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sabato 29 maggio 2021

Ombre - 564

Il calciatore Bernardeschi, pedina di scarto nella sua squadra (Juventus), è titolare della Nazionale,  una delle più forti attualmente in Europa. Sacrificato nel suo club al calcio degli allenatori - in serie Allegri, Sarri, Pirlo. Che anche senza Bernardeschi non ha prodotto niente, o pressappoco.
 
Bernardeschi è stato azzerato dal suo club benché sia costato 40 milioni, e costi ogni anno 4 milioni netti,  7 lordi – 21 milioni in tre anni per non fare niente. Si vuole questo calcio manageriale e organizzato produttivamente: di manager allegri o incapaci?
 
Un calcio peraltro senza vergogna. I due superclub spagnoli beneficiano di privilegi fiscali che solo l’Antitrust europeo può avallare. L’Inter ha giocato il campionato, che ha vinto, benché fosse tutta debito e niente capitale, e non abbia pagato gli ingaggi ai calciatori.
 
“Città arcipelago come borghi immersi nel verde”, è l’optimum che l’architetto Boeri prospetta, l’inventore del verde verticale a Milano: “Come Roma”. A malincuore, probabilmente, ma l’architetto deve portare a esempio la scassata capitale. A Milano le superfici devono “produrre”, rendita urbana? 
 
Dice ancora Boeri: “L’ Italia ospita una rete incredibile di borghi storici, oltre 5.000, dobbiamo riabilitarli e creare un rapporto con il territorio sano e utile”. L’architetto dimentica che da dieci anni i borghi sono stati trasformati da Monti in una vacca da mungere fiscalmente. Le famose “seconde case”, fardelli familiari che duole abbandonare ma per le quali non si può più spendere, dovendo pagare, oltre l’Irpef, costosissime elettricità e spazzatura, l’Imu e la Tasi (che l’Imu generosamente incorpora).
 
Carla Fracci ha potuto dirigere il corpo di ballo, com’era suo legittimo desiderio una volta in età, per dieci anni, ma dell’Opera di Roma. Non della Scala, che aveva reso illustre. Era troppo di sinistra, anche se aliena dalle tribune: festeggiava il 25 aprile.
 
150 mila tonnellate di fanghi tossici, l’equivalente di 5 mila tir, spacciati per fertilizzanti e smaltiti su tremila ettari di terreni agricoli in Lombardia, Piemonte, Emilia e Veneto – la Padania. Un breve articolo di cronaca.
 
Il sindaco di Lodi Uggetti, assolto dopo sei anni e il carcere “perché il fatto non sussiste”, dichiara agitato: “Quando avevo vent’anni facevo il tifo per Mani Pulite. Poi però vidi a Lodi gli otto anni di processo che subì Aurelio Ferrari, il sindaco galantuomo”. E non si ricredette. E non è nemmeno leghista, è del Pd, sembra di capire, era assessore di Lorenzo Guerini (già renziano lo è ancora?).
 
Aurelio Ferrari, “il sindaco galantuomo,, era un buon “democristiano di sinistra, poi Popolare, poi Dem. Ma non gli è bastato. Del resto, Mani Pulite ha fatto piazza pulita della sinistra politica – col plauso del Pci… La strada ha aperto a una destra marciante e imponente.
 
“Polvere di stelle”, in otto ani di Parlamento i 5 Stelle producono “quindici partitini- costola”. Una testa un partito.
 
Va la suora Monia in tv e spiega che i giovani non si aiutano con le mance, sia pure a carico delle successione ma creando istruzione, formazione e lavoro. Ci vorrà una suora al vertice del Pd per capire le cose come stanno, come si costruisce un futuro?
Il politologo Letta? “Illude i giovani e li rende meno liberi”, dice la suora.
 
Luigi Einaudi, che tassò le successioni, non illudeva nessuno. Da scienziato esperto delle Finanze trovava opportuno che il regalo dei genitori e dei nonni si pagasse un po’.
 
Che “la Francia”, un ministro del governo francese, la moglie del presidente francese Macron, lo stesso Macron, si diano da fare per far vincere la “loro” concorrente, cioè una cantante francese, all’Eurocontest, invece dei Maneskin italiani che l’hanno vinto, può sembrare ridicolo. E in effetti lo è. Ma c’è un’altra Europa?

Cronache dell’altro mondo – violento (118)

Muoiono 50 mila americani l’anno per cure con medicinali a base di oppio. I morti per overdose da oppioidi farmaceutici, 21.088 nel 2010, sono stati 47.600 nel 2017, e 49.860 nel 2019.
Alcuni magistrati lavorano alacremente per costituire un Grand Jury che arrivi alla messa in stato d’accusa di Trump. Non hanno prove, né reati specifici da contestare, e neppure indizi di reato: li cercano. Il Grand Jury si costituisce per questo: è una giuria popolare chiamata a decidere se tutte le accuse che i giudici avanzano meritino un processo. Non è necessario che siano provate.
La giuria si dice popolare perché estratta a sorte all’anagrafe. In teoria. In pratica ogni giudice si costituisce la “sua” giuria: deve solo essere abile a scegliere giurati che superino le contestazioni degli avvocati di parte avversa. E l’abilità in questo deve essere eccezionale, perché il Grand Jury deve il nome al fatto che è praticamente il doppio della giuria di un processo penale: è composto da 20 a 23 membri – contro i 12 del processo in Tribunale.
Praticato a lungo nei paesi di common law, di diritto consuetudinario, l’istituto del Grand Jury è stato abbandonato da tempo ovunque, eccetto che negli Stati Uniti. In alcuni stati dgli Stati Uniti: l’istituto è previsto dalla Costituzione ma gli stati possono derogare e molti lo hanno fatto.

