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sabato 15 maggio 2010

Il giustiziere giudiziario è stanco

“Tutti sanno che quando il giornalismo si confonde con l’organizzazione della menzogna è un delitto”. Simone Weil, “La prima radice”, p.43

C’è sempre voglia di giustiziere tra i cronisti giudiziari, che sono soprattutto donne. Ma con una percezione acuta nella fase attuale di essere delle pedine. Di giochi che non controllano e probabilmente non approverebbero. Killer a pagamento, ma pagati unicamente con informative. Che possono far male. E a favore di personaggi che magari li-le stimano, poiché moltiplicano le informative, ma si tengono riservati e non assicurano il futuro, non una carriera, e mai a nessuno una buona fama.
Le croniste soprattutto sono incerte, e anche insoddisfatte. Per questo si accusano a vicenda di aver sottratto documenti illegalmente, o di avere pubblicato informative che non fanno parte di nessun processo. Troppe bufale si accumulano. Da Firenze prima e ora da Perugia. E non da parte dei magistrati, che bene o male sono inamovibili e quindi soci sempre fertili. Ma da investigatori anonimi – chi trasmette l’informativa non è quello che ha deciso di darla. Il solito terreno putrido dei dossier, che lascia merda immarcescibile su chi lo pratica senza precauzioni, le redazioni pettegole hanno la memoria lunga.
Sono preoccupazioni della giudiziaria “di sinistra”, che è quella che con convinzione assume la violenza della logica Amico\Nemico, della all-out war, la guerra senza quartiere. Anche in singolo, con la guerra di corsa. Del fortissimo décalage culturale fra sinistra e destra fa ancora parte questo aspetto, la convinzione: la giudiziaria “di destra” non sa condannare a morte il suo nemico (Marrazzo, il sindaco di Bologna, l’addetto stampa di Prodi).
Per andare in prima pagina il-la cronista non si risparmia, e tuttavia sa che presto la stagione può essere sfiorita, sono ormai troppi i-le croniste giudiziarie che, spremute, sono state abbandonate all’anonimato, non le hanno fatte nemmeno capo servizio. La lista dei Quattrocento, dopo il barbiere di Sicilia, ha spernacchiato la giudiziaria in tutte le redazioni. Della ditta Anemone che faceva i lavori per il Vaticano, facendosi pagare a caro prezzo - e per gli affittuari del Vaticano naturalmente, ma questa pista, ben più ghiotta, è stata invece trascurata. Un dossier cavalcato con allegra disinvoltura dai giornalisti, i giornali e i telegiornali berlusconiani.
Il sospetto della giudiziaria “di sinistra” è di avere solo agevolato la “discesa in campo” di fini, di cui sta emergendo la mobilitazione sotterranea da tempo in preparazione. Nulla di più di una sensazione, ma in quel mestiere il fiuto conta. Questa è peraltro la sensazione migliore che l’ambiente respira. Il dubbio maggiore è di essere preda di piccoli trafficanti d’influenze.
La giudiziaria “di sinistra” viene dalla controinformazione, che dello smontaggio della verità (la decostruzione) ha fatto la sua arma, delle apparenze, dell’informazione ufficiale, sia pure filtrata dalle Procure. È un problema peraltro non nuovo: la controinformazione ha sempre avuto il problema delle fonti. Che in Italia non sono mai perfettamente affidabili, come nel Watergate, il padre della contro giustizia: le “gole profonde” qui si celano sempre, lasciando solo presumere superprefetti e generali dietro gli informatori, e il dubbio è ora che questi rappresentino solo se stessi.

Secondi pensieri - (43)

zeulig

Arte – Non muore, si dice: da qui, si dice, il suo fascino universale, anche presso gli incolti. O non perché, invece, ha bisogno di mediazione, dell’interprete? Universale, e immortale, è il fascino della natura.

Città – È un fatto storico, quindi in evoluzione, normalmente penosa. I conservazionisti ne fanno una bella addormentata, che le masse ignoranti e la speculazione immobiliare violentano. Ma questa è la natura, in alcuni casi - là dove è portentosa (Napoli, la Sicilia…). La città è sempre una violenza all’ambiente e alle abitudini, che per definizione sono buone se sono vecchie. Anche quando non si sviluppa, quando cioè deperisce.

Fede - È l’alternativa ragionevole alla disperazione, in quanto è creazione della ragione. Arrivata al suo limite, la ragione si estende con la fede. L’alternativa è la disperazione, che non è ragionevole.

Identità – Più spesso è il possesso: ci identificano le cose, che del resto sono nostra espressione. Anche quelle di possesso recente o di valore infimo. Perderle, o esserne derubati, è una violenza fatta alla persona. O peggio, in un certo senso: è infatti impossibile quella difesa, o gesto di difesa, con cui si reagisce all’aggressione, con effetto esorcistico sulla violenza che si subisce.

Infelicità - È incurabile perché non è la disgrazia, o la mancanza, che la determina, ma l’ansia.
Il disadattamento alla realtà, agli eventi.

Lavoro – La verità è che del lavoro non resta nulla. È come coltivare il pomodoro. Anche le patate. Dell’occupazione che prende due terzi della vita da svegli.

Lingua - È il luogo, il promo fondamento, su cui ci s’impianta – o ci si ritrova.

Mafia - È carica straordinaria di energia: si può, si deve, anche leggere così. La mafia esprime una forte carica di energia dissipata, o convogliata su canali improduttivi. Resta da sapere perché.
La mafia si differenza dalla delinquenza comune perché nella violenza esprime anche molta energia, e molta capacità organizzativa e produttiva. I mafiosi hanno tutto dell’ottimo imprenditore, se si esclude la misura nella violenza (comprese la truffa e l’evasione-erosione fiscale): innovazione, capacità di valutare il rischio, capacità di creare reddito o ricchezza. Partendo da ambienti e condizioni personali sfavorite: emigrati marginali e isolati in America, Canada, Australia, villani a Palermo e in Calabria. Sono un conferma o sono una smentita della concezione liberista della società? Della democrazia e della ricchezza che s’incrementano nello scambio?

Rivelazione – Era di Dio, della Parola, del segreto dell’universo, un’apocalisse, la filosofia: l’uomo cerca la conoscenza e Dio gliela rivela, con la fede e con la natura, la ragione, il sentimento. È la parola chiave di un’opinione pubblica meno avvertita che mai. Ora è rivelazione di un atto istruttorio, di un tradimento coniugale, di un atto di corruzione, e naturalmente di un complotto. Uno dei tanti – in passato gesuitico, massonico, giacobino, ebraico, oggi delle multinazionali e della globalizzazione.
“Così dice il Signore”, si scusavano i profeti dell’Antico Testamento. Gesù Cristo, prima di tornarsene in cielo, ci lasciò lo Spirito Santo. Oggi “così dice il giudice”, si giustificano i novelli profeti, i cronisti. O lo dicono le carte, le intercettazioni, le note di servizio del maresciallo, il teste. Che di solito è un refoulé, un pentito.

Storia – È in realtà la memoria collettiva. Un universo informe, di eventi, ansie e attese, di passato, presente e futuro, di passato registrato oppure obliato, ma non per questo inattivo. Un ammasso di pieghe e di ritmi che si dispiegano agli assalti di più passati storici – se non, a volte, incidentalmente.
È la cronaca (la memoria) dell’arte – tecnica e estetica – quale manifestazione di vita. In questo senso è una cambiale perpetuamente rinnovata.
Ecco come si concilia con l’eternità e l’infinito.

Ci allontana da Dio, la storia come agire umano. Perché?
Lo svolgimento dell’agire umano è un progressivo costante – la tendenza fra le oscillazioni – allontanarsi dalla presenza di Dio.
Dal Dio della paura, e questo sarebbe solo naturale: abbandonare l’inarticolato, l’inconsulto, per una conoscenza piana, tranquilla. E invece no, si passa dalla paura di Dio alla paura e basta: uno stato di tensione in cui non c’è Dio e non c’è nemmeno una causa – razzismo (etnicità, odio, eccetera), decadenza, nevrosi e depressione, sospetto.

