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sabato 14 agosto 2021

Le logge della giustizia

 Il superpoliziotto Renato Cortese, a processo per l’ “abduzione” a maggio del 2013 della bella kazaka Alma Shalabayeva, e della sua figliola Alua, in attesa dell’appello dopo una prima condanna a 5 anni di carcere, è scagionato all’Interpol. Da una lettera dello stesso 2013 del capo dell’Interpol che ora si rinviene.
Shalabayeva era stata espulsa nel 2013 perché girava con un passaporto falso, e perché moglie di un ricercato Interpol, Muhtar Ablyazov,  “per gravi reati”, “per crimini (finanziari, n.d.r.) commessi in vari paesi”. Ma seppe farsi forte di uno status di rifugiato politico del marito, rilasciato a Londra e valevole, allora, in tutta l’Europa. La protezione internazionale della condizione di rifugiato si estendeva alla moglie e alla figlia: il Tribunale di Perugia (quale altro?) così stabilì, anche se del riconoscimento britannico non si trovarono le tracce, e condannò Cortese. Che ora, a 56 anni, è un ex superpolizotto, benché fosse il più brillante della sua generazione, soprattutto nella caccia ai mafiosi.
La lettera che si esuma è firmata dall’allora capo dell’Interpol, Richard Noble, e indirizzata all’allora capo della Polizia Alessandro Pansa che gli aveva chiesto lumi. Curiosa risposta: “Il signor Ablyazov è soggetto ricercato ai fini dell’arresto da tre paesi Inkkterpol per reati gravi”, ma se “al signor Ablyazov sia stato concesso dal Regno Unito lo status di richiedente asilo o di rifugiato” l’Interpol non può saperlo.
Noble è inglese. E si sa che Londra concede protezione legale ai miliardari, non importa di che natura sia il loro patrimonio. Anche se talvolta qualcuno vi si trova impiccato o avvelenato, o cade dalla barca. Ma non è questo il punto. È che il tribunale di Perugia ha fatto valere uno status di rifugiato di cui non poteva avere la certezza. Se non per ragioni di loggia – come spesso avviene a Perugia – cioè di obbedienza massonica.
Lo stesso pluriricercato Ablyazov, nello stesso anno, era sotto le ali in Francia di una giudice, Solenge Legras, Procuratore Generale di Aix-en-Provence. Che per proteggerlo non solo non rispose all’Interpol ma arrivò a inscenare, per evitare che Ablyazov fosse sottratto alla sua giurisdizione, un finto arresto. Una giudice dura, molto – la moglie di Matacena, un imprenditore calabrese accusato per molto meno di Ablyazov (poi ìnnocentato), mandò al carcere solo perché moglie, compiacendosi con i giornali che il carcere fosse duro, senza igiene e senza cibo. Ablyazov e Matacena erano di due obbedienze concorrenti? E il segretario generale dell’Interpol Noble? E il prefetto Pansa - che aveva la lettera che scagionava Cortese?
La giustizia è una idra a mille teste, sarà dura da riformare.

L’Afghanistan, una rotta - della Nato

Non si dice per carità di patria, ma il ritiro dell’Occidente dall’Afghanistan è una rotta. Della Nato, nella sua prima guerra, e al di fuori del suo perimetro - la Nato è una alleanza difensiva. L’America deve mandare indietro tre battaglioni, tremila uomini, per tenere aperto l’aeroporto di Kabul e consentire agli americani dell’ambasciata e ai collaboratori afghani di partire. Non si dice, perché ci sono stati morti, ma la sostanza è: andarono per suonare e furono suonati. Questa fuga finale è perfino vergognosa - anche se oggi di onore non è più il caso di parlare.
Il presidente Biden, si dice in America, è deluso: riteneva di avere avuto assicurazioni dai Talebani che il personale americano e i collaboratori afghani non sarebbero stati toccati. Ma, se così è stato, la rotta è anche una stupidaggine: che valore ha la promessa dei Talebani, guerriglieri per statuto senza legge, ammesso che l’abbiano fatta?
È un problema di personalità? Solo un mese fa Biden diceva “molto improbabile” che i Talebani si prendessero l’Afghanistan. Ora Robert Gates, un ex direttore della Cia che è stato minisro della Difesa del secondo Bush e del primo Obama, fino a tutto il 2011, vice-presidente Biden, da tempo va dicendo che Biden “ha sbagliato su quasi tutte le questioni importanti di politica estera e di sicurezza nazionale nelle ultime qattro decadi” – da quando cioè è in politica in primo piano.
Il fondamentalismo islamico, il terrorismo, non è più il nemico, che ci si affida a esso? Nuovamente, come agli inizi di Al Qaeda? Non c’è più comunque un disegno di contrasto del fondamentalismo islamico. Dimenticato l’11 settembre. Aveva ragione il mullah Omar, l’autoproclamato califfo: “Voi avete gli orologi, ma noi abbiamo tempo”.
È peggio di un errore l’enorme spesa inutile per addestrare e armare le forze armate e di sicurezza afghane. L’Afghanistan  non è una scoperta recente, la storia ci bazzica dai tempi di Alessandro Magno. In un quadro d’ingovernabilità peraltro noto a tutti, anche a lettori di racconti. Ma poco meno di 900 miliardi di dollari sono stati sprofondati dagli Stati Uniti nelle sue sabbie.
L’Italia ci ha rimesso in questa guerra inutile 53 morti e 723 feriti. A un costo di sette miliardi. 
Soprattutto per l’addestramento delle truppe governative. 

Sarà ora inevitabile il passaggio di Kabul nella sfera di influenza russa - si dice cinese, ma Pechino ha problemi con la sua minoranza islamica. Sarà Mosca a riempire il vuoto strategico in quell area. Con un interessante punto di interrogazione, Mosca essendo anche il riferimento degli ayatollah iraniani, che non amano i Talebani.

La Superlega dei superricchi

Sembrano preistoria i tempi in cui il Napoli si poteva tenere Maradona – un Messi e un Ronaldo insieme. Per  Ronaldo la Juventus, la Exor, la famiglia Agnelli, si sta dissanguando. Mentre il Paris Saint-Germain ha praticamente due squadre a livello – pagati come – Maradona e Ronaldo. Il Chelsea spende a cuor leggero 120 milioni per Lukaku, trent’anni, invenzione del maratoneta della palla Conte. E il Manchester City 117 per Grealish, che non si sa chi sia.
Squadre di ricchi dalle dubbie fortune, arabi e russi. Ma una colonizzazione che non fa paura. Putin sarà un nemico ma i suoi amici ricchi no. Il mussulmano povero fa paura, lo sceicco che si compra quello che vuole al prezzo che vuole no. Ma non è questo il tema. Il tema è che questi club, il parigino e gli inglesi, si sono fatti di fatto la Superlega. Quella stessa che per opportunismo politico scartarono, denunciandola perfino, qualche mese fa. L’Europeo va con le le orecchie abbassate – all’Europeo si può far credere tutto?

Cronache dell’altro mondo - biologiche (135)

La Corte Suprema del Texas ha autorizzato i 52 “mandati di arresto” che il presidente della Camera del Texas, il repubblicano Dade Phelan, aveva emesso contro 52 deputati democratici che si erano assentati per far mancare il numero legale alla Camera dei Rappresentanti. I 52 deputati si erano recati ai primi di luglio con volo charter a Washington, pretestando impegni politici nella capitale federale. Vi si sono trattenuti per più di un mese ormai, anche perché affetti da casi di Covid. Ma la Corte ha ingiunto loro di “tornare a lavorare”.
L’ “arresto civile” significa che i condannati non vengono carcerati né multati, e non sono sottoposti a procedimento penale. Solo autorizza la Polizia a “tentare di portarli alla Camera dei Rappresentanti”.
La Camera era in sessione speciale, richiesta dal governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, per discutere alcuni provvedimenti urgenti. Il boicottaggio Democratico è stato deciso per evitare il voto, facendo mancare il numero legale, su un “Election Integrity Bill”, una legge per impedire a maschi biologici di gareggiare negli sport femminili. Una sorta di “Aventino di genere”.