L’altra Calabria

Una “Calabria da bere”. Peppe Smorto ci ha rubato il titolo, ma ha fatto bene: per una volta un cronista che si applica a raccontare cose e persone che si vorrebbero frequentare, in Calabria – cioè: non la solita cronaca locale di arresti, “dispetti”, processi, condanne (e non locale, v. il catalogo dello stesso editore, Zolfo-Melampo).
C’è un aspetto luttuoso della Calabria – c’è un altro posto al mondo dove le cronache siano solo di malvivenza, a parte il verbo degli assessori e sindaci locali? Ma c’è anche un aspetto festivo, non può non esserci, e Smorto ha voluto portarlo alla luce. Anche se, pure lui, con un fondo di malinconia, legandolo praticamente al lavoro delle parrocchie e dell’associazionismo religioso.
Questo è vero, e non lo è  Molto  si fa anche senza la forza della chiesa. Ma è vero che il problema della Calabria è quello che un tempo si diceva della classe o ceto dirigente. Che si riforma in  continuazione, una partenogenesi incessante, molto democratica, ma in una sorta di processo distruttivo. Basti il raffronto tra gli anni 1960, di Mancini e Misasi, e il nulla odierno.
Nella società civile il declassamento non è analogo, anzi ci sono oggi molte opportunità di formazione nella Regione che cinquant’anni fa non c’erano. Ma non si è formato un tessuto connettivo, societario, di idee e di interessi. Un tessuto che regga la produzione, moltiplicando l’accumulazione – che possa o che ci riesca: la Calabria non accumula, al meglio segna il passo. E questo perché dalla Calabria si continua a partire. Non per bisogno. Perché le opportunità sono altrove – con i tanti medici calabresi di Roma si sarebbe risolto da tempo l’ottuso commissariamento della sanità nella Regione.
Smorto, che pure lui è partito, senza complessi o patemi, una vita e una carriera a “la Repubblica”, ha scoperto che si può anche tornare, con piacere. Con disappunto, per il tanto spreco, ma a sommatoria positiva. Non c’è un contesto favorevole, non politico, non d’opinione, non, tutto sommato, repressivo, ma le idee e le energie profuse sono di per sé esilaranti. Verrà pure un giorno in cui faranno valanga, invece di tenere, come oggi, gli interstizi, o salvare la scialuppa col secchiello.
L’altra Calabria è raccontata con vena lieve in una ventina di episodi. Non le bellezze naturali della pubblicità – “l’aria” non è mai mancata, a sentire mezzo secolo fa Otello Profazio. Ma di normalità eccellenti. Sì, c’è anche la storia, per dire, del palazzo di Giustizia di Reggio Calabria, ma anche questa si legge in allegria (e poi la “Calabria” non c’entra, ne è vittima): in costruzione dal tempo di Martelli ministro della Giustizia, quindi almeno da un quarto di secolo, “un castello” di 600 stanze, bloccato da dieci anni, non protetto nemmeno dalle intemperie, uno scheletro.
Giuseppe Smorto, A Sud del Sud, Zolfo, pp. 176 € 16

venerdì 28 maggio 2021

Ecobusiness

“Agli attuali ritmi autorizzativi, necessiteranno 24 anni per conseguire gli obiettivi fissati per l’eolico e 100 anni per il fotovoltatico”: Roberto Cingolani, ministro per la Transizione Ecologica.
La Cina è già largamente sopra i iveli di consumi petroliferi 2019, precedenti la pandemia.
La produzione mondiale di petrolio è in calo: dal 2014 gli investimenti in ricerca e sviluppo di nuovi giacimento sono stati in riduzione costante – dagli 800 miliardi di dollari del 2014 a meno di 300 miliardi. Con la produzione di petrolio in calo e la domanda di prodotti petroliferi in aumento - malgrado gli impegni di risparmio e di ricorso alle fonti di energia alternative – il prezzo del barile di greggio è atteso a 200 ollari nel 2025.
Con questo prezzo al barile, la benzina in Italia raddoppierebbe, a 3-3,3 euro al litro. Si fa preso a dire transizione.
“Usiamo solo contenitori in Pet, al 100 per cento riciclabili”: Antonio Pasquale, “re” delle acque minerali di Karlovy Vary (Karlsbad), con Stefano Lorenzetto sul “Corriere della sera”: “Paghiamo chi ci riporta il vuoto di plastica. Lo sa che una tonnellata di Pet usato vale 1.000 euro? Gli enti che curano la raccolta differenziata e i riciclatori che vendono il Pet alle industrie automobilistiche sono una lobby. La Cina spaccia per riciclato il Pet vergine perché ci guadagna di più. Una follia”. 

