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sabato 24 dicembre 2011

Non sarà l’Andreotti octies?

Sembra pura Seconda Repubblica. Se alla fine anche il fine politico Napolitano ha ceduto al linguaggio berlusconiano: “C’era un bisogno di recupero dell’orgoglio nazionale”, gli fa dire il “Corriere della sera” in prima pagina, “in reazione a stati d’animo di disagio, d’incertezza e anche di frustrazione. Si avvertiva che il Paese aveva perduto terreno, aveva visto offuscarsi la propria immagine, il proprio prestigio, la propria dignità… e la gente ha reagito”. Il presidente precipitando anzi nel puro Santoro. Ma è un falso, Napolitano evita con cura, nel testo suo vero, la ‘ggente. È solo vittima di un tranello da seconda Repubblica. Perché lui ci ha riportati nella Prima Repubblica. Purtroppo non nella migliore.
I riti sono quelli. All’improvviso è di nuovo l’Italia come piace a Casini, delle verifiche, le formule, i piani e i pacchetti, all’insegna dell’iperpolitica sottopolitica. Dove può incontrarsi, è un delirio, un deliquio, con Alfano e Bersani e con Monti, ogni giorno a ogni ora del giorno. Non a Montecitorio e nemmeno a palazzo Chigi. È l’inciucio, si dice, che qualcuno vuole la passione costante della politica italiana. No, è una forma di democrazia, la discussione perenne delle cose. Ma in una forma antidemocratica, fra tre “leader” che in teoria sono o si dicono concorrenti e nemici, e invece si riuniscono sempre e in segreto, e se gli capita negano di essersi incontrati. Andreotti, per dire l’ultimo politico della prima Repubblica, era molto più diretto.
Anche i consigli dei ministri di questo nuovissimo, tecnico, ambrosiano governo Monti sembrano l’Andreotti octies. Non fosse che Monti non ha la fama luciferina di Andreotti, lo si penserebbe uno di quei governi di fine regime, 1990-92, quando il divo Giulio preparava l’ascesa al Quirinale - fallita la quale ci fu il muoia Sansone con tutti i filistei, dei democristiani che non avevano marciato, dei socialisti e dei laici. C’è chi si litiga i fondi della cooperazione allo sviluppo, la favolosa dote di potere e denaro che Marco Panella venticinque anni costituì in capo al ministero degli Esteri. E chi si litiga le deleghe in materia di pensioni – che sembrerebbe un argomento spinoso ma evidentemente è anch’esso un business. Cirino Pomicino è stato patrono entusiasta di Monti, e ora si capisce perché.