Quella vera è una brutta bestia, difficile venirne a capo. Per le troppe bugie, e i conseguenti sospetti: è un contorto quetzal.
Montaigne trovava gli italiani gradevolmente immersi nelle storie, in versi e in rima, dell’Ariosto, del Boiardo, del “Guerrin Meschino”. Ora s’incontrano immersi nella storia sgradevolmente, di cui sentono il bisogno come del cibo, ma confondono nomi e date.
L’unico filo è la grandezza. Sia pure, in quest’epoca di economicismo, un’arcata alta venti metri per convogliare il fiume a un gioco dì’acqua in piazza. Il meraviglioso resta il fascino della storia, il senso. Eppure c’è, galileianamente.

Tecnologia - È l’ispiratrice del cambiamento, in termini meccanici l’albero di trasmissione. L’odio della tecnica è malposto perché tocca il suo meccanismo – l’innovazione – e non il suo presupposto. Che invece può essere errato. Una modernità piatta sarebbe un problema: senza radici è mera ripetizione, sia pure tecnicamente brillante, e sa di morte.

Tradizione – Che sarebbe senza la modernità? Un mondo di giaculatorie. È un modo per esorcizzare il passato, alleviarne il peso condizionante.

zelig@antiit.eu

venerdì 14 maggio 2010

I fatidici Quattrocento

Quattrocento è un numero che viene da lontano: si arriva ad Anemone, o alla Guardia di Finanza, partendo da Tucidide. Un numero di battaglia: molta sovversione è targata Quattrocento. La prima è quella di Antifonte, che il filologo classico Canfora, il miglior narratore forse finora del millennio, ha ricordato in “Storie di Oligarchi” e “La lista di Andocide”. I Quattrocento erano il Consiglio oligarchico di Atene, istituito nel 411 a.C. dall’Assemblea rivoluzionaria, cioè aristocratica, su proposta di Pisandro. Non concordi, né golpisti, non tutti: i Quattrocento s’imposero democraticamente, Pisandro convinse l’Assemblea democratica che erano meglio della democrazia. Lisia se ne fece avvocato nella disgrazia: “Non è il nome dei Quattrocento che deve provocare la vostra collera, ma gli atti di alcuni di loro”. I Quattrocento di Antifonte, sostituendosi ai Cinquecento del consiglio eletto, calcolarono al millesimo le indennità loro dovute fino alla fine del mandato, e “le pagarono via via che quelli uscivano dalla sala”.
La fonte è sospetta, essendo Tucidide, un ateniese filo spartano. Al secondo libro della Guerra del Peloponneso, collazionato da Senofonte, che non è ritenuto un’aquila. Ma Tucidide è il nostro miglior storico. I Quattrocento sono peraltro in lui incidentali, tra Frinico e Antifonte. Erano infatti ordinari: c’erano prima in forma di società segrete antidemocratiche. Ne facevano parte pure Alcibiade, pupillo dello storico, e lo stesso Pisandro - che, oggi nome eponimo gay, nella fattispecie era un politico democratico. Furono peraltro discepoli di Socrate, e belli, Alcibiade e Crizia, gli ateniesi che imposero i Quattrocento. Platone, giovane allievo di Socrate, era nipote di Crizia.
Il numero ha avuto dopo d’allora scarsa incidenza nella storia. Si ricordano quattrocento streghe bruciate in un giorno, che danno a Tolosa un primato imbattuto. Quattrocento sono i segni e le linee del volto studiate da Giovambattista della Porta. Quattrocento statue di Cristo sono il record dello scultore tirolese Josef Kleinhanns, cieco dalla nascita, in aggiunta a innumerevoli santi e busti, tra cui quello dell’imperatore Francesco Giuseppe nel 1849, allora diciannovenne, dopo la repressione dei moti liberali e nazionali in Europa. Quattrocento miliardi di stelle ha la nostra galassia. Quattrocentomila erano gli uomini dell’amata napoleonica sconfitta in Russia – forse perché erano poco francesi, meno della metà. In quattrocento si calcola il numero delle cavie nere lasciate morire di sifilide, in Alabama, per studiare gli effetti del morbo. Upper 400 sono il circolo dei nobili a New York.
La congiura di Quattrocento si ripeterà invece spesso negli ultimi anni. È un numero destinato, si direbbe. Il Consiglio oligarchico di Atene fu rovesciato solo quattro mesi dopo essersi imposto – il numero quattro è ferale, spiega Elémire Zolla. Gelli vanterà quattrocento colonnelli in sonno per un governo dei colonnelli, dunque superaffollato. O così si disse nella serie di golpe annunciati, a cadenza bisettimanale, tra il 1975 e il 1976, quando Moro resisteva al compromesso storico di Andreotti. Quattrocento furono detti i brigatisti – ma a volte quaranta. Anche Sindona aveva i suoi quattrocento: erano i milioni di dollari americani che prometteva a Andreotti per lo sviluppo dell’Italia. E di quattrocento si applicò poi al salvataggio, insieme col governatore della Banca d’Italia Carli: i clienti speciali, con conti anonimi e ben retribuiti in solida valuta all’estero, a Nassau nelle Bahamas, del Banco di Roma.

Problemi di base - 28

spock

La vocale è indistinzione. È silenzio?

La musica viene con le vocali. È la musica silenzio?

Perché accanirsi contro qualcuno? Il cane è indolente.

Perché Mosè rimprovera aspramente gli ebrei, come un antisemita, mentre li conduce verso la Terra Promessa?

Perché l’Olocausto non è nella propaganda di guerra degli Alleati? Se i tedeschi sapevano, tutti sapevano.

Perché la bandiera ondeggia?
Perché le foglie mormorano?
E l’arpa eolica? Perché il filo che oscilla al vento risuona?
Sono instabilità dinamiche.
E cosa sono il riverbero, la turbolenza, il vortice?

Perché accanirsi contro qualcuno? Il cane è indolente.

Perché non fare la stagione dei concerti da aprile a ottobre, invece che da novembre ad aprile? Potremmo tossire tutti liberamente.

mercoledì 12 maggio 2010

La vera storia di Giovanni Falcone

Giuseppe Leuzzi

“La mafia è il sotterfugio dell’invidia
che ti colpisce a tradimento”.
Alda Merini, “Delirio amoroso”, 15