Francesco re dell’ambiente

Della serie “Ulisse: il piacere della scoperta”. Un ritorno in grande spolvero per le riprese ambientali “fresche” , non di repertorio, su Assisi e dintorni. Curiosamente, la puntata attrae in partenza, con le scene ambientali, mentre crolla negli sceneggiati, tratti dal filmaccio di Liliana Cavani - l’ultimo dei suoi tre film “francescani”: Mickey Rourke… Helena Bonham Carter…. combattimenti, morti, morti nudi, Rourke abbondantemente nudo…, il ricettario del film “americano”.
Anche sullo schermo, insomma, Francesco è il santo dell’ambiente. Chi è, chi era, di persona, è difficile sapere - comunque ininfluente (gioventù, guerre, compagni di ventura, caduta da cavallo, stimmate)?Chi era è la sua opera.
Alberto Angela, San Francesco e santa Chiara, Rai 1, RaiPlay

giovedì 27 maggio 2021

Cronache dell’altro mondo – violento (117)

Un poliziotto “star” della polizia di New York City è già costato alla comunità due milioni e mezzo di dollari in risarcimento per “misconduct”. scorrettezze. È famoso perché è instancabile: sia di servizio di giorno oppure di notte, li blocca tutti, soprattutto se giovani e neri, a ogni angolo di strada. E malgrado le penali che la Polizia di New York deve pagare è sempre al suo posto – “The New Yorker”.
Gli Stati Uniti hanno sempre il record mondiale di morti per assassinio, sia in assoluto che in rapporto alla popolazione. Più del Messico, o del Brasile.
Numero record in America anche di uccisioni per arma da fuoco, per mano di poliziotti: la Cnn ne ha contati “oltre” 1.300 nel 2019. Altri conteggi sono di poco inferiori: 1.004 per il “Washington Post”, 1.099 per il gruppo Mapping Police Violence. Per l’Fbi “soltanto” 407 sono state uccise dalla polizie – “omicidi giustificati” è la dizione ufficiale. È comunque il numero più alto anche in cofdronro a Paesi dove vige lo stato d’assedio, come il Myanmar.
Nei sette anni dal 2013 al 2019 sono monitorate da Fatal Force (“The Washington Post”) 7.663 morti per mano della polizia – una media di 1.100 l’anno, lo 0,34 ogni centomila abitanti.
Comunque la polizia negli Stati uccide o ferisce, arresta, imprigiona, più persone, in rapporto alla popolazione, di ogni altro paese non dittatoriale.
L’Ufficio statistico del ministero Usa della giustizia ha conteggiato, nei dieci mesi giugno 1915-marzo 1916, un numero elevatissimo di decessi potenzialmente legati all’arresto, 1.348.