L’astuzia è donna

Dalla raccolta “La cappella di famiglia” un’altra tipologia di racconti di Camilleri, il boccaccesco. Su un fondo di lubricità gli uomini muoiono beati pensando di possedere la donna, e la donna più si lascia fare per meglio liberarsene. Teresina è solo un po’ più moderna: come si fa, “a lei, tri anni avanti”, quando ne aveva quattordici, “glielo aveva ‘nsignato so patre”.
Andrea Camilleri, Teresina, “la Repubblica”, pp. 44, gratuito col quotidiano

venerdì 13 agosto 2021

Secondi pensieri - 455

zeulig

Capitalismo – Il Medio Evo lo ha “inventato” (accettato) insieme con il Purgatorio, l’espiazione della colpa – la redenzione. Come una colpa quindi. Non specifica: del capitalismo come di ogni altra relazione sociale, dal signoraggio alla domesticità. Una colpa nel fatto in sé o nelle possibili applicazioni? Nelle applicazioni. Il modo capitalista è il modo di vita normale, comune: la compravendita, il prestito, l’investimento, l’interesse, il salario.
C’entra la religione? Nel processo del capitalismo non si direbbe – gli studi sulle radici ebraiche o cristiane restano aperte, inconcludibili se non nei presupposti. Ma nella religione cristiana ogni trasformazione è legata al pentimento, al concetto di espiazione – un “mettere le mani avanti”, a scanso di sorprese infernali.  Molto prima di Lutero.
 
L’assunto di Weber, che lega lo sviluppo del capitale alle sette protestanti, è vero in colonia. Il Brasile (come l’Angola, di cui il Brasile è etnicamente figlio) ha tutto più degli Stati Uniti: clima, vegetazione, fiumi e comunicazioni interne, anche i minerali. Se Al Sud fossero andati i Padri Fondatori invece dei cappuccini…
 
Ma Weber, più che le sette protestanti, analizza il pietismo, in rapporto allo sviluppo del capitalismo. Cioè una forma di protestantesimo ancora vicino al cattolicesimo – con innesti di Swedenborg e altri esoteristi (si può riscontrare in Goethe”, “Faust”, al Circolo di Francoforte).
Le “riletture” di Max Weber in termini di Riforma uguale Libertà, un po’ massoniche un po’ “piciste” (i repubblico-comunisti), non sanno quanti libri di preghiere, inni, prediche, soprattutto prediche, i cristiani riformati si sono dovuto sorbettare. Il grado di libertà di un popolo è d’altra parte la sua esperienza storica: dove altro ha attecchito il militarismo (da Carlo XII di Svezia a Federico II di Prussia e agli Hohenzollern), o il nazismo, se non  nei paesi riformati?
 
“Se analizziamo la genesi e lo sviluppo del capitalismo scopriamo che è questa la vera rivoluzione permanente, e che tutte le altre «rivoluzioni» non sono state altro che reazioni all’opera di «distruzione creatrice
 compiuta nel corso dei secoli dal capitalismo. Ma come mai solo in Occidente questa rivoluzione ha vinto” – Luciano Pellicani, “Che cos’è il capitalismo”.
Perché il capitalismo è l’Occidente? Ora è anche la Cina, lo stesso paese della “rivoluzione permanente”. Ma è una Cina che parla americano. E durerà?
 
Concetti
– Non sono, non possono essere, assoluti, totalitari – definitivi: ogni concetto implica il suo contrario. In termini concettuali, e reali. Non c’è un idealismo, se non in confronto con in materialismo – e viceversa: non c’è un materialismo assoluto, se non in confronto con qualcosa di altro dalla materia. Cìò è tanto più vero del nichilismo: dire che tutto è un nonsenso è come dire che qualcosa lo ha.
 
Forza – Improvvisa (istantanea) e solitaria, la trova Camus vagando estemporaneo nella sue riflessioni su Orano, che considera la sua città, sotto il segno del Minotauro – “Le Minotaure ou la Halte d’Oran” (apre la raccolta “L’été”): “La forza e la violenza sono dèi solitari. Non danno niente al ricordo. Distribuiscono , per contro, i loro miracoli a mani piene nel presente”.
Divinità della collera? Ma dèi si può dire ripetitivi, contestabili ma non eliminabili. Si cancellano una volta perpetrati. Si scrivono anche con l’inchiostro simpatico. Chi l’ha vissuto (sopportato, ma anche inflitto) non lo racconta, chi lo racconta può averlo vissuto ma incidentalmente.
.
Nulla di buono può venire dalla forza? Non nel segno della violenza.
Forza e violenza sono sinonimi?
 
Minoranza – Ha sostituto la classe, come gruppo identitario e affermativo. Protetta dalle Costituzioni e dai diritti umani, dalle carte Onu, a differenza della classe. Diritti che implicano la protezione – un accrescimento quindi esponenziale degli stessi diritti.
Minoranza s’intende, anche nel sentire comune, condizione di maggior favore. Da qui il pullulare d minoranze di ogni tipo. Tutte con diritto a una “affirmative action”, a diritti speciali.
 
Pesantezza – Lo spirito di pesantezza che denunciava, Nietzsche sapeva  come affrontarlo: con la forza di carattere, il gusto, la mondanità, la felicità semplice, la dura fierezza, la frugalità del saggio. E quello dei social? Con i social non c’è confronto, solo la negazione. Lo spirito di pesantezza al tempo di Nietzsche non era avvolgente – era una partita aperta.
 
Ritorno –Va con la nostalgia, è sempre il nostos omerico, di Ulisse: si ritorna in luoghi, con persone, in situazioni, conosciute, che in qualche misura s’intende rivivere. Ma il vero ritorno è a più, e diverse, dimensioni. Un napoletano che vive a Milano e ritorna a Napoli non fa una cosa speciale: va da una città poco disordinata a una disordinata quasi per principio, da una meno ghiottona a una più ghiottona, ma con gli stessi pensieri, aspettative, paure, ansie. Il ritorno dal Nord al Sud, dalla città al Paese, dalle Alpi all’Aspromonte, è invece – può essere, malgrado tutto, l’acqua che manca in casa tra le acque che si disperdono della Montagna, o le cure, o le strade, o la pulizia - un passaggio tra diverse dimensioni di vita. Per un bisogno di diversità – di differenziazione nell’omogeneizzazione.
 
Solitudine – Non ci sono più deserti, si direbbe la tebaide impossibile. Non mentali,  spazi occupatissimi da mille social, in immagine, suoni, parole, da intromissioni, truffaldine per lo più, porno, medicali, finanziarie, e di ogni genere. Non fisici – se non senso della “poesia”, come l’industria del turismo vuole. Non c’è più il turismo in solitario, il viaggio, tutto è organizzato anche quando non lo è, significante secondo formule prestabilite. E dunque la solitudine si direbbe impraticabile, la solitudine più certa, quella fisica. Ma una nuova se ne individua, ormai da un paio di generazioni, quella affollata: la solitudine è nell’affollamento – non c’è bisogno del deserto, del Sahara, dei Rub-al-Qali, basta aprite il cellulare.
 
Storia – Maestra di vita va ora comunemente intese nel senso del Pimandro di Borges (Ermes Trismegisto), per il quale la storia non è la ricostruzione di ciò che è avvenuto ma “la fonte stessa della realtà”. La quale non è “ciò che è avvenuto” ma ciò che pensiamo si avvenuto.
 
