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venerdì 30 aprile 2021

Ombre - 560

La XVIII.ma legislatura, quella in corso, registra già un record di cambi di casacca: 143 alla Camera e 86 al Senato. Ma resta la prima legislatura – da molti anni ormai - sicura di arrivare alla fine:  nessuno rinuncerà alo stipendio.
 
Il cambio di partito fra gli eletti si è accentuato nel passaggio dal governo Conte a Draghi: Il “Venerdì di Repubblica” conta 81 passaggi nei 103 giorni della crisi.
Poco meno della metà dei cambi di casacca, circa 100, sono di parlamentar 5 Stelle. Se ne può fare un titolo di merito: l’autonomia di giudizio? O di demerito: lo scarso giudizio?

La strage in Israele alla festa degli ortodossi al Monte Meron non è una notizia per il Tg 1, malgrado le immagini drammatiche. Per Sky Tg 24 è la quarta o quinta notizia al sommario, appena prima dell’avvocato Amara – dopo le interminabili riesposizioni di Recovery Fund e annessi. E forse non è per antisemitismo.

L’avvocato Amara, siciliano stakhanovista, già “avvocato esterno” dell’Eni,  ha prima fatto trottare la Procura emerita di Milano con le tangenti africane, come se in Africa fossero materia penale, e ora s’industria a far lavorare il Csm rivelandone le magagne. Una nuova figura, il denunciatore seriale. Prime pagine assicurate, senza nemmeno il bisogno di sentirsi.
 
È sempre ai giudici di Milano che ci governano che l’avvocato confida i segreti del Csm. Per una serie di gite a Roma. Qui c’è uno scadimento: con le tangenti africane le gite pagate erano pingui, l’Africa in vacanza ancora costicchia.
 
Ma più che dei giudici l’avvocato Amara è benemerito dei cronisti giudiziari: possono scrivere paginate senza nemmeno la fatica di una telefonata, col copia e incolla delle sue bibliche, enciclopediche, testimonianze. L’unico problema è che questo avvocato ci costa.
 
Fa senso vedere in tv Salvini che vota per Draghi contro Meloni. Sulla sfiducia a  Speranza, il ministro delle chiusure, la bestia nera degli esercenti. Il populismo a braccetto con la tecnocrazia, una rivoluzione? Il populismo è un magma indistinto, vaga in cerca di una faccia che gli dia rispettabilità.
 
Nei venti ani dal 1999 al 2019 il pil italiano è cresciuto del 7,9 per cento, contro il 30,2 per cento del pil tedesco, e il 40 per cento di quello spagnolo. Il conto lo fa “Handelsblatt”, il “Sole 24 Ore” tedesco. In Italia come non detto: il paese s’impoverisce ma si fa finta di no.
 
“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” è l’articolo 1 della Costituzione. Ma il più trascurato. Non si investe. Si fano i bilanci (si pagano utili) delocalizzando e appaltando all’esterno le attività – a chi può lavorare col precariato: contratti a termine, a cottimo, consulenze. Un’economia del precariato a chi giova. Una volta si sarebbe detto: ai ceti parassitari. E se i ceti parassitari siamo noi?
 
“Nel Piano predisposto dal precedente governo c’era una sola pagina dedicata alle riforme di attuazione del Recovery, oggi ce ne sono quaranta”, obiettano da palazzo Chigi e dal ministero dell’Economia alle pressioni di Bruxelles. Il governo di Conte, ma anche di Gualtieri. Che ora corre per sindaco di Roma. Si riposava per la candidatura?
 
Saprebbe di incredibile, se non fosse l’attualità, la lite sul coprifuoco, se parte alle 22 oppure alle 23. Eppure è – è stata per una settimana- tuta la politica italiana. Ma, questo il punto: della politica o dei media politici? I media non sanno fare altra politica – rappresentazione, analisi – che queste chiacchiere, battutine, scoregge?   
 
Incredibile anche la continua lite tra Francesco Merlo e i lettori di “Repubblica”, di cui cura la corrispondenza, che vogliono il figlio di Grillo assolto a priori, e la ricorrente condannata perché la difende l’avvocato Bongiorno, leghista o ex missina. Da ultimo sostiene questa colpevolezza un  Umberto Cherubini. Che a Bologna fa il giurista, all’università.
 
Una lettura doppiamente incredibile. Che tanta cecità sia a sinistra: una ragazza violentata, se è rappresentata da un avvocato di destra, ancorché impegnato in una lega femminista, a protezione delle donne violentate, è sicuramente una puttana. Che veicolo e baluardo di questa perbenismo sia stata e sia “la Repubblica”. Che cerca ora di salvare il salvabile (i trinariciuti vanno all’estinzione, l’anagrafe avanza) esponendo Merlo come falso scopo, per il puntamento dei cherubini.  
 
Brumotti, il “ciclista pazzo” di “Striscia la notizia”, si è avventurato al Quarticciolo a Roma per dire quello che tutti sanno, che si spaccia per strada. Mal gliene incolse, si sono fatte manifestazioni e blocchi stradali contro lo sventurato. Perché non c ha passato le giornate, e perché “lavora per Berlusconi” – “Striscia” va su Canale 5, Mediaset. La furbizia non ha limiti.
E Roma è delle “borgate”; periferie di extralusso, piene di affittuari che non pagano, di enti pubblici o vaticani o benefici, anche due e tre abitazioni, che affittano invece in contanti, in nero, e sempre pretendono.
 
Marco Lodoli biasima su “la Repubblica-Roma” chi a Fiumicino, fra gli assessori alla scuola, i dirigenti scolastici, gli insegnanti, non ha aperto una copia del bellissimo libro illustrato della collana Imago Mundi che la Fondazione Benetton ha regalato prodiga, in ben 9 mila copie, agli scolari del comune. Perché il volume era per adulti e non per i bambini cui andava il dono della  Fondazione – un errore, pare, di immagazzinamento. Il curioso è che nemmeno Lodoli, che se la prende come d’ordinanza con i Benetton, magliari che vogliono occuparsi di arte, lo ha aperto.