Il conservatore Jünger è molto progressista

È il catalogo della mostra fotografica “La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger”, nel 2007 a Brera. Jünger, che attorno al 1930 curò ben cinque volumi fotografici, vi contribuisce con un breve saggio sul “nuovo primitivismo” della civiltà delle immagini, e sulla sua violenza “tecnica”, connaturata al mezzo. Nel quadro del suo tema più noto, la non verginità del mezzo: “La tecnica possiede il senso di un mezzo esistenziale in confronto al quale la differenza delle opinioni non ha che un ruolo subordinato”. È il primo ripensamento del linguaggio delle immagini, che sarebbe stato successivamente fertile, tra gli altri con Benjamin, Barthes, Sontag – la quale spesso cita Jünger. Sulla traccia jüngeriana per eccellenza della modernità egualizzatrice (uniformante), per i singoli e per la società. “La vita moderna produce imagini caratterizzate da una sempre maggiore geometria… Una disciplina automatica cui sono sottoposti sia l’essere umano che i suoi strumenti”. Il volume che Jünger progettò con Schultz materializza in un paio di centinaia di fotografie (qui riprodotte nell’edizione originale e, con volume a parte, con note esplicative aggiunte alle didascalie tradotte) i due concetti. Il titolo di una delle sezioni, “La guerra non ha creato un ordine del mondo”, dà il senso del volume, con una connotazione più scopertamente politica. Nel conservatore Jünger tutto è politica – anche la sua personale passione di entomologo. Il potenziale imperialistico delle immagini non sarà che confermato dalla storia successiva, dalla riproducibilità e trasmissibilità degli eventi. Anche dalla loro manipolazione, sia pure solamente estetica, il “socialismo” di Rodčenko, la “guerra bella” di Capa. Per la capacità di diffusione, e quindi di omologazione delle diverse alterità, culturali, religiose, politiche, etniche. Curiosamente, è l’immagine di Jünger che più esce mutata da questo volume: i temi scelti delle fotografie, le didascalie, i sottotitoli e i titoli di sezione sono tutti invariabilmente sociali e libertari. Tutto quello che non ci si aspetterebbe da un conservatore, seppure rivoluzionario, quale Jünger è inteso e si vuole. Una sorpresa che conferma come il “discorso rivoluzionario” non possa essere verbale ma solo fattuale, nelle cose. Che il conservatorismo, purché avvertito, conscio dei suoi limiti, può svolgere in maniera più vera, se non più produttiva, del radicalismo. Il saggio specialmente illuminante di Maurizio Guerri, che ha curato la mostra e chiude questi volumi, rimette al centro - dell’opera di Jünger, ma lo è anche dell’epoca – il concetto di “mobilitazione totale”, che ha preceduto “l’operaio” e lo ricomprende. Guerri si chiede se l’ossessione contemporanea della security non sia fomite essa stessa di disordine. E la spiegazione trova ottant’anni prima in Jünger: “Siamo davvero insidiati dall’esterno?”, si chiede, e si risponde no, Jünger, che si è posto la questione negli anni attorno al 1930, ha intravisto un mondo mutato in forza della Mobilitazione totale, messa in atto nella Grande Guerra e non più dismessa. Un mondo, sintetizza Guerri, “fatto di normalità violenta in guerra e di violenza normalizzata in pace”. Una sintesi perfetta, quasi uno slogan, del Novecento. In particolare, “alla caduta del confine tra pace e guerra, pubblico e privato, ordine e pericolo connessa alla Mobilitazione totale, Jünger fa corrispondere un processo di visibilizzazione totale”. Una corrispondenza biunivoca. Nel quarto dei cinque libri fotografici che curò, “L’attimo pericoloso”, ricorda Guerri, Jünger dice “evidente” che il pericolo è e appare “un’altra faccia del nostro ordine”. Il “mondo mutato” è non in meglio. E tuttavia l’intuizione jüngeriana della diabolicità del mezzo è più che suggestiva. Nel suo breve testo Jünger esemplifica lquesta conclusione con “La corazzata Potëmkin” e, con qualche riserva per le alcune parti “sterili” del film, “Metropolis” . Posteriormente avrebbe trovato lo stesso linguaggio violento (manipolativo, impositivo) in “Arancia meccanica”, in “Odissea “2001”. Ma non ci sono romanzi o racconti altrettanto evocativi delle tre epoche o mondi. Anche storici, storicamente “esatti”. L’immagine che crea il mondo resta ipotesi dubbia. Ma se Jünger avesse pubblicato libri illustrati dopo il 1933 forse avrebbe trovati altri esempi: quanta Leni Riefenstahl è Hitler, e quanto Hitler è Riefenstahl - i cui film non a caso restano interdetti? 
Ernst Jünger, Edmund Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, a cura di Maurizio Guerri, Remainders, 2 voll., pp 80 + 194 € 14,50

Balzac italianista in “Sarrasine”