Pavese era Leopardi

È tutto, particolareggiato e preciso, nell’autoritratto spedito a Fernanda Pivano – da Torino a Torino – il 25 ottobre 1940, con un titolo, “Analisi di P.” – dopo aver ponzato “Analisi amorosa di P.” e “Analisi vergognosa di P.”. Scherzoso, ma non di fatto. Troppo lungo, quattro pagine piene a stampa, per essere riprodotto, ma senza sconti per se stesso: un raté, con l’ambizione “di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfondibili e assoluti”. Uno che “recita”, anzi recita “terribilmente sul serio”. Un solitario, incapace di amore (“si dimentica d’innamorare di sé la donna”), sempre perché “recita sul serio”, finendo per “trasformare in vamp ragazze che non se lo sognavano neppure”, ma col “desiderio feroce di una casa e di una vita che non avrà mai”, con una “forte fantasia”, per cui gli basta rappresentarsi se stesso in un’immagine dolorosa per risentirne fisicamente le torture”. Lungamente tentato da “una stoica atarassia”, con “la rinuncia assoluta a ogni legame umano, se non quello, astratto, di scrivere”, ma anche questo non gli riuscì, e “avvenne il franamento”.
Einaudi riedita l’edizione del 1990 con un prefazione di Starnone, ma completa della vecchia nota introduttiva di Cesare Segre, corposa. Una sapida rilettura del testo di Marziano Guglielminetti. E la nota al testo, di Laura Nay, che rende conto di ogni omissione, anche di virgole, tra la prima edizione e la riedizione.
Il diario è quello che era, passata l’emozione del suicidio – della pubblicazione come a corredo (spiegazione) del suicidio. Uno zibaldone nella migliore tradizione, di Leopardi, di Goethe. Di un uomo non solitario, anzi socievole, benché incapace di quella relazione duratura con una donna che fu il tormento della sua vita – anche questo molto leopardiano (così come la passione filologica, una full immersion, un’apnea senza termine). Un diario di moralità (riflessioni), con rare note autobiografiche, che si rileggono a distanza sempre con interesse. Con una padronanza eccezionale, oltre che dei classici, di letterature comparate, americana, tedesca, francese, eccezionale per gli anni suoi, nelle lettere italiane – più tardo Settecento-primo Ottocento.
Ma uno zibaldone quasi monotematico, sull’amore. Uno scoglio, una tragedia al modo di Nietzsche. Incapace come Nietzsche di allacciare quella relazione femminile stabile cui pure ambiva, ciò che chiama nel diario “impotenza”. E come Paul Rée a distanza dal rifiuto di Lou Andreas Salomè, lui dall’abbandono di Tina Pizzardo, suicida.
Molta teoria dell’amore vuole che lo stato erotico, come lo chiama Lou Salomé, sia “una benedizione”, sia esso felice o infelice, poiché elettrizza, incrementa, moltiplica, vivacizza. Per Pavese non sembra il caso, poiché se ne hanno tracce solo di fatica, incapacità, cattiveria. Nella sua propria percezione. Ma forse lo ha tenuto vivo, poiché, come lui stesso constata verso la fine, in pochi anni ha creato un’opera voluminosa, oltre che di qualità.
Costeggia, distratto?, la fede, quando annota “lo sgorgo di divinità”, il 29 gennaio 1944.Un evento che, forse, lo porterà alla fede – “è questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele: la rinuncia a tutto”. Lo “sgorgo di divinità” è nella preghiera: “Ci si umilia nel chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo di divinità”. Il pensiero di Dio ritorna a inizio 1945, commentando l’anno finito: “Annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio”. E “potrebbe essere la più importante annata che hai vissuto”, di “lacerazioni notevoli”, “se perseveri in Dio, certo”.
Molte letture di elisabettiani. Finche tardi, a fine 1949, un 2 dicembre, non scopre di essere stato influenzato (“plasmato”) da Lawrence, da “The Sun” e da “The woman who rode away”.  Ha letto anche, il 26 novembre, Primo Levi, che evidentemente non ha voluto pubblicare – “Se questo è un uomo” era uscito un anno e mezzo prima da De Silva – gli piace il “conservavamo i ricordi della nostra vita anteriore”.
Con una verosimile autoanalisi di “Lavorare stanca”: “La nostra poesia vuole eliminare sempre più gli oggetti. Tende a imporsi come oggetto essa stessa, come sostanza di parole… è un’onomatopeica universale”. E “anche il mio libro – Lavorare stanca - ha oscuramente fatto questo. Cercava l’oggetto scarnendo la parola”. E a commento del 1945, invece: “Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene?”
Il problema è la viltà: “Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno?” Apre il 1950, prima dell’innamoramento con Connie, ancora con l’idea del suicidio. A freddo. In una Roma che sempre lo tenta. Continua rimproverandosi “la passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi”, come “segno di timidezza, di fuga davanti ai doveri e gli impegni del mondo umano”.
La riedizione Einaudi è robusta, con molto da leggere. Oltre Starnone (?) e Segre, Guglielminetti, e la corposissima nota filologica di Laura Nay, una dozzina di “pensieri cassati”. Un’appendice biografica e critica, con saggi anche recenti, Vattimo, Mazzacurati, Fortini postumo. E un’ottantina di pagine di succulente note. Per quanto con la scomodità di tenere il libro aperto su due pagine, e di correre avanti e indietro. Ma senza novità, né nel diario né nelle note: gli asterischi, ora nominativi, sono senza sorprese.
Gli asterischi della prima edizione, quella curata da Natalia Ginzburg e Italo Calvino, erano promettenti. Ma il riscontro con l’edizione non purgata del 1990 li riduce bizzarramente a cosa di sacrestia, pruriginosa ma casta. Perlomeno nel comune senso del pudore contemporaneo, che nessun organo esclude dal linguaggio corrente, anche scritto. Certo, pensare Ginzburg e Calvino impegnati a eliminare, per conto del grande editore Einaudi, “parolacce” e scatologie, dopo la morte drammatica dell’autore, e in presenza di tanto testo, è una curiosità.
La nuova edizione Bur, post-diritti, fa a meno dell’apparato critico, e include invece il cosiddetto “Taccuino Segreto”, gli appunti sparsi fuori dal diario, ripescati trent’anni fa da Lorenzo Mondo, con la testimonianza dello stesso Mondo. Espressione della poca presa della politica su Pavese, al di là delle scelte fondamentali. Fino allo smarrimento nel 1943 su quale via prendere – l’insofferenza per una decisione da prendere – tra la Resistenza e Salò.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, pp. CVIII + 554 € 16
Bur, pp.632 € 12




mercoledì 26 maggio 2021

Problemi di base istruttivi - 641

spock

“Se avessi letto tanto quanto gli altri, non saprei tanto più degli altri”, Hobbes?
 
“I libri sono pure buoni per se stessi, ma sono un potente incruento sostituto della vita”. R.L. Stevenson?
 
“Se un ragazzo non impara dalla strada è perché non ha l’attitudine a imparare”, id.?
 
“La vita contemplativa è piena di pericoli”, Jean Gerson?
 
“La vita attiva è virtù femminile; quella contemplativa, maschile”, C. Pavese?
 
Bisogna testimoniare, a rischio della vita?