C’è un senso neutro della storia, e uno prevenuto. Quello di Petrarca, spiega Albert Manguel, del trattato “Della propria e altrui ignoranza”, per cui la storia, povero Cicerone, era tenebra. Prima di Gesù Cristo, con “la fine di una notte per errori tenebrosissima”, e prima di Petrarca stesso, “Aurora della vera luce”. Ma è vero, anche senza l’autoapologia di Petrarca, che così  la storia viene letta.


zeulig@antiit.eu

 


Camus ritorna sui luoghi del delitto

“Orano, capitale della noia”. Si comincia sul leggero, con un ritratto ironico della città di elezione  - la citta della “Peste”, il racconto per cui l’autore è famoso – sul mare al confine col Marocco. Un ritratto datato, 1939, prima del diluvio, e riproposto appunto perché scherzoso. Ma già Orano introduce all’abisso, dell’uomo rivoltato, anche se non sa bene contro che cosa – si dice assurdo, ma “nessuno sa cosa sia”. Sempre ragi nativo:  “La nostra ragione ha fatto il vuoto”. Nel modo di vivere. Nel pensiero: “Solo la città moderna offre allo spirito il terreno su cui può prendere coscienza di se stesso” (Hegel). E nella letteratura: “Si cercano invano i paesaggi nella grande letteratura europea dopo Dostoevskij” -  “mentre i Greci davano alla volontà i limiti della ragione”.
Un viaggio in Algeria, Orano, Algeri, Costantina, Tipasa, i mandorli in fiore, in questa riedizione Gallimard, 1951, di “Nozze seguito da «L’estate»”, tradotto nel 1969 col titolo “L’estate e altri saggi solari”, a cura di Caterina Pastura e Silvio Pezzella. Un ritorno, nostalgico già all’epoca, tra guerra e primo dopoguerra- immaginarsi oggi, dopo l’arabizzazione e la lunghissima, cruentissima, guerra civile religiosa. Il ritorno a Tipasa, le rovine sul mare, luogo di elezione. I mandorli o il fiore della vita: sbocciano una notte fredda di febbraio, di fiori bianchi e spesse foglie che resistono alle piogge e al vento del mare, quanto basta a far crescere il frutto. Con ritorni, nei pezzi del 1950 e successivi, sulle sue proprie concezioni filosofiche. Ne “L’enigma” risponde ai dubbi sul suo concetto di assurdo, interrogandosi a sua volta. A Tipasa il ritorno è freddo: l’esilio, sia pure volontario, è “la vita secca, delle anime morte: per rivivere, ci vuole una grazia, l’oblio di sé o una patria”.
I Greci vivevano nella misura, l’Europa vive (viveva settanta anni fa) nella dismisura – dopo la guerra Camus è pessimista. I Greci avevano il senso del limite: “Nemesi vigila, divinità della misura, non della vendetta”. Il senso del limite era greco fin dall’inizio, da Eraclito: “Il sole non oltrepasserà i suoi limiti, altrimenti le Erinni, che vigilano sulla giustizia, sapranno scoprirlo”. Noi, che abbiamo “disorbitato l’universo”, ce la ridiamo di questa minaccia: “Nelle nostre più estreme demenze, noi sogniamo un equilibrio che abbiamo lasciato dietro di noi e di cui crediamo ingenuamente che andiamo a ritrovarlo al capo dei nostri errori. Presunzione infantile e che giustifica che popoli bambini, eredi delle nostre follie, conducano oggi la nostra storia”. Gli americani, si penserebbe,  e i russi – dopo i tedeschi. “Un frammento attribuito allo stesso Eraclito enuncia semplicemente: “Presunzione, regresso del progresso”. Una riflessione ambientalista in anticipo sulla scoperta dei “limiti dello sviluppo”: “La natura è sempre lì, tuttavia” . anche se non nel senso del bello-e-buono che Camus prospetta.
Marcel Camus, L’été, Folio, pp. 137 € 2

giovedì 12 agosto 2021

Problemi di base - 653

spock

“Viaggiare è solo un allargamento dell’Heimat”, P. Rumiz?
 
“La libertà, a guardarci bene, tira alla schiavitù”, Tommaso Landolfi?
 
“Un raziocinio non è mai inutile, lo è sempre”, Tommaso Landolfi?              
 
“La moda deve morire, e morire presto, affinché il commercio possa sopravvivere”, C.Chanel?
 
“Più la moda è effimera, e più è perfetta”, C.Chanel?
 
“C’è solo sfortuna a non essere amati, è una disgrazia non amare”. A.Camus?

spock@antiit.eu

La mafia (soggetto) inesauribile

Una bibliografia stagionata, del 1993, ma già ricca di centinaia di autori e migliaia di titoli – “oltre settecento” sono i libri, più innumerevoli saggi e articoli. Una pubblicazione in occasione del Salone del Libro di Torino, in ricordo dell’assassinio di Giovanni Falcne, avvenuto l’anno precedente mentre il Salone era in svolgimento. Un omaggio, che però, a riprenderlo in mano, ha perduto la promessa implicita di risarcimento, di giustizia, delle vittime di mafia, poiché le mafie sono sempre lì.
Il proposito è indiscutibile, di questa e altre pubblicazioni analoghe, di favorire l’impegno culturale e civile contro la mafia (e la corruzione, aggiungevano i promotori della ricerca). Che però non si affrontano con l’impegno personale – cioè, l’impegno può poco o nulla: il delitto va affrontato con la repressione, rispettosa certo, legale, ma quella, sì, impegnata.
Due curiosità. La “produzione” è recente: “Si è sviluppata soprattutto negli ultimi trent’anni”. Di editoria diffusa: coinvolti “un significativo numero di editori, ben 246, di cui però il 18 per cento, pari a 45 aziende, ha cessato le attività”. Un’editoria prevalentemente meridionale: l’editoria veniva allora censita per il 54 per cento al Nord, il 31 per cento al Centro e il 13 per cento al Sud e nelle isole, mentre “sul tema della mafia gli editori meridionali rappresentano il segmento più significativo con il 45 per cento delle società” - il 23 per cento al Centro “e al Nord solo il 32 per cento”. Ma il genere diventa profuso negli anni 1980, “gli anni dell’uccisione del generale Dalla Chiesa, quando la mafia è costretta ad aggredire direttamente lo Stato”.  
Gian Roberto Lanfranchini-Bea Marin (a cura di),
Per conoscere la mafia. Una bibliografia, Rcs-Associazione Italiana Biblioteche, pp. 79 s.i.p.

mercoledì 11 agosto 2021

L’illusione dei tecnici – fanno solo confusione

“Certo che i ristoratori non possono chiedere la carta d’identità”: la ministra Lamorgese, prefetto di lunga carriera, scopre dopo settimane di discussioni quello che tutti gli italiani sanno, se non altro per le annose polemiche contro le continue (da qualche tempo desuete) richieste di “documenda” - ma, poi, alla fine, i ristoratori chiederanno i “documenda”, anche loro.
Non è la prima sorpresa sgradevole dei tecnici al governo. Quella del green pass e dei controlli è anzi poca cosa rispetto al bailamme che i vari enti, specialisti, autorità del ministero della Salute hanno agitato per un anno e mezzo ormai, e continuano ad agitare, intorno alla prevenzione del contagio. Invece di dare, come è possibile e come è necessario, un messaggio unico e chiaro.
Quella dei tecnici risolutivi in politica è una delle tante illusioni che Scalfari, il maestro dell’antipolitica fin dalle sue prime uscite nel 1955, ha alimentato, maestro improvvido e forse falso (propose a lungo come tecnico risolutore Visentini, che in privato chiamava “l’avvocato dei ricchi”). Si dice: ma Ciampi, ma Draghi. Ma Ciampi e Draghi sono eccezioni, due tecnici di vasta esperienza politica, poiché le banche centrali sono organismi politici, e operano in un mondo, le banche centrali, le politiche monetarie, di finissima sensibilità. Il professor Monti, che certo è un onest’uomo, non è un politico, e s’è visto.
I tecnici sono per formazione portati al dubbio, non alla decisioni: ogni questione si presenta al tecnico quale è, cioè complessa. Il tecnico non è portato a decidere, è un consulente, vede sempre i pro e i contro. In piccolo: una trasmissione pomeridiana su radio Rai nei primi anni 1980, che aveva lo scopo di familiarizzare gli italiani con i problemi dell’energia, dopo il secondo shock petrolifero, spiegando anche le opportunità del nucleare, finì con i consulenti dell’Enel e dell’Enea, l’ente allora di ricerca dell’energia nucleare, che moltiplicavano le perplessità, perché una centrale nucleare non è semplice come una raffineria.