Il triangolo di Nietzsche amoroso

È il  carteggio di Nietzsche, Lou von Salomé e Paul Rée, per alcuni anni legati reciprocamente da intima amicizia, con periodi anche di convivenza. Paul Rée Lou, golosa ma onesta, preferiva a Nietzsche, troppo arruffone.
Leggendolo in questa ottica semplificata, il carteggio diventa anche piacevole. La cosa infatti si sa, ma non si dice, né nelle corrispondenze incrociate, né nelle tante biografie di Nietzsche, o dal curatore Peters. Che fu anche biografo di Lou, ma impegnato a idealizzarla - all’evidenza innamorato del suo soggetto, al punto da farne una vergine immacolata.
Non che Lou fosse satanica, ma, poveretta, doveva barcamenarsi, essendo capitata accanto al grand’uomo. Che riconosceva – è lei la prima, o una dei primi, a riconoscerne la portata - ma di cui non veniva a capo. Di tutt’altro genere, per esempio, sarà la relazione di Lou col giovanissimo Rilke, quasi una svezzatrice, eppure proficua a entrambi, piena di cose, oltre che di letti.
Un carteggio in questa ottica saporito, prima che le recenti riprese di Lou Salomé ne attestassero la cospicua capacità intellettuale e critica, a prescindere. A prescindere cioè da Nietzsche, come da Rilke.
Un carteggio che si gusta, tutto sommato, per il sapore di Ottocento. Di grandi e piccole questioni. Di passioni, incomprensioni, visioni, ubbie che si dicevano, in dialogo, si scrivevano anche, in qualche modo fissandole. Poi non più l’amore, ma nemmeno l’amicizia, o l’inimicizia, hanno alimentato le corrispondenze celebri, solo questioni di testa, e qualche bisogno alimentare. Per esempio l’orrenda corrispondenza che si viene pubblicando di Proust, che si rende cioè orrenda con le decadi.
H.F. Peters, Triangolo di lettere, Adelphi, pp. XIX + 492 € 18

giovedì 29 aprile 2021

Il mondo com'è (427)

astolfo

Colonne d’Ercole – La porta proibita più attraversata probabilmente della storia, anche nei tempi antichi. Un limite estremo del mondo conosciuto che di fatto era una porta per l’attraversamento verso altri lidi, cabotando l’Africa occidentale. Già a opera dei cartaginesi-fenici. Si navigava in epoca storica dalla Scandinavia e dall’Irlanda – non dall’Inghilterra, terra di terragni, fino allo sbarco dei Normanni - verso il Mediterraneo e ritorno (meglio verso il Mediterraneo che per il ritorno, per i venti e le correnti), lungo la penisola iberica e attraverso le Colonne d’Ercole. L’“Edda” celebra la spedizione di Sigurd re di Norvegia verso il Mediterraneo con la sua flotta nel 1107 per recarsi in Terrasanta in sostegno del regno di Gerusalemme, creato con la prima Crociata. Navigò senza problemi, facendo tappa a Palermo, pe rendere omaggio al suo quasi connazionale Ruggero II d’Altavilla, conte di Sicilia, partecipò alla conquista di Sidone, fu ospite gradito e sorpreso a Costantinopoli, e con i cavalli dell’imperatore Alessio I Comneno, al quale aveva ceduto le sue navi, fece un ritorno lungo tre anni, invece delle poche settimane dell’andata: attraverso la Bulgaria, l’Ungheria, la Pannonia, la Germania meridionale (Baviera e Schwabia, la Soave di Dante), la Danimarca, fu a casa nel 1111.
 
Lucera
– La concentrazione nella città apulo-molisana, porta del Tavoliere, poi capoluogo della Capitanata, degli arabi del Regno del Sud, il regno di Palermo, normanno e poi svevo, nel 1223, per editto di Federico II di Svevia, con libertà di usi, leggi e culto, è portata ad esempio di integrazione e tolleranza. Presentata dagli storici, e conosciuta dal largo pubblico, come tale: come una “società mista”, di popoli, culture, religioni, anche ostili fra di loro e tuttavia in pace. Anche per la fedeltà al regno di Palermo che Lucera mussulmana mantenne nei successivi eventi - successivi alla morte di Federico II nel 1250 - per tutte le guerre che portarono all’annientamento degli eredi del terzo “vento di Soave”di Dante in “Paradiso”: Corrado IV, Manfredi (“Sultano di Lucera” fu uno dei suoi appellativi) e Corradino. Lo stesso Federico II promosse e favorì quella lettura, forte della “crociata pacifica”, la sesta, 1228-29, quando ebbe dal khedivé d’Egitto, per conto del sultan Saladino, tutti i luoghi sacri cristiani e altri, Gerusalemme, Betlemme, Nazaret, Sidone, e altre località col sol negoziato diplomatico. Visitò spesso Lucera mussulmana e ne promosse costruzioni monumentali e difese. Ma Lucera fu mussulmana in realtà per un atto di deportazione.

A Lucera, il posto più remoto del suo regno rispetto a Palermo, Federico II confinò i mussulmani per mettere fine alle croniche rivolte degli arabo-berberi. Avevano vissuto in Sicilia per due secoli e mezzo (827-1091), ma non si erano integrati. Confinò quelli rimasti nell’isola dopo la sconfitta del califfato di Palermo, e in Calabria e Puglia nelle piccole-grandi enclaves di saraceni costituitesi al tempo degli effimeri califfati, organismi pirateschi, diffusi lungo le coste ioniche e tirreniche al cessare del controllo bizantino. Di ventimila di essi, si suppone i più facinorosi, Federico II dispose la deportazione a Lucera – inizialmente anche a Girifalco, in Calabria, e Acerenza in Basilicata, da cui poi fu costretto a ritrasferirli a Lucera: agli antipodi della sua capitale, in una sorta di deserto urbano, non creava un “paradiso degli infedeli” ma un campo di punizione.

Quanti erano gli arabo-berberi, i mussulmani, nel regno non si sa. A Lucera furono confinati i più riottosi, gli agitatori. Molti altri, probabilmente i più, restarono nelle aree di origine, più o meno convertiti, comunque integrati alle comunità locali, di cui restano testimonianze diffuse nell’onomastica: Pagano, Morabito, Vadalà, Bagalà, Zappalà, Gangemi, Macaluso, Molé, Sciortino, Musumeci, Caffaro, Buscemi, Cabibbo, Jacchia....   
La Lucera mussulmana, detta Lugarah, o Lushira, di governo facile perché direttamente dipendente dal re, conobbe una immediata fioritura economica. Gli arabi erano le maestranze in Sicilia, e anche i commercianti piccoli e grandi dell’isola - lasciarono vuoti  che Federico II dovette colmare con l’immigrazione qualificata dal Nord Italia, che l’onomastica tuttora certifica. Lavoravano la pietra, il ferro (armi), i metalli in genere. Organizzarono perfino, ai margini del Tavoliere,  delle colture irrigue. Se ne parlò in Nord Africa come di una nuova Cordoba. I proscritti avevano anche libertà di reggimento politico e di culto. Ma non fu un’esperienza di integrazione: Lucera fu mussulmana senza cristiani – una tradizione riduce a dodici i cristiani rimasti: un dato non storico che però dice come la concentrazione fu vissuta. Nel campo cattolico, subito dopo la morte di Federico II, il papa Alessandro IV, Rinaldo del Sannio, il papa nipote di Gregorio IX, nel 1255 emise una bolla “Pia Matris” contro Manfredi e Lucera, chiamando a una  crociata. Altri interventi papali seguiranno, contro la “Luceria Saracenorum”. Nel 1300, anno del primo giubileo, papa Bonifacio VIII riuscì a organizzare la crociata, “Crociata angioina”: Lucera fu conquistata il 23 agosto – San Bartolomeo. Gli abitanti sopravvissuti furono dapprima dispersi, poi rintracciati e venduti come schiavi. Anche i neonati. Il “Codice diplomatico dei saraceni di Luceri”, a cura di Pietro Egidi, esumava un secolo fa fra i tanti un bando di vendita in latino di 44 saraceni ad Altamura, maschi e femmine,
 “mares et feminas”, tra i quali un bambino di un anno e mezzo, una bambina di due anni e mezzo, un “masculus” di “anni IX” e una “infantula di tre mesi che ancora non ha nome”.  

