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sabato 16 luglio 2011

Se la depressione è la vita

Un giallo kantiano – senza un finale purtroppo, se non la scena vuota delle cose. In forma teatrale: una “rappresentazione”, con un medico, la scienza pratica, una figlia, la scienza logica, una madre che a volte è moglie, arcigna, e un padre. Cui la realtà da qualche tempo svanisce, per la strada, nel lavoro e a casa: la moglie, le voci dell’enciclopedia le parole del vocabolario. Quando non si ribella muta: l’accendino, il telefono, la luce elettrica, i muri di casa. Attraverso quella che è (e non è) una depressione. E dunque, la cosa-in-sé?
La vita come sogno non è una novità. Ma il duo, alla sua maniera lievemente ironica, riesce in una rappresentazione della psicologia di Hillman che allora (1982) dominava, tanto più sorprendente in quanto a quel che si vede involontaria: che tutto è a sua volta rappresentazione, e meglio di tutto la depressione, la porta dell’inferno che sola può aprire alla vita (“La depressione è essenziale al senso della vita. Inumidisce l’anima tropo arida e asciuga quella troppo umida….”, questo genere di cose sosteneva nel 1975 la “Re-visione della psicologia”, che sarà tradotta e divulgata nel 1992 da Adelphi).
Si può sorriderne, insomma – ancora. C’è qui già un nipotino che non dovrebbe esserci, con una madre improbabile e un padre sempre incerto. Ma il duo riesce ancora nell’exploit di una cantata in “originale”, “Das Ding an sich”, al modo di Lola dell’ “Angelo azzurro”.
C. Fruttero – F. Lucentini, La cosa in sé

L’Avvento è domestico con Bruce

Il fascino dell’esotismo. L’esotico certamente ha un fascino, l’esotismo è maniera, Chatwin la supera avvicinando l’insolito e il diverso: non li presenta per far sbarrare l’occhio, ma per farlo richiudere calmi dentro se stessi. Ha anche il dono di legare una narrazione frammentata. L’effetto è di far nostro il diverso e remoto, tante piccole “finestrelle dell’Avvento” che entrano nella domesticità.
Anche in “Utz”, che invece ha un tema e un personaggio, il collezionista, il fascino nasce (nasceva al tempo del Muro) da questa capacità, di portare in casa un Est europeo che pure è diverso. Alla stessa maniera come ha raccontato il mondo degli Aborigeni, mimetica: un’accumulazione senza fine di dettagli, tenuti assieme da una struttura sotterranea.
Bruce Chatwin, Che ci faccio qui?

venerdì 15 luglio 2011

No, sulla nuova Dc Bertone non è d’accordo

I preti da una parte, si sarebbe detto una volta, i politici dall’altra. L’insistenza di Bagnasco e del Vaticano, e cioè dell’episcopato, a favore della ricostituzione di un partito confessionale trova perplessi molti politici dell’area cattolica. Mentre si fa sentire il silenzio del cardinale Bertone, il segretario di Stato, che ha apprezzato i benefici del “rompete le righe” della presidenza Ruini, e non vede una ragione valida per la nuova “unità dei cattolici”.
L’iniziativa di Bagnasco s’innesta sulla preclusione anti-Berlusconi: il momento sembra adatto a un’offensiva politica definitiva contro Berlusconi, che questa presidenza dei vescovi italiani non ha mai gradito. I politici però, anche quelli cui piacerebbe lo stesso obiettivo, non sono certi di spostare su queste basi l’elettorato. Un partito confessionale proietta insomma ancora un’ombra sull’elettorato.
Bertone invece sarebbe decisamente contro un’iniziativa di destabilizzazione politica. Vecchia guardia politica, dà per scontato che, in assenza del famoso nemico esterno, il voto non si ricompatterà su basi confessionali. Non in misura consistente. E dà anche per scontata la laicizzazione della società. “Tante leggi si possono ancora fare”, avrebbe detto a conclusione del voto sul testamento biologico, “solo perché il raggruppamento Berlusconi-Bossi tiene a freno le spinte centrifughe” – in Parlamento testimoniate dai mal di pancia di ex liberali e socialisti, e anche ex missini.

La meraviglia di Sgarbi

Una meraviglia, l’idea e la realizzazione: i tanti edifici, di vista e d’uso quotidiani, di una grande città spiegati, nell’origine e l destinazioni, la forma, l’ideazione. Con un dizionario inedito degli ingegneri e architetti che prende due terzi delle pagine, da 2A+P/A STUDIO a Federico Zuccari. Due “perlustrazioni” care a Sgarbi di estremo interesse, Pietro Cavallini “il Giotto di Roma” e i contemporanei. E una serie di curiosità: i piani urbanistici, da Martino V a Veltroni, tutto quello che bisogna sapere su tutti gli obelischi, ognuno in dettaglio, e sugli acquedotti, le fontane. Anche la cronologia dei papi è originale, con famiglia, patrocinanti, età all’elezione, tumulazione. I monumenti censiti prendono un indice di un a quarantina di pagine. Senza mai dare l’idea di una guida, il libro si vuole letto con la semplice articolazione dei registri (informazione, disposizione, essenzialità).
Vittorio Sgarbi, Le meraviglie di Roma, Bompiani, pp. 650 ill., € 22