Cronache dell’altro mondo - cancellate (134)

La campagna del politicamente corretto, sotto la specie della cancel culture, si estende alle pietre. E agli uccelli. L’università di Wisconsin-Madison ha appena rimosso un grosso masso, estratto nel 1925 e posto su uno zoccolo monumentale come originale monumento in memoria di un geologo rinomato studioso dei depositi glaciali, ed ex presidente dell’università, Thomas Crowder Chamberlin. La Black Student Union e altre organizzazioni hanno chiesto e ottenuto la rimozione perché, per l’inaugurazione, il “Wisconsin State Journal” usò un termine razzista, “negro”, per descrivere larghi ammassi di rocce scure – quello rimosso è bianco.
Il “Washington Post” ha aperto un forum sull’“eredità razzista” di molti uccelli. Dei loro nomi scientifici, spesso catalogati con nomi di “schiavisti, suprematisti e ladri di tombe”, o di chi usava termini razzisti, cioè la “N-word” –la parola “negro”. Il giornale esemplifica col caso del naturalista inglese Alfred Rissell Wallace, che “usava frequentemente la parola N” e ha sei differenti specie di uccelli col suo nome. Ci sono anche uccelli che hanno il nome di gente che lottò per la causa del Sud nella guerra civile, o depredò le tombe di indiani per studi “scientifici”, o comprava e vendeva schiavi.   
Non ci sono stati all’Olimpiade di Tokyo gli attesi gesti di protesta politica degli atleti, non di singoli né delle squadre – nemmeno l’inginocchianento prima delle gare. L’assenza di gesti eclatanti è rilevata nella stampa americana, e addebitata alle politiche restrittive del Cio, il Comitato Olimpico. 

La mafia al potere

Fa quasi trent’anni questo non aureo libretto, con cui s’inagurava la stagione celebrativa della mafia. Un anno dopo le stragi in cui furono assassinati i giudici Falcone e Borsellino, quindi in tono deprecatorio, ma con esito accrescitivo del fenomeno, di Riina per intenderci, e altre belve. Un volumetto che è andato anche in molte scuole, dove Violante animava giornate contro la mafia.
È la prima bozza di relazione della Commissione parlamentare Antimafia , per la parte attinente agli interrogatori di Tommaso Buscetta, Leonardo Messina e Gaspare Mutolo, tre pentiti illustri, tra novembre 1992 e febbraio 1993, spiega Violante, in qualità di presidente della Commissione, nella prefazione alla pubblicazione in supplemento a “l’Unità”.
In trent’anni, tre generazioni di mafiosi si erano sterminate. Ma questo resta nel sottofondo: i tre vengono fatti parlare della mafia come di un’organizzazione inafferrabile, intelligente, e vincente. Formalmente sono interrogati, da Violante medesimo in qualità di presidente, ma le sue domande sono solo interpunzioni a lunghi monologhi.
Nel primo interrogatorio il presidente della Commissiona parlamentare Antimafia si lascia portare per mano da Buscetta. Buscetta sa anche che “gli americani sapevano tutto del golpe Borghese” – e lui sapeva tutto degli americani, “gli” americani? Il caso Calvi, il banchiere trovato appeso sotto un ponte di Londra, fu gestito da Pippo Calò (chi era Calò, per fortuna non serve più spiegarlo). Sindona i mafiosi, che lo proteggevano, lo ritenevano pazzo. “Lima serviva a denigrare Andreotti” – Buscetta-Violante hanno a cuore l’irreprensibilità del divo Giulio. Lunica cosa che si evita è il coinvolgimento della mafia nell’affare Moro.
Leonardo Massina esordisce con i quattro quarti: “Io sono la settima generazione che appartiene a Cosa Nostra” – che quindi c’era con la Rivoluzione francese, oppure con Napoleone. E prosegue: “La mafia è un organismo democratico, uno dei più importanti organismi democratici” – anche se, ingenuamente?, aggiunge: “Si vota per alzata di mano, niente scrutinio segreto”. Quanto a lui, è mafioso per passione, per ascendenza o destino familiare: “Io ho sempre lavorato, ho avuto un lavaggio, una macelleria, ho sempre guadagnato di più col mio lavoro che con Cosa Nostra”.
Mutolo, il più inaffidabile dei tre pentiti, specie nei processi in America, è in grado di prevedere gli attentati di Firenze, Roma e Milano, e questo è inquietante, molto (era isolato e controllato da due anni): dopo la conferma in Cassazione delle condanne per il maxiprocesso di Falcone, dopo le stragi Falcone e Borsellino, “ci saranno altri attentati… Ci sono agganci in diverse città, Napoli, Milano, Roma, Firenze”. E afferma, su insistenza di Violante, che Contrada - ora in qualche modo scagionato - era in confidenza con tutti i capimafia.
Luciano Violante,
Mafia&Potere


martedì 10 agosto 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (463)

Giuseppe Leuzzi
La mafia è la famiglia. La scoperta è di Saviano, facendo il Pasolini sul “Corriere della sera”: “Quando mi chiedono quando finiranno le mafie rispondo quando finiranno le famiglie. Quando l’umanità troverà nuove forme d’organizzazione”, eccetera – Saviano reitera i concetti, come Pasolini. Ma col conforto di André Gide – che però aveva solo il problema di scopare in libertà: “Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità. Vi detesto”.
 
Camilleri segnala l’“idea” della mafia, che era sfuggita, di Manlio Sgalambro. Che a lui sembra balzana e invece non lo è – è anzi “centrale”, si sarebbe detto un tempo. Sulla rivista “IdeAzione”, intervistato da Giuseppe Rasiti, il filosofo catanese distingueva nel 1997 i mafiosi dall’idea di mafia. Questa dicendo una “astrazione”, alla pari di Stato, di Giustizia, di Polizia. Una “astrazione” che non si combatte con la Polizia, ma “con una buona logica”. Vero è – Camilleri è contro, ma non spiega perché.
 
Il “Corriere della sera-Milano” celebra l’Olimpiade di Tokyo come un successo lombardo. Pagine da memoriale, “Lombardia da medaglia”, con foto-ricordo e statistiche.  Tutto speciale: “Cinquantotto  dei 384 azzurri in gara ai Giochi di Tokyo” titola per l’ultimo giorno, domenica, “vivono e si allenano in regione”, nelle più diverse discipline.  I 58 in rapporto a 384 sono meno dei dieci milioni di Lombardi in  rapporto ai sessanta della popolazione italiana. Senza contare che “vivono e si allenano in regione molti atleti di altra provenienza”. Per il clima? No, perché la Lombardia è favorita negli impianti sportivi.
Ma l’orgoglio è ancora un peccato? Nel “mercato”, globale?
 
Il Sud è opera pubblica
È lo Stato che allarga il divario Nord-Sud, con prestazioni e infrastrutture cattive e pessime. Non per una volontà politica, non dichiarata, ma per una burocrazia errata. Invece di definire i “livelli elementari di prestazione”, come richiesto dalla Costituzione, art. 117, lo Stato finanzia gli enti locali, addetti ai servizi e alle infrastrutture, con i Fab, livelli di fabbisogno. Cioè, in base alla spesa storica – chi più ha avuto più ha. Un fattore di distorsione talmente abnorme che sarebbe inconcepibile, se non fosse la prassi.
Sul “Quotidiano del Sud” di sabato 7 agosto Fabrizio Galimberti fa un riesame comparato dei trasferimenti dello Stato (“settore pubblico allargato”) in euro pro capite, per regioni e per grandi aree, sui dati disponibili per il 2018, che parla da solo. Basti il dato medio per grandi aree, Centro Nord e Mezzogiorno:
                                                     Centro-Nord     Mezzogiorno
Sanità                                                 2.057                 1.790
Amm. Generale                                 2.090                  1.513
Mobillità                                               931                    586
Reti infrastrutturali                            1.688                  1.394
Politiche sociali                                 7.180                  5.626                
Servizi generali                                  1.358                  1.002
Attività prod.-Opere pubbliche          1.282                  1.097
Acqua                                                    230                     146
Ambiente e gestione territorio              310                      72     
Conoscenza, cultura, ricerca              1.488                   1.209                               
Con alcune curiosità. La Lombardia riceve di meno per l’ambiente e per la cultura e ricerca – molto  meno della media del Centro-Nord, e meno anche delle regioni del Sud esemplificate in tabella, Campania,  Puglia, Calabria e Sicilia. Ma la sperequazione resta larga. E regionale: il divario Nord-Sud è ben pubblico. 
Il circolo vizioso sembra all’apparenza ben fondato: i Comuni del Nord hanno Fab più alti perché offrono più servizi. Ma il Fab è un meccanismo sperequativo: non induce  i Comuni del Sud a spendere di più per i servizi, ma li obbliga al contrario, a contrarre la spesa. Mentre la spesa pubblica ha – deve avere – indirizzo egualitario. Di più nel quadro di una politica nazionale presuntamente (costituzionalmente) solidaristica. 
 