Un “italianismo” dimenticato, negli ambienti e soprattutto nella psicologia di Zambinella, il castrato cui è impossibile amare, che è il vero protagonista del racconto. Un aspetto, forse il solo, che Roland Barthes non ha esaminato in “S\Z”, il suo testo più analitico, tutto centrato su questo racconto. Come in Stendhal, le “passioni energiche” vogliono semrpe “incantevoli donne del Sud”. Gli artisti si divertono e divertono con “arie calabresi e canzoni napoletane”. C’è ancora, antonomastica, la “testa genovese”, che si diceva di “un uomo sulla cui vita poggiano enormi capitali”, il banchiere d’affari, il venture capitalist.
Dei cinque codici costruttivi e interpretativi del racconto, che Barthes ha elaborato su “Sarrasine”, il quinto, quello genericamente “culturale” (filosofico, scientifico) è italiano. Con riferimenti inconsueti per Balzac, ai pittori (Vien, Girodet), agli scultori (Bouchardon, “Sarrasine”), alla musica (Jommelli et al.). Un italianismo che la traduttrice sembra osteggiare, in un paio di punti rilevando, erroneamente, errori di Balzac (il teatro Argentina, p. 35, fu inaugurato nel 1732 e non nel 1792, il “conte” Sangermano non è “un misterioso personaggio”, è centrale nel secondo Settecento, che fu anche teosofista).
Honoré de Balzac, Sarrasine, Il Sole 24 Ore, pp. 63 € 0,50

La morsa del buongoverno

I conti sembrano infiniti per il reddito fisso (salariati, pensionati, pensionandi) e per il piccolo commercio della manovra Monti. Almeno due milioni di persone rimangono senza lavoro e senza pensione, per un periodo che va da tre a otto anni, per effeto della riforma Fornero. Con la rivalutazione delle rendite catastali del 60 per cento l’Imu sarà pesantissima. Anche per le prime case – la detrazione raddoppiata non compensa l’incremento di valore cartolare. Si paga subito l’aumento dell’Irpef e il caro energia (benzina, gas, elettricità). Il conto deposito in banca si è già pagato.
L’opinione favorevole che circonda Monti, dei grandi media padronali, a partire dalla Rai, ha messo in soggezione il larghissimo ceto medio. Che peraltro tradizionalmente ha poca voce. Ma non è sfuggito a nessuno che la rivalutazione delle rendite è stata particolarmente feroce, del 60 per cento appunto, per le abitazioni. Non per gli altri immobili. E che si è attuato un prelievo forzoso sproporzionato sui pensionandi, con rincari abnormi, illegali in uno stato di diritto, per le ricongiunzioni.
I conti non tornano: il rigore c’è tutto, quello sì. Senza contare l’inflazione, che, come si sa, questa Ue ha sterilizzato – basta non rilevarla.
Lo stesso per i bottegai. L’apertura libera dei negozi in tutti i Comuni costringerà alla chiusura moltissimi, tutti quelli “marginali”, con margini di guadagno cioè marginali, che non consentono di pagare un collaboratore. Mentre a Roma un giornalaio che cinque anni fa è stato obbligato da Veltroni, per il “decoro urbano”, a comprarsi un chiosco d’architetto da 80, 100, 150 mila euro, col mutuo, magari per lasciare un investimento in famiglia, ora si ritrova a dover pagare il mutuo, mentre il giornale si vende liberamente agli incroci, senza decoro.