Lucera non ricorda con orgoglio quell’esperienza. Ne tiene contro nella sua storia, ma soprattutto si rifà al suo ruolo e ai suoi monumento nell’antico impero romano, e poi con i regni longobardi.
 
Mers-el-Kébir – Nel 1940 la flotta inglese, temendo che le navi da guerra francesi concentrate in Algeria, a Orano e Mers-el-Kébir, passassero sotto controllo tedesco, in virtù dell’armistizio firmato dalla Francia con la Germania il 22 giugno, le affondò. Provocando la morte di 1.300 marinai.
Non fu un’azione di sorpresa, né un colpo di mano. Lunghe discussioni si erano avute tra i governi ancora alleati, prima e subito dopo l’armistizio, di Londra e Parigi sul destino della flotta militare. Ma la stessa fu affondata di sorpresa, il 3 luglio  dieci giorni appena dopo gli accordi franco-tedeschi. Nel corso della “drôle de guerre”, la guerra per finta, del 1939-40, la flotta era stata messa al sicuro in Nord Africa e nell’Africa Occidentale a dominazione francese. Maturando la sconfitta, l’ammiraglio in capo, Darlan, aveva detto chiaro che in caso di armistizio non si sarebbe consegnato ai tedeschi. Ma poi, nominato ministro della Marina nel governo collaborazionista di Vichy, aveva trasformato le indicazioni in generiche messe in guardia contro interessi “non nazionali”. L’attacco inglese avvenne di sorpresa, ma era stato preceduto da un intenso scambio diplomatico, in cifra. Diffidenti l’una dell’altra entrambe le parti.   
 
Vivaldi  - Ugolino e Vadino Vivaldi hanno tentato nel 1291 la via delle Indie per via d’Occidente: oltrepassando le colonne d’Ercole, circumnavigare l’Africa. Non fecero ritorno, probabilmente naufraghi alla foce del Senegal.

astolfo@antiit.eu

Ecobusiness

La ricarica più veloce per auto elettrica è quella della Mercedes-Benz Eqa: bastano trenta minuti per arrivare all’80 per cento della batteria a una colonnina veloce a 100 kwW.
Il listino Mercedes-Benz Eqa parte da 51.150 euro. Ma con gli incentivi statali e regionali scende di diecimila euro, assicura la pubblicità. Finanziamo le vendite di automobili che non apportano alcun beneficio all’ambiente o al clima.
Considerando un parco automobilistico fatto tutto di Mercedes Eqa, ricaricabili velocemente, in mezzora, il numero di colonnine installate dovrebbe passare dalle attuali 100 mila circa, nelle 21 mila stazioni di servizio a benzina\gasolio, a 2 o 3 milioni.
Non tutto il parco automobilistico può essere sostituito naturalmente da macchine da 50 mila euro in su, ci sono anche le medie e le piccole cilindrate, che sono la maggioranza. Ma con ricariche più lente, il numero delle colonnine di ricarica dovrebbe essere molto maggiore.
 
Le tariffe per i consumi di acqua, per le utenze domestiche, sono esplose, letteralmente, nei dieci anni dal referendum che sancì l’acqua bene pubblico inalienabile. La utility romana Acea (comproprietà Comune-gruppo Suez-gruppo Francesco Gaetano Caltagirone) ha raddoppiato dal 2015 al 2020 la tariffa  dell’utenza domestica più diffusa, la “agevolata” (una lavapanni che vada una volta al giorno), portandola a 0,40 euro al metro cubo. Ma, soprattutto, l’ha ridotta, da 92 a 30 mc l’anno: per mandare la lavapanni la tariffa unitaria (per metro cubo) passa a 0,80 euro da 30 a 60 mc, a 1,34 euro da 60 a 90 mc, a 1,88 euro sopra i 90 mc. Cioè, ha moltiplicato la tariffa per quattro volte: i 90 metri cubi, che costavano 19 euro, ora ne costano 79.
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Il migliore è il peggiore, o dell’inutile critica

La critica infine venne, con lode, all’ultimo libro, questo, il più brutto – i recuperi difficilmente sono interessanti (a meno di censure, vedi Morselli).
Messe sterminata di recensioni, ripetitive ma encomiastiche, per questo, mentre i cinque libri pubblicati da Glauser in precedenza, alcuni appassionanti, erano passati sotto silenzio. Ma questo “Primi casi” è bruttissimo. È un risarcimento? O i critici lavorano per echi, per accumulo – dopo cinque libri l’autore è ok?
Friedrich Glauser, I primi casi del sergente Studer, Sellerio, pp. 212 € 12

mercoledì 28 aprile 2021

Secondi pensieri - 447

zeulig


Assurdo
– Si ha bisogno dell’assurdo, l’uomo ha bisogno dell’assurdo, la ragione non saprebbe come definirsi, ritrovarsi, se non costeggiando l’assurdo
 
Fede
– Viene con la preghiera, dicono i papi da qualche tempo. Cioè bisogna credere per avere (rafforzare, consolidare) la fede? Un processo di autoconvincimento.
 