La Procura di Palmi
Famosa per essere stata a suo tempo gestita da Agostino Cordova, il Procuratore Capo di destra professa (Msi) che scalò i vertici della magistratura portato dall’ex Pci, la Procura di Palmi si vuole un bastione contro la mafia calabrese, dovendo controllare tutta la Piana di Gioia Tauro – la “plaga” la chiamava Cordova, insomma l’area a più alta densità mafiosa del mondo. Ora soppiantata in questa funzione dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria, ma pur sempre un bastione.
Trent’anni fa, nella primavera-estate del 1991, la densità mafiosa fu tale che trabordò negli uffici giudiziari. Il Procuratore Cordova, nel pieno di un’offensiva giudiziaria contro due o trecento amministratori di Usl, amministratori comunali, amministratori di Enel e Fiat, politici socialisti e politici democristiani, massoni di varia obbedienza, tutti più o meno mafiosi, avanzò su “la Repubblica” il sospetto, anzi la certezza, che anche gli uffici giudiziari lo fossero. I giudici del Tribunale e della Corte d’Appello accusavano Cordova, nei corridoi, di “velenosità e astii personali” per la distribuzione degli spazi al palazzo di Giustizia. Cordova accusò il presidente del Tribunale, Domenico Grillea, di tenere ormeggiata la sua barca nella darsena del porto di Gioia Tauro (non quello di ora, il gigante trans-shipment¸ il vecchio porticciolo dei pescatori), “notoriamente controllato” dalla cosca mafiosa Piromalli. E di avere preteso da un ufficiale di Polizia “informazioni sugli sviluppi dell’inchiesta sulla barca”. Il presidente della Corte d’Appello, Alfredo Teresi, accusava invece di “irregolarità nel sorteggio dei giudici popolari” – in senso favorevole agli imputati, sottinteso. Un bell’ambientino.
Il quotidiano fu costretto a una precisazione. Con accuse rovesciate. Il presidente del Tribunale diceva “una pura insinuazione “ il controllo della darsena da parte dei Piromalli, “dato che nessun dato obiettivo e nessuna voce corrente lo rendeva percepibile”. Quanto alla tentata subornazione, o all’abuso di potere, nei confronti dell’ufficiale di Polizia, scrisse non contestato, che il procedimento era invece “di un inquietante caso di indagini fraudolentemente compiute ai miei danni mediante microspia”. Il presidente della Corte d’Assise spiegò che il procedimento sui giudici popolari era stato da tempo archiviato dal gip di Messina in quanto “completamente destituito di fondamento”.
Non è dato sapere come la controversia sugli spazi a palazzo di Gìustizia di Palmi sia terminata. La “plaga” era, e resta, ampiamente mafiosa. Erano quelli anche gli anni dei rapimenti di persona, cui la ”plaga” era interessata.
 
L’onorevole meglio del Nord
È cupio dissolvi, sicuramente, ma dà un’idea di stupidità. Come la Calabria oggi su De Magistris, uno che ha sempre disprezzato i calabresi, il Sud ama molto adagiarsi sui “falsi amici”, Grandi Giornalisti, Grandi Politici, Grandi Giudici. Rinunciando a quell’importante, decisivo, strumento  di costruzione del futuro che è la politica. Che la stessa Calabria, Napoli, la Sicilia, Bari hanno sperimentato con Mancini, Bassolino, nei lontani tempi di Alessi e La Loggia la Sicilia, Bari con Moro, il Salento con D’Alema.
Non c’è falsa causa per la quale il Sud non si immoli. Da ultimo per i 5 Stelle e per la Lega – per la Lega. In passato ha votato entusiasta Berlusconi, la Sicilia per ben due legislature ha solo votato Berlusconi, che non ha speso un euro in Sicilia e non ha portato un solo provvedimento di legge, uno solo, di beneficio. Salvini è senatore della Calabria, il leader della Lega. Il plebiscito meridionale per i 5 Stelle, che hanno inventato come “reddito di cittadinanza” la vecchia pensione di invalidità che non si negava a nessuno – ed era frse una elemosina necessaria, ma quanti danni non ha provocato.  E hanno voluto e sbandierato il cashback per i ricchi del Nord.
La Calabria ora si adopera a far vincere alle Regionali l’ex giudice napoletano De Magistris, fresco di un fallimento decennale come sindaco di Napoli. I peana si sprecano ogni giorno sui giornali locali. Uno che della Calabria disprezza anche l’aria: s’inventò inchieste di ogni genere, perché lo cacciassero per incompatibilità da Catanzaro, anche solo per Santa Maria Capua Vetere. E come lo rincorre il Pd locale – in tutte le sue frazioni. Dopo la serie comica di commissari alla Sanità, ora anche un presidente di Regione commissariale.
 
Sicilia
Nel 1911, due anni dopo la pubblicazione di “I vecchi e i giovani”, il romanzo critico dell’unificazione, Pirandello dettava per la scuola di Porto Empedocle una lapide che sanciva la questione meridionale: “Due stirpi\ con vicenda ineguale di nascita di vita di morte\ due Italie\ florida una di comuni\ splendida di signorie\ come da fiumi percorsa\ da vicini alterni destini\ l’altra arida da secoli povera\ feudalmente immota”… Anche se “sempre accesa nell’ansia\ da generosi ardimenti”.
 
Riflettendo sulle difficoltà dei sondaggi elettorali di saggiare gl umori reali dell’elettore in Sicilia, Camilleri difende così i siciliani: “Da queste parti non solo indulgono a raffinate beffe, ma amano soprattutto «fare teatro», cioè apparire agli occhi di un estraneo in modo diametralmente opposto a quello che in realtà sono”. E così privarsi della politica? Il sondaggio è politica.
 
Pronunciandosi per il Ponte sullo Stretto,  nel 1997, Camilleri si pronunciava anche contro la “sicilitudine” – “Ecco perché quel ponte s’ha da fare”, pubblicato su “la Repubblica-Palermo” (ora in “La Sicilia secondo Camilleri”): “L’insularità crea quasi sempre….una condizione di diversità che marcia o nella direzione del compiacimento o nella direzione dello scoramento. In altri termini, il ponte taglierebbe alla radice  la «sicilitudine», non l’essere siciliani”.
 
Una pagina di “la Repubblica-Palermo” per celebrare, a dieci anni dalla morte, Lodovico Corrao, artefice a trent’anni, sessant’anni fa, dell’“esperimento Milazzo”, delle sinistre che sostenevano un governo regionale Dc “contro la Dc”, e Sergio Troisi non trova una riga per nominare i cugini Salvo. Ricorda che Corrao ha ricostruito Gibellina, di cui fu a lungo sindaco, come un paese lunare, inabitabile - “una pianta urbana disposta per altre realtà e qui catapultata”. Ma non spiega che la ricostruzione si fece in un’area dei Salvo, gli esattori poi condannati per mafia e all’epoca molto sospetti. Sostenitori accesi nel 1958, anche loro, dell’“esperimento Milazzo”.
Sarà vero che in Sicilia la narrazione è tutto.
 
“Angilo era un galantomo”, un personaggio di Camilleri (“L’oro a Vigata”), “ma come tutti i galantuomini siciliani si scantava a morte dei carrabineri”.
Vero è, per dirla come Camilleri, ma fra i tanti scrittori siciliani solo Camilleri lo dice.
 
È in Sicilia, a Capo d’Orlando, non al mare della Versilia o della Liguria, che Gino Paoli concepisce “Sapore di sale”, 1963 – poi arrangiato da Ennio Morricone.
 
Andrea Erminia Constand, la cestista che ha accusato tre anni fa il comico Bill Crosby di stupro, nel 2004, è stata professionista solo nella seria A italiana, per due stagioni, 1997-98 e 1998-99, in Sicilia: col Messina primo anno, senza mai scendere in campo, e poi con l’Alcamo.
Con Crosby era finita male subito: Constand aveva ottenuto già nel 2005 un accordo extragiudiziale da 3 milioni e mezzo. Un patteggiamento che le impediva di riutilizzare l’accusa. Cosa che invece ha fatto, portando ora all’assoluzione di Crosby. Sembra una storia siciliana e invece succede in America, a opera di una canadese. 
 