spock@antiit.eu

Picasso, sono io - la papessa Gertrude

“E adesso vi racconto come avvenne che due americani”, Gertrude Stein e suo fratello maggiore, a Parigi,  “si trovarono al cuore di un movimento artistico di cui il mondo all’epoca non sapeva nulla”. Celebrata autocelebrazione di Miss Stein, sotto il nome della sua compagna Alice, quale scopritrice e animatrice dell’arte contemporanea a Parigi nei due primi decenni del Novecento: Picasso soprattutto, ma perfino Cézanne, e anche Matisse, e tutti gli altri, attorno alla casa-studio di miss Stein a rue Fleurus. Indisponente. Regge un po’ con il brio, con la “frasetta” che è il trademark di Gertrude Stein scrittrice, nella traduzione di Alessandra Sarchi anche brilllante, andante con moto, ma è come ogni selfie, per quanto il genere vada oggi di moda: inutile. Cioè non proprio inutile, può essere un buon articolo di giornale, ma per trecento pagine?
Si continua a riproporre questa “Autobiografia” come un capolavoro del Novecento - a partire da Pavese, purtroppo. Forse perché Stein e Toklas sono icone lgbtq. Ma è pur sempre un vecchio racconto di bohème, con tutti gli artisti, più o meno (manca Modigliani) su piazza a Parigi. Con un po’ di Apollinaire, e di Hemingway, stiracchiato. Per non dire nulla. Sul tipo del racconto di bohème: qui i personaggi e gli ambienti sono racés, anche gli artisti, anche le loro mogli, e si fanno un pregio di esserlo – pregiano molto i nobili, le duchesse, le contesse.
La celebrata “frase” su cui Stein orchestra la sua scrittura, qui lungamente descritta, è efficace. Non nuova - se non nella forma, breve: è di Defoe, che anche lui sembra che racconti correndo, o corra narrando. Di Defoe, allora, si direbbe al quadrato, poiché Stein si scrive sotto il nome di Alice come Defoe sotto quello di Robinson. Ma Robinson non ci mette Defoe a ogni paio di righe.
Con un penchant per il pettegolezzo. Non disdicevole: un gradevole small talk, non fosse prolisso.
Di fatto è un repertorio di tutti i nomi, grandi e piccoli, della Parigi artistica a Parigi negli anni 1900-1910, stanziale e di passaggio. Col tono indigesto di “Picasso, sono io”. E con molto name dropping a ogni riga – non basta essere curiosi. Un repertorio anche di tutti gli americani a Parigi, prodromo dell’efflorescenza dopo la Grande Guerra: Hemingway (con più punte di veleno – ma lo Hemingway, peraltro soprattutto bello, che pratica la boxe ed è molto fragile, oltre che infognato nella “carriera”, non è male), Fitzgerald, Sherwood Anderson. Mc Almond et al.. Eccetto che (oltre che di Modigliani) di Nathalie Barney, americana anche lei, che riceveva rue Jacob, non scriveva così bene come miss Stein, ma era bella e molto più disinvolta, celebrata da Gourmont, ed ebbe relazioni con tutte le belle donne di Parigi, anche non americane: viene menzionata, una o due volte, per la sua amica duchessa di Clermont-Tonnerre. E di Margherite, allora Chapin poi Caetani, che comprava giovani pittori più è meglio dei fratelli Stein, e avrebbe coronato Valery, Larbaud, Fargue, Saint-John Perse - prima di promuovere a Roma, alle Botteghe Oscure, mezza letteratura italiana postbellica. E a chi le dice che la apprezza come Picasso e André Gide, risponde, va bene, ma perché Gide? Il tono è questo.
Sarchi ha problemi ad alleggerire il peso di alcuni “negri” dell’autobiografata – da tifosa del generale Grant e non di Lincoln. Specialmente sgradevole nel caso di Paul Robeson, al quale rimprovera gli spiritual: “Non ti appartengono, non più di qualsiasi altra cosa, perché li canti? Lui non rispose”. Nella convinzione che “i negri non stavano soffrendo di persecuzione ma di non essere niente” – “l’africano non è primitivo, ha una cultura antica ma molto ristretta e immobile”.
Una foto celebre ritrae Gertrude Stein con la vera Alice in abito e attitudine monacali, quando si tagliarono i capelli perché la duchessa di Clermont-Tonnerre se li era tagliati. Si direbbe la papessa Gertrude.
Nell’edizione originale corrente, Penguin Classics, con fastidiosi ripetuti Pissaro e Gaugin: sono solo errori di composizione?
Gertrude Stein,
Autobiografia di Alice B. Toklas, Marsilio, pp. 312 € 18
Lindau, pp. 360 € 26 




martedì 25 maggio 2021

Letture - 459

letterautore

America – Gli Stati Uniti sono il paese “più vecchio” del mondo, a giudizio di Gertrude Stein, nella b “Autobiografia di Alice B. Toklas”, un secolo fa o poco prima. Per un motivo semplice: “Perché con i metodi della guerra civile, e i criteri commerciali che la seguirono, l’America ha creato il Novecento,  e siccome tutti gli altri paesi vivono ora o cominciano a vivere  la vita del Novecento, l’America avendo cominciato la creazione del ventesimo secolo negli anni sessanta del diciannovesimo secolo è ora il paese più vecchio del mondo”.
 
Cannibalismo
– L’omo e li animali sono proprio transito e condotto di cibo, sepoltura d’animali, albergo de’ morti, facendo a sé vita dell’altrui morte, guaina di corruzione”, Leonardo da Vinci, framm. cod. 17457.
 
Censura
– La biografia dello scrittore Philip Roth, a opera di Blake Bailey, mandata al macero dall’editore americano W.W.Norton, che l’ha commissionata e pagata, perché Bailey è stato accusato di molestie o aggressioni sessuali, è disponibile ovunque fuori dagli Stati Uniti. Anche in inglese, col nome dell’editore inglese Johnathan Cape. Lo stesso per l’ultimo film di Woody Allen, “Rifkin’s Festival”, “bannato” in America per le proteste del movimento #metoo, che lo stesso produttore, Amazon, vende e promuove, con successo, in Europa e altrove. Il movimento #metoo è, si vuole, fenomeno americano, limitatamente all’America. Seppure addebitando colpe penali. Non è convinto fino in fondo delle sue posizioni?
 
Classico
– È l’ultima difesa della traballante Italia? Tale la trova Francisco Rico, lo scrittore spagnolo studioso di Petrarca: “La cultura classica del buon lettore italiano non ha paragone in nessun altro paese (e la prova è che in nessun altro Paese si può trovare tutto il Parnaso grecolatino in edizioni tascabili)”.
 