La manovra nel 1994 aveva tagliato il debito

Ecco cosa si poteva scrivere a dicembre 1994, all’indomani di un’altra finanziaria “storica” di Berlusconi, quella che doveva risanare alla radice il debito pubblico e il mercato del lavoro con una riforma radicale delle pensioni – ma non ancora approvata e saltata qualche giorno dopo a opera del presidente Scalfaro e di Bossi (Scalfaro lo sostituì con Dini, l’artefice della riforma delle pensioni…):
“Dai che ce la fai! «Arrivati al punto di rottura, quando il governo sta per inabissarsi, sfiancato dalle loro critiche e dai loro giornali, i grandi imprenditori danno una mano a Silvio Berlusconi: non lo vogliono morto, lo vogliono debole». Così un alto dirigente della Confapi, l’associazione della piccola e media industria, vede l’altalena di sferzate e incoraggiamenti che dalla Confindustria sono venuti al presidente del consiglio. Ancora a metà novembre il direttivo dell’organizzazione ammoniva Berlusconi a non rompere la concertazione e la pace sociale. Due settimane dopo, lunedì 28 novembre, i presidenti della Fiat e della Olivetti, Gianni Agnelli e Carlo De Benedetti, lo incitavano alla fermezza.
“La voce della Confapi può essere o no veritiera. Ma una cosa certa la dice: c’è polemica più forte che mai tra i piccoli e i grandi imprenditori, e questo a proposito del governo Berlusconi. «Do un giudizio molto positivo di Berlusconi come presidente del consiglio e molto positivo anche del suo governo», tiene a far sapere Alessandro Cocirio, l’imprenditore torinese che presiede la Confapi. «Forse», precisa, «dopo i primi cento giorni s’è impantanato», ma la responsabilità, aggiunge, «è sopratutto dell’industria dei media che l’ha bersagliato come mai nessun altro governo, e di un’opposizione massimalista». Sulla stessa lunghezza d’onda è, all'interno della Confindustria, il Comitato della piccola industria presieduto da Giorgio Fossa (poi presidente di Confindustria, n.d.r.). Mentre Ivano Spalanzani, presidente della Confartigianato, l’organizzazione più rappresentativa delle piccole imprese artigianali, si dice «grato a questo governo se non altro perché ha finito di colpevolizzare i piccoli operatori che hanno la partita Iva». Che «pagano cioè le tasse e osservano le leggi» e, aggiunge polemicamente, «non portano i soldi fuori per speculare contro la lira». Spalanzani apprezza anche «il lavoro di disboscamento intrapreso dal ministro delle Finanze (Tremonti, n.d.r.) sulle diecine di inutili, ma costosi, adempimenti formali».
“C’è una sorta d’identificazione psicologica tra i piccoli imprenditori e Berlusconi, cresciuto in pochi anni da immobiliarista a secondo gruppo italiano. «Il presidente del consiglio non è uno dei loro», afferma la solita voce Confapi, «pur essendo un grande imprenditore, e così pensano di poterlo tenere sotto tutela». Una considerazione che introduce però a un altro aspetto del rapporto tra gli imprenditori e Berlusconi. Un aspetto che i piccoli rimproverano al presidente del consiglio di accettare supinamente: Berlusconi priviligerebbe i rapporti con i big degli affari. Del resto, lo stesso presidente del consiglio ha detto di aver tenuto da ragazzo l'avvocato Agnelli «come la Madonna sul comodino».
“Ma è vero che sono bastate le dichiarazioni di Agnelli e De Benedetti per dare a Berlusconi nuova baldanza alla verifica politica del giorno dopo in consiglio dei ministri, e alla trattativa con i sindacati il giorno successivo. Se non erano preordinati, quegli incitamenti, certamente sono venuti nel momento più opportuno, e sopratutto sono stati efficaci. Per gli industriali, perché la Confindustria confermava, alla vigilia della trattativa con i sindacati, che «la pace sociale serve a tutti, ma la manovra sulle pensioni è indispensabile». E anche per Berlusconi, perché, spiegava un suo collaboratore a palazzo Chigi, «in uno scontro su pregiudiziali politiche, e non per il miglioramento della finanziaria, conviene tenersi fermi agli interessi del Paese».
“Come andrà a finire? Si schiereranno gli imprenditori con Berlusconi o lo abbandoneranno? Un governo aperto ai problemi dell’impresa e rigido sul risanamento della finanza pubblica è ritenuto a questo punto indispensabile da tutti gli imprenditori, grandi e piccoli. La riposta è univoca e molto chiara, e nasce da quattro problemi precisi, aperti o che stanno per aprirsi. Il più grave è quello temuto: un giro di vite fiscale, se la finanziaria sarà insufficiente e a gennaio, o in primavera, ci sarà bisogno di una manovra-bis. «Potrebbe soffocare la ripresa, stiamo rischiando grosso», è il grido d’allarme di Cocirio, di Spalanzani, di Alessandro Riello, che in Confindustria presiede il Comitato dei giovani imprenditori, e della stessa Confindustria.
“L’altra preoccupazione comune è la politica monetaria e il costo del denaro. «Plaudire alla lira debole perché favorisce le esportazioni è proprio da somari», afferma con decisione Riello: «Con la stessa lira dobbiamo comprare le materie prime, rame, alluminio, ferro, cellulosa, fonti di energia. C’è stato già un rincaro del 30 per cento per effetto della svalutazione della lira, che dentro l’anno arriverà al 50 per cento per l’effetto congiunto della ripresa della domanda internazionale». “L’effetto positivo sulle esportazioni della lira debole si compensa negativamente con le importazioni. «La volatilità del cambio ora è rischiosa per le aziende», commenta il presidente dell’Assolombarda Ennio Presutti. Ma sopratutto pesa il costo del denaro: «Due punti d’interesse in più rispetto ai tassi tedeschi ci costano 35 mila miliardi», ha calcolato De Benedetti, mettendo nel conto la finanza pubblica e le imprese.
“Poi c’è il rilancio delle opere pubbliche: l’edilizia è in crisi da quasi tre anni. E la regolamentazione del lavoro flessibile, o «interinale», insomma del lavoro in affitto tramite le agenzie, previsto dall’accordo governo-sindacati del 23 luglio 1993. «Senza il lavoro interinale non ci sarà una ripresa effettiva del mercato del lavoro», affermano Riello e Cocirio. Molte piccole imprese aspettano ad assumere per poterlo fare tramite le agenzie nella nuova forma. Quanto allo sblocco del settore edilizia si punta molto sul project financing introdotto martedì 29 novembre dal decreto legge per la ricostruzione del Piemonte. Un disegno di legge del giorno successivo intende estendere il project financing a tutte le grandi opere pubbliche.
“Per sbloccare le opere pubbliche bisogna che il governo rimanga in sella. E così per gli altri tre grandi problemi: il bisogno di stabilità è prevalente e va a favore di Berlusconi.
“Sotto i problemi restano però le pulsioni di fondo, di amore o di odio. Il rimprovero che i piccoli muovono a Berlusconi, di aver privilegiato i grandi imprenditori, è in effetti una manifestazione di gelosia. A Berlusconi viene rimproverato perfino il cerimoniale dei ricevimenti a palazzo Chigi, che sarebbe più riguardoso verso i grandi. Giovedì 1 dicembre, al momento della drammatica decisione sulla finanziaria, il presidente del consiglio ha ricevuto la Confindustria nel suo studio al primo piano, attiguo alla sala del consiglio dei ministri, e le 15 delegazioni dei piccoli imprenditori, dalla Confagricoltura alla Confcommercio, al quarto piano, nella fredda Biblioteca Chigiana. Ai sindacati era stata invece riservata per lunga consuetudine la Sala Verde al terzo piano, appositamente attrezzata. «Ma noi tutti insieme siamo quasi 6 milioni di operatori», osserva dispiaciuto Spalanzani. Come dire: dagli altri vengono le pacche sulle spalle, da noi i voti.
Un sentimento d’identificazione analogo pervade i piccoli della Confindustria, Michele Perini e Adolfo Guzzini non sono contenti del distacco che il presidente della Confindustria, Luigi Abete, ha manifestato più volte nei confronti del governo, per ultimo con il pranzo organizzato per i leader sindacali l’1 novembre e con il freddo comunicato all'indomani della manifestazione di protesta a Roma il 12 novembre. Con il governo sono anche imprenditori autorevoli, come Gianmarco Moratti, presidente dell'Unione petrolifera, Vittorio Merloni, il bolognese Giuseppe Gazzoni Frascara, il costruttore Michele Matarrese, fratello di Antonio, presidente della Federcalzio, l’industriale dei giocattoli Stefano Clementoni.
“Analogamente sull’altro fronte, persiste la ripulsa negli antiberlusconiani di sempre: gli imprenditori di sinistra Giancarlo Lombardi, Attilio Oliva, Piero Pozzoli, Francesco Averna, che hanno come punto di riferimento Carlo De Benedetti. Il patron della Olivetti ha avuto nelle ultime settimane molti incontri ravvicinati, a palazzo Chigi e conviviali, con Berlusconi, il coordinatore di Forza Italia e ministro della Difesa Cesare Previti, il vicepresidente del consiglio e ministro delle Poste Giuseppe Tatarella. E il 29 novembre ha avuto dal governo la convenzione definitiva che fa del suo consorzio Omnitel il secondo gestore italiano del telefonino europeo. Ma non intende dare alla sua dichiarazione del giorno prima in favore della finanziaria il significato di un’apertura di credito.
La novità è nel gruppone di centro, per così dire, della Confindustria, né pro né contro Berlusconi a priori. Era il gruppo più consistente, per interessi se non per numero, ed è dalla sua indecisione che è venuta la doccia scozzese. L’11 giugno Abete salutava il nuovo governo con un secco: «Nessuna delega in bianco». Lo stesso giorno che un sondaggio fra i membri del parlamentino della Confindustria dava un 76,5 per cento di sì a Berlusconi. A fine luglio Abete lamentava «troppa confusione sulle privatizzazioni e la politica economica». Mentre De Benedetti infittiva gli incontri con Berlusconi. Il 23 settembre l'avvocato Agnelli invitava Berlusconi a cena con i big dell’industria, dando la carica decisiva al presidente del consiglio per varare la sua finanziaria difficile. Esattamente un mese dopo doveva però ammonire: «Basta con i duelli rusticani», riferendosi ai duelli Berlusconi-Bossi e Berlusconi-Scalfaro. E il giorno dopo si ritrovava ottimista e affiatato con il presidente del consiglio all’inaugurazione dello stabilimento di Melfi (era il giorno della «Madonna sul comodino»).
“Ora il gruppone si divide. Con gli antiberlusconiani duri e puri si schiera l’ex capo dei giovani imprenditori, Carlo Fumagalli. La stessa strada sembra prendere il suo successore Riello: «Se la finanziaria non va in porto la colpa è della maggioranza», dice, «di questo clima di rissosità che va oltre ogni aspettativa di equilibrio politico e anche mentale». Ne va di mezzo, secondo Riello, la ripresa: «Siamo ancora in una situazione difficile, la ripresa va in certe aree, e in altre no. Nello stesso Nord-Est alcuni settori non marciano ancora, in particolare quelli legati all'edilizia e alle opere pubbliche».
“La Fiat invece non ha partite aperte con Berlusconi. Prevalgono sulle riserve la protezione della ripresa e la stabilizzazione monetaria, che passa per il risanamento della finanza pubblica. «Sembrano frasi di rito ma non lo sono», spiegano da Torino. L’orientamento della Fiat potrebbe influire su altri grandi imprenditori, come Giampiero Pesenti, patron d’Italcementi e di Gemina, Mario Tronchetti Provera, patron di Pirelli, Pietro Marzotto”.