Ricordava Elio Pagliarani, il poeta ora morto, la volta che fu a Palermo, a presentare un libro sulla mafia edito dalla Cooperativa Scrittori che lui animava, ed avevano appena ucciso Pio La Torre.  Quando si ritrovò in tasca una cartolina dell’ossario dei Capuccini , con teschio e tibie incrociate. Che qualcuno gli spiegò essere un “primo avvertimento”. Pagliarani si vide morto. Mentre era uno scherzo di Nico Garrone, che lo accompagnava – poi critico del cinema a “Repubblica”.
 
“C’è stato un momento, verso al fine degli anni ’80,  in cui Elisabetta Sgarbi ed io siamo partiti alla conquista della Sicilia,, le terra del Belpaese forse a più alto tasso letterario” – Mario Andreose, editore, “Domenica” del “Sole 24 Ore” 27 giugno. Semplice – Andreose e E.Sgarbi lavoravano allora per Bompiani, l’editoria per converso è milanese.
 
In Sicilia solo per questioni di ordine pubblico – la famosa intervista col generale Dalla Chiesa, che presagiva la sua propria morte – Bocca non ha scritto dell’isola, uno dei pochi. Ma al siciliano Paolo Di Stefano spiega, in un’intervista ferragostana del 1995, venticinque anni fa, la “differenza” con le lapidi: “Le due guerre mondiali in Sicilia sono state vissute come qualcosa di fantastico, tra l’esaltazione e il sogno. In quelle lapidi c’è solo retorica, vuoto, falsità”. Mentre “nelle lapidi piemontesi c’è il senso profondo della tragedia e di un sacrificio terribile”.
Bocca prevenuto, a disagio in tutto nel Sud, non dice delle lapidi un segno del tradimento delle borghesie meridionali. Ma spiega bene il problema, il divario è tra l’esaltazione e l’avvedutezza.
 
Ricorda Camilleri in breve, nel racconto “Lo stivale di Garibaldi”. il raccapricciante esordio dell’unità d’Italia, in Sicilia, che la storia trascura. Il suo prefetto avventurato Falconcini è inviato a metà 1862 dal generale Medici (il garibaldino comandante militare di Palermo, n.d.r.) a Montelusa-Agrigento con questa premessa - dalle memorie dello stesso Falconcini: “Il traviamento morale di questi siciliani ha creato in essi tali condizioni che minacciano di portarli all’ultima rovina. Agisca di conseguenza”.
 
Il luogotenente Cordero di Montezemolo, ricorda ancora Camilleri, tre giorni dopo il suo arrivo a Palermo scriveva al re: “I beduini di quest’isola sono assai più feroci di quelli delle Cabilie”. Il generale Govone, “tragica macchietta di torturatore e di fucilatore”, nello stesso 1862 in Parlamento: “La Sicilia non è sortita dal ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”.
 
Il generale Govone è famoso, tra la tante sue imprese, per avere fatto torturare per ventiquattro ore senza interruzione un malcapitato che non rispondeva alle sue domande. Prima di accorgersi che era sordomuto.

leuzzi@antiit.eu

Nerina al Porta Portese delle parole

“Le pagine ibride di Bassani e Palazzeschi, Pavese e Levi mi hanno fatto amare la vostra lingua. Ora mi sono messa alla prova con i versi di Nerina, una casalinga-scrittrice che ha molto di me stessa”. Così confidava Lahiri alla “Stampa” per l’uscita del “Quaderno”. E anche: “Il girasole impazzito di Montale ha illuminato le mie poesie”. Un topos usato, non solo da Manzoni, quello dello scartafaccio ritrovato, ma ben raccontato. Anche con la necessaria ironia: “l’antica scrivania”, un “mobile imponente col ripiano alto”, si rivelerà proveniente da Porta Portese, il mercatino domenicale romano, forse, probabilmente, anzi certo.
Non è l’unica invenzione. Una “Verne Maggio”, italianista presumibilmente americana, specialista di Elsa Morante - una vicina di casa, naturalmente ex, di Lahiri a Trastevere (più probabilmente vicina di umori, non risulta Morante trasteverina: forse alla nascita, se è nata, come sembra, ma non si sa, nella clinica di maternità per poveri, la sala Salvetti, allora in via Anicia), si occupa di annotare il “Quaderno di Nerina”. Che ha bisogno di note, essendo un genere certamente avulso in italiano, e forse anche nelle altre letterature, per ragioni molteplici. Nerina che è naturalmente leopardiana, ma anche morantiana. Dacché, sia per confessione di Lahiri che di “Verne Maggio”, dal 1952 l’autrice della “Isola di Arturo” progettava un romanzo dallo stesso titolo - di cui esisterebbe lo scartafaccio nel suo lascito. Questa “Nerina” qui però dev’essere diversa: lavora “in più di una lingua”, proprio come Lahiri, la sua è “un’esperienza trasformistica”.
Una cornice, insomma, multistrato. Lahiri si diverte, ma diverte anche, non stanca. C’è un problema di rimandi, di continue interruzioni, come una conversazione fra sordi. Ma alla fine il filo si sfila (l’allitterazione però Nerina ce la risparmia).
Un quaderno ben trasteverino. Via Dandolo. Il bar di viale Glorioso. Il pescivendolo di san Cosimato che la interpella “fanciulla”. Le doppie scempie, e viceversa: coretto per corretto, cappelli per capelli (non rilevati da Verne Maggio….), et al. Trastevere, dove la scrittrice italianizzata ha scelto di abitare, “vicino alla casa di Elsa Morante”,  viene anche al di sopra di tutto, luogo di elezione e di riconoscimento, un luogo identitario. Nella commedia delle identità, che è il gioco che Jhumpa Lahiri, indiana di nascita, inglese di formazione, americana d’istruzione e carriera, italiana di elezione da qualche anno, con gli ultimi tre libri scritti in italiano, ha scelto di sperimentare. Un esperimento curioso, anche se al passo dei tempi, delle identità fuggevoli e promiscue. Che Lahiri vive, in questo momento italiano, come un’apertura di opportunità: di curiosità, linguistiche, perfino glottologiche, e naturalmente culturali e ambientali, Trastevere non è Princeton. Che la divertono e divertono.
Il tono è elegiaco, quasi luttuoso. Le dimenticanze che da sempre, dall’infanzia indiana,  che non sa altrimenti evocare, perseguitano Nerina, l’angoscia della perdita, con i ritrovamenti poi inevitabili, gli oggetti perduti emergendo bene in vista. Di oggetti caduti, chissà come, dalle mani. Di incidenti banali – manca solo il dito schiacciato nella porta. Con un Alberto paziente risolutore – uno di due Alberto, l’altro è il professore di poesia di Nerina all’università, che le ha insegnato ad amare Pessoa, suo riferimento altrettanto importante che Leopardi.
Ma il tono è pimpante. Una poesia narrativa, di luoghi e personaggi. Di cose viste, memorie, impressioni: “romanzesca”.  Sul tema della sparizione, dell’ansia di perdere, e di salvare, ritrovare.
Con un tasso di gioco linguistico elevato. “Forsennato” e “Forsemmorto”, “l’ozio nel mezzo dell’adozione”. la “contraddizione in termini” e la “contraddizione terminale”. I temi pratici rifatti sul piano linguistico: “Passiamo al participio,\ la pace prolungata,\ la scrivania ignorata!”. Con i problemi in evidenza, opera di “Nerina” o di “Verne Maggio”, nei commenti, le prolusioni, le note. Di poetica, di sintassi, di mestiere. Con uso profuso del Battaglia – che Lahiri sembra possedere (in 17 volumi?), con cui tanto si diverte - e del Devoto-Oli. Specie con le parole,  “sgamare”, “scartabellare”, “pennacchio” (pernacchio?), “peripezia” – come di bimbo che scopre significati dietro i suoni. Col genere della parole sempre un po’ misterioso per gli anglofoni.
Il quaderno si divide in sezioni: Evocazioni, Accezioni, Dimenticanze, Generazioni, Peregrinazioni, Osservazioni. Quanto a Nerina, “considerato il nome della figlia, non è da escludersi che sia di madrelingua persiana, o che sia cresciuta bilingue  (forse tra persiano e inglese?)”. Il nome è Paradiso, “Paradiso che proviene\ dal pairidaeza persiano” (ma il paradiso in farsì non è behestì?).  
Con un omaggio a Primo Levi, a Dolores Prato, e a Domenico Antonio Palumbo (chi era costui?). Il meglio narrato forse dei tre libri scritti da Lahiri in Italiano. Benché rapsodico, per istantanee, scorci, lampi di memoria, sogni spezzati. Della scrittura ricostituente, cioè ricostruttiva per usare il suo metodo di uso delle parole. Un omaggio a Roma – anche se con un paio di errori di fatto: non c’è una via Mazzini a Roma, ma un viale con una grande piazza, e non vi passa il tram n. 3 (il quale, se corre verso Marmorata, passa prima davanti al Colosseo e poi davanti al Foro). Ma l’imprecisione non toglie alla volontà di poetare piano, raccontando, raccontandosi. Di luoghi e paesaggi, memorie, impressioni, avventure verbali. Seppure in una lingua “mai del tutto istintiva”. Il primo libro di poesie di Lahiri. Il migliore, il più “narrativo”, dei tre scritti in italiano. Benché il più costruito - costruito all’evidenza, con le strutture in bella vista: la veduta non disturba in quanto mostra come una sorpresa per  la stessa scrittrice (non un gioco ricercato ma uno trovato). Contro i “lacci pestiferi del linguaggio”. Con molte parole portmanteau, o mashup, le parole macedonia, per fusione di due parole diverse per via di un qualcosa in comune, una fonema, una lettera.  Con, ribadita, “l’inquietudine degli oggetti smarriti”. “Una saga familiare” anche,  “di inciampi e incidenti”. Un Porta Portese di cose viste, ansie, ricordi, evocazioni.
Jhumpa Lahiri, Il quaderno di Nerina, Guanda, pp. 206 € 14                          