È il principio dell’arte, l’immedesimazione. Lo stato passionale. Delle fede religiosa come di quella amorosa: il trasporto fuori di sé.
Le avanguardie tentano – hanno tentato, per tutto il Novecento – di rompere questo legame, lo “stato di grazia”, con dissonanze, macchie, eventi invece di “prodotti”, con invenzioni, macchinari, materiali, deiezioni, ma a nessun effetto, se non di (temporanea) sorpresa – épater le bourgeois. Sono gesti-atti-manufatti politici, di una politica che si pretende estetica, ma non può esserlo – o allora nei limiti (contesti, fini, effetti) della politica, arte manuale (artigianato) per eccellenza.
C’è arte senza la fede, senza una fede? No. La Dea Ragione perderà Calvino (Italo) nel mentre che lo sterilizza, in arzigogoli alambiccati. Produce giochi – esercizi di stile, sciarade, lipogrammi, acrostici, decostruzioni, postmoderno – e narcisismi. Si dice creazione, in arte, una sorta di abbandono mistico.
 
Femminismo
– S’intende una rivendicazione di uguaglianza, nei diritti e nella prassi. Ma una riscoperta, prima che una rivendicazione: di un’eguaglianza di fatto sotto il diritto patriarcale, maschilista. “Gli studi degli ultimi trent’anni del Novecento anno mostrato ampiamente come i ruoli femminili, nel Medioevo, fossero più vari e complessi di quelli che i maschi ammettevano”, anche “nel loro donneare” – Elena Ferrane, “L’amica geniale e gentile di Dante”, (“Robinson”, 24 aprile). Tra i poeti cioè femministi dell’amor cortese. Ferrante cita Matilde di Magdeburgo, Ildegarda di Bingen, Giuliana di Norwich, Margherita Porete, Angela da Foolino, magistra theologorum. Ma la lista è lunga – molto c’è negli studi sul latino medievale di Rémy de Gourmont, “Il latino mistico”: Rosvita di Gandersheim,. Santa Lutgarda, Eleonora d’Aquitania,  Eloisa, Virdimura, la dottoressa (in medicina) ebrea di Catania, Trotula de Ruggiero, Herrad von Landsberg, le tante sante.  
 
Freud
– “Imbecille di genio!” lo scopre Gide nel “Diario” a giugno del 1924: ha liberato il sesso, il discorso sul sesso, “ma quante cose assurde presso questo imbecille di genio!”. Che l’essenziale, nota ancora Gide, lascia inesplorato: il desiderio, o la mancanza di desiderio. Questo soprattutto: “Che avviene quando, per ragioni sociali, morali, etc., la funzione sessuale si trova portata, per esercitarsi, ad abbandonare l’oggetto del suo desiderio, quando la soddisfazione della carne non comporta alcun assenso, nessuna partecipazione dell’essere, e che questo si divide e una parte di sé resta in ritardo?” Nei rapporti mercantili cui Gide era aduso ma anche, evidentemente, in altri contesti, anche coniugali o di “innamoramento”.
 
Materia oscura – Se il 90 per cento dell’universo (massa incalcolabile) è inerte, donde la vita? Ma qualcosa c’è: è questo Dio?
La materia senza moto, senz’anima, c’è ma non esiste. Lo spirito ha bisogno anche della materia inerte, ma la materia non esiste senza lo spirito – è l’argilla che il vasaio fa vivere.
La vita è un mistero. Che si forma (conforma) nell’anonimato. In attesa della scintilla vitale, di una  scintilla. Non di un passaggio (evoluzione): ha bisogno di un salto, un’altra realtà.
 
Ortodossia – Esclude, non include. Respinge, più che avvicinare. Ciò è evidente nella forma politica. Ma anche, al fondo, in quella religiosa, benché discutibile – l’eresia minaccia il credo o lo allarga?
È una difesa? È verità – quanto è vera, se è intangibile?
Si può dire l’opposto dell’umanesimo, della condizione umana: che è, deve essere, aperta. Alla riflessione ma anche alle credenze, seppure con un minimo di potenziale critico. Una disponibilità scuramente ferace in politica (indispensabile: la politica è mobile, la fissità la sua morte), e probabilmente anche nella religione.
 
Piacere – Si vuole speciale - unico. Proust Gide trova “gran maestro in dissimulazione”, così come Wilde, per non voler ammettere la condizione o passione omofila. Che tuttavia, Proust e Wilde, sono icone della gaytudine. Il proibito è parte de piacere, di un piacere che ci guadagna a volersi  eccezionale.
 
Vangeli – Ma sono paolini, più che cristologici. Conformati sulla Passione e la Morte. Cioè sulla rinuncia del temporale: la salvezza non è di questo mondo.
I Vangeli sono una cavalcata in un mondo possibile di bontà e letizia. Anche trionfale, fino all’ingresso in Gerusalemme. Poi convergono tutti, compreso Marco, che è il più antico, nel Cristo paolino, del sacrificio per la salvezza, della salvezza attraverso il sacrificio. Il simbolo diventa la croce, non più la palma. La gloria passa per l’ignominia la mortificazione. La carne viene divisa dall’anima. Una ortodossia si crea, tanto fine (afinata) quanto ingombrante.
Una fine che dovrebbe sorprednere il Gesù di prima, dall’annuncio a Maria alle parabole, ai miracoli, con la pace, la giustizia, l’amore. Nulla lasciava presagire la fine in croce, Gesù non si è posto fin ad allora dentro le polemiche tribali dell’ebraismo. È il Gesù di san Paolo che entra in queste diatribe, e ne esce vittima. Un agnello sacrificale che diventa capopopolo, capo di una chiesa, di un’ortodossia.  
 
Virtù – Era la “repubblica della virtù” quella del Terrore, di Robespierre, 1793-94. Un assolutismo e una schiavitù. Alle leggi, ma di un ristretto numero, e quasi capricciose. Richiamandosi alla democrazia diretta, di fatto governata assolutamente, al volere del Capo - vita associata, commercio, consumo.
La virtù di Machiavelli è il valore, che sconfina nel coraggio, quello politico come quello fisico. In questo senso, classico, colloquiale, è anche la virtù di Nietzsche, la forza o “volontà di potenza” come opposta alla virtù cristiana della rinuncia.
Le quattro “virtù cardinali” del catechismo, che sancisce sant’Ambrogio, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, erano di Platone.  Assunte come in Platone, senza in questo caso le sottigliezze classificatorie di Aristotele.
Un tema che non ha stimolato. Contro il “mito virtuista”, in materia di letteratura e di spettacolo, aveva facile gioco Pareto a prodursi nel 1911 nell’arringa che i mali chiamava analfabetismo, miseria, corruzione, camorra, e Austria.