giovedì 14 luglio 2011

Ombre - 95

I doppi incarichi politici che ora si aboliscono in realtà unificavano la retribuzione. Ora si avranno doppie e triple retribuzioni a carico dello Stato. Gli agitatori della questione morale non possono che essere furbi, ma le professoresse che ci credono?

Sorgenia s’appropria di una manifestazione d’interesse, sottrae al servizio di maggior tutela un contratto, e fattura il kWh a 31 centesimi invece di 24. Adducendo un risparmio per l’utente di 122 grammi di anidride carbonica per kWh.
L’industria verde dev’essere necessariamente fraudolenta? In ogni suo minimo atto: contratto, costo, CO2 (cos’è un etto di CO2? E sei chili, come vuole la fattura?).

All’improvviso, Murdoch è di nuovo lo squalo. All’improvviso sono finiti gli incensamenti: non più tardi del Capodanno ultimo i miglioti salotti si mobilitavano per il delfino James, portatore infine di un po' di democrazia in Italia. Dovrà mollare anche (un po’ di) Sky Italia?

L’Inghilterra s’innocentizza processando il “New of the World”. E i ricatti dei “venerabili” “Times” e “Sunday Times”? E gli intrallazzi dell’“Economist” e il “Financial Times”, così cari per i quattro quinti, o cinque sesti, dell’umanità? O è l’opinione divisibile, il rispetto della verità? Un’opinione appunto.
I giornali che processano gli altri giornali danno la vertigine.

Sull’intromissione dei partiti, che impediscono a Murdoch l’offerta di acquisto su Bskyb, le vestali britanniche del mercato tacciono, il “Financial Times”, l’“Economist”. Se un partito in Italia facesse una mozione contro Sky?

Il giorno dopo la sentenza esecutiva che condanna Berlusconi a pagare De Benedetti (per il valore di Borsa dell’azienda contesa oggi, dopo il risanamento e il rilancio), la Cir di De Benedetti perde in Borsa il doppio dei titoli Fininvest. Chi gestisce i grandi patrimoni ha sgamato le astuzie della sentenza, ambro-partenopee e finiane.

Murdoch chiude il settimanale scandalistico “News of the World”, e si prende il premio alla moralità. I giornalisti italiani sono commossi, i collaboratori della sua Sky. Ma chiude il settimanale, incriminato e anzi già condannato, per aprirne un altro, con lo stesso staff, il “Sun on Sunday”. I cinici hanno questo di buono rispetto ai collaboratori, che non si nascondono.

Nobile presentazione di Murdoch sul “Corriere della sera”, il giorno in cui annuncia la chiusura del “News of the World” per eccesso di scandalismo – non per la fuga degli inserzionisti. È uomo schietto (“il suo problema è che ha le palle più grandi del cervello” è frase famosa che l’interessato ha eletto a emblema) e “non ama la pornografia del dolore”. Il più grande caimano, in termini italiani, in circolazione. Che il “dolore” impose quarant’anni fa perfino al venerabile “Times”.
La firma Severgnini. Di cui il “Corriere” non dice che è il giornalista principe di Sky.

Capita d’incontrare per strada, in pieno centro a Roma, a un’ora non afosa, in rapida successione: una ragazza, insomma sui trent’anni, che non riesce a chiudere il cassonetto, e aiutata fa un passo indietro come di chi si mette in guardia; una ragazza, sui trent’anni, che si scusa in viale Trastevere, in inglese, di movimenti scomposti, temeva di essere aggredita alle spalle; una ragazza, sui trenta, che in corso Rinascimento chiede nervosa in inglese dov’è corso Rinascimento, e quando le viene indicato il corso, con l’estetista dove riparare l’unghia rotta, assume l’aria di chi avesse visto un angelo. Tutte americane.

È impressionante il numero di lettere a cui i ministri, o il “Corriere della sera”, si costringono per smentire articoli devastatori dello stesso giornale. Si potrebbe pensare il “Corriere della sera” una felice arena di libera informazione, la famosa buca delle lettere. Ma il giornalismo delle scuole di giornalismo non obbliga a sentire, prima, anche la controparte?