venerdì 23 dicembre 2011

La questione morale è la questione morale

Prima della grande Guerra ci fu in Europa un’ondata di moralismo: la prima preoccupazione dei governi e dell’opinione pubblica erano le “pubblicazioni oscene”. Quelle che “fanno male ai bambini”. E quelle che vanno contro la morale corrente – s’intendeva il malthusianesimo, o controllo delle nascite. Come oggi, seppure con altre parole, politicamente corrette. Era un’epoca, anche allora (c’è un ciclo secolare in queste cose?) di affari facili e corretta virtù – c’erano anche allora i tribunali internazionali, anche allora in Olanda, e le guerre umanitarie o per la pace.
Si ripubblica “Il mito virtuista” dopo un secolo, su iniziativa e con introduzione di Franco Debenedetti, per un motivo: l’analogia. Pareto è il solito liberale disilluso che censisce macerie. Trovandosi peraltro isolato anche dalla sponda riformista, allora socialista: i socialisti sono andati al potere, argomenta al cap. IV, ci stanno bene, concedono come gli imperatori romani un donativum alle truppe che li hanno portati al potere (un piccolo aumento di salario, una piccola riduzione d’orario), remunerano riccamente le rendite, e proteggono la società con la pratica biblica del capro espiatorio, il proibizionismo: proibiscono la pornografia, fino a Boccaccio e i padri della chiesa inclusi, e l’alcool. “La tendenza alla dissoluzione della famiglia, che i fedeli del progresso considerano un’istituzione reazionaria” e “la diminuzione dei sentimenti d’autorità, militari, patriottici e simili”, aiutano. Ci sono scuole, s’indigna Pareto, dove gli alunni scioperano – è vero che sono ragazzi di 18 e 20 anni.
Rodotà è a pagina 46 dell’intervista di Berlinguer nel 1981: “La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concessori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi…”. Stefano Rodotà raccoglie alcuni scritti sulla corruzione come “malattia morale”. Tema anche questo di antica trattazione nella pubblicistica italiana. La corruzione non è tanto materia di Carabinieri, sostiene, quanto di “liberazione delle istituzioni” dal sottogoverno. Rodotà è sempre bene intenzionato, e uno non sta a rimproveragli il passato di Garante della privacy, la più inutile delle inutili , costosissime (benché incongruamente esenti dalle caste di cui alla campagna omonima) Autorità che in teoria proteggono i cittadini che le mantengono . Ma bisogna ricordarlo: i fatti sono migliori delle migliori intenzioni.
Di Berlinguer si ripubblica l’intervista con Scalfari uscita su “Repubblica” il 28 luglio 1981, alla vigilia delle vacanze. Liberamente composta da Scalfari dopo lunga consuetudine col leader del Pci, e rivista da Tonino Tatò, il segretario di Berlinguer, se ne fa qui il testo “storico” della diversità, o della questione morale, che Berlinguer avrebbe messo al centro della sua politica nei restanti tre anni di vita. “I partiti hanno occupato lo Stato”, ribadisce Berlinguer. E cita espressamente enti locali, enti di previdenza, enti economici, università, ospedali, Rai e giornali. Ma poi tutti gli italiani, insiste, sono infeudati: “Hanno ricevuto vantaggi (dai partiti, n.d.r.), o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più”. Ma questo era – ed è, chiunque abbia un minimo di pratica politica o sindacale lo sa – più vero del suo partito. Che Berlinguer alla fine incolpa di “verticismo, burocratismo, opportunismo”. Berlinguer non dice - Scalfari non gli fa dire - che la questione morale se l’è inventata dopo aver perseguitato Moro e Leone, al laccio di Andreotti. E aver perso le successive elezioni, sempre al laccio di Andreotti, per la prima volta nella storia del Partito. Un segretario ancora al comando (la sua opposizione erano Napolitano, Chiaromonte…) ma frastornato s’inventava il “popolo diverso” - Mussolini non avrebbe osato tanto.
La questione morale è tema liberale. Ma è anche vizio politico nazionale, a partire dalla morte di Cavour. Uno degli aneddoti più brillanti di Spadolini storico è lo scandalo Nasi, il ministro massone che alla vigilia della sua elezione a Gran Maestro fu incolpato per una sedia: la questione morale è sempre stata insidiosa materia di dossier più che di buona politica o di giustizia – i fatti di Mani Pulite ne sono solo un’escrescenza più visibile, le omissioni, le doppie verità, i favori (Luca Telese, il “comunista a lungo impegnato in un giornale di destra”, più di uno in verità, non si esime dal ricordarlo nell’introduzione a Berlinguer). Per cui non si sa che pensarne, dell’intervista e dell’intervistatore. Berlinguer esordisce nostalgico, con “una piega amara sulla bocca”, dice Scalfari, “e, nella voce, come un velo di rimpianto…”: “Politica si faceva nel ’45, nel ’48 e ancora negli anni Cinquanta e sin verso la fine degli anni Sessanta”. Il compromesso storico non c’è, il comunismo non c’è mai stato.
Pareto, il liberale più liberale, affronta la questione per quello che è: da ridere. Più che altro interessato alla parola che alla cosa: il vertuisme che aveva inventato in francese di Ginevra gli piaceva. “Forestiera è la cosa, forestiero dev’essere il nome”, esordisce nella presentazione all’edizione italiana. Virtuista, virtuismo, per i quali infine propendeva, e che aveva usato agevolmente scrivendo in francese, gli suonavano strani nella traduzione italiana, di Nicola Trevisonno – ripresa da Giovanni Busino nell’edizione Utet delle “Opere” di Pareto nel 1961. In realtà strana è la cosa, più che la parola – adottata da ultimo, senza riferimento a Pareto, anche negli Usa una ventina d’anni fa, a fronte della nuova ondata proibizionista contro tabacco, alcool e pornografia.
Franco Fortini riprenderà il concetto seriosamente in “Asia Maggiore”, elaborando un “antivirtuismo” della società bolscevica – in realtà della nomenklatura. Pareto si diverte, alla Voltaire, dice Busino. A spese di politici, leghe e giornali: “Il mito virtuista” è un libello e non il solito trattato, polemico, sarcastico, come la pubblicistica che critica, nella quale si butta con voluttà. Specie nelle note incontinenti sulla nozione di oscenità. Nelle quali raccoglie, nei due anni intercorsi tra l’edizione francese e la traduzione italiana, l’infinita serie di sciocchezze lette nei giornali. Non senza intelligenza. Una sorta di “legge” individua della giovinezza e della senilità delle società. La quale ultima caratterizza di ipocrisie e contraddizioni. I più ridicoli sono i processi milanesi a Notari, uno scrittore che nessuno ricorda, che Pareto aggiunge in appendice all’edizione italiana. Tra i tanti aneddoti si segnala la chiusura della “loggia del nudo” a Berlino, dove “ufficiali, funzionari, professori, consiglieri di stato e scolari si riunivano”: perché il nudo non è ammesso in pubblico.... - non per quello che tussi sanno Ma non da un punto di vista libertario. A tratti anzi il freddo sociologo mostra una sorta di nostalgia da Piccolo Padre, di una politica “staliniana” della società, mirata alle cose, senza fronzoli.
Vilfredo Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale, Liberilibri, pp. 212, € 18
Stefano Rodotà, Elogio del moralismo, Laterza, pp.96 € 9
Enrico Berlinguer, La questione morale, Aliberti, pp. 64, € 6,50