zeulig@antiit.eu

Pavese era giovane, e avventuroso

Un Pavese sorprendente, sicuro di sé, anche troppo, che a vent’anni sfida la critica americana e europea su Walt Whitman. Di cui si arroga la chiave di lettura giusta – “Walt Whitman canta la gioia di scoprire pensieri”, così la sintetizzerà tre anni dopo in un articolo per “La Cultura” di luglio-settembre 1933. Nella tesi di laurea, passata a ventun anni, che il relatore si rifiuterà di presentare.
Pavese andava di fretta - è morto di poco più di quarantuno anni, anche se sembrava fosse lì da sempre. Da ragazzo anche di corsa. Si laurea a 21 anni, superando ben quattro esami di fila, biennali, nelle poche settimane intercorse tra la chiusura dell’anno accademico e la sessione di laurea. Tratta la materia dall’alto, e come con sufficienza – la materia essendo le letture precedenti di Whitman, la bibliografia e le biografie, di critici americani, italiani, inglesi e francesi. Compreso Stevenson, a cui Whitman non piaceva (“Familiar Studies”: gli “preferiva” Milton…)
Whitman l’aveva scoperto l’estate dell’iscrizione all’università, scrivendone – con opposti pareri a distanza di poche settimane – all’amico Tullio Pinelli. “Io, in questi boschi, mi esalto con Whitman”, scriveva da Santo Stefano Belbo l’1 agosto 1926, diciottenne, in vacanza dopo la maturità. E un mese e mezzo dopo, il 19 settembre: “Ora io, non so se sia l’influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come Torino”.
Lettore dunque da sempre già avventuroso in inglese. Anche se ne sarà dopo la laurea insegnante mancato: al concorso del 1932 passò scritto e lezione, ma la cattiva pronuncia ne pregiudicò l’orale. Il suo Whitman è presto detto. “Una letteratura fuori dalla letteratura”? No, letteratura al quadrato. Anzi, “un Walt Whitman arcade!”. Non per scherzo: “C’è da far rabbrividire molte ombre di suoi apostoli. Pure, dopo tutti i Whitman che ci ha dato la critica, questo non è forse il più paradossale”. Come tutti i poeti, creò un suo libro dove il sogno pratico si risolve nella poesia di questo sogno, nella lirica del mondo veduto attraverso questo sogno”. Whitman “non creò affatto un libro diverso dai libri «europei», un nuovo modello letterario”, come si proponeva: “Non fece il poema primitivo che sognava, ma il poema di questo suo sogno”.
Di più. La poesia “democratica” di Whitman era un assurdo, e non gli riuscì: “Non riuscì negli assurdi di creare una poesia adatta al mondo democratico e ai caratteri della nuova terra scoperta”. Cosa fece allora? “Fece poesia di far poesia”: “Fece la poesia di questo disegno, la poesia di scoprire un mondo nuovo e di cantarlo”. Questo punto, precisa concludendo il primo capitolo, “Il mito della scoperta”, che serve da sommario, è “l’essenza del mio studio”.  
Esclude “la critica della critica”, e “il problema storico di Walt Whitman – derivazione e influssi”. Ma poi procede in parallelo, quasi sempre in antitesi, sia della critica che delle anamnesi già in essere del “problema storico”. Iperdisinvolto, tratta anche “L’amore virile”, al terzo capitolo, sotto questo titolo.

Appiattito – spremuto, stinto – dal paradiso-inferno Einaudi, dall’universo concentrazionario del politicamente corretto ante litteram, emerge con la liberazione dai “diritti” un Pavese più che robusto, una  sorta di campione, vincente se non altro per spavalderia – non il suicida per mancanza, semmai sarà stato per eccesso di vitalità, compressa. Uno che a vent’anni sapeva di Whitman cose che nessuno in Italia sapeva, e nemmeno in America, e a ventuno le aveva scritte.
La sua tesi non fu presentata dal relatore, con cui l’aveva concordata, l’anglista Federico Olivero. Che anzi non si presentò alla seduta di laurea. Gli subentrò, giusto per la forma, il titolare di francese, Ferdinando Neri, per non far perdere la sessione al giovane laureando. Su insistenza di Leone Ginzburg, l’amico giovane di Pavese, minore di un anno, ma già influente slavista.
Il rifiuto di Olivero non è stato spiegato – si potrebbe ipotizzare la difficoltà di accettare lezioni da uno studente, il tono professorale. Il voto di laurea si decise corrispondente alla media degli esami, di 28 più tre lodi: 108 punti su 110. La discussione fu limitata, ai tantissimi errori di battitura, e all’uso di termini desueti (“spallata”, alla Papini, per “sbagliata”, “migliarola” per “quantità”).
Il Pavese giovane che ancora oggi si trascura: precoce, onnivoro, di ottime compagnie e migliori insegnanti, perspicace, deciso, scrittore “naturale”, in prosa, in poesia, nella corrispondenza, magistrale a ventun anni. “Veemente”, lo dice Magrelli nella breve, succosissima, presentazione, anche supponente. Ma di formidabile perspicacia, come ancora dice Magrelli e si rileva alla lettura.
Subito apprezza di Whitman - in omaggio alle “masse” all’ordine dei suoi anni, degli anni di Pavese, a sinistra come a destra - “la protesta di fede nella massa del popolo piena di grandezza e di capacità di sacrificio e da nessuno mai introdotta in poesia in modo degno”. Senza dimenticare “l’accenno al molto di rotten  e di canker’d che vi è nell’America”, che anch’esso rientrava in Europa nel politicamente corretto dell’epoca, la democrazia essendo in sospetto. Ma ne ricorda anche il programma di creazione “dell’Individuo Democratico”. Che comunque ricerca e sa far parlare, anche se a suo modo, manierato (il suo pioniere è “uno che sa di essere tale”), sia nella prima immersione nell’America profonda, dal suo Illinois viaggiando per tutto il Sud, lungo il Mississippi, nel 1848-1849, sia nella scoperta del West, nel 1879.  
Cesare Pavese,
Interpretazione della poesia di Walt Whitman, Mimesis, pp. 152 € 13

martedì 27 aprile 2021

Problemi di base identitari - 634

spock


Perché è così difficile fare la Spid?
 
E la Pec, non ne parliamo?
 
C’era un ministero per la Semplificazione, ce n’è uno ora, anzi un paio, per l’Innovazione: di che cosa, delle pratiche?
 
Pensano di fare l’Italia 4.0 con  la burocrazia’
 
Contro lo Stato è terrorismo, ma ci sarà un santo Tommaso d’Aquino che spieghi e giustifichi, dopo il tirannicidio, il burosauricidio?
 
Eppure la rete è semplice, anche nelle cose complicate, riservate e riservatissime: perché il governo ce la complica?


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Letture - 456

letterautore

Asino – Tomasi di Lampedusa lo vuole femmina in siciliano (“Ricordi d’infanzia”): “Attorno caracollavano gli asini (anzi «i scecche» perché in siciliano l’asino è quasi sempre femminile, come le navi in inglese)”.
 