Ogni anno si celebra a Palermo il 24 maggio l’anniversario della strage perpetrata contro Giovanni Falcone. Una ricorrenza dovuta, dalla quale però latita la verità. Perché l’attentato fu messo in opera dalla mafia, ma quasi certamente non da sola. E quando il giudice Falcone era già stato assassinato moralmente, spiritualmente. Magistrati, ministri, notabili, sorelle ne violentano ogni anno la memoria, facendolo vittima della mafia e della reazione in agguato, lui che fu vittima della mafia e del potere sinistro che tuttora governa l’opinione. La sinistra faziosa, del Pci (già Pds), del Consiglio superiore della magistratura, e di Leoluca Orlando. O di Violante, il teorico nefasto del Terzo Livello, da cui Falcone rifuggiva, che ha avviato la stagione che ci affligge dell’antipolitica. Il presidente Napolitano dice il giudice assassinato “grande esempio morale”, ed è verissimo, ma non a favore dell’ipocrisia perdurante. Falcone fu ucciso dalla mafia dopo che una certa sinistra ripetutamente, con accanimento, glielo aveva messo nel mirino. Da un anno lo processava con l’accusa di collusione con la mafia.
Io ho conosciuto Giovanni Falcone all’ambasciata americana, a una cena a villa Taverna, la residenza ai Parioli dell’ambasciatore. L’antivigilia dell’attentato. Era sereno e socievole. Al tavolo con De Gennaro, il vice-direttore della Dia, la direzione investigativa antimafia. In ottimi rapporti con Claudio Vitalone e la sua biondissima bella moglie. Era certo, chissà perché, della nomina a capo della Procura Nazionale Antimafia. Forse glielo aveva detto Vitalone, prossimo di Andreotti. Ma l’avevo già incontrato al ministero, al quarto piano, in pizzo all’ascensore. Ero andato al ministero a parlare col professor Federico di alcune statistiche della giustizia, e al quarto piano, uscendo dall’ascensore, c’era di fronte il giudice Falcone che guardava. Triste, lo sguardo sperduto, in una fermata distratta nel suo conchiuso andirivieni per i trenta passi del vestibolo. Era fuori posto, non era un burocrate.
Era una persona a tutto tondo, non quello che aveva fatto il concorso. Né il giudice di partito grigiastro, o del sindacato, del piccolo potere che faceva e di più farà la storia della professione. Per qesto stesso motivo “esposto”, così apparve in quegli istanti, e anzi osteggiato, in ogni forma - compreso l’impossessamento. Una prima netta impressione soverchiata allora dalla sorpresa. Come in una scena da film, d’istinto il pensiero sopravvenne di un killer che sale tranquillo al quarto piano del munito edificio, quando si apre la porta dell’ascensore si trova la vittima davanti con un sorriso smarrito, lo fredda, pigia il bottone, e se ne va.
Il governo proteggeva male Falcone. Dopo la cena a villa Taverna, partì solo, con un autista. Su una Tipo, la macchina di Montalbano, una macchina così, con targa E.I., forse dei Carabinieri. In precedenza ancora, usavo parcheggiare in centro nella piazzetta che ora è stata chiusa per proteggere alle spalle il palazzo Grazioli dove vive Berlusconi. Il parcheggio lungo le mura dei palazzi era proibito ma, come spesso a Roma, tollerato. Finché un giorno un poliziotto trafelato m’inseguì per chiedermi di spostare immediatamente la macchina. Il divieto era stato anche rafforzato da strisce gialle, in corrispondenza di due finestre munite di inferriata. Nella parete posteriore del Primo commissariato di Ps, di piazza del Collegio Romano. Le due finestre corrispondevano all’appartamento di servizio di Giovanni Falcone a Roma, qualcuno mi disse. Dunque il giudice Falcone viveva a Roma sperduto nel ministero e dietro le inferriate di una caserma.
Più di tutto Falcone era isolato politicamente. Anche all’interno della sua stessa corrente sindacale dei magistrati. Per la guerra dichiarata che il Pci conduceva contro di lui senza esclusione di colpi.
Quando il prode Riina chiese le telecamere per affermare, nella pausa di un processo a Reggio Calabria, che il suo nemico ora erano “i comunisti”, un brutto pensiero si affacciò: perché non erano suoi nemici prima, “i comunisti” che nel nome dell’antimafia fecero una guerra senza quartiere contro Falcone? Il giudice che per primo e quasi da solo aveva mostrato che la mafia è fatta di delinquenti, solo più sanguinari di altri, e che si può battere quando si vuole.
Su questo fatto, che non si vuole dire, vale la pena rileggere quanto Ilda Boccassini dichiarò in pubblico il 25 maggio 1992, alla commemorazione milanese di Falcone, reduce dalle condanne ottenute per la “Duomo Connection”, l’inchiesta che aveva condotto col giudice assassinato, davanti al Procuratore Generale Giulio Catelani, al Procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, suo superiore gerarchico (che poi la riprenderà severamente), e all’Avvocato generale Mario Daniele: “Giovanni sapeva di dovere morire. Ma gli è toccato morire con l’amarezza di essere lasciato solo”. E anzi accusato dai suoi colleghi di lavoro di lavoro e compagni politici: “Voi avete fatto morire Giovanni Falcone, voi con la vostra indifferenza, le vostre critiche. Non potrò mai dimenticare quel giorno a Palermo, due mesi fa, quando a un' assemblea dell’associazione magistrati le parole più gentili per Giovanni, soprattutto da sinistra e da Magistratura democratica, erano di essersi venduto al potere. Mario Almerighi lo disse: «Falcone è un nemico politico»” – Almerighi presenterà un esposto contro Ilda Boccassini al Procuratore Catelani, affermando di non avere pronunciato questa frase, ma l’esposto finirà nel nulla. “Un conto è criticare la Superprocura”, continuò Boccassini, “un conto è dire - come il Csm, i colleghi, gli intellettuali del fronte antimafia - che Falcone era un venduto, una persona non più libera dal potere politico”. Falcone era andato al ministero non per fare carriera: “Giovanni aveva scelto l’unica strada per continuare a aiutare i colleghi, andando al ministero per fare sì che si realizzasse quel progetto rivoluzionario di una struttura unica per combattere la mafia”. Su questo punto l’allora giovane giudice insiste, invitando il governo a non abbandonare il progetto della Superprocura, e denunciando lo smembramento del gruppo di carabinieri che hanno lavorato alla “Duomo Connection”. Ma conclude con una requisitoria precisa: “A quanti colleghi che sono qui ho cercato di fare aprire gli occhi, ma sono stata spazzata via anch’io perché ero amica di Falcone. I colleghi che stamattina sono a Palermo fino all’altro ieri dicevano di diffidare di Giovanni. Gherardo Colombo, tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai funerali? E l’ultima ingiustizia Giovanni lha subita proprio dai giudici di Milano, la rogatoria per lo scandalo delle tangenti gliel’hanno mandata senza gli allegati. Mi telefonò e mi disse: «Che amarezza, non si fidano del direttore generale degli affari penali». Cè tra voi chi diceva che le bombe all’Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui. Abbiate il coraggio di dirlo adesso, e poi voltiamo pagina. Se pensate che non era più autonomo, libero, indipendente, perché andate ai suoi funerali? Dalla Chiesa non può andare ai funerali, Orlando non può andare. Se i colleghi pensano che in questi due anni Giovanni Falcone si sia venduto lo dicano adesso, vergogniamoci e voltiamo pagina. Ciao, Giovanni”.
Nel libro “Fuori l’Italia dal Sud”, edito un anno dopo la morte di Falcone, ne avevo dato a caldo la vera storia, che tuttora rimane l’unica:
Storia di Falcone
“La Direzione Nazionale Antimafia, o Superprocura, l’ha temuta prima ancora che nascesse la mafia, l'ha osteggiata con asprezza la magistratura. Naturalmente non per gli stessi motivi: quelli dei mafiosi sono spregevoli, quelli dei giudici nobili, poiché difendono l'autonomia della magistratura. Ma con un lato oscuro: non c’è serenità nella difesa dei giudici, attenzione alle ragioni degli altri o spirito dialettico, come si diceva prima del diluvio.
“A Giovanni Falcone, ideatore della Superprocura antimafia e candidato a crearla all’inizio del 1992, il Csm ha opposto Agostino Cordova, il procuratore capo di Palmi. È interessante mettere a raffronto le due esperienze. Non per fare un paragone tra due persone, cosa sempre odiosa. Ma per chiarire come mai contro la mafia sono inefficaci magistrati anche ottimi.
“Giovanni Falcone è il magistrato che con più costanza e successo è andato a segno contro Cosa Nostra negli anni Ottanta, in Sicilia e negli Stati Uniti, animando un gruppo di magistrati antimafia costituito alla procura di Palermo insieme con il consigliere istruttore Rocco Chinnici, assassinato nel 1983. I politici lo temevano ma molti magistrati non lo amavano. Vediamo come fu premiato, nel ritratto che ne fa un cronista non del tutto benevolo, Saverio Lodato, in “Potenti”: “Falcone, vale la pena ricordarlo, quando era a Palermo venne bruciato nella sua corsa alla direzione dell’ufficio istruzione da un Csm che gli preferì il consigliere istruttore Antonino Meli, venne bruciato nella sua legittima aspirazione a dirigere l’Alto commissariato contro la mafia da un Parlamento che gli preferì Domenico Sica, non fu eletto al Csm per una manciata di voti che gli venne meno dalla sua corrente, e alla fine si ritrovò posteggiato alla Procura di Palermo”.