Dante
– Scrisse prima il “Paradiso”, secondo Ugo Foscolo, “Lezioni di Eloquenza” (in “Prose letterarie”), per una sorta di rigidità, linguistica e narrativa, artistica: “Mi credo, e in ciò mi sento sicuro del vero, che moltissimi tratti, e più veramente i dottrinali e allegorici del ‘Paradiso’, siano stati i primi pensati e composti più tempo innanzi che il Poeta s’insignorisse della lingua e dell’arte. Perché di rado nella prima cantica, e più di rado nella seconda, gli è forza di contentarsi di latinismi crudissimi, di ambiguità di sintassi,  di modi ruvidi che alle volte guastano l’anima”.
 
E del poema, sempre secondo Foscolo, non se ne potrebbe fare un romanzo: “La lingua poetica di Dante non ha potuto, né potrà mai, servire di modello a composizioni in prosa”. Al contrario della lingua omerica: Omero “nelle parole procede costantemente semplice e naturalmente grammaticale. Le sue frasi non sono mai troppo pregne di metafore, e non mai applicate a idee metafisiche, né a pensieri o sentimenti che non siano, per così dire, tangibili”. Se a Omero “si togliesse il metro dei versi”, l’“Iliade” e l’“Odissea” “parrebbero storie romanzesche e meravigliose come mille altre”.
 
Expolitio
– Il rifacimento, la rifinitura, la ripulitura. Tipo il Manzoni alle prese col toscano nelle tre redazioni dei “Promessi sposi”. Una pratica con questo nome criticata in una “Ars poetica” da Geoffrey de Vinsauf (o Gaufrido de Vinsolvo), il letterato inglese che a Roma, dove risiedette a lungo, compose il trattato all’inizio del tredicesimo, dedicandolo al papa Innocenzo III: “Tornando più e più volte su un punto, cambiandogli con insistenza i colori retorici, (il discorso) pare dire molte cose, ma di fatto indugia sempre sulla stessa, tirandola a lucido, come chi passa ostinatamente la lima. Ci sono due vie per fare ciò: dicendo la stessa cosa in vari modi o dicendo vari modi della stessa cosa”. Francisco Rico, che esuma la “expolitio”, la imputa a difetto del suo amato Petrarca, un polissonneur, un lucidatore di argenti, uno che le sue composizioni latine (le sole che apprezzava, che gli avrebbero nel suo sentire assicurato la gloria perpetua) costantemente riscriveva.
 
Italiano
– Per essere una lingua letteraria, è la più ricca? È l’idea all’origine di Foscolo, “Lezioni di Eloquenza”: Per l’essenza sua letteraria, la lingua italiana fu l’unica tra le lingue recenti la quale abbia preservato quasi tute le sue parole armoniose, evidenti e graziose, e tutti i suoi modi eleganti, per cinque secoli e più”. Dopo aver notato: “Non però è meno vero che i dialetti diversi hanno perpetuamente cospirato a comporre una lingua letteraria e nazionale in Italia, non mai parlata da veruno, intesa sempre da  tutti, e scritta più o meno bene secondo l’ingegno, e l’arte, e il cuore più che altro degli scrittori”. Un po’, si direbbe, a somiglianza della lingua omerica, sempre come la vede Foscolo: “La lingua Omerica non fu congegnata a mosaico di dialetti diversi, com’è genera le opinione; ma sì, fu studiata da poeti e d a storici a infondere qualità letteraria a dialetti delle loro città, sì che scrivendoli riescissero più agevoli a tutta la Grecia”.
Ma questa qualità è un limite, osserva altrove lo stesso Foscolo: “Le lingue, dove è nazione, sono patrimonio pubblico amministrato dagli eloquenti; e dove non è, si rimangono patrimonio di letterati; e gli autori di libri scrivono solo per autori di libri”.
 
Petrarca – Debuttò, ala ricerca della gloria poetica, col nome di Francesco Fiorentino – per redimere la provenienza aretina – o, peggio, pisana? Fiorentino era il padre, guelfo bianco come Dante, e come lui condannato nel 1302 all’esilio, e al taglio della mano destra. 
 
Proust – Pavese lo lega a Croce (“Il mestiere di vivere”, 7 settembre 1940): “L’idea centrale di Proust, che le situazioni e le persone mutino continuamente e inafferrabilmente, tanto che ciò che si desiderava, una volta realizzato si scopre insoddisfacente, somiglia all’idea di Croce, che situazioni e persone sono risultati pratici che non danno un contenuto assoluto ma appena raggiunti si trasformano e negano dialetticamente il loro primo essere”.
Con una “differenza enorme: per Proust ciò è incentivo a  ritrarsi dalla vita, per Croce a buttarcisi”.
 
Spelling - “The Autobiography of Alice B. Toklas”, il profuso elenco di artisti a Parigi negli anni 1900-1910 di Gertrude Stein,  reca nell’edizione Penguin Classics, Pissaro in gran numero e Gaugin - anche Assissi, ma più scontato, storpiare i nomi geografici era già privilegio inglese. Il Penguin Classics sarà stato sicuramente stampato in qualche paese del subcontinente asiatico, ma appunto: la Brexit vuole anche ignoranza – una volta gli scrittori indiani si pregiavano di essere anglo-indiani?   
 