Braciere
– I cugini Piccolo di Tomasi di Lampedusa a Capo d’Orlando non avevano il riscaldamento né il camino, d’inverno si scaldavano al braciere – “Quando conobbi i Piccolo (1953), la loro villa non aveva il riscaldamento centrale e nel salone veniva portata la braciera”, ricorda Gioacchino Lanza Tomasi in nota ai “Racconti” di Tomasi di Lampedusa.
Nella stessa nota GLT spiega il braciere, “braciera” in siciliano, un artefatto indispensabile in tutte le famiglie che non disponevano di una caminetto, in tutto il Sud fino a tutti gli anni 1950, e anche 1960, che è utile ricordare a futura memoria: “Gran parte delle case antiche nella mia giovinezza (GLT è del 1934, n.d.r.) erano ancora riscaldate con la «braciera», consistente in una sorta di grande teglia bassa in lamiera di ferro del diametro di 40-50 centimetri. Questo recipiente aveva bordi larghi che poggiavano su un tripode di misura adeguata in ottone, con piedi a zampa leonina”. GLT lo ricorda anche coperto da una “campana in ottone traforato”, per mantenere e diffondere il calore, che però per lo più era sostituita da una gabbia in ferro ottone, di spazi quadrati o rettangolari molto larghi, per evitare cadute incidentali, specie dei bambini, sulla brace. “La teglia veniva riempita con brace di carbone di legna”, continua GLT: “In inverno la famiglia si disponeva attorno alla braciera: si posavano i tacchi su uno spesso fascione a cerchio in legno di castagno e si appoggiavano le suole sulla campana”. Con l’avvertimento: “Le esalazioni di ossido di carbonio dalla braciera erano evidentemente tossiche, e si doveva stare attenti all’aerazione”.
Ma nessuna abitazione aveva – ha - le imposte a tenuta stagna, gli spifferi possono anche essere notevoli. Si appoggiavano i piedi senza scarpe, in realtà – da cui il rischio di geloni, che colpivano i talloni, per i passaggi repentini dal caldo al freddo (malanno soprattutto dei bambini, scomparso con la scomparsa dei bracieri).
Più spesso il braciere delle case di abitazione aveva il bordo largo in ottone, sbalzato, con maniglie anch’esse in ottone che consentivano di maneggiarlo. Era uno dei manufatti più ricorrenti degli zingari “calderai – allora i rom, quasi stabilizzati in tutto il Sud, avevano mestieri e funzioni: artigiani del ferro e dei metalli (del fuoco), cavallari (fiere di cavalli, muli, asini), mediatori. Il braciere si ad agiava su una base ottagonale o circolare di legno di castagno (il “fascione a cerchio in legno” di GLT), una sorta di pedana larga giro giro, in modo da accogliere la famiglia, di consentire a più persone di poggiare i piedi sul brodo rialzato, e\o tendere le mani al calore della brace.
 
Camurria
– È gonorrea – Gioacchino Lanza Tomasi, nota 89 ai “Racconti” di Tomasi di Lampedusa: “Adoperato per indicare una seccatura cronica”, la parola sta per “malattia venerea (scolo, gonorrea) nel dialetto siciliano”.
 
Doc
– È spesso insincera, o di fantasia. Non solo per i vini. Zuppa inglese, insalata russa sono i più comuni, che non hanno di che spartire con l’Inghiltera e con la Russia. Pochade, parola francese comune  in italiano per dire una commedia leggera, di avventure grasse, non è in uso in Francia, lo stesso “articolo” viene chiamato vaudeville – nel vocabolario francese pochade è “schizzo a colori  dipinto con pochi colpi di pennello”. “All’inglese”, o “all’olandese”, per comportamenti scorretti, sono comuni rispettivamente in olandese (e nelle lingue continentali: italiano, francese, tedesco), e in inglese.
 
Gattopardo
– Un “libello storico” arriva a definirlo Gioacchino Lanza Tomasi, nel suo continuo peregrinare attorno al padre adottivo e al suo vero “figlio”. Forse in un momento di malumore. Però.
 
È il romanzo della delusione. Anche di chi patriota non poteva essere al momento dell’unità - ma probabilmente non lo sarebbe stato, anche a distanza da Teano. Dell’unità che è stata, dice incauto a un certo punto il sabaudo Chevalley di Monterzuolo, “la felice annessione”.
 
Manomorta
– La “facile” costituzione della borghesia italiana dopo l’unità, a danno del patrimonio ecclesiastico comodamente nazionalizzato a favore dei “nuovi ricchi”, è spiegata da Tomasi di Lampedusa, seppure con occhio reazionario, nel racconto “I gattini ciechi”. Il cannibalismo degli Ibba, i nullatenenti diventati con l’unità grandi e grandissimi padroni, faticoso e stentato i primi tempi, esplode con la manomissione dei beni ecclesiastici: “Raggiunto il traguardo delle prime centomila lire tutto si era (poi, n.d.r.) svolto con la precisione di un congegno meccanico: i beni ecclesiastici, acquistati pagando le prime due rate del loro miserevole estimo, si erano avuti per un decimo del loro valore; i caseggiati, le sorgive in essi contenute, i diritti di passaggio che essi possedevano (e di servitù, n.d.r., si può aggiungere) resero quanto mai facile l’acquisto dei beni laici circostanti, svalutati; i forti redditi accumulati permisero la compra o l’esproprio di altri più lontani terreni”.
Questo, l’accumulo facile, è alla base della sostituzione al Sud dell’economia criminale su quella legale, almeno fino a tutti gli anni 1990, malgrado i primi provvedimenti di confisca – fino a 20-25 anni fa le condanne si si risolvevano amministrativamente in “sequestri”, che i beni lasciavano nella disponibilità dei condannati.
 
Pavese
– È sempre hanté dall’inadeguatezza. A lungo, oltre mezzo secolo, come uomo, per via del suicidio. Ora, in questo  revival favorito dalla liberalizzazione dei diritti (ogni editore ha qualche Pavese in catalogo), per via del mancato impegno in guerra: della mancata partecipazione ala Resistenza, benché tesserato del Pci, e anzi della titubanza tra Salò e la Resistenza. Anche se di questa titubanza si sa solo perché lui l’ha voluta testimoniare. In un “diario segreto” che però ha lasciato – e che era noto da almeno trent’anni. Ma vale per lui, come pure per Calvino su altra sponda, la tentazione di vederci il segno, o l’emersione, di una delusione culturale e ideale, prima che ideologica, o politica, a pochi anni dalla fine della guerra. Della caduta delle illusioni. Più forte per gli intellettuali sensibili, Pavese, Calvino, se la speranza era stata coltivata nel Pci, nella sua gabbia di ferro ideologica.
 