“Falcone fu bocciato la prima volta dal Csm grazie anche al voto contrario di due membri del Consiglio che il magistrato riteneva, ha confidato a “Panorama” l’ex superiore di Falcone, Antonino Caponnetto, suoi amici fidati: Marcello Maddalena e Vincenzo Geraci - che insieme a lui aveva per primo interrogato Tommaso Buscetta. Prima del voto Falcone era stato colpito da una serie di lettere infamanti, provenienti da ambienti giudiziari e provvisoriamente attribuite a un fantomatico Corvo. “Andarono di notte a casa di Meli per convincerlo a presentare la domanda”, Antonino Caponnetto ha ancora raccontato all’“Espresso”. Perché da Meli? Perché aveva più anzianità di servizio. “Falcone”, insinua Lodato, “è sopravvissuto per miracolo a un agguato che ancora oggi resta avvolto nel mistero”.
“Bruciato è la parola giusta, perché, spiega il magistrato Nitto Palma, sostituto procuratore a Roma, a Marco Nese per il “Corriere della sera”, “Falcone nella magistratura aveva pochi amici. Non era benvoluto. Anzi. A ogni occasione cercavano di fargli lo sgambetto”. E lo spiega con un'altra vicenda, che Lodato trascura, le accuse di Leoluca Orlando a Falcone: “L’ex sindaco di Palermo va al Csm e accusa Falcone e i giudici palermitani di aver tenuto nei cassetti le carte sui politici mafiosi. Un’accusa gravissima. Bisognava fare chiarezza subito”. Invece il Csm ha lasciato languire la cosa per oltre otto mesi. “Nel frattempo”, dice Palma, “Falcone veniva sottoposto a una pesantissima campagna denigratoria e diffamatoria”.
“Ricorda “l’Unità” il giorno dopo l'assassinio di Falcone: “Quando il Csm lo convocò per difendersi parlò per ore”. L'accusa era stata presa sul serio. Questa la posizione difensiva di Falcone: “Faccio rilevare che tutti i fatti e le rivelazioni di cui si parla oggi (cioè i rapporti tra politici e mafiosi) sono emersi dalle mie indagini, non da inchieste fatte da altri e poi smontate da me”. Conclude “l’Unità”: “A palazzo dei Marescialli i componenti del Consiglio dissero che Falcone era stato molto convincente ma il procedimento che lo riguarda non è stato ancora formalmente archiviato”.
“L'attentato fallito, preparato con la dinamite, doveva aver luogo all'Addaura, un posto di mare, nel 1989, mentre Falcone vi intratteneva il procuratore di Lugano Carla Da Ponte e altri magistrati svizzeri.
“Il Csm, vale la pena ricordarlo, è l'organo di autogoverno dei magistrati. In fatto di sgarbi a Falcone non si è risparmiato: quando il giudice, impedito nella sua carriera a Palermo, assunse la direzione Affari Penali al ministero, gli negò la promozione indispensabile per occupare l'incarico, costringendo la Corte dei Conti a bloccare la nomina. Il Csm non nega mai le promozioni, per il noto principio del galleggiamento, per cui tutti i pari grado vengono fatti beneficiare degli avanzamenti, di titolo o di retribuzione, maturati dal singolo magistrato(omissis). E infatti Falcone ebbe poi l’incarico: importante era manifestare l’ostilità.
Storia di Cordova
“Il 26 febbraio 1992 il comitato Direttivi del Csm ha negato a Falcone la designazione al vertice della Superprocura antimafia, cui si riteneva candidato naturale, preferendogli Agostino Cordova. Contro Falcone hanno votato Franco Coccia, del Pds, e gli esponenti dei sindacati nei quali egli aveva militato, Gianfranco Viglietta di Magistratura Democratica e Alfonso Amatucci dei Verdi. Amatucci chiarì: “L'indipendenza politica di Cordova è comprovata per tabulas ed è più marcata che in Falcone”. Amatucci, giovane magistrato della prima sezione del Tribunale civile, era stato preferito a Falcone nel giugno 1990 alle elezioni per il Csm: “Nella capitale il mio lavoro era molto apprezzato dai colleghi”, ha poi dichiarato a Cristina Mariotti dell’“Espresso”.
“Agostino Cordova, un signore tanto riservato, fino a qualche tempo fa, quanto fantasioso nelle imputazioni, è dal 1987 procuratore capo della Repubblica a Palmi. Governa cioè il distretto a più alta concentrazione mafiosa del mondo, comprendente la stessa Palmi, Gioia Tauro, Rosarno, Taurianova, Oppido Mamertina e altre cittadine minori. Nel settembre del 1990 ha lamentato in una lettera a “Repubblica” che i giudici in Calabria sono ostaggi della mafia, essendo troppo pochi rispetto al numero dei mafiosi: “Nei 33 comuni del circondario ci sono 50 cosche”. In questi ultimi anni, effettivamente, non c’è ragazzo nel distretto che non provi la tentazione di prendere le armi e fare una sua cosca. Ci sono paesi dove non passa sera in cui non si facciano furti, non si brucino automobili o case, e non si spari, anche contro i carabinieri, le loro jeep e le loro caserme, per spregio, per intimidazione, per taglieggiamento.
“Del resto, dice filosoficamente il procuratore capo Cordova a Carlo Macrì del “Corriere della sera” a commento dell'assassinio di Falcone: “Resta fermo il concetto che la mafia vince se decide di vincere”. Di Taurianova, paese famoso per la testa mozzata al salumiere Giuseppe Grimaldi, Cordova aveva detto: “Nella plaga domina la criminalità”. L’assassinio Grimaldi era una vendetta trasversale. Avevano colpito il padre per le colpe commesse qualche mese prima dal figlio Vincenzo, ha spiegato Wladimiro Greco sul “Giorno”: “Tutti sanno che Vincenzo avrebbe fatto parte del commando che uccise il boss, ex consigliere comunale Dc, Giuseppe Zagari, mentre stava facendosi radere dal barbiere”. Tutti meno evidentemente la giustizia.
“Due azioni segnalano Cordova. La lettera a “Repubblica” seguiva a una brillante operazione nella quale i suoi uffici erano malgrado tutto riusciti a produrre, dopo un anno di indagini, e contro il parere del giudice per le indagini preliminari e della Corte di Cassazione, una ventina di capi d'accusa contro l'Enel, che intende costruire una centrale a Gioia Tauro: mancanza del nulloasta dei vigili del fuoco, inosservanza delle norme in materia di qualità dell'aria, distruzione o depauperamento delle bellezze naturali, avvelenamento dell’acqua e delle sostanze alimentari, distruzione di materie prime e di prodotti agricoli, diffusione delle malattie delle piante, inosservanza dei vincoli archeologici, crollo di costruzione, altri eventi calamitosi, turbativa d'asta, e alcuni reati in tema di concessioni edilizie. Un colpo maestro che bloccava la centrale stessa, invisa ai galantuomini della zona.
“All’alba del 3 dicembre 1991, giorno del grande sciopero dei magistrati contro Cossiga e contro la Superprocura antimafia, voluta dal ministro di Grazia a Giustizia Martelli, socialista, Cordova spazza via un colossale traffico di armi, droga e voti messo su a Rosarno dalla cosca mafiosa dei Pesce con i socialisti di tutta la Calabria, il capo della P2 Licio Gelli e imprecisate “alte sfere della Giustizia”, cioè del ministero. Ingenuità o sfrontatezza, il traffico era stato organizzato attraverso il telefono del ristorante di Rosarno, il Crystal. Finiscono dentro o sotto accusa, senza tanti rispetti, anche personaggi integerrimi e rispettati alla pari di Cordova. A due parlamentari socialisti viene contestato l'articolo 112, numero 2, del codice penale, che reca il titolo “promozione e direzione dell’attività criminosa”. I due, insomma, sono capimafia (rileggendo l’atto qualche tempo dopo, Cordova si fa prendere dal dubbio e dice a Sandro Acciari, dell’“Espresso”: “Un errore dattilografico” - ma l'accusa è ben specificata nelle richieste di autorizzazione a procedere inviate alle Camere).
“L’ora X scatta, spiega Pino Arlacchi su “Repubblica” il giorno dopo, a seguito di “un lavoro investigativo complesso, durato due anni, che ha coinvolto nove uffici giudiziari differenti e centinaia di magistrati inquirenti e funzionari di polizia”, e si è tradotto in 650 pagine di motivazioni. “Formalmente aderiamo alla protesta, siamo qua solo per esigenze di servizio”, dice Cordova ai giornalisti. E spiega: “Facciamo rilevare che quando ci sono organi di polizia che operano fattivamente e quando c’è collaborazione tra i magistrati, si possono ottenere risultati positivi anche senza superprocure e senza superprocuratori”. Subito dopo presenta la sua candidatura a Superprocuratore.
“È una candidatura a sorpresa. Ma Sandro Acciari rivela sull’“Espresso” che Cordova è in realtà il primo dei candidati, con un curriculum di prim’ordine: “Nel 1990 il procuratore Cordova ha aperto 23 procedimenti per associazione mafiosa, 14 per associazione a delinquere, 12 per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti”. Il 24 maggio, dopo l’assassinio di Falcone, Cordova precisa sempre all’“Espresso”, di non essere mai stato contrario alla Superprocura, ma solo ad alcuni suoi aspetti”.