lunedì 9 agosto 2021

Il matrimonio è maschile

Nota Camilleri curiosamente, quando commentava i fatti del giorno per “la Repubblica-Palermo” (“La Sicilia secondo Camilleri”, 1997): “In Italia, secondo l’Istat, si sono avuti 3.911 casi di suicidio, la causale amorosa occupa il secondo posto con 340 persone e, di queste, 265 sono uomini e  75 donne” .
I suicidi sono uomini. Dice l’Istat: “I dati sui suicidi che sono avvenuti sul territorio nazionale negli ultimi anni mettono in evidenza che sono soprattutto gli uomini a scegliere di porre fine alla propria vita, rispetto alle donne. In Italia gli uomini rappresentano il 78 per cento delle morti per suicidio e le donne il 22 per cento. Per effetto di una maggior riduzione nel tempo dei suicidi femminili rispetto a quelli maschili, il rapporto uomini/donne è costantemente aumentato dagli anni Ottanta ad oggi, passando da 2,4 del 1985 a 4,6 del 2016”.
Una larga percentuale di suicidi sono per amore. Unendo i due dati, se i suicidi per amore sono maschili, i femminicidi non sono da contemperare - con questa passione suicida? Del matrimonio indissolubile non solo per il sacramento?
Non si tratta di un dato culturale, come si tende a rubricare l’amore possessivo (latino, italiano, cattolico, “meridionale”), ma di genere. Comune in tutto il mondo: la forbice maschi-femmine in fatto di sucidi è anch’essa di  4 a 1. E le motivazioni sono ovunque in percentuali analoghe. In Italia semmai – altra smentita all‘opinione comune sulla passionalità – il numero dei suicidi in rapporto alla popolazione è fra i più bassi.
Le cause naturalmente sono le più diverse: malattie, fallimenti, altri eventi drammatici. Ma tra questi il fallimento di un rapporto d’amore è statisticamente il fattore preponderante.
Fa ancora testo uno studio americano del 2014, “Why might men be more at risk of suicide after a relationship breakdown?” (“American Journal of Men’s Health”, 27 agosto 2014), che elencava sei possibili cause. Oltre al senso maschile di autosufficienza, al residuo patriarcale di controllo del matrimonio, e alla ferita nell’onore, prospettava l’ipotesi che il matrimonio è un’esperienza più costruttiva per l’uomo che per la donna, la difficoltà di compensare gli scompensi nell’amicizia (la confidenza, lo sfogo), e la crescente importanza dei figli, del sentimento paterno. 



Imparare ad amare in prosa

Un’anticipazione di “How to start writing (and when to stop”), la raccolta di consigli agli scrittori che Szymborska dispensò per venti anni, dal 1960 al 1981, in forma anonima, ai lettori della rivista “Žycie literackie”, vita letteraria. Era un tempo in cui, dirà dopo, bisognava non distinguersi, appiattirsi. Ma siccome tutti vogliamo essere diversi, la poesia sembrava un percorso quasi obbligato – tutti poeti.
Pareri sorridenti, brevi e brevissimi, un esercizio di ironia intinta di disponibilità. “Sospiro di essere un poeta”, le scrive una signorina A.P. da Bialogard, “gemo di essere un editor”, risponde Szymborska. Insistente è il richiamo al “lato prosaico” – a Grazyna da Starachowice: “Lasciamo le ali da parte, e tentiamo di scrivere a piedi, lo faremo?”. Forse, si può anche “amare in prosa” – “gli spiriti sono belli e cari, ma perfino la poesia ha i suoi lati prosaici”: dopo l’ispirazione la correzione, il rifacimento, la cancellazione.
Più che recensioni dei testi ricevuti o letti, riflessioni. Occasionali, diradate nel tempo. Le due pubblicazioni sono un estratto del volume che New Directions annuncia per la ripresa, a inizio ottobre, che si annuncia smilzo, un centinaio di pagine. Con le illustrazioni tratte dai collages di cui Szymborska si dilettava. “Wit, Wisdom and Warmth”, con le tre “w” la raccolta viene presentata, spirito, saggezza e simpatia.
Un esercizio da maestrina, ma partecipato. A Puszka, da Radom: “Anche la noia dovrebbe essere descritta con piacere. Quante cose stanno succedendo un giorno in cui niente succede?”.
WisÌawa Szymborska, “No one thinks in esperanto”, The New York Review of Books”,  $ 1
How to (and How Not To) Write Poetry
, poetryfoundation.org, free online


domenica 8 agosto 2021

Cronache dell’altro mondo - native (133)

“L’estate dei nativi”, può titolare “La Lettura”: quest’anno arti e lettere sono tutte nel segno degli (ex) pellirossa. Di tribù minori – le tribù non sono ancora negate - per maggiore equanimità. Louise Erdrich, una ojibwe, ha vinto il premio Pulitzer per la narrativa, il massimo premio americano, con “The Night Watchman”. Natalie Diaz, mojave (ma è anche mezzo latina), lo ha vinto per la poesia. Patricia Marroquin Norby, purepecha, è diventata la prima curatrice nativa del Metropolitan Museum di New York.
Joy Harjo, creek-cherokee (anche mezza francese), mantiene la carica di poeta laureato Usa per l’anno in corso, anch’essa la prima nativa insignita del titolo. E c’è per la prima volta, con Biden, un nativo al governo, una donna “Deb” (Debra Anne) Haaland, laguna pueblo, ministro dell’interno.
In precedenza c’erano nativi nella narrativa americana, ma tra i personaggi, raccontati da bianchi. Il più famoso è Tony Hillerman – col tenente di polizia navajo Joe Leaphorn.
Sono 574 le tribù native  riconosciute a livello federale dal governo degli Stati Uniti. Con titolo cioè alla protezione legale come minoranza, e alle licenze speciali per la vendita di alcolici e per il gioco di azzardo.

Terzo polo Bpm-Bper, dialogo riaperto

Riparte il dialogo sulla via Emilia, tra Bpm e Bper per il terzo polo bancario: il passaggio ormai praticamente definito (non è in corso una trattativa, si stanno solo trattando le modalità) di Mps a Unicredit ha lasciato la partita praticamene obbligata. Entrambi i gruppi, Bpm e Bper, intendono crescere, concorrere al terzo polo, e i pourparler, non ancora un negoziato, sono ripresi.
Presupposto della fusione è un matrimonio alla pari. Anche se con un ruolo logistico – la sede del raggruppamento - di primo piano per Bpm, e probabilmente per il segmento fondi. Ma, soprattutto, Milano e Modena concordano a escludere l’attivismo di Cimbri, su cui il primo dialogo tra le due banche si è interrotto. Il banchiere romano, uomo forte Unipol, che aveva praticamente dato per acquisito il banco milanese, si pensa - si spera? - ora dirottato sulla Popolare di Sondrio, su cui ha realizzato un altro cospicuo raid  - non ancora ostile, ma  non concordato e non amichevole: una rogna. Cimbri Modena assicura di avere comunque neutralizzato, malgrado la forte presenza azionaria.
I due gruppi negozieranno, questa è già l’intesa, su un piano di parità, valutando asset per asset, cosa e quanto sarà più redditizio a fusione intervenuta, senza pregiudizio della governabilità. Neanche per sentiment, come è stato al primo approccio un anno fa, presto chiuso per l’intraprendenza di Cimbri.