Dice miliardi di cose Danilo Taino, corrispondente da Berlino del “Corriere della sera” per quattro anni, al momento di andarsene l’altro martedì
http://archiviostorico.corriere.it/2011/luglio/06/Vita_Berlino_Prussia_nudisti_rock_co_8_110706022.shtml
Ma può dirle in forma di commiato, in tanti anni non ha potuto fare nessuno degli interessantissimi reportage che l’articolo lumeggia.

Si processa Mladic, il “boia di Srebrenica”, a Amsterdam, alla Corte penale internazionale. Che non è propriamente Olanda, ma insomma non sta lontano. Mentre all’Aja un tribunale olandese condanna il capo della spedizione militare olandese che a Srebrenica fu complice di Mladic.
Alla Corte penale hanno la vista e l’udito corto? Non leggono i giornali? O possono processare solo gli imputati che gli Usa mandano?

La festa è il ritorno del padre

Una festa del ritorno Abate organizza l’estate con gli amici rimasti in paese, in Calabria, da emigrante. Qui organizza, attorno ai ricordi del padre emigrato per necessità, un saggio della felicità narrativa che lo distingue, come l’accensione di una luce. Illuminando tratti trascurati,
la figura del padre per un adolescente, il rapporto tra fratello e sorella, e quelle sue figure vere di madri, così robuste (carnali, volitive) nel loro ruolo “mediterraneo”, sonnambulistico.
Carmine Abate, La festa del ritorno, Oscar Mondadori, pp. 161 € 9

mercoledì 13 luglio 2011

Secondi pensieri - (73)

zeulig

Anima - Gilgul, o Tiltel, da cui Toledo prese il nome, via Tuletula, l’equivalente ebraico dell’anima, è andare vagando. La resurrezione della carne è venuta prima, tra gli stessi padri del cristianesimo, dell’immortalità dell’anima, tardo recupero platonico.

Il corpo certo ha un’anima, estetica per gli antichi, magica per i primitivi, spirituale e perfino filosofica per i mistici. Deve averla: secolarizzato (nel sesso, nella ricerca), vibra meno di una partita di calcio, e non elimina le tossine. Per i pittori, gli artisti, i fotografi, gli artisti dell’immagine, il corpo racconta (meglio) l’anima – la quale non si sente, non si vede, non si annusa, senza corpo. Il freddo all’anima è la morte, dice il medico matematico Cadano, “quasi carneficina hominum, angor animi”. Anche secondo Montesquieu : “L’anima non sente il dolore, ma una certa difficoltà di esistere. Il dolore è un male locale che ci porta al desiderio di vederlo cessare: il peso della vita è un male che non ha sede particolare e ci porta al desiderio di veder finire la vita”. Bisogna dunque avere l’anima.

L’anima è tutto per il suo maggior teorico, James Hillman, anche se “è una prospettiva piuttosto che una sostanza, un punto di osservazione sulle cose piuttosto che una cosa in sé” (“Re-visione della psicologia”). Perché il tutto è “soggettività”: l’unica oggettività permessa “è quella dell’occhio soggettivo rivolto all’interno, verso se stesso, che guarda il proprio sguardo”. La sua anima è l’antica psiche o anima mundi.
Ma “fare anima” (il mondo per John Keats, dalle “Lettere”) era per Hillman agli esordi (“Il suicidio e l’anima”) niente più dell’essere-per-la-morte di Heidegger, un mondo in relazione elettiva con la morte, in una costante invincibile pulsione suicida. E sarà nell’opera per cui è celebre, “Re-visione della psicologia”, una psicopoiesi negativa. Una creatività intesa a coltivare, approfondire la “depressione” o disperazione che è il proprio della condizione umana: La vera rivoluzione a favore dell’anima comincia nell’individuo che sa essere fedele alla propria depressione… Attraverso la depressione noi entriamo nel profondo, e nel profodno troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso della vita. Inumidisce l’anima arida e asciuga quella troppo umida… Fa ricordare la morte”. Hillman ha voluto “oltrepassare” Nietzsche nell’“approfondimento della soggettività”, del nichilismo filosofico.

Complotto –È una presentazione della storia in quanto evento imprevisto e avverso, una sorta di laicizzazione del destino. Si diffonde con la secolarizzazione della storia perché ne rappresenta il meccanismo principale: è la storia che si fa contro i suoi presupposti e le sue attese, contro la logica – quando la logica è ridotta allo scientismo (buonismo, perfettismo).

Comunicazione – Le dissociazioni provocate dall’uso delle droghe indicano che la comunicazione diventa impossibile al di fuori dell’imprinting, dei codici stratificati riconosciuti. Anche a fronte di situazioni di fatto certe: riconoscere un’automobile per un’automobile, vedersi fuori casa o dentro casa. Anche la videosorveglianza costante degli interni provoca, è accertato, effetti dissociativi: il gesto più semplice, anche solo grattarsi, assume sensi intollerabili, sproporzionati.
Ciò può essere l’effetto di (può condurre a) due verità di fatto: 1) il privato è indicibile, 2) il rimosso è selettivo – anche se basta poco per bloccarlo o sbloccarlo, una semplice sensazione visiva.
La comunicazione (codici, leggi, affetti) può solo essere canonica. Convenzionale, seppure per imprinting, per lunghe, lente sedimentazioni.
Se non c’è comunicazione al di fuori dell’imprinting, di codici stratificati riconosciuti, un vero Grande Fratello sarebbe la sovversione totale.

Creazione – È un problema, per una mistica ebraica, perché è il problema del nulla. Che sembra anche logico: si crea quello che non c’è. E in effetti così è: s crea (anche) dal nulla. Ossia, c’è la creazione e c’è il nulla. C’è Borges e ci sono i suoi tanti amici, con i quali magari discuteva per giornate, e scriveva pure dei libri. C’è Napoleone e c sono i suoi baroni-generali, per non dire del suo esercito esecrato, straccione, ladro. C’è Leonardo e c’è la Gioconda, il modello, che non è nemmeno bella o affascinante di suo.

Freud – Contini lo dice a Nanni Filippini (in “La verità del gatto”, p. 195) “uno dei massimi scrittori viennesi del primo Novecento”. E di seguito aggiunge: “In fondo la fondazione della psicoanalisi è tardiva e involontaria, sorge dalla scrittura…”

Modernità – Si configura sempre negativamente. Anche in chiave “progressista”. Dall’inizio: Guénon disse, all’inizio del dibattito, che l’irruzione della modernità nel Cinquecento, con la scoperta dell’America o con la Riforma, in aspetto di razionalità, era dovuta a un colpo di mano architettato in segreto e, benché si sia poi convertito all’islam, fa testo anche per i non tradizionalisti. Questa modernità è antica, direbbe un Oscar Wilde.
Tutti i valori della modernità convergono del resto sulla buona morte – sulla morte.

La Nach Neuzeit di Romano Guardini che si è ribattezzata postmoderno, è ancora l’interregno tra il mondo cristiano, della storia come freccia, e qualcosa che ancora latita, un anticristo di cui non si sanno i connotati. Non il niente, che non c’è, ogni vuoto si riempie.