A questo punto occorre precisare che nel prosieguo della sua carriera, silurato alla Procura nazionale antimafia (era solo un candidato di rottura, in quanto antisocialista) e poi promosso a capo della Procura di Napoli, il giudice Cordova si manifesterà per quello che era noto, un simpatizzante della destra. In particolare del Msi, ai cui convegni in Calabria la sua signora non mancava di segnalare la propria presenza. È un caso esemplare di quella convergenza sinistra-destra, di cui Pino Arlacchi è uno dei tanti, che con Cordova aveva costruito, prima di diventare parlamentare del Pci-Pds, il concetto di “mafia imprenditrice”. E che tanto peso avrà nella tenaglia di Mani Pulite, all’insegna dell’antipolitica, che ancora serra l’Italia. La storia di Giovanni Falcone così proseguiva:

“Falcone ha pagato l’appoggio del ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Martelli, (alla Superprocura anti-mafia), è stato detto, restando incastrato nello scontro fra lo stesso Guardasigilli e il Consiglio superiore della magistratura. L’ostilità del Csm nei confronti di Martelli certamente ha pesato. Dopo la morte di Falcone il ministro ha proposto la riapertura dei termini del concorso a superprocuratore, essendo venuto a mancare uno dei due candidati. Il Csm, che ha sempre riaperto i termini dei concorsi, per motivi anche futili, ha detto no. No ha detto perfino a una censura, richiesta dal ministro, a quel presidente della corte d'assise di Palermo che si era rifiutato di applicare retroattivamente, a carico di 22 boss importanti, tra essi Pietro Vernengo, un decreto governativo che allungava l’arresto cautelare nei casi di mafia - dopo aver applicato lo stesso decreto tre giorni prima contro un mafioso di mezza tacca, Salvatore Cucuzza.
“La bocciatura di Falcone è stata motivata dalla commissione Direttivi del Csm con la sua presunta scarsa indipendenza dal potere politico. Dopo il no del Csm, Il professor Alessandro Pizzorusso, membro del Consiglio per conto del Pds, è stato ancora più esplicito in un lungo articolo sull’“Unità”: Falcone vi è tratteggiato come “un collaboratore eminente del ministro” piuttosto che come ideatore della Superprocura. Il Csm è un organismo superpoliticizzato e le beghe tra Dc e Pds da una parte e Psi dall'altra non potevano non avere la loro parte.
Ma questo non è tutto, anche perché Falcone non era socialista, né Cordova è pedina di manovre politiche. D’altra parte un organismo d’impulso e coordinamento analogo alla Superprocura anti-mafia era stato teorizzato contro il terrorismo proprio da Magistratura Democratica, vicina al Pds, senza paventare il pericolo di centralizzazione e di subordinazione alla politica.
“In astratto si potrebbe ritenere che, fra le due anime della giustizia, è a quella impersonata da Agostino Cordova che va il consenso della stragrande maggioranza dei magistrati. Essi non vogliono un organismo di lotta attiva alla mafia. Dovendo in qualche modo realizzarlo, perché è una legge dello Stato, preferiscono una gestione impegnata sì, ma sul lato politico: i delitti di associazione, che colpiscono a morte questo o quel partito ma purtroppo non sono temuti dai mafiosi. Essendo la Dna un organismo nuovo, la personalità di chi la crea è molto importante, perché dà all'organismo la sua impronta.
“È già una spiegazione. Ancora dopo la morte di Falcone, il giudice Giuseppe Palombarini, di Magistratura Democratica, membro del Csm, ribadisce: “Era preferibile un candidato che presentava un maggior distacco critico rispetto alla Dna”. Lo stesso Falcone prospettava un problema di autonomia, parlando con Marcelle Padovani della Superprocura: “Esiste indubbiamente il problema del suo assoggettamento al potere politico”. Anche perché “un coordinamento fortemente centralizzato non può essere totalmente separato dagli altri poteri dello Stato”.
“Le soluzioni per un più efficace coordinamento tra esecutivo e giudiziario, senza pregiudizio per l'autonomia, non mancherebbero. Piero Calamandrei aveva suggerito alla Costituente un coordinamento attraverso la partecipazione, a titolo consultivo, di un procuratore generale della Cassazione alla sedute del governo che riguardano gli affari della giustizia. Il ministro Martelli ha proposto che le direttive alla Superprocura, e agli altri pubblici ministeri, fossero impartite periodicamente dal Parlamento.
“Del resto, sulla temuta soggezione politica della Superprocura, spiegherà Giuseppe Di Lello, magistrato di Palermo, amico di Falcone e suo avversario politico, che le cose erano già state chiarite: “Per Falcone doveva servire a tutelare il pubblico ministero; organizziamola noi, prima che ce la organizzino altri, diceva. Per altri, invece, la Superprocura serviva solo a mettere il Pm alle dipendenze dell'esecutivo. Rispetto al pericolo di strumentalizzazione delle sue convinzioni lui glissava: si sentiva più forte delle strumentalizzazioni”. Né si spiega con la politica la larghissima opposizione che Falcone ha sperimentato, da parte dei suoi colleghi filogovernativi prima, e da quelli d'opposizione nonché da buona parte di quelli governativi dopo.
“I contrasti politici e dottrinali sono solo una parte della vicenda - e malgrado i furori ancora la più nobile. Al fondo pesa il modo di essere dei magistrati, rigidamente conservatore. È stato il Csm a smantellare il pool antimafia di Palermo nel 1987. E nel 1988 processò pubblicamente Paolo Borsellino perché aveva criticato la decisione del 1987. La Superprocura in realtà i magistrati non la vogliono affatto. Anche dopo gli assassini di Falcone e Borsellino l’Associazione nazionale magistrati ha confermato con coerenza di volere una gestione anodina della Superprocura, che trascuri i poteri d’impulso e riduca possibilmente agli automatismi di una banca dati quelli di controllo - sempre in attesa che il Parlamento l'abolisca.
“Quanto a Cordova, è stato un altro Meli. Non sappiamo se sono “andati a trovarlo di notte”, come fece il Csm del 1987 con l'allora consigliere istruttore di Palermo. Ma dietro i riconoscimenti ammirati per il procuratore di Palmi, tanto ammirati da risultare bizzarri (di lui i suoi colleghi dicono solitamente: “È incorruttibile” - come se loro non lo fossero), molti membri del Consiglio hanno detto ripetutamente, in privato, di averlo sostenuto solo per boicottare la Superprocura.
“Che Agostino Cordova ci abbia creduto, costringendosi infine a chiedere al Csm il 22 settembre 1992, caduta la candidatura, l’estrema difesa della sua dignità, la dice tutta sul personaggio. Certo, è difficile pensare che ci possa essere una politica così turpe. Ma bisogna avere maturato una psicologia particolare, fortemente corporativa, per proporsi di dirigere un organismo che non si condivide, e per pensare di poterlo fare legittimamente muovendo guerra al governo eletto. Senza accorgersi che il Csm è l’organo più di tutti compromesso con i partiti, l’aspetto oggi meno accettabile della politica”.
In memoriam
La vicenda di Falcone non è tutta naturalmente nella sua morte. Ha un dopo e un prima. Le “condoglianze interessate”, come scrisse Mario Pirani, scattano subito. Appropriarsi del morto di marca, anche di quelli che abbiamo torturato in vita, è stata una tecnica gesuita. Non male, poiché nella religione si dà il ravvedimento purificatore in punto di morte. Talvolta i gesuiti trascesero: famoso è il caso del Leopardi, che due confratelli senza scrupoli dichiararono, qualche anno dopo la morte, convertito all’ultimissimo istante, anzi desideroso di entrare nell’ordine dei difensori del papa. Il togliattismo se n’è appropriato, da Malaparte a Pasolini, ma per una strana morbosità necrofila: non ha infatti il potere di rimettere i peccati, e non è certo che una politica diversa dalla togliattiana sia peccaminosa - tanto più che non si sa cosa il togliattismo, vecchio e nuovo, sia, scosso dal linguaggio doppio, e da abiure, revisioni, autocritiche.
C’è una pagina vera, oltre che spassosa, in “Potenti”, dove Lodato fa il ritratto dell’“avvocato”: “A Palermo l’avvocato è sacro, qualsiasi avvocato, civilista o penalista, anche l'ultimo azzeccagarbugli, ha diritto a essere chiamato l’Avvocato”. Non paga le multe, “entra ed esce dai posti di blocco con la velocità della luce”, ha sempre il posto prenotato al ristorante, i negozianti gli fanno ogni genere di sconto, viene prima del giudice o del professore d’università: “L’Avvocato appartiene ad un olimpo raro”. Si capisce.