È marcato dal suicidio: la sua fine è la sua nascita, come autore. Misterioso, minaccioso. Sotto il sigillo funebre. Di una vita invece vivace, briosa, coraggiosa – perfino sfrontata, nella sicumera con cui affronta Walt Whitman e i suoi scritti nella tesi di laurea, ad appena ventuno anni. Nella scrittura, nel lavoro editoriale, nelle frequentazioni, i gusti. Ma poi presto passiva, perfino impaurita. Scandita singolarmente dai rifiuti in amore. Tutti registrati. Che ogni volta lo lasciavano perplesso, più che reattivo - adirato, sprezzante. Per esempio quello di Constance Dowling, scandito dalle poesie tristi, rassegnate, terribili già nel titolo, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
 
Piccolo
– I tre cugini di Tomasi di Lampedusa a Capo d’Orlando, figli di una sorella dell’amatissima Madre, maiuscola, ricordavano all’autore del “Gattopardo” in cerca di “casa” (la sua, comprata con la moglie, non gli piaceva) l’infanzia felice a Santa Margherita Belìce, con l’accento sulla i, e per questo li andava a trovare spesso.
Nelle estati a S. Margherita, annota in “Ricordi d’infanzia”, “al mio capezzale pendeva una specie di bacheca Luigi XV”, con la Sacra Famiglia. “Questa bacheca”, spiega, “si è miracolosamente salvata e pende adesso al capezzale del letto nella stanza della villa in cui dormo dei miei cugini Piccolo a Capo d’Orlando”. Aggiungendo: “In questa villa del resto ritrovo non soltanto la «Sacra Famiglia» della mia infanzia, ma una traccia, affievolita certo ma indubitabile, della mia fanciullezza a S. Margherita e perciò mi piace tanto andarvi”.
Gioacchino Lanza Tomasi ricorda, annotando i “Racconti” di Tomasi di Lampedusa, che Lucio, il poeta, aveva “una serie di aneddoti margaritani” su quella stagione.

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La grazia del Nulla

“Non sono ancora riuscita a capire il suo carattere – dice la bella e indolente signora Tobler a Giuseppe Marti, l’assistente che serve con fedele riservatezza la ditta e la casa  ormai compromesse e vacillanti. – È forse magnanimo? O è abietto?” Ma una terza risposta era possibile, se la signora Tobler avesse letto “Jakob van Gunten”, un racconto precedente dello stesso suo autore: “È privo di carattere perché non sa ancora cosa sia un carattere”.
Seducente e sfuggente, come sempre: che narratore è, Robert Walser? Il breve saggio di Walter Benjamin. “Robert Walser” - qui ripreso (da “Avanguardia e rivoluzione. Saggi letterari”) con le note di Hermann Hesse, e il breve saggio di Musil, “Le «storie» di Robert Walser” - spiega molto. È egli stesso il Buonannulla di tanta narrativa tedesca, Hebel e poi Eichendorff – cui Benjamin aggiunge Hamsun. E sa raccontarla, la vita del nulla: scritture labili, in superficie, di uno che sostiene di non avere mai corretto nemmeno una riga, e tuttavia, per quanto “involontario” e “trascurato”, un linguaggio “che presenta tutte le sue forme, dalla grazia fino all’amarezza”.
Non più in catalogo da Einaudi, e ancora non ripreso da Adelphi, questo che è forse il miglior racconto di R.Walser ha prezzi d’affezione nell’usato.
Con un saggio conclusivo di Claudio Magris. E una sorprendente antologia (“Assonanze”) di scrittori su Walser: Seelig, Kafka, Zweig, molto Canetti. Passando da un iniziale “Walser über Walser”, un’autodiagnosi: “Desidero passare inosservato”.
“L’assistente” è scritto nel 1908 a Berlino, tra “I fratelli Tanner”, 1907, e “Jakob van Gunten”, 1909, i suoi tre romanzi, o “grandi libri di prosa” come li chiama Carl Seelig, il curatore, non avendo intreccio, o contrasto (un  quarto romanzo, “Teodoro”, scritto dopo il 1920 a Berna, sarebbe disperso in una casa editrice tedesca o svizzera). Dovendo riassumerlo, è il racconto di una esperienza di lavoro dello stesso Walser, tra il 1903 e il 1904, presso l’ingegnere meccanico Dubler (la signora Tobler è la moglie dell’ingegnere), a Wãdenswill, qui Bãrenswill, sul lago di Zurigo, in una villa con vista in collina, zun Abendstern, Stella Vespertina. È il racconto di quella sua esperienza: “«L’assistente» è un romanzo assolutamente realistico”, confiderà a Seelig nelle “Passeggiate”: “Non ho dovuto inventare quasi nulla. La vita l’ha creato per me”. Walser ci ha messo un po’ di vita, una scena inerte fa stare godibilmente in piedi.  
Robert Walser,
L’assistente, Einaudi, pp.XVIII + 225 € 7,50