Tecnica – È straordinaria l’indifferenza voluta, aprioristica (l’approssimazione, l’incuria) con cui Heidegger la condanna. È come per l’istoricità, che invece apprezzava – e poi era Hitler che arrivava da Mussolini in aeroplano. Si può storicizzare prescindendo dalla storia, ma si può filosofare della tecnica (del mondo) prescindendone?

Trasparenza – È una delle parole chiave della contemporaneità, che è invece estremamente opaca. Nella sua espressione attiva, la politica compresa, e forse più che la ricerca e la produzione. E in quella riflessiva, la lettura del mondo e della stessa contemporaneità. È come se il nodo delle incertezze fosse cresciuto a dismisura, fino a ingombrare l’orizzonte, o tanti nodi si fosse moltiplicati, sotto l’ombrello di un’esigenza-presunzione di chiarezza, affidabilità, onestà - l’età dei diritti vuole la trasparenza (l’onestà è fuori moda).
Se ne è celebrata la lode nel caso di Wikileaks, che è invece un personaggio e una struttura tra i più segreti ed equivoci che si siano conosciuti. Se ne celebra la virtù nella rete, che invece, pur essendo un’estensione enorme del mercato e quindi delle aree di opportunità, per questo stesso fatto è regolato (controllato) da norme che non sappiano, in modi surrettizi. È il connotato primo e più labile di una civiltà radicalmente laicizzata, alla quale il male s’impone negandolo.

zeulig@antiit.eu

Qual è il problema di Murdoch? Pagare di più

E se lo scandalo fosse inteso a costringere Murdoch a pagare di più per la tv satellitare? Non il prezzo che ha fissato lui un anno fa, di 700 pence per azione, bensì 800 pence, qual era stata la richiesta del “mercato” (le banche e alcuni grandi azionisti) il 15 giugno 2010, al momento del lancio dell’opa totalitaria? BskyB è un salvadanaio e il “mercato” non vuole mollare: sa che Murdoch è il miglior editore, che le cose rendono con lui (il satellitare sta raddoppiando col cavo), e vuole poterne beneficiare.
È in questi termini – quanto Murdoch è disposto a pagare – che la questione si risolverà: l’opinione è comune a Londra. Senza fretta: in questi dodici mesi le cose andavano a vantaggio di Murdoch, nel governo e con le autorità di vigilanza, ora ha perso una mano e dovrà rilanciare. Lo scandalo delle intercettazioni al settimanale “News of the world” è montato negli ultimi giorni, mentre stringeva la decisione sul fronte BskyB, e si presume che alla stessa maniera si sgonfierà. Quando cioè Murdoch accetterà di pagare di più.
Il ministro della Cultura Hunt, cui l’opa BskyB è stata demandata, sottraendola al ministro al Business Cable, ha rinviato una settimana fa il benestare del governo, peraltro non richiesto, perché sommerso a suo dire dalle proteste (centocinquantamila…) degli azionisti. Nel frattempo è montato lo scandalo, su fatti vecchi di alcuni anni e già noti. E i tre partiti ora chiedono la sospensiva. Ma l’alternativa a Murdoch è solo Murdoch: non c’è nazionalizzazione possibile, e l’opa, che ha già ricevuto il benestare dell’antitrust europeo, non potrà non avere quello dell’antitrust britannico, se e quando gli verrà sottoposta.
A quando la nuova offerta? I consulenti di News Corporation dicono fra non prima di due anni: il gruppo di Murdoch dovrà riassorbire i contraccolpi dello scandalo. Fra sei mesi lo potrà fare, ricordano gli esperti dell’antitrust britannico. I ruoli sono curiosamente rovesciati, come al gioco delle parti.

Il detective risolve i delitti per distrazione

Il detective è qui il poeta e pittore Gabriel Gale, alter ego dell’autore quando aveva vent’anni, biondo, altissimo, sul metro e 95, e allora anche magrissimo. L’“autore dei paradossi” Chesterston può quindi volteggiare senza rete. Anche nel delitto teologico. Risolve perfino due casi cui “il compianto Sherlock Holmes” aveva dato “soluzioni intrinsecamente illogiche”, perché non considerava realistiche le soluzioni vere, “il delitto commesso da una creatura alata”, e quello commesso dagli spiriti. E non basta: a volte Gale “risolve i problemi per distrazione”. In avventure tutte straordinarie, il modo che ha Chesterston di vedere le cose ancora lo è.
Gilbert K Chesterston, Il poeta e i pazzi, Bompiani, pp.183 € 8

martedì 12 luglio 2011

Ma è Rensi il fascista che manca

Un macigno della preistoria, anche se ci sono ancora principi che si fanno le cameriere, riedito dalla Biblioteca di via Senato qualche anno fa forse come classico dell’umorismo. malgrado la cura editoriale (non un errore di stampa nelle lunghissime citazioni in latino, tedesco, francese…). Più pesante di Schopenhauer, malgrado il poco peso specifico: “La donna è preda”, “l’antifemminismo del femminismo”, etc.
O è Rensi, benché perseguitato politico, il filosofo che manca del fascismo, più e meglio di Gentile? Autore di “Filosofia dell’autorità”, “Il demiurgo”, “Teoria e pratica della reazione politica”, prima di questo “breve saggio sulle disarmonie naturali”.
Giuseppe Rensi, Critica dell’amore

S’avvicina la Cina, “potenza sottile”

Le banche cinesi valgono in Borsa più del doppio, mediamente, di quelle europee, e una volta e mezza rispetto a quelle americane. Secondo Moody’s hanno perdite nascoste per 60 miliardi di dollari, equivalenti al 12 per cento dei debiti degli enti locali. Ma gli Stati Uniti, lo dice lo stesso presidente Obama, non stanno meglio, se la finanza pubblica è a rischio default. Mentre la Cina è il maggior creditore degli Usa e, inaudito, protesta con Obama per le indecisioni sul debito con il rischio del default, può protestare.
Nel trentennio del mercato globale aperto da Reagan, e da Deng, lo sviluppo è stato molto ineguale: Usa e Ue sono cresciti di due volte, l’Asia di sei, la Cina di dieci. Il pil mondiale, che nel 1950 era di poco più di 5 mila miliardi di dollari (a valori costanti 1990), è oggi dieci volte tanto. Ma, mentre nei primi vent’anni del mezzo secolo la crescita è stata europea e americana, più il Giappone, che insieme pesavano trent’anni fa per il 55 per cento del pil mondiale, a fronte di un peso irrisorio per Cina e India,che insieme non arrivavano al 7 per cento, oggi il peso complessivo delle tre economie più sviluppate si è ridotto al 45 per cento ed è in contrazione, mentre la Cina si avvicina al 19 per cento e allo scavalcamento dell’Ue e degli Usa, e l’India all’8 per cento, in una tendenza di lungo periodo crescente.
Più in generale, guardando anche alla spesa militare, è l’Asia che modifica la bilancia globale. Nell’ultimo decennio la spesa militare è cresciuta in Asia del 66 per cento, nel resto del mondo dl 45. In Cina è crescita del 216 per cento, Nel 2009 la spesa cinese per la difesa è stata il doppio di quella giapponese. Senza alcun obiettivo offensivo - se non la protezione degli interessi minerari (petroliferi) nel mare del Giappone e nel mare Cinese Orientale (la contesa diplomatica col Giapone sulle isole Senkaku, in prossimità di Okinawa).
La Cina non è ritenuta una minaccia, sotto nessun aspetto, dal dipartimento di Stato. In termini di potenza, anzi, la Cina sarebbe estremamente debole per l’irriformabile monolitismo politico, che il benessere ha sempre più difficoltà a bilanciare, e anzi comincia a contestare. La controversia col Vaticano, per una questione tutto sommato marginale come la libertà di culto per i cattolici, sarebbe solo una riprova della sclerotizzata rigidità del regime. Ma la crescita dell’economia Pechino ora dichiaratamente inquadra in una strategia espansiva, quale del resto la logica della globalizzazione, sia pure con la tattica (“Quotidiano del Popolo”) della “potenza sottile”.