Giudici speciali contro Berlusconi

Sonoro sberleffo di Mills, truffaldino o goliardico non importa, a tre delle tante giudici milanesi che giudicano Berlusconi. Che manifestamente non gli credono ma non lo incolpano di calunnia, o millantato credito. Un teste è tenuto a dire la verità, tanto più in aula, e dunque se ha calunniato Berlusconi è colpevole, ma questo non interessa alle giudici. Che vogliono solo tenere banco per qualche mese contro Berlusconi.
Giustizia? Protagonismo? Di una corte che si è fatta sberleffare pure dal pubblico ministero De Pasquale, altro goliarda, con lettere che lo stesso pm aveva già fatto pubblicare dai giornali. Con una presidente, Vitale, che si è fatta richiamare da altro superiore incarico per “celebrare” il processo contro Berlusconi. Dalla sua amica Livia Pomodoro, che dopo vent’anni di carriera politica è infine presidente del Tribunale di Milano. Pomodoro è probabilmente il giudice che con più costanza, almeno da vent’anni, dai tempi di Martelli ministro della Giustizia, briga in continuazione incarichi con la politica.
Non è sola. Il Csm, presieduto da Napolitano e dal galantuomo piemontese Vietti, ha richiamato d’urgenza Edoardo D’Avossa a Milano a giudicare il processo Mediatrade, dalla Liguria dove si era trasferito. Per avere la sicurezza della condanna?
Vitale è “la” giudice dei processi Mills? D’Avossa è invece specialista dei processi Mediatrade? Ci sono giudici “specialisti” che l’ordinamento esclude, giudici cioè speciali. Questi della dottoressa Pomodoro non sono tribunali speciali, perché le procedure non sono state riscritte, ma lei e i suoi giudici ci provano ugualmente. Anche il consulente finanziario nelle inchieste contro Berlusconi è sempre lo stesso ed è una donna, Gabriella Chersicla. Della società di revisione Kpmg, ex svizzera, di cui la Procura di Milano è il maggior cliente – quando la Kpmg aveva accertato nel 1996 ammanchi miliardari alla Rizzoli-Corriere della sera, e una diecina di reati gravi, la Procura di Francesco Borrelli aveva fatto finta di niente.
La dottoressa Chersicla, che non si perde nessuna udienza dei processi a Berlusconi, è anche commercialista a Milano in proprio. Questi processi, in particolare quelli dei giudici speciali Vitale e D'Avossa, sono una vetrina remunerata e anche importante. Delle apprezzate entrature della dottoressa in Procura specialmente.
In una giornata del processo Mills, otto ore, c’è tempo solo per una testimonianza. Dato che la condanna è impossibile, si vuole poter dire che il processo è solo prescritto. Che nell’ignoranza dei cronisti e nella supponenza dei Procuratori è indizio di colpevolezza, mentre la prescrizione non è mai imputabile all’imputato. Al processo Mills, si potrà dire, è successo di tutto.