Ombre - 573

Poteva la Procura di Milano farsi mancare il salvataggio di Monte dei Paschi? No, e appena il salvataggio si è profilato, zàcchete l’inchiesta penale. Dice: ma è un atto dovuto. No, era una atto dovuto un anno fa, quando il solito esposto del solito azionista su cui la Procura ha deciso d’intervenire, tal Bivona che si agita molto in ambito bancario, è stato presentato. E invece: per un anno niente, anche perché Bivona si sa chi è, poi, quando la questione si sta per risolvere, ecco la Procura primadonna si mette in mezzo. Un uso (abuso) che purtroppo nessuna riforma della giustizia potrà rimediare: l’Italia appartiene ai diavoli - furbi, col tocco: grandi carriere col non lavorare, solo farsi belli.
 
“Semestrali oltre le stime. I 49 big di piazza Affari superano anche il 2019” – “Il Sole 24 Ore” . Con un però: “Gli utili sono gonfiati dai benefici fiscali della Legge di bilancio e dalla nascita di Stellantis”. Perbacco, allora la Fiat non è morta. I laudatores dei marchi tedeschi, anche dentro “Il Sole 24 Ore”, ch< ne dicono? Questa Stellantis non era la fine?   
 
Si passa in questa Olimpiade di Tokyo, in Italia come in Francia, in Inghilterra, negli Usa, in Cina s’immagina e in ogni dove, dall’entusiasmo all’entusiasmo. Ma non doveva essere l’Olimpiade maledetta, contro cui il Giappone protestava? Dove si è cacciato tutto questo Giappone, sono 125 milioni, lo hanno esiliato? O ai media è bastato altro su cui spendersi?
Ma qual è il ruolo dei media, quello di infettare, possibilmente, ogni cosa? Per perdere copie e audience?
 
La più grande vittoria italiana all’Olimpiade è di avere tolto di mezzo - è il caso di dire, dai media - la cosiddetta politica, cosa ha detto Di Maio, o Salvini, o Letta, che per chi ancora segue i media è un tormento: paginate di nulla, otto, dieci, dodici, mezzo telegiornale, prima di una notizia vera, buona o cattiva che sia. 

L’Olimpiade di Tokyo sarà stata, come già l’Italia del calcio di Mancini, un silenziatore, benefico. Avere silenziato il cicaleccio politico è come se l’ara si fosse purificata, pur in mezzo alla calura.
È il veleno della formula “la Repubblica” di Scalfari, di fare dei media il teatro della politica, che ogni giornale e i tg copiano stolidamente – che uccide la politica, e anche i media.
 
Si continua a citare il “Times” di Londra come se fosse un giornale serio, mentre da una quarantina d’anni, da quando è passato nella proprietà dei Murdoch, è solo un po’ meno volgare dei tabloid. Mentre non si mette in luce la “gloriola” o spocchia, il “jingoismo”, di cui l’opinione inglese è farcita o ghiotta. Per cui non ci sono mai sconfitte ma sempre cattiverie e falsità degli avversari. Che non è un male.
 
Ha occupato negli ultimi mesi tutte le strade di Roma con i cantieri che per quattro anni ha trascurato. E pazienza. Ma lancia piani di assunzioni a migliaia ogni settimana, e ora premia tutti, tutti i dipendenti comunali che non hanno lavorato negli ultimi due anni per il virus, e negli ultimi quattro perché il sindaco non c’era, e nessuno obietta. I romani devono pagare tutti la rielezione di Raggi?
 
Un sindaco può fare “concorsi” a gogò, assumere chi vuole quando si vuole? Il Prefetto non vigila? La Corte dei Conti? Sono già grillini, in petto?
 
Si dice sempre, ancora, le quote rosa, largo alle donne, eccetera. Nessuno dice che con Raggi per Roma è stato ed è un disastro. Ha solo fatto una decina di km. di piste ciclabili, sulle quali non si vede un solo ciclista – uno solo. In posti cioè non frequentati, non utili alla circolazione. Un appaltino, probabilmente, per la ditta amica – siamo tutti ecologisti, la vacca pubblica è da mungere.  
 
Pochi dubbi sull’uppercut del Csm al Procuratore di Milano Greco: il suo successore deve essere di destra. Lo sapevano già i sostituti della stessa Procura, che a centinaia si erano schierati contro Greco – il buon giudice fiuta l’aria (è buon giudice quello che fiuta l’aria).
È anche giusto così, la sinistra ha governato Milano – la Procura di Milano, attraverso la Procura - per trent’anni? Ma che squallore. E nessuna riforma potrà intaccarlo.
 
Scandalo in Puglia per il reciproco endorsement (scambio di favori, di voti elettorali) tra il presidente della Regione Emiliano, Pd, e il sindaco fasciocomunista di Nardò, Pippi Mellone. “Fasciocomunista” nel senso che vuole lo ius soli: chi è nato in Itala è italiano. Ma per il resto fascista oltranzista. Le ideologie sono ardue, gli endorsement invece no.
 
 “Pochi sanno che 50 grammi al giorno di questo diffusissimo frutto potrebbero danneggiare cervello e memoria”, è l’annuncio in rete. Che per frutto intende, dopo svariate proposte di pubblicità, il peperoncino. Ora, come consumare ogni giorno 50 grammi di peperoncino? La rete fu una scoperta, un divertimento e un grande aiuto (google), ma è già nociva?

Camilleri cronista in Sicilia

Geremicca, che nel1997 preparava a Palermo l’edizione locale del quotidiano romano, ebbe l’idea dì invitare a collaborare Camilleri, allora non ancora il mostro sacro che sarebbe diventato con i  film. Sui temi di attualità in Sicilia. Camilleri, che non viveva stabilmente in Sicilia, fu inizialmente riluttante: “La verità non la so raccontare”, obiettava, “c’è più fantasia nella realtà che in tutti i miei romanzi messi assieme”.  Ma poi scrisse trenta articoli, che sono qui raccolti, dal 29 ottobre 1997 al18 aprile 1999 – probabilmente avrebbe gradito l’invito a collaborare all’edizione nazionale, come poi avvenne.
Il Camilleri giornalista è col freno tirato. Sorvegliato, perfino molto. Ma gli umori non mancano. A favore del Ponte sullo Stretto, contro gli ambientalisti di professione. O  contro la giustizia dei giudici, che non  cessano di stupire: “Quelle fughe al di sotto di ogni sospetto”, poteva scrivere 22 anni fa, di come la giustizia funzionava - e funziona, cioè non funziona: metteva in libertà i capimafia, per cavilli incomprensibili, un capriccio. Ricorda il “noi” e “loro” delle vecchie borghesie meridionali, per “loro” intendendosi la criminalità, una società separata - quando c’era ancora al Sud una borghesia, poi distrutta dalle mafie e dalle antimafie insieme. Con una considerazione semplice, al primo “pezzo” della collaborazione: “Come avrebbe fatto a fiorire l’albero di Falcone?”, a Palermo, senza Palermo stessa, la Sicilia, il sentiment antimafia.
Uno degli ultimi “pezzi”, il 17 gennaio 1999, lo azzarda in trasferta, a Milano (“nove omicidi in  dieci giorni, o all’incirca”), a proposito del razzismo, contro la Sicilia, e contro gli immigrati, di cui pure Milano fa uso in abbondanza: “Siamo solo agli inizi di un movimento migratorio di proporzioni colossali, che bisognerà regolamentare con leggi extra-nazionali”.  Un Camilleri posato, ma non meno acuto.     
Una pubblicazione di culto, per camilleriani e non. 
Federico Geremicca (a cura di),
La Sicilia secondo Camilleri, “la Repubblica-Palermo”, pp. 120, gratuito col quotidiano