lunedì 11 luglio 2011

Tremonti geniale, nel senso della stupidità

Il crollo odierno dei titoli pubblici e della Borsa, dopo quelli della settimana scorsa, senza corrispettivo nei mercati europei e americano, ha a questo punto una ragione precisa: il decreto sula finanza pubblica, che raddoppia la tassazione dei titoli. Con questa semplice misura il Tesoro, per fare teoricamente cassa, si obbliga a pagare interessi sempre più alti, subito e di fatto – lo spread sul Bund tedesco è cresciuto di 1,20 punti nei pochi giorni di vigenza del decreto. Un’autocastrazione: il debito italiano aumenterà di 2-3 punti di pil perché Tremonti, avendo aumentato la tassazione sui suoi bot dal 12,5 al 20 per cento, dovrà pagare il 2-3 per cento in più di interessi. E cioè cinque miliardi neidodici mesi.
Il fenomeno non è circoscrivibile, e anzi destinato ad accrescersi man mano che, dopo i grandi investitori, i piccoli risparmiatori prenderanno coscienza della tassazione sul risparmio che il decreto introduce. Si tratta di circa undici milioni di cassettisti. Ai qual il decreto impone, oltre che la cedolare del 20 per cento invece che del 12,5 sui dividendi e gli interessi dei bot, anche un superbollo di 120 euro l’anno. Per i più significa, in aggiunta ai costi bancari di tenuta dei conti, l’obbligo di liquidare gli investimenti (anche perché il decreto premia i despoti in conto corrente). Tanto prima tanto meglio, poiché è in avvitamento verso l’abisso.

L’euro della cuccagna per il miracolo tedesco

È possibile che la Germania sia incapace di governare la crisi – nella fantomatica scissione fra un’opinione pubblica isolazionista e un governo concerned. Ma è possibile che non lo voglia: ne sta traendo benefici enormi. Il conto della crisi per la Germania è presto fatto: più si aggredisce il debito degli altri paesi europei, più aumenta la domanda di titoli tedeschi, con riduzione degli interessi o costi per la Merkel. E domani è un altro giorno.
Non si sottolineerà mai abbastanza l’asimmetria che, per quanto assurda, regola l’euro, con un tronco fisso, la moneta unica, che si alimenta attraverso rami di diversa consistenza e fragilità, i debiti nazionali. È un fatto, incontestabile, che un euro così concepito è a difesa della Germania. Camuffata sotto lo spirito europeista, la costruzione forzata dell’euro ha avuto finora e poteva avere un solo univoco effetto: proteggere la Germania a scapito degli altri paesi membri. I quali tutti sono e sono sempre stati costretti a finanziarsi a condizioni più onerose della Germania, in un circolo vizioso talmente evidente quanto spaventoso.
Si prenda l’Italia. Ha sempre fatto, da quasi vent’anni ormai, “riforme strutturali” e bilanci più virtuosi della Germania, e tuttavia ha sempre dovuto e deve pagare tassi d’interesse più onerosi della Germania. Oggi di ben tre punti percentuali. Questo euro, senza un consolidamento del debito, è un’opera di Sisifo, ma non a somma zero: se ne arricchisce la Germania, indirettamente ma non di poco. Si dice: l’Italia paga l’imprevidenza passata. Ma: 1) è una sciocchezza, l’economia si governa sull’oggi e il domani, 2) pagano anche i paesi che hanno un indebitamento analogo a quello tedesco in rapporto alla ricchezza.
Le banche tedesche vendono i Bot italiani, la Bundesbank impedisce gli acquisti calmieratori della Banca centrale europea: questa è la verità del mercato. La verità è cioè che la Germania trae, da questo euro a grappolo, un beneficio concorrenziale enorme in termini di costo del debito rispetto alle altre economie europee, dalla Francia in giù. Questo euro con i liberi debiti nazionali è una specie di albero della cuccagna, col quale si divertono solo i tedeschi, gli altri scivolano in continuazione col sedere per terra.

La cultura fascista che in Italia non ci fu

L’eccezionalità della cultura fascista in Italia è che non ce n’è una. C’è un’architettura fascista, sicuramente, e una pittura, anche e più in generale un’arte visiva e grafica (gli apparati di propaganda, efficaci ancora oggi), ma non c’è una cultura in senso stretto, spirituale. Una teoria cioè e un linguaggio: una filosofia, una storia, una letteratura (poetica, narrativa, memorialistica), una musica. C’è in Germania, eccome, in tutti i campi una nazista malgrado i pochi anni del regime di Hitler, e di forte spessore, non c’è in Italia. Gioacchino Volpe o Carlo Curcio non si possono dire storici fascisti in nessun modo, o Spirito o Gentile o qualunque altro filosofo in qualche modo espressivi del fascismo, o scrittori fascisti Pirandello, Bontempelli, Alvaro, eccetera. Neppure D’Annunzio, che più ha le carte in regola, e non solo per motivi di concorrenza personale, né Marinetti.
Si fa molto il caso, anche Tarquini in questo libro, delle acquiescenze degli intellettuali al regime, in certi periodi, più o meno convinte, ma è tutt’altra cosa: può essere il segno di una debolezza, o un errore di giudizio, o una scelta alla meno peggio, ma non c’è l’adesione che porta al linguaggio. Tutto ciò, sembra dire Tarquini, in presenza di una “politica culturale del regime” opulenta, quale l’Italia non ha mani sperimentato, né prima né dopo, con fondazioni, opere, accademie, e con finanziamenti sempre ricchi. Ma non lo dice. Rimarca che, in quanto a “ideologie” o manifesti, c’è un profluvio di opere, di nessun impatto. Ma sul secondo dei tre settori nei quali ha scomposto l’argomento “cultura e fascismo”, e cioè la scrittura o il pensiero fascista, l’“espressione del sapere” (gli altri due sono la politica culturale e le ideologie), sorvola. La sua è piuttosto una storia del fascismo per l’aspetto cultura, come (e con quanta abbondanza) Mussolini se ne occupava.
Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, pp. 248, € 18