giovedì 22 dicembre 2011

Secondi pensieri - (85)

zeulig

Amore - “”Il più libero e il più dolce degli atti” umani per Rousseau pedagogo, un atto di grazia, la congiunzione tra la potenza (forza) e il pudore. La concezione fino a qualche tempo fa più moderna della femminilità, al cap. V dell’“Emilio”, la lega al pudore. Benché ne lasci la nozione indefinita, se non come stato di grazia. Altrimenti l’uomo – l’uomo e la donna – è come Beaumarchais dirà, al “Matrimonio di Figaro”, alla scena seconda dell’atto secondo: “Fare l’amore in ogni stagione, non c’è altro che ci distingua dalle bestie”. Che è vero, ma può indurre all’odierna aridità. Al deserto dei sentimenti, intelligenza compresa. Tutto è sterilizzato nella guerra dei sessi, che è odio, quand’anche fosse piena di buone intenzioni – odio di sé, solitudine.
L’amore lo stesso Rousseau dice “passione terribile, che nel suo fervore sembra dover distruggere il genere umano che sarebbe destinato a conservare”.

Barbarie – Più del male è il segno della non progressività (cumulatività) della storia. L’esempio più crudo è la regressione dell’islam, da religione compassionevole a strumento feroce di dominio (maschile, politico, nazionale), e del mondo arabo, rispetto ai suoi secoli d’oro, di ricchezza e civiltà. Ma non è il solo. Le società come gli essere hanno dei cicli vitali, perturbati. Una di queste perturbazioni, costanti, è la misantropia (sciovinismo, razzismo). Dello stesso ciclo vitale fa peraltro parte a buon diritto l’espansione (imperialismo), uno dei cui fondamenti è l’inadeguatezza dell’esistente circostante: la barbarie è anche un criterio d’inveramento e miglioramento.

Bellezza - La bellezza è promessa di felicità. Lo dice Stendhal, con Nietzsche, e non ha senso: è il solito tarlo del costruire, investire, differire, non si sa che cosa per non si sa chi, che magari si dice filosofia. Le bellezza è felicità. È verità: il corpo è democratico, la bellezza è aristocratica, è l’arte.

Bellezza Thomas Mann “impolitico” scrive in italiano. Per marcare lo sdegno: “La «bellezza»è per me roba da italiani e spaghettari dello spirito”, il Bel Paese è veleno per il nobile tedesco Thomas Mann. Ma Puškin poté morire duellando per la moglie sciocca, per sapere che la bellezza è aspirazione che nulla può sostituire, la foia l’attenua solo temporaneamente. La bellezza che non è Arden né Mary Quant ma la manifestazione della grazia. Molto ne parla Platone. Ma, chiosa Simone Weil, “ovunque è amore lì è bellezza sensibile”. E insomma, la bellezza è amore. Per Freud è bello ciò che eccita - qualcosa il poveretto intuì, inciampando nella bruttezza degli organi sessuali. Una statua greca o Marilyn discinta ispirano un amore che non può avere per oggetto la pietra o la carta. Ovvero sì, ma un amore insaziato, un orgasmo sovrasensibile che si rinnova inesausto: la statua è calda, il profilo in carne per essere il segno dell’amore. È la bellezza il metro dell’amore, i due sono reciprocamente legati.