lunedì 26 aprile 2021

Innamorati

S’incontrano ad aprile, si lasciano a ottobre. Il freddo lei preferisce viverlo a casa sua. Viene dal Nord, un paese che nessuno le ha mai chiesto e lei non ha detto. Può anche darsi che non si scrivano, e in che lingua poi, ammesso che lui sappia scrivere? Né che comunichino nell’assenza, per quanto ora usi il telefono. Ma si ritrovano come se si fossero appena lasciati. Lui ripassa la calce, sostituisce i legni marciti, fissa i chiodi, la porta tiene aperta e la finestra per purgare l’aria. Di una casa che non è una casa, ma una grotta che ha recintato, da tempo immemorabile, vivendo sulla spiaggia, e ora è suo domicilio. Lei arriva, se non il primo sabato di aprile il secondo, e riprendono quella loro vita in comune che però è anche in parallelo, mostrandosi insieme a una certa ora la sera, un tempo da Black ora nel loro locale, o a tutte le cerimonie, sacre e profane, e talvolta sulla spiaggia, d’estate, la mattina presto. Lei non disdegna un colpo, pare, con chiunque le va, anche senza aver bevuto. Ma, se è vero, la storia finisce con l’atto: lei ama lui, che i compagni d’infanzia ricordano avventuroso e solitario, senza ragazze, e sospettano impotente, e lui ama lei. Si amano con tenerezza sdolcinata per il luogo, che è al fondo ancora villico, riservato. 
Lei arriva con i pennelli e i colori, e coscienziosa dipinge, su ogni materiale, anche tavole appena piallate, cartoni, carta, stoffe, a olio, a tempera, a penna, ad acquerello, limoni, viti, la cuccarda di palazzo Murat, finestre senza imposte o con la grata bombata, con o senza vite americana, verde o rossa, saggi di calore nella luce. È il suo secondo mestiere, poiché per sei mesi è medico al suo paese in ospedale, che esercita senza presunzione, volentieri cedendo per qualsiasi prezzo i suoi lavori, e quelli non venduti imballa con cura e si porta dietro alla partenza. Con gli anni gli ha insegnato a far fruttare i suoi piatti, dapprima su pochi tavoli all’uscio, ora in un capannone adiacente alla casa-grotta. È l’unica abilità di lui, definendosi egli pescatore per tradizione familiare, ma di suo incapace di ogni attività, senza barca, senza soci, di nessuna famiglia, che in un paese è quasi impossibile, senza amici e senza nemici. Di più ha dovuto lei faticare per vincerne la rustichezza, che allontanava i clienti. Malgrado la lingua, la professione e le diverse abitudini, lei ama conversare, guardando gli interlocutori con occhi allegri. Nicola ha infine imparato a servire, tenendo un aiuto in cucina, ha la pelle del viso distesa attorno agli occhi e alle narici, e anche lui guarda in viso le persone quando gli parlano. Gli occhi di Agnes sono oro con riflessi bruni, sotto la capigliatura biondo paglia, quelli di lui di un azzurro cristallino.
Per qualche tempo ha portato i figli, in vacanza dalla scuola. Stava allora in albergo, e con loro faceva la ruota la mattina in spiaggia. La bambina imparava competitiva, il bambino obbediva senza entusiasmo, insieme riempivano la spiaggia, a quell’ora ancora vuota, e più per lo sfavillio dello sguardo sereno e l’agilità che per l’estensione dei corpi. Agh-nes è nella memoria collettiva questa immagine naturale della bellezza, che la ruota amplia, la bionda criniera slanciandosi al di là delle lunghe gambe e le braccia, e il comune rapporto di amore familiare quietamente ingigantisce. Sono Agh-nes e Nicola, loro e non altri, che il paese e anche i forestieri identificano, seppure non ne hanno ancora tracciato con precisione la storia. Certi che il desiderio, quello quotidiano, quasi istintuale, pianticella diffusa, e il rispetto ne fanno una. C’è riconoscenza, più che invidia, per il loro ruolo modesto e testato, una promessa di felicità ordinaria proprio nell’amore, che nella storia del mondo è motivo principale di sofferenza.
Si fanno racconti di vicende ordinarie.
Gli amori modesti non sono infelici.

Ma l’amore no - sterminio al Conservatorio

Lo stesso nome di serie, due racconti diversi. La prima stagione, 2020, fu sorprendente: si sceneggiava niente meno che la musica - si poteva fare cinema facendo musica. Questa seconda è di polpettoni sentimentali. Per giunta adolescenziali – anche di adulti, anche in condizioni tragiche, ma adolescenti. Quindi turbamenti, incertezze, disperazioni, consolazioni, abbandoni, ritrovamenti, insomma la solita storia, rifritta per due ore, da perdere la pazienza, ogni scena a specchio dell’altra. Fra gli stessi personaggi della prima serie, che quindi, più che deludere, fanno rabbia: anche i musicisti sono da poco, ragazzetti. Ci sono di mezzo pure le madri, del tipo signora mia. Si direbbe uno sterminio, al Conservatorio.
Ivan Cotroneo, La Compagnia del Cigno 2, Rai 1

domenica 25 aprile 2021

Problemi di base - 633

spock


“L’importante è che la scimmia\ non sia scesa dal cristiano”, Trilussa?

“Siamo tuti i figli di qualcuno”, Stefano Bollani?
 
Se le verità non c’è, allora tutto è falso?
 
E se tutto fosse falso?
 
La testimonianza è sempre coraggiosa?
 
Della verità, o di che?

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La SuperLega dei caratteri nazionali

È curioso, ma la farsa della SuperLega di calcio è (stata) agitata dalle maschere nazionali – da quelli che una pubblicazione pure importante, l’Enciclopedia Einaudi, chiama al primo volume “I caratteri originali”. Che pure si pensavano superate nel lungo cosmopolitismo che ha informato l’Europa del secondo dopoguerra, concluso con l’interrail, e poi l’Erasmus. L’improntitudine italiana, la Spagna sempre seduta sull’Invincibile Armada, l’Inghilterra furba – della pirateria camuffata da righteousness, o dell’ipocrisia. Con i balcanici in soccorso dei vincitori.
Più curioso ancora è che in queste caratteristiche “nazionali” sono coinvolti personaggi e interessi remoti e avulsi dall’Europa, arabi e cinesi: gli arabi fanno gli inglesi, i cinesi gli italiani.
Mancano i tedeschi e i francesi, e anche questo è indicativo, ma in altro senso: non si mescolano con le mezze calzette europee, del vorrei ma non posso.

La vita in fuga, acchiappata di corsa

Un film lieve. Di immagini. Anche nei lunghi dialoghi: gli interpreti, Clive Owen, Jasmine Trinca, Irène Jacob, sono tutti nelle loro espressioni, come se fosse il loro film. In una rielaborazione di “Easy Rider”, in una vecchia Vw invece che sulla Harley Davidson, altrettanto bislacca, apparentemente, e vera.
Un racconto di identità smarrite, cancellate. Delle persone, lei fobica, lui alcolista. Dei luoghi, abbandonati: la chiesa di san Vittorino, al km. 72 della Salaria, il villaggio operaio di Crespi d’Adda, Chateau Thierry nel Nord della Francia, un non-luogo, un parco acquatico fuori stagione o abbandonato (quello di Guidonia), e il campo militare di Stanford nel Norfolk, che era il paese dì origine di lui ma dopo la guerra è stato consacrato alle celebrazioni della vittoria. Tanto più alla deriva quanto le identità sono, erano, costruite: lei travel blogger - influencer (propagandista) del settore viaggi, lui giornalista inglese accreditato in Italia, e i luoghi prestigiosi o animati.
Un caleidoscopio, anche della realtà come avviene, nel suo farsi, e disfarsi. Tra bugie che non reggono ma non si sanno evitare – un’autocancellazione al quadrato. La filosofia è però lieve, sotto traccia.
Un racconto originale, della stessa regista e di Carlo Salsa. Reso con immagini non ricercate, eppure caratterizzanti. 
Giorgia Farina,
Guida romantica ai posti perduti, Sky Cinema