La droga è il Grande Fratello

Un’allucinazione posata, quotidiana, alla Orwell. Una rappresentazione pratica, fattuale, dell’io diviso di Laing un decennio prima: la fantascienza della droga è purtroppo reale. L’anticipazione del Grande Fratello, seppure proiettata al 1994, quando Dick, nel 1977, immagina che i fatti si svolgano – il format oggi l’avrebbe reso miliardario. È il mondo della Sostanza M, come morte, in inglese D(eath), droga. Che viene in pasticche, da laboratori non tanto clandestini nelle migliori città, benché la sostanza sia proibita, in tubetti da un centinaio, come le aspirine. Con telecamere nascoste in ogni stanza, all’insaputa degli inquilini. Con effetti agghiaccianti: il gesto privato più insulso, anche solo grattarsi, vi assume senso mostruoso – il privato è indicibile? la comunicazione (codici, leggi, affetti) può solo essere canonica? convenzionale, seppure per imprinting. Lo stato normalmente allucinato di tutti i personaggi, compresi quelli che gestiscono l’Autorità, sotto l’effetto delle droghe, compresa l’antidroga, dà alla comunicazione-rappresentazione, in una sorta di rompete le righe, il carattere di un’ossessione.
Titolo paolino, con citazione dalla prima lettera ai Corinti, nonché da Teilhard de Chardin e dal “Faust” di Goethe, per una sorta di armageddon dell’età della droga, cui i curatori Carlo Pagetti e Francesco Marroni attribuiscono velleità anche “teologiche” – da intendersi come spinta religiosa? Per il romanzo della costante degradazione mentale indotta dai paradisi artificiali, il delirio persecutorio, l’interminabile circolare paranoia. Di cui la narrazione si vuole specchio impegnato, morale, pedagogico. Un’opera ambiziosa con cui Dick puntava a uscire dal genere fantascienza per la quale è famoso, che ha ispirato molti film, da “Blade Runner” a “Next”, per impiantarsi infine nel mainstream, essere riconosciuto grande scrittore. Un lustro prima di morire a 54 anni di ictus. Di fantascientifico c’è qui solo un’allegorica “tuta disinvidualizzante”, una “membrana sottilissima” cui un computer può dare in pochi minuti – Google l’avrebbe fatto in istanti – conformazioni e colori diversi attingendo da una banca dati di “un milione e mezzo” di fisionomie diverse.
Dopo quarant’anni il libro è vivo, a dispetto della monotonia della storia. E della stessa robusta cognizione che Dick dimostra della psichiatria della lateralizzazione, del “cervello diviso” anche materialmente, Joseph Bogan, Arthur Wigan, Miers e Sperry. Nonché dei diversi effetti delle diverse droghe, anfetamine, acido, funghi, eroina, hashish, l’oppio, e le tante sintesi chimiche. È in effetti un’anticipazione del presente qual è nella storia, di paure e vergogne, pur rappresentando un mondo senza luce. Il mondo paranoico dei paradisi artificiali, intercambiale per il costante delirio persecutorio, la psicosi del complotto permanente, di drogati-sbirri bugiardi anche con se stessi per avere perduto ogni nozione della realtà, nell’avvitamento elicoidale, una vite senza fine, dell’allucinazione costante. Con storie-lampo anche comicamente irresistibili: come nasce una leggenda, le varie declinazioni della gravidanza isterica, o l’impostore che “buca lo schermo” facendo l’impostore.
Philip K.Dick, Un oscuro scrutare, Tif Extra, pp. 329 € 9,90

domenica 10 luglio 2011

I libri si fanno oscuri la domenica sul “Corriere”

Chiara Maffioletti illustra oggi sul supplemento libri del “Corriere della sera” con un’argomentata presentazione, un vero e proprio saggio, il libro “Storia naturale del nerd”. Senza mai dire chi è il nerd. Che i vocabolari d’inglese non registrano. Anche perché nessuno sa cosa voglia dire, non è una sigla, non ha radice. Insomma, un neologismo contemporaneo, una contrazione inarticolata, che è in uso per secchione, il ragazzo con gli occhiali, un po’ smanettatore, un po’ supereroe. L’esoterismo non abbandona via Solferino?
A fronte, Franco Cordelli estesamente argomenta a favore di Pincio contro Gilioli. Vasistas? Il paginone precedente il venerabile Segre chiude rispondendo a Guglielmi, che mercoledì aveva scritto rispondendo a Segre lunedì. A proposito dei romanzieri, se sono meglio i monolinguisti (Manzoni, Kafka) o non i plurilinguisti (Dante, Rabelais, Gadda). Dante romanziere non è male. Ma chi legge il professor Segre oggi non capisce nulla. Più o meno, si tratta degli scrittori la cui opera è “concentrata sulla narrazione e i personaggi” e degli inventori (sperimentatori) concentrati sul linguaggio, la scrittura.
Ma, poi, perché Kafka sarebbe monolinguista? Uno che con pochi stilemi, perlopiù di grigia burocrazia, evoca molti mondi, alcuni ancora inafferrabili? Siccome Kafka nelle foto ha spalle cadenti e veste di grigio, basta per farlo monolinguista?

“Porci” pionieri, poi il sesso tornò indicibile

Dismessi come divertissement di due giovani allegri, lo psichiatra Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, il copyright del titolo pare sia di Wodehouse (ma se “i porci hanno le ali” è quesito già di “Alice”) i “Porci” hanno sanzionato per il largo pubblico cnquant'anni fa, nel 1967, la stagione del linguaggio crudo dell’eros. Che si può dire la novità del Sessantotto. Ben prima di Pasolini col “Petrolio”.
Le prime scatologie pubbliche erano venute da Dacia Maraini, più circoscritte e meno esplicite ma con un lui che s’intendeva Moravia. Esperienze oltraggiose aveva immaginato-sperimentato la casta Ingeborg Bachmann, in un certo senso anch’essa romana, rimaste però inedite fino a fine secolo, poi raccolte nel “Caso Franza”.
È stato un ciclo breve, anche al cinema, di un decennio. Philip Roth e “Il lamento di Portnoy”, che aveva “liberato” la masturbazione, è del 1969. Poi venne Parise col kamasutra insistito dell’“Odore del sangue”. Il sesso non si presta alla trasposizione diretta, in parole o immagini, se non come pornografia. A differenza di altre cose indicibili, il sangue, la violenza dettagliatamente fisica, la malattia degenerante.
Marco Lombardo Radice-Lidia Ravera, Porci con le ali

L’Europa dei (piccoli) buffoni

Piccola, inerme, e vanagloriosa: la guerra di Sarkozy e Cameron alla Libia è l’ennesima sordida farsa, questa anche tragica, dei nani europei che si credono giganti. La sindrome incurabile a questo punto dell’Europa, posto che l’infezione è coltivata.
Già al tempo del Muro e dei blocchi, ma con evidenza netta nella globalizzazione, l’Europa è uno spicchio del mondo, non influente. Contava zero quando il mondo si governava con i missili. Conta poco di più nella finanza subentrata alle testate multiple – conta ancora per un quarto, un quinto, nel commercio mondiale, ma zero o poco più tra le forze che lo muovono, la moneta, le banche, i fondi.
Questo se l’Europa fosse unita. I suoi singoli paesi non contano niente. È un fatto, visibile, comprensibile anche, solo i governi europei mostrano di non saperlo. La Germania forse sì – per quanto, se si illude di tassare a Berlino i capitali mondiali, con la Tobin-Robin Tax, mentre non sa governare la Grecia, non mostra molta sanità mentale. La Francia evidentemente no. Ma nell’insieme la veduta è scoraggiante. Quando si farà la storia di questa guerra, o volendola guardare dall’esterno, a distanza, è poco più di uno di quegli scherzi di cui un tempo si dilettavano i buffoni di corte, frustrati.