Stendhal – “Spirito impertinente, sfacciato, perfino ripugnante”, anche se “le sue impertinenze provocano utilmente la meditazione”, è in un raptus di Baudelaire, all’avvio del saggio “Le Peintre de la vie moderne”.

letterautore@antiit.eu

La miccia del Black Lives Matter

Se la polizia ti ferma in America, e sei nero, sono problemi. Comincia così, con niente, l’assassinio a sangue freddo e senza ragione di un ragazzo che il padre è andato a prendere la sera a casa di amici. Sembra un attacco retorico, sul nero buono e la polizia brutale, ma si colora presto di una drammatica tela di razzismo, nell’opinione che capisce l’agente, nella giuria che lo assolve di ogni misconduct. Nate Parker, più bravo forse come attore, nei panni del padre del ragazzo ucciso, che come regista, ci costruisce un suspense ad alto voltaggio: l’uomo ragionevole, tranquillo, reduce dell’Iraq, buon padre di famiglia, assalta con i congiunti la stazione di polizia, prende gli agenti in ostaggio, fa processare l’agente assassino da una giuria popolare, gli sfortunati che si trovavano per caso dentro il commissariato, e naturalmente non finirà bene – l’America uccide i testimoni scomodi.
Un film molto americano. Apprezzato a Venezia nel 2019, ma in quanto testimonianza di un problema civile – i tanti ragazzi indifesi uccisi dalla polizia negli anni di Obama. Non suggestivo, se non in momenti brevi, non ragionato: gridato. E tuttavia convincente: il pregiudizio razziale è talmente forte che prevale anche sulla ragionevolezza, sul calcolo.
Il film esce con due anni di ritardo per i problemi di Parker col movimento #metoo. Da giovane fu processato per stupro. Fu assolto, ma il suo compagno nella vicenda fu condannato, e la donna che lo aveva denunciato qualche anno dopo si suicidò. Esce quindi dopo la reazione  della comunità nera alle violenze di polizia, col movimento Black Lives Matter. Ma come se ne fosse già parte, se non la miccia.
Nate Parker, American Skin, Sky Cinema, streaming su Now

lunedì 24 maggio 2021

Problemi di base - 640

spock

L’amore è immedesimazione: trasforma l’amante nell’amato?
 
Il sogno è creazione senza coscienza?
 
O è coscienza senza creazione?
 
“La morte è uguale per tutti”, Petrarca?
 
“Le cose gratuite sono quelle che costano di più”, Pavese?
 
“Il nuovo è tutto nella sorpresa”, Apollinaire?

spock@antiit.eu

Nel nome di Hitler mai - martire della guerra

La vicenda del “beato” Franz Jãgermeister, un contadino austriaco, trentenne, padre di tre figlie, mobilitato nel 1939 nell’esercito di Hitler, smobilitato all’armistizio con la Francia, che si rifiuta tre anni dopo, richiamato nel 1943, di prestare il giuramento d’obbligo nel nome di Hitler, dopo quello che ha visto. Finendo giustiziato.
Di Franz Jãgermeister la chiesa ha avviato la santificazione, poiché Franz era molto religioso: una vicenda reale, la sua. Mallick ne fa una macchina cupa, come di una rivolta contro la vita, della vita come destino, infame: fatica, solitudine, grigiore. Tre ore marcate dal sottofondo sordo di una presa in diretta, su prati cupi, tra montagne cupe, tra montagne grige, mai un raggio di sole, interiezioni dialettali che non vale la pena tradurre, grugniti di animali, e una vita di attesa, paurosa, della disgrazia che non può non accadere.
La vicenda Mallick racconta come una tragedia greca, in cui la ubris si vendica, l’invidia degli dei, se non oggi domani, dell’impertinenza umana. La borghesia urbana, composta, ragionevole, funge da coro: il parroco, il vescovo, gli avvocati, gli agenti, guardiani, giudici di Franz, gente ragionevole o altrimenti più arrabbiata che cattiva. Ci sono a contrappunto anche le scene familiari, distese, di Hitler, dei giornali Luce dell’epoca, che si evitano di vedere, a sottolineare la dimensione tragica, più che storica, della narrazione. Lasciando a un certo punto il dubbio se Franz fosse, come pure dice, contro la guerra di Hitler – scarta pure, ripetutamente, la destinazione ai servizi non armati, per e s. la sanità, quali già allora evidentemente si proponevano agli obiettori di coscienza – o non piuttosto contro la guerra.
Un film che può respingere. Per la lentezza (lunghezza), il grigiore (luci, toni, ritmi), l’ambientazione ripetitiva (carceraria, campagnola). Ma pure avvincente. Di tristezza – compresa la causa di beatificazione, di cui lo spettatore sa dalle promozioni e dalla presentazione. E ambiguo: si è lasciati con un perturbante unde Bonum, o il senso del martirio.  
Terrence Malick,
The hidden life, Sky Cinema 2