È il riconoscimento, filo rassicurante della narrazione: l’estraneo che è l’essere più amato, noi non lo sapevamo ma lo sentivamo, l’essere dei sogni, il destino. La bellezza è un riconoscimento, anche se non sappiamo di che – ma il riconoscimento è sempre di Dio, e anche di Cristo, se la bellezza è l’Anima del Mondo, come Platone chiama il Figliuolo.

Corpo - Ha certo una anima. Estetica per i greci, magica per i primitivi, spirituale e filosofica per i mistici, ora, pare, psicologica. Ma secolarizzato, nel pansessualismo, nel femminismo, vibra meno d’una partita di calcio, e non elimina le tossine. Certo, non richiede coraggio.
La novità di un corpo può essere più attraente dell’amore e della bellezza.

Veniamo da cinque secoli di virtuismo verbale e la lingua è ostruita. Riforma, Controriforma, Borghesia, la regina Vittoria e l’America puritana hanno seppellito una metà delle parole e del mondo, quella del corpo. Boccaccio ai suoi tempi era un erudito e un moralissimo sociologo.

Sempre più spesso il corpo è disgiunto dal corpo. Per una perdita di senso prima che di desiderio.
La libertà facile è sospetta. Si è nudi come si è vestiti, secondo certi canoni. Ma si era nudi essendo vestiti, o viceversa, vestiti nella nudità. Il nudo era un tempo fantastico, simbolico, il colore variabile di una tinta, il proteismo delle forme. Nuda era pure la guerra: i Centauri si preparano alla lotta nei cartoni di Michelangelo poltroneggiando nudi al fiume. Pure Leonida alle Termopili sta nudo al vento, nella pittura di David. Oggi il corpo è funzionale all’atto, all’erezione. Schopenhauer, nella celebre chiosa che l’atto della generazione sta al mondo come la parola sta all’enigma, il grande arreton, con l’eta, il palese mistero del non detto, ricorda la tradizione che, da Plinio a Goethe, biasima l’atto, davvero non olimpico, e poco o nulla conoscitivo. Se non menoma lo stesso piacere: quanti, potendolo, godono nell’atto? Il corpo crea problemi, per metà o più della vita, se è l’atto del sesso. Il sesso è selettivo, e antidemocratico: lega la libertà.
Si può recriminare. Il corpo è anima. Dopo sant’Agostino o Marsilio Ficino, e prima. Altrimenti è pelle e ossa, e acqua.

Dio - Va interpretato. Per il biologo inglese sir John Scott Haldane è “inopinatamente appassionato di scarafaggi”. Avendone creato uno o due milioni di specie, contro neppure cinquemila mammiferi. La Bibbia non fa Dio in polpe e parrucca ma simile all’uomo, e quasi un padre, che lo porta ai giardinetti. C’è indubbia una somiglianza tra Dio e le cose, nasce da qui l’analogia. E la comunione, che è il fondamento d’ogni santità, l’identificazione, per quanto abusiva. Anche Dio insomma è complicato. È vanitoso, dice san Paolo ai Romani: “La creazione fu sottoposta alla vanità, non di sua volontà, ma a causa di colui che ve la sottopose”. È del resto liberale, e ha più pazienza d’ogni altro essere: ci si può prendere con lui molte libertà. È simpatico. Ma un mistero che resti misterioso sa di truffa. E Dio assimila al diavolo lo stesso Padre Nostro: il buon cristiano gli chiede di non indurlo in tentazione. Anche Dio ha dei limiti.

Ozio – Tema classico, è il tempo non tempo, la pausa. Negli animali, dal leone al ghiro, è genetico. Forse per questo sono animali? Ma l’ozio nutre il corpo e anche l‘anima, rispose Orazio. L’ozio alla latina, il tempo fuori dagli impegni. Dalla giornata senza tempo che fa lo scheletro nervoso e mentale d’ognuno, e il suo biglietto da visita.

Tempo – Ogni sette anni muta il corpo umano, e con esso l’idea che uno ha di sé e del mondo. Ma non ogni sