfi calzoni, uno spadone, con una gran guardia traforata a lamine d’ottone, congegnate come in cifra, forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi”.
Le “grida”, poi, com’è noto, si succedono fino al 1636, almeno fino al 1636, quindi per oltre mezzo secolo, a nessun effetto. Ma  a opera di funzionari – governatori non più siciliani.
 
La povertà in Calabria
Una serie commovente. Di foto commissionate dall’Unesco nel 1950. Nel quadro di una campagna contro l’analfabetismo. A David Seymour, il fotografo ebreo polacco David “Chim” Szymin, diventato famoso nella guerra di Spagna, arruolato dagli Stati Uniti nel 1940 come fotografo di guerra, creatore nel 1947 dell’agenzia fotografica Magnum, con Robert Capa e Henri Cartier-Bresson.
Ogni foto un racconto. Il ragazzo con la carta geografica dell’Europa mangiata dai topi. La maestra in controluce sulla soglia di un’aula piccola e stretta, con i bambini, il pennino in mano, curvi sul banco.  Mani rugose di vecchi a scuola, anche loro alle prese col pennino.  Ragazzi a modo di Saucci, sorella e fratelli. Bambine ordinatissime, applicatissime, ragazzi arruffati, cenciosi, banchi semirotti, scuole monolocali, con la grande porta che la maestra preferisce, per gli odori?, buie, fredde, tutte le classi in una, come nelle scuole rurali. Il maestro Antonio Janni sulla Vespa senza fanale, sotto la pioggia nella strada sterrata, che un paio di ragazzi spingono sperando che si metta in moto. E donne affardellate di carichi voluminosissimi di fascine in campagna, l’occupazione delle terre, l’unico scampolo di cielo nella processione. In una geografia nota: Bagaladi, Roggiano Gravina, Saucci, toponimo che più non esiste (vicino Bagaladi), San Nicolò da Crissa, San Marco Argentano.
È persino inimmaginabile, che ci fosse tanta povertà. Ma, avendola vista, anche se non vissuta in tanta estrema indigenza, in ambito rurale, c’è solo da testimoniare la verità delle foto.