Alfredo Galasso, avvocato a Palermo, ex membro Pci del Csm, poi deputato della Rete, con Michele Santoro e Giuliano Ferrara parla di Falcone al Maurizio Costanzo Show. “Mettiamo pure per ipotesi”, dice Giuliano, che ha scelto la compostezza, “che Falcone preparasse, come dicevano certi suoi colleghi del Csm e certi suoi ex amici della Rete, avversari della Superprocura, la subordinazione dei giudici al potere politico. È però certo che la mafia non la pensava così”. Santoro e Galasso fanno propri gli applausi al ricordo di quanto bravo e determinato fosse il giudice Falcone. Ma dicono che non ebbe il coraggio di denunciare Salvo Lima, anzi che si bloccò per non indagare i rapporti tra mafia e politica. Senza un fiore di compassione, l’avvocato e il conduttore si gonfiano come giganti nei confronti del morto. È l’effetto dell’irresponsabilità televisiva, il beato tribunale popolare che magnifica gli avvocati e la retorica. Ma perché passare un’insinuazione che tutti sanno, quindi forse anche Santoro e Galasso, essere falsa?
A Milano, alla commemorazione del giudice dopo i funerali, il Pubblico ministero Ilda Boccassini dice ai colleghi: “Voi avete fatto morire Falcone, con la vostra indifferenza, con le vostre critiche. Un conto è criticare la Superprocura, un conto è dire - come il Csm, i colleghi, gli intellettuali antimafia - che Falcone era un venduto al potere politico”. E ancora, sempre dal resoconto di Luca Fazzo di “Repubblica”: “Non potrò mai dimenticare quel giorno a Palermo, due mesi fa, quando a un’assemblea dell’Associazione magistrati le parole più gentili per Giovanni, sopratutto da sinistra, erano di essersi venduto al potere. Mario Almerighi disse: “Falcone è un nemico politico””. Boccassini, antipatizzante socialista nel processo per la Duomo Connection, da lei istruito e portato rapidamente a termine con condanne per tutti, si rivolge al ministro socialista della Giustizia: “Onorevole Martelli, non abbandoni i giudici che credono nella lotta alla mafia”.
I giudici milanesi non hanno applaudito. Anche perché, dice Boccassini, l’ambiente non era il meglio disposto malgrado il dolore di circostanza: “I colleghi che stamattina sono a Palermo, ai funerali ufficiali, fino all’altro ieri dicevano di diffidare di Giovanni. Gherardo Colombo, tu diffidavi di Falcone, perché sei andato ai funerali? L’ultima ingiustizia Giovanni l’ha subita proprio dai giudici di Milano. La rogatoria (sui conti cifrati in Svizzera) per lo scandalo delle tangenti gliel’hanno mandata senza gli allegati. Mi telefonò e mi disse: “Che amarezza, non si fidano del direttore generale degli Affari Penali!””.
Almerighi era il leader del raggruppamento Verdi-Movimento per la giustizia, l’ultima corrente sindacale dei magistrati, che ha avuto Giovanni Falcone a riverito promotore. Subito dopo la costituzione del raggruppamento il suo rappresentante nel Csm, Alfonso Amatucci, ha votato per Cordova contro Falcone alla Superprocura. Almerighi ha denunciato penalmente Ilda Boccassini: “Ho difeso la dignità di Falcone”, ha scritto nell'esposto.
È stato ucciso perché era solo, scrisse Marcelle Padovani sul “Nouvel Observateur” - giusto il precetto da Falcone a lei dettato in “Cose di casa nostra”, il libro ancora maestro in fatto di lotta alla mafia. Solo Falcone non è stato lasciato dall'opinione pubblica, e nemmeno dalla politica. Solo, anzi osteggiato con asprezza, Falcone era tra i magistrati, le loro associazioni sindacali, il Csm, e da una parte della politica, il Pci-Pds e Leoluca Orlando. Che si giustificavano con la terribile legge pintacudiana del sospetto.
Il seguito è più illuminante dei precedenti, malgrado Falcone fosse già stato dichiarato eroe nazionale - la malvagità ama esibirsi. Ancora nel 2004, la sentenza della Cassazione sul fallito attentato all’Addaura contro Falcone, benché greve di allarmanti ipotesi, ottiene sul “Corriere della sera” del 20 ottobre solo una breve: un “infame linciaggio”, proveniente anche da “ambienti istituzionali”, fu messo in atto contro Falcone per “delegittimarlo”. Da “imprudenti” anche e “autorevoli personaggi pubblici”, che hanno consentito ai “molteplici nemici del giudice d’inventare la tesi dell’attentato simulato”. Non si poteva dire quello che tutti sanno. Che il processo si era fatto perché il giudice Falcone fu sospettato di essersi inventato l’attentato per farsi pubblicità. Dal Pci, dai giudici Domenico Sica, capo dell’antimafia, e Franceso Misiani, allora del Pci, e dal colonnello dei carabinieri, poi generale, Mario Mori, che invece è di destra.
Da questo polverone sull’Addaura Falcone emerge isolato, e questo significa che si può colpirlo. L’isolamento è confermato dai fatti reali, dalle informazioni buonissime di cui Riina dispone su Falcone, che gli consentono l’attentato logisticamente così complesso e riuscito. La reazione confusa all’assassinio Falcone conferma ulteriormente Riina: colpire Borsellino. L’attenzione è stata spostata dal grande processo di mafia alla politica. È solo dopo alcuni anni, dopo l’arresto e le prime condanne, che Riina accusa “i comunisti” – lasciato libero di farlo dai giudici di Reggio Calabria. La prima segnalazione che un attentato si preparava contro di lui Falcone l’aveva avuta dal giudice Favi, ora procuratore generale facente funzioni a Catanzaro, quello che ha avocato l’inchiesta di De Magistris. Su indicazione di un detenuto. Allora sostituto a Siracusa, Favi aveva combinato un incontro in segreto con Falcone a Caltanissetta.
“Che l’attentato alla verità sia un ingranaggio, che ogni menzogna ne trascini con sé, quasi necessariamente, molte altre, chiamate a darsi, almeno in apparenza, scambievole appoggio, l’esperienza della vita lo insegna e quella della storia lo conferma”, Marc Bloch l’ha già scritto al cap. terzo dell’“Apologia della storia”: “Ecco perché tanti celebri falsi si presentano a grappoli… La frode, per sua natura, genera la frode”. Non è facile, “inventare presuppone uno sforzo dal quale rifugge la pigrizia mentale comune alla maggioranza degli uomini”. E allora ecco l’invenzione opportunista: l’interpolazione, la connessione, il ricamo.
A Palermo il gesuita scienziato politico Ennio Pintacuda celebrò i funerali dicendo che la morte di Falcone era opera dell’Antistato. La stessa cosa aveva detto per Salvo Lima. Pina Grassi, deputato Verde, disse invece che era stata strage di Stato, perché, riferì il “Giornale”, “l’agguato è stato teso in una zona vicina a una base Nato strettamente sorvegliata dai militari”. Alla commemorazione dopo il funerale Claudio Martelli disse ai magistrati a Palermo: “Le amarezze più sofferte gliele hanno inflitte quei suoi colleghi che lo hanno talvolta legittimamente criticato e talvolta calunniato”. E aggiunse che Falcone voleva querelarsi. I magistrati abbandonarono in massa la cerimonia, offesi.
Sempre a Palermo, prima ancora dei funerali, due giorni dopo la strage, il grillo parlante Galloni aveva difeso la correttezza del Csm nel preferire il procuratore di Palmi Agostino Cordova a Giovanni Falcone come capo della Superprocura antimafia. Aggiungendo che il Consiglio deve difendere l’indipendenza dei giudici. “Implicitamente”, notò Liana Milella sul “Sole-24 Ore”, “conferma le accuse di scarsa indipendenza fatte a Falcone. Non solo: nega che per la sua esperienza della mafia il magistrato rappresentasse un unicum”. Ma un merito a Galloni va riconosciuto: ha imparato la coerenza. Sei mesi prima aveva negato di avere detto in tv contro Cossiga le cose che tutti avevano sentito. Su Falcone invece tenne duro.
A Palermo naturalmente è sempre un’altra storia, nella quale tanto più rifulge l’eccezionalità di Falcone. Per primo Leoluca Orlando aveva messo Falcone nello stesso conto con Lima, pupi politici nelle mani della mafia, per conto del Psi il giudice, l'altro per conto della Dc. A Rosanna Lampugnani che per “l’Unità” gli poneva trepida il quesito se l’“errore fatale” di Falcone non fosse stato lo scarso impegno nella lotta contro la mafia politica, Orlando rispose: “Falcone non sarebbe stato ucciso se il Psi avesse preso il Quirinale. Se fosse stato eletto Vassalli presidente della Repubblica è molto probabile che Falcone non sarebbe morto. Il suo è un omicidio che arriva alla fine di un regime e assume una valenza enorme”. A Marcello Sorgi che gliene chiese conto per “La Stampa” il giorno dopo precisò: “Craxi doveva approdare ai vertici dello Stato per garantire l'impunità a tutta una parte del Paese che in questo momento, davanti a una crisi di regime, ha molto da temere: penso all’Italia mafiosa di Palermo, Napoli o della Calabria; a quella corrotta di Milano e Roma... Quando s’è capito che Craxi e Vassalli non sarebbero arrivati al Quirinale, è partito il contraccolpo”. E a “Stern”, il settimanale tedesco, annunciò: “Se si potesse perseguire penalmente il capo dei socialisti Craxi, allora in questo paese da un giorno all'altro si aprirebbero meravigliosi spazi di libertà”.
Orlando era reduce da un tentativo sfortunato di mettersi a capo della Dc. Non c’era stata invece una candidatura socialista alle presidenziali del 1992, Vassalli e Craxi erano nomi di bandiera nelle prime inconcludenti votazioni. Ma non si può dire che Orlando non fosse, e non sia, la Palermo che conta, e che ogni anno celebra ora la festa di Falcone.

martedì 11 maggio 2010

Non piacciono a Maroni le informative

Chi tradisce, gli investigatori o i giudici? Il ministro dell’Interno Maroni lo sa, ma non lo dice, e forse novità sono da attendersi negli alti gradi delle forze dell’ordine. L’utilizzo disinvolto di una serie di informative investigative (note di servizio, informative dei Ros, informative della Dia, informative dell'ex Ufficio I della Guardia di Finanza) ha indotto in un primo momento il governo a dubitare delle Procure fiorentina e perugina, nel quadro della sua guerra con le toghe. Ma l’uscita di bugie di breve portata negli ultimi dieci giorni, in direzione di alcuni cronisti di alcuni giornali, ha portato a dubitare che non esista un mercato delle informative. Delle notizia di reato che i carabinieri collazionano prima ancora di qualsiasi verifica. E che escono dosate, mediamente ogni due-tre giorni per creare scandalo, dalla terza settimana dopo il trionfo elettorale della destra. Senza essere agli atti di procedimenti giudiziari.
Il caso di maggior rilievo è l’informativa dei Ros, pubblicata con grande evidenza, che Bondi ha assegnato la direzione dei lavori di ristrutturazione agli Uffizi a un parrucchiere siciliano. Che ha un fratello legato alla mafia. Mentre nulla era vero: Bondi non ha assegnato l’incarico, il siciliano che ha avuto l’incarico (non da Bondi), l’ha rifiutato, è un ingegnere e non un parrucchiere, e suo fratello è un architetto che non ha nessuna ditta. I primi dubbi sulla fonte di queste indiscrezioni erano stati sollevati dalle intercettazioni molto selettive diffuse da Firenze su Bertolaso. E dalla contemporanea diversione dell’attenzione sullo scandalo di Castello nella stessa Firenze, dalla giunta Domenici a Verdini, il coordinatore del Pdl, e al suo amico Riccardo Fusi – che invece nello scandalo ha avuto già ragione, sia in tribunale che in appello.
C'è insomma un mercato illegale di queste informative? La diffusione proditoria delle informative infondate potrebbe rientrare nelle guerre burocratiche. Resta da accertare soprattutto se la manina è una, o se sono più di una. La manina unica porta a Gianni De Gennaro, che non ha buona fama nel partito di Berlusconi - Lino Jannuzzi ne scrive cose atroci: lo fa l’organizzatore dei soliti “venticinque pentiti”, non uno di più non uno di meno, che sempre si ritrovano ad accusare l’obiettivo nel mirino, da Mancini a Andreotti e Contrada. Ma l'ipotesi cozza contro la fiducia che la Lega ha sempre avuto nel superprefetto calabrese. La strada è ora aperta per la nomina a comandante dei carabinieri di un ufficiale della stessa arma, e anche questo turba alcuni equilibri. Maroni ha però chiesto una relazione dettagliata sui fatti.

Ombre - 49

Grande rilievo del “Corriere della sera” all’informativa dei Ros, o della Procura di Firenze, che Bondi ha assegnato la direzione dei lavori agli Uffizi a un parrucchiere siciliano. Legato alla mafia, tramite un fratello, titolare di un’impresa mafiosa. Poi nulla risulta vero. Bondi non ha assegnato l’incarico. C’è un siciliano che ha avuto l’incarico, ma non da Bondi. È un ingegnere e non un parrucchiere. E lo ha rifiutato, non ritenendosi all’altezza. L’ingegnere ha effettivamente un fratello architetto ad Agrigento. Che però non ha nessuna ditta e, dice, “aborro la mafia, la sola parola mi fa paura”. Ma il “Corriere della sera” non si scusa.

"Il Sole 24 Ore" dà l'elenco dei soci delle agenzie americane di rating, Moody's e Standard & Poor's: sono i maggiori investitori, i fondi che fanno il mercato. Situazione certo non ignota in America. Ma senza scandalo. In effetti non c'è bisogno di un atto violento, non è da pensare che Mooy's o S&P's attacchino un titolo o uno Stato per servire i padroni. Né che scambino con loro informazioni riservate. Basta che i loro report, anche quelli buoni, al momento della pubblicazione, passino per primo nelle mani dei soci.

"Ho fatto l'obiettore di coscienza e sono inviato di guerra, dice di sé Andrea Nicastro su "Io Donna". Non per celia.

Fini promuove una fazione politica, con dichiarata ricerca di scandalo, ma si vuole anche presidente della Camera equanime. E anzi più onesto dei suoi avversari politici, anzi no, addirittura "uomo delle istituzioni". E non scherza nemmeno lui.

“Successo mediatico” per Clegg, bocciatura degli elettori: i commentatori italiani non si raccapezzano. È che Clegg era votato dal “Guardian” e l’“Observer”, da sempre col suo partito. Ma nei giornali italiani qualsiasi cosa dicano i giornali inglesi è vangelo. È la scoperta dell’Inghilterra? È obbedienza laica’

C’era l’omofilia vaticana nello scandalo della Protezione Civile. C’è ora il papa, nella persona del suo cerimoniere, l’ex segretario del vescovo “rosso” di Roma, il cardinale Poletti. Manca ancora l’anello: il papa omofilo – meglio sarebbe pedofilo.
Del cerimoniere-segretario si era già occupato il nobilissimo giudice napoletano Woodcock, lui sicuramente ha una traccia.

Lo storico Hobsbawm dice al “Corriere della sera”. “I laburisti pagano le scelte neoliberiste”. Che invece gli hanno consentito di governare tre legislature, dopo un’eclisse di quasi trent’anni. Incredibile storico monocolo, che sempre sbaglia ciò di cui si occupa, il comunismo, il secolo breve, la mafia, e sempre viene riproposto quale autorità – morale? cominformista?

Fini è invitato a tenere una “lectio magistralis” alla facoltà di giornalismo all’università dell’Insubria. E, “da giornalista”, raccomanda ai giovani quello che raccomandava Togliatti, scrive l’Ansa: “Scrivete poco, se non vi viene male ai piedi”.
Dunque. Il Migliore parlava così. Fini è giornalista. L’università dell’Insubria, che sarebbe Varese, capitale di Bossi, ha una facoltà di giornalismo. E invita come massimo esperto Fini, il nemico di Bossi.

Pagine e pagine dedicate alla furbizia, la strafottenza, la fortuna di Mourinho, l’allenatore di calcio più pagato al mondo. Che ha portato alla finale di Champions l’Inter, la squadra di calcio più pagata al mondo, e più indebitata in Italia. E ha ribattuto con disprezzo, verso Milano e verso il calcio italiano, alle paginate adulatorie. Fra le tante furbate di questo Specialone una senz’altro è apprezzabile: ha capito che a Milano bisogna dirsi migliore di tutti. Milano è città femmina, si sarebbe detto una volta, ha bisogno di farsi ingravidare.

Il direttore del Ravello Festival, Stefano Valanzuolo, ha commissionato a Veltroni un poema epico sui morti dello stadio Heysel venticinque anni fa. Che sarà musicato da musicista per ora ignoto. E sarà rappresentato a Ravello, nell’auditorium che ha deturpato quel paradiso terrestre, l’8 luglio. Voce recitante Daniele Formica. Einaudi pubblica il poema in volume. Il “Corriere della sera” lo anticipa nel suo rotocalco “Sette”. Il culto del capo si sposa col mercato?

Camminando sulla spiaggia in via di distruzione a Castelporziano si vedono tette al vento solo donne in età, sui cinquanta e oltre. Non una ragazza sotto i trenta ne è tentata. Di quelle che, quando si vestono, lasciano scoperto il sedere. C’è una liberazione per ogni età? O una del davanti e una del didietro?

“Dalla Procura nuove accuse a Moggi”, titola a tutta pagina mercoledì 28 il “Corriere della sera”: “Raccolte dichiarazioni e documenti definiti importanti dal pm”. Le concordanze lasciano a desiderare ma il senso è chiarissimo. Poi i pm ci devono avere ripensato, perché non hanno raccolto niente, ma questa è l’informazione, il detto del non fatto.

lunedì 10 maggio 2010

Bazoli non cerca più soci, né capitali

Tutti i dubbi sulla possibilità che Intesa dovesse ricorrere a nuovi capitali si ritengono fugati dalla conclusione della vicenda nomine, con la sterilizzazione del socio di maggioranza relativa di Torino, la Compagnia San Paolo. A differenza da Unicredit, Intesa non sarebbe ricorsa all’aumento di capitale per migliorare i ratios di sostenibilità, non ne ha bisogno, ma per diluire la proprietà con nuovi soci ed evitare ogni insidia torinese. Con Beltratti e Elsa Fornero, ora Bazoli è sicuro di non avere inciampi per un perodo abbastanza lungo.
Non c'è un vera insidia torinese, non c'è mai stata, solo il tentativo di far pesare in Banca Intesa il proprio pacchetto. Ma Bazoli ritiene che se si apre la questione del contare di più non si può predirne l'esito. Il rapporto con la Fiat post-Agnelli si era chiuso con una spartizione: Intesa usciva dal gruppo, la Fiat sterilizzava le sue posizoni a Milano, in Mediobanca e Rcs, pour mantenendovi uomini di rappresentanza. Un accordo confermato nell’ultimo giro di poltrone: Elkann si è presa la presidenza di Fiat, ma ha lasciato Montezemolo di rappresentanza a Milano, che ora rappresenta solo se stesso.
La soluzione Beltratti è benvenuta anche perché in questa fase dei mercati sarebbe stato difficile al pur imbattibile Bazoli giustificare come un investimento l’afflusso di nuovi capitali e nuovi soci. Il banchiere bresciano è sempre attento a far passare le sue operazioni di potere come operazioni di mercato e di buona amministrazione.

Torino si dissolve in Banca Intesa

Un fighetta” e niente più, un uomo di rappresentanza: un po’ se ne ride a Milano, della nomina di Andrea Beltratti al vertice del consiglio di gestione di Intesa San Paolo, per conto del socio torinese, la Compagnia San paolo. Ma non c’erano dubbi sul’esito della vicenda: che la torinesità sarebbe stata rappresentata a Milano da un uomo di paglia, seppure di bella presenza. Un bocconiano, seppure torinese di origine, fatto patrocinare da Elsa Fornero, la professoressa torinese che ha preso gusto a stare nel consiglio della Compagnia San Paolo e in quello di Intesa - Milano ha le sue attrattive, il sole Bazoli è irresistibile.
Nessuno dubitava dell’esito perché Giovanni Bazoli in venticinque anni da re della banca non ha mai fallito un colpo. La partita non sembrava così semplice come poi è stata, e questa è l’unica sorpresa. Il fatto che il consiglio della torinese Compagnia San Paolo si fosse fatto imporre da Bazoli un candidato alternativo a Domenico Siniscalco, inizialmente indicato, mostrava già che Torino era in difficoltà. La conclusione della vicenda mostra che non conta più nulla.
La Compagnia San Paolo è sempre il socio di maggior rilievo di Intesa San Paolo ma non ha alcun peso nel gruppo. I soci torinesi ne avevano attribuito la colpa a Enrico Salza, l’ex presidente del Banco San Paolo artefice della fusione con Intesa (“troppo anziano”, “troppo legato alla fusione”). Avevano indicato nell’ex ministro dell’Economia Siniscalco il loro nuovo rappresentante. La cosa non è piaciuta a Bazoli. Non tanto per la persona di Siniscalco quanto perché la candidatura veniva avanzata con propositi revanscisti. Ha fatto sbarramento, usando la Fornero dentro la Compagnia San Paolo, ha chiesto un candidato alternativo, ha mobilitato i giornali del suo gruppo, l’ex Rizzoli Corriere della sera, contro le intromettente della politica nella banca, ha fatto proporre alla Fornero Beltratti, e l’ha ottenuto.

Prova di forza del comitato affari a Firenze

Sono perplessi anche i giornali fiorentini, compresa “la Repubblica”, sulla nuova ondata di indiscrezioni con cui la Procura fiorentina inonda i giornali. Pescando tra le innumerevoli informative dei carabinieri quelle che servono ad allontanare lo scandalo Castello. Per prima l’occupazione di Bondi, con la mafia, della ristrutturazione degli Uffizi. Oggi le consulenze tecniche per i lavoro alla scuola dei Marescialli a Una storiaccia, di cui in città tutti sanno tutto, che assume contorni inquietanti nel modo come la Procura, o i Ros dei Carabinieri, la stanno gestendo. Come in subordine al comitato d'affari che regge Firenze.
Castello è l’area del comune di Firenze che i Della Valla e la Sai puntano a “sviluppare”, cioè a fabbricare. Un progetto portato avanti dagli imprenditori con la giunta del diessino Domenici. Con procedure che avevano costretto la stessa Procura ad aprire un’indagine. E il successore di Domenici, il giovane outsider cattolico Renzi, a sospendere il progetto.
Su questo progetto si gioca ora tutta la politica fiorentina. Renzi si è preso tempo per decidere. I Della Valle puntano i piedi minacciando, ogni paio di mesi, di abbandonare la Fiorentina, la squadra di calcio che hanno ripreso dal fallimento e hanno rilanciato. Nelle more, la Procura ha abbandonato le vecchia indagine per concentrarsi prima sul G 8 della Maddalena e dell’Aquila, contro Bertolaso. Ora, svanita quella pista, sulla mafia agli Uffizi e sulla scuola dei Marescialli che è l’unico progetto partito, concentrando l’attenzione su Bondi e Verdini.
Adesso il momento è favorevole ai Della Valle e a Ligresti. Fiduciosi nuovamente che il progetto ripartirà, anzi verrà sbloccato entro luglio. Il sindaco Renzi non ne è convinto. Ma la prova di forza della Procura è un conferma indiretta della fiducia esibita dagli immobiliaristi.E ciò può forse spiegarsi con quello che non viene detto dai giornali, non dai giornali nazionali, forse per antiberlusconismo. La scuola dei marescialli era stata assegnata, dal comitato d’affari che governa Firenze, alla destra. L’appalto era stato poi bloccato nelle more dello scandalo Castello, la prima fase dello scandalo, che vedeva sotto inchiesta la giunta Domenici. L’impresa di Riccardo Fusi, l’amico di Verdini, aveva ottenuto in Tribunale la condanna dello Stato per il blocco dell’appalto. Dal Tribunale di Firenze. Giudizio che la Corte d’Appello, sempre di Firenze, ha ora confermato: lo Sato dovrà pagare una penale di 28 milioni - Fusi ha fatto l’affare senza lavorare. Si spiega così, seppure in maniera contorta, l’accanimento della Procura contro Fusi-Verdini: convincere Renzi che il comitato d’affari che regge Firenze è inscalfibile, può fare il bello e il cattivo tempo.