domenica 23 maggio 2021

Il sacco dei servizi pubblici, ferrovie, sanità

Le ferrovie inglesi ritornano allo Stato. Sembra una non notizia – come tale è data. Invece è la dichiarazione di bancarotta della privatizzazione dei servizi essenziali: le ferrovie inglesi, che erano servizievoli, puntuali e anche vezzose, diventarono subito, alla privatizzazione, un incubo. Sporche, e irregolari. Senza benefici di prezzo, anzi più cari. Con incidenti gravi anche in gran numero.
Il fallimento dei treni privati è il primo dichiarato del lodato thatcherismo. Che è stato, ed è, una barbarie civile e un sacco. Economico (aziendale, reddituale) e sociale, a danno di chi non può permettersi un servizio veramente “privato”, cioè costoso. Un altro, peggiore, è in attesa, nella sanità: la sanità privata non ha ridotto i costi, anzi li ha moltiplicati, ed è poco salubre, nella pandemia lo ha mostrato in eccesso, per esempio in Lombardia e in Emilia: non sa fare alcune cose, quele necessarie, e non sa (non vuole) adattarsi alle emergenze.
La privatizzazione è stata ed è un fatto ideologico. Che non migliora i servizi, e non riduce i costi. In più casi che non, ha diffuso il disservizio e moltiplicato i costi. Nel trasporto e la salute come nell’energia: le bollette sono ipercare.  
Allo stesso modo ha funzionato l’outsourcing, l’altro corno dell’ideologia liberista: l’appalto del lavoro, in service, in consulenza. L’appalto all’esterno di molte funzioni aziendali – di cui l’Italia ha abusato probabilmente più della stessa Inghilterra, si veda lo sviluppo abnorme delle partite Iva. Moltiplica le disfunzioni e non riduce i costi. Il gruppo telefonico WindTre, ripetutamente multato per milioni da Agcom, l’autorità di controllo del settore, si difende imputando i disservizi all’imperizia dei call center di cui si avvale.

La gelosa solitudine di Pavese

“Terre aride”, “spiaggia desolata”, Cesare Pavese scende dal treno, “tradotto”, in manette, a Brancaleone Calabro il il 4 agosto del 1935 (ci rimarrà sette mesi e mezzo, una calda estate e un brutto inverno), uno dei posti più remoti, allora, della Calabria, nello sgomento. Ma è una prima impressione, per sottolineare il lungo viaggio, l’entrata in un mondo altro. Che ha già temperato alle prime righe, dicendosi “felice del mare”, al maresciallo che lo prende in carico dando “una grande umanità”. Subito il paese gli appare “quasi lieto”, “le prime case avevano un volto quasi amico”, “cordiale” davanti al “mare tranquillo”. E ha la visione che avrebbe dovuto essere il nucleo del racconto: “Una casa dai muri in pietra grigia, con  una scaletta esterna che portava ad una loggetta laterale, aperta sul mare”, “un riquadro luminoso”, “netto e intenso come il cielo di un carcerato”,  “sul davanzale dei gerani scarlatti”, e sulla scaletta “una certa ragazza”, la Concia.
L’idilio non si conclude – non si sviluppa – e il racconto resta della routine di un confinato politico che si nega, rifiuta ogni responsabilità, ogni impegno. E, al fondo, di un senso vago ma ritornante, anche non di proposito, della vita come di una prigione, con e senza pareti. E di una “scoperta del Sud” che, senza raggiungere l’intensità del coetaneo, conterraneo e coevo Carlo Levi (del “Cristo si è fermato a Eboli”, successivo di un quinquennio alla stesura dal “Carcere, ma pubblicato tre anni prima, nel 1945 – pubblicato dallo stesso Pavese), sa rappresentare sia “il profondo Sud” che lo spaesamento e la derelizione del confinato.
Concia l’ingegnere “l’aveva veduta girare in paese – la sola (le donne non si mostrano, n.d.r.) – con un passo scattante e contenuto, quasi un danza impertinente, levando sui fianchi il viso bruno e caprigno  con una sicurezza ch’era un sorriso. Era una serva, perché andava scalza e a volte portava acqua”.  Il racconto dell’innamoramento di una ninfa selvatica poi non quaglia – anzi si scioglie nel sordido, lei è proprio una bestia, una capra. O Pavese ha voluto vivere (rivivere, far vivere) l’impossibilità del mito, fuori dall’immaginazione poetica. Il suo ingegnere, l’ingegnere nel quale s’impersona, anzi, fa succube di una donna materna, Elena, in carne, lattea, che lo accudisce, anche a letto - senza trasporto o riconoscenza da parte sua, solo incertezza e fastidio, il materno è animale.
Resta il racconto, purtroppo ancora una volta in chiave autobiografica, di uno stato semiallucinato della prigione dentro. Non della vita come prigione, ma di una impossibilità, personale, frustrante, di viverla. Un’impossibilità ribadita, con l’insistenza di un leitmotiv programmato. “Pareti invisibili” gli precludono “ogni contatto umano” – “nessuno si fa casa di una cella”. Il carcere? “Meglio restarci per sognare di uscirne, che uscire davvero”.
Un racconto del 1938, da leggere alla luce del tradimento da parte della “signorina” alla cui leggerezza ritiene di dovere il confino, che lo ha subito abbandonato, come presto scoprirà. Ma che diventa, nel contesto della vita di Pavese, un’anticipazione dell’incapacità di vivere – dell’inadeguatezza, oggi si dice. O dell’indattatibilità. Che viene solitamente letta come impoliticità, incapacità di calarsi nel mondo delle passioni contemporanee, di militare, di resistere. Ma questa è piuttosto – neanche risentita, o criticata – la conseguenza di un disagio costitutivo, della personalità. Dietro la plurima intelligenza e l’energia eccezionale che il poeta, scrittore, traduttore, critico e editore dispiegava. “I miei racconti sono – in quanto riescono –“, annoterà poco dopo nel “Mestiere di vivere”, “storie di un contemplatore che osserva accadere cose più grandi di lui”.  
Cesare Pavese, Il carcere, Einaudi, pp. 144 € 10