leuzzi@antiit.eu

Il lettore nel bosco – o il Grande Conversatore Eco

“Ci sono due modi per passeggiare in un bosco. Nel primo modo ci si muove per tentare una o molte strade (per uscirne al più presto, o per riuscire a raggiungere la casa della Nonna, o di Pollicino, o di Hansel e Gretel); nel secondo modo ci si muove per capire come sia fatto il bosco, e perché certi sentieri siano accessibili e altri no. Ugualmemte ci sono due modi per percorrere un testo narrativo”. No, per il bosco ce ne sono tre: ci vanno le famiglie per il picnic, all’ombra, sub tegmine fagi, anche del pino irsuto, meglio se accanto a una sorgente. Per esperienza, un altro se ne conosce: nascondersi all’implacabile osservatore aereo nelle estenuanti marce alla bonifica del campo di esercitazioni a fuoco sotto la naja, affardellati, sudati, assetati – la foresta di Robin Hood, per intendersi, che Eco snobba. Né ci sono due modi, solo due modi, per “percorrere un testo narrativo” – assolutamente non i suoi due irsuti modi. Ma Eco è un affabulatore. Anche quando fa filosofia – qui la fa della scrittura, e della lettura. Non fa opera di verità, la smaschera –questo sito ha potuto dirlo uno “stripper della verità”, “filosofo non costruttivo ma de-struttivo”. Ma sa narrare la filosofia, per quanto fallace, e questo ne fa il segno, bastante per il lettore, che può leggerlo come un conversatore amabile, un narratore, seppure di cose astruse. Perché, poi, ci sono anche quelli che nel bosco si nascondono a fin di bene, gente per bene, o ci vivono, anche solo per amore di solitudine. E sono i più, come i lettori di libri.  
Inutile insistere – lo stesso Eco a un certo punto se lo dice: “In un bosco si passeggia”, anche “senza meta”. Il bosco di Eco è una metafora per il testo narrativo – di cui anche è stato detto che è “il fratello carnale della Storia”.
Eco conversativo più del solito. Il volume è delle Norton Lectures da lui tenute a Harvard nel 1993, conferenze–seminario aperte al pubblico anche non universitario. Che correda di grafici, diapositive, schemi, per portarci ad apprezzare la lettura che stiamo facendo, abbiamo fatto, faremo. Se – poiché - ne siamo appassionati. Per mille aspetti che potremo configurare: perché il testo è conciso (elogio della rapidità), o perché è profuso (elogio dell’indugio), perché è verosimile, o perché è inverosimile.
Moderno, sofista, spiritoso, simpatico, il Grande Conversatore Eco prende per mano il suo uditorio, che lo segue come mesmerizzato. Solo che, poi, poco ne resta. Qui disseziona “Sylvie”, il racconto di Nerval, che ha letto a vent’anni e poi mai abbandonato, per l’andirivieni frenetic, temporale e  spaziale. E la “Narrativa di Arthur Gordon Pym”, per i vari tranelli, da autore al lettore, che Poe vi sottende. Molto è sul “bosco del tempo” – ma non Proust, come verrebbe d’immaginare: sempre Nerval, “Sylvie”. Con divertenti, naturalmente istruttive, riletture, oltre che di “Sylvie” e di “Arthur Gordon Pym”, dei “Promessi sposi”, la “Divina Commedia”, la “Metamorfosi” di Kafka, Flaubert.
Con beffardi rinvii a Achille Campanile – alla logica illogica del racconto. A fronte delle tassonomie di Genette. E al “Pendolo di Foucault” per alcune controverità – il percorso che fa un personaggio, p.es., a piedi. Senza trascurare i Rosacroce e la massoneria, l’abate Barruel, i “Protocolli dei Savi Anziani di Sion”. Insomma, senza dirlo, un po’ New Age – quella cultura degli anni 1970-1980 che si trascura mentre è tutta l’Eco narratore. 
Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, La Nave di Teseo, pp. 190 € 13

domenica 25 febbraio 2024

Ombre - 708

Biden è vecchio, Trump pazzo, la gara con la Cina è perduta, la guerra alla Russia in stallo, e anche con l’islam, ayatollah, sauditi, palestinesi, houthi, nonché con Netanyahu, l’America non se la passa bene. L’ultima è: “L’America perde anche il paesaggio”, incendi, alluvioni.
Periodicamente si dichiara il declino dell’impero Usa, almeno cinque volte in pochi decenni: 1961 (spazio), 1971 (dollaro), 1975 (Vietnam), anni 1980 (Giappone), 2001 (11 settembre), 2019, prima di Wuhan (Cina). A opera dei media americani.
 
“Gli Usa premono per utilizzare i miliardi russi nelle banche Ue. Contrarie soprattutto Francia e Germania”. Una partita democratica, di libertà.
 
C’è una guerra nella guerra a Gaza, di Israele contro l’Onu. Ma non è possibile che tutti gli uffici e tutti i funzionari Onu siano con Hamas. E in Cisgiordania, Gerusalemme Est compresa, la violazione dei dritti umani da parte di Israele, dal 1967, è palese, non può essere invenzione Onu.
 
Giuliano Vigini rintraccia il “Catalogo dei periodici italiani 1995”, con i dati numerici delle testate, quotidiane e periodiche, in circolazione nel 1994: 102 quotidiani, 385 settimanali, 161 quindicinali, 670 mensili, 307 testate con varia periodicità, per un totale di 1.620. E una fiducia di fondo, di “un’Italia proiettata verso il futuro”. “Mani Pulite” non aveva ancora infettato i media, l’opinione pubblica.
 
Fallita comicamente la candidatura all’Expo, dopo tanti viaggi diplomatici e campagne promozionali, il sindaco di Roma Gualtieri ci ha riprovato con la candidatura all’Antiriciclaggio europeo. Altro sberleffo – qui per fortuna senza viaggi intercontinentali. E ancora, ci prova con i Mondiali di atletica. Perché Roma si candida a queste cerimonie, come se avesse bisogno di riconoscimento – come una Matera, per dire? Per gli appalti. Sugli appalti Roma è insaziabile - il Pd romano più di tutti.  
 
Ad Acca Larentia saluti romani. Scandalo. Per Verbano bruciano un manichino di Meloni. Una ragazzata. Ci stanno, sia l’uno che l’altra. Ma è bizzarra questa forma di cronaca. Si fatica a credere che la sinistra, per quanto residua (il polpettone che fa il Pd non è sinistra), si diletti di questi figliocci. Però, è così.
Chissà come trema Meloni ora che l’hanno bruciata in effigie.
 
Si scopre infine dopo dieci (quindici?) anni quello che perfino questo sito sapeva, che tutti sapevano: che il traffico di immigrati era pubblicizzato nei luoghi di origine, in Nigeria, West Africa, Nord Africa. Anche online. Con tariffe differenziate. Il fenomeno non può essere lasciato alle polizie.
 
Si prospetta una lite sul terzo mandato dei presidenti di Regione come se fosse uno spartiacque nel governo, e nell’opposizione. Mentre fa comodo a tutti i partiti, al governo e all’opposizione, attestarsi sullo spirito e sul dettato della legge. A Salvini fa comodo liberarsi di Zaia, a Schlein fa comodo liberarsi di De Luca – e Bonaccini.
 
Ma allora anche: niente più Meloni ter, come eravamo abituati dagli Andreotti plurimi (liquido questo governo e ne faccio un altro), o dai Berlusconi?
 
S’impianta un chip in un cervello umano. Rivoluzionario. Discutibile. Ma non si discute della cosa, della finalità e le prospettive (finora fallimenti) delle neurotecnologie. Si discute del padrone dell’azienda che l’ha impiantato, Elon Musk. Se Musk piace la cosa va bene, se non piane no?Non c’è più niente da dire, o non si sa più di che parlare?

Tolstòj contro Thatcher, lezioni di economia

“Tolstoy non era un economista. Di fatto, era così sconsiderato col denaro che una volta perse le campagne di famiglia al gioco”. Ma col racconto “Di quanta tera ha bisogno un uomo” mostra molte intuizioni su accumulazione, capitale, e calcolo economico. Che si può riassumere in ‘chi troppo vuole nulla stringe’”.
Il racconto di Tolstoj è del contadino che si fa proprietario semrpe più grande, fino a che, proprio quando l’investimento sembra il meno caro, più redditizio e più sicuro, per l’eccesso di avidità muore. Il contadino, “in senso stretto, si comportava razionalmente”: reinvestire è meglio che dilapidare, crea più ricchezza. Ma senza senso del limite, non si costruisce.
L’apologo serve a Romeo per un critica radicale dell’economia individualistica che il Millennio ha ereditato da fine Novecento. Che fa analizzare e condannare anticipatamente, negli anni 1920-1930, un secolo fa, dal dimenticano Keynes. Nel 1933, “subito prima della World Economic Conference, ammoniva alla radio: “Gestiamo male gli affari. Viviamo tristemente in un mondo di grande ricchezza potenziale”. E non aveva le guerre alla porta. 
Romeo è professore di giornalismo alla Columbia, specializzato in temi economici. Il testo è un estratto del volume “The Alternative: How to Build a Just Economy”, pubblicato in contemporanea con l’articolo dalle edizioni “Public Affairs”. Che dcice un’analisi critica dei fondamenti dell’economia dominante dalla fine degli anni 1980, della globalizzazione o del mercato. Alla luce degli esiti minacciosi già visibili: consumo della natura, ineguaglianze galoppanti, impoverimento delle masse di lavoratori dappertutto nel mondo. La proposta di un’alternativa contro il dettato di Margaret Thatcher: “Non c’è alternativa”.
Nick Romeo, An Economics Lesson from Tolstoy,”The New Yorker”, free online