È Unicredit contro Unicredit

C’è Unicredit dietro lo smobilizzo Unicredit. Nessuno può dirlo, ma tutti se ne sono certi. È uno dei misteri, non il solo, della settimana che ha visto la capitalizzazione di Unicredit ridursi di 4,5 miliardi, e di Intesa di 3 miliardi. Con vendite non giustificate e anzi chiaramente speculative, a breve allo scoperto.
Una parte dei movimenti di Borsa va in automatico. Essendo cresciuto notevolmente, di oltre mezzo punto percentuale in poche ore, l’onere dei Btp italiani rispetto al Bund, il titolo tedesco di riferimento, il finanziamento sarà più caro per le banche italiane, e quindi i grandi investitori se ne sono alleggeriti. Ma una forte speculazione si è innestata su questi automatismi, tutta locale, e soprattutto su Unicredit. Senza reazioni, né del management né della proprietà, e questo porta a inquadrare le vendite sul titolo nel disegno delle Fondazioni di riappropriarsi della banca, riscorporandola nelle componenti, per rifarne centri di potere politico.
La Consob ha provato a reagire al primo giorno dell’attacco a Unicredit, come aveva fatto in altri casi della stessa dimensione, bloccando le vendite allo scoperto. Ma è ne è stata impedita da almeno tre dei suoi cinque membri, quelli più vicini all’industria del credito e alle stesse Fondazioni, Vittorio Conti, Michele Pezzinga e Luca Enriques – gli altri due, il presidente Giuseppe Vegas e il professor Paolo Troiano sono grands commis pubblici.
Le banche italiane hanno perso il 26,5 per cento del loro valore di Borsa quest’anno, contro un calo dell’8 per cento circa per tutte le banche europee, comprese dunque quelle italiane, e le banche Usa. Pur avendo migliori ratios della media delle banche europee. Quattro quinti del crollo della scorsa settimana sono imputabili alle banche più politicizzate, Unicredit e le popolari.
Il destino di Unicredit è nelle mani di Palenzona e Biasi, i presidenti molto politicizzati di alcune delle fondazioni socie del gruppo. I due di questo non ne fanno mistero. Biasi e Palenzona sono anche molto impegnati nella costituente informale del Centro politico post-Berlusconi.

Fiat sale con Obama, e col sindacato Usa

Sarà stata la mossa decisiva, ancorché avventurosa come nessun’altra, di Marchionne. Tale da rilanciare la Fiat, che per il resto langue, tra vendite contenute e debiti alti. Ora il gruppo italiano, comprensivo di Chrysler, ha debiti per circa 40 miliardi di dollari, e cresce in Borsa e nelle stime degli analisti.
Per molto meno in passato, quando le si portavano a debito anche le vendite a credito, la Fiat è andata vicina al fallimento. Ma quella era un’altra epoca: la Fiat era una delle tante prede che le banche angloamericane azzannavano, e azzannano, con profitto. Marchionne si è invece messo dalla parte del “sistema”. Prendendosi la Chrysler, la più disastrata dei fabbricanti d’auto, al punto che nemmeno la Mercedes era riuscita a cavarne nulla, se non quasi dieci anni di debiti e perdite. Salvata da Obama, ma a un costo da strozzinaggio: lo stesso Marchionne, che per prima cosa ha ripagato il debito verso il governo Usa (5,8 miliardi) e verso quello canadese (1,7 miliardi), ha spiegato che pagava a Washington il 14 per cento e al Canada il 20 – shyster disse l’ad di Fiat questi prestiti, da imbroglioni.
Obama è la carta vincente, finora e fino a che durerà il fenomeno Obama, di Marchionne. Che l’ha riconosciuto, chiedendo scusa per lo shyster, e si prodiga per dare una mano. Obama fa, ormai con chiarezza, della rinascita di Detroit il perno della campagna per la rielezione l’anno venturo. E Marchionne da qualche tempo è soprattutto impegnato a rilanciare la Chrysler, sul prodotto e sulle vendite. Grazie anche, bisogna dire, a una riduzione dei costi che è riuscito ad ottenere con i sindacati, dei salari e dei fondi sanitari, di tre miliardi di dollari l’anno, pari a 1.500 dollari per auto prodotta. È così, grazie alla politica e ai sindacati, che l’unione di due debolezze potrebbe trasformarsi in un successo.

La piovra degli enti locali

Si lamentano i costi della politica con conti assurdi: le indennità dei ministri, le cilindrate delle auto ministeriali. Questa è solo l’annosa (stucchevole, falsa, sciocca) polemica della virtuosa Milano contro Roma, e l’indigenza dei giornali. Mentre ognuno sa, ognuno fuori degli inutili giornali, o servi sciocchi, che la politica artiglia il paese attraverso gli enti locali, insaziabili.
Come i partiti avrebbero potuto votare per l’abolizione delle province? Gli enti locali, con la loro autonomia, di imposizione, sono semmai il maggiore investimento dei partiti. A ciò spinti dal plebiscitarismo dell’elezione diretta, di sindaci, presidenti di provincia, presidenti di regione. Ma abilitati dall’opinione: i referendum sull’acqua, per restituire la gestione dell’acqua ai rapacissimi enti locali, mostrano che l’ideologia localistica paga, gli elettori ci credono.
Ticket e tasse delle Asl, sulle medicine, il pronto soccorso e l’ospedale. Tasse di ogni tipo e misura sull’occupazione di suolo pubblico, sia pure per scaricare i mobili, con parcometri per ogni mq. disponibile. Tariffe esorbitanti, della spazzatura e dell’acqua. Multe salatissime per ogni minima infrazione stradale (tre e quattro volte quello che si paga in Germania), e sistemi truccati (nella taratura, nella collocazione) dei controlli di velocità e dei semafori. In aggiunta alle variabili, ma sempre esose, Ici, e addizionali comunali e regionali sul reddito.
Tutte entrate esorbitanti e proliferanti. Legittime, si dice, perché vanno a beneficio della comunità. Ma solo in (minima) parte, e dopo aver gratificato i sindaci e i presidenti con i loro assessori, e le loro spese elettorali camuffate: da concerti gratuiti e notti bianche, e in molte province da orchestre sinfoniche stabili, e polizie provinciali in suv. E perché tasse regionali sulla salute invece dei ticket? Per non gravare le assicurazioni, che infatti non le rimborsano – mentre si può fregare lo Stato, contro il quale si portano a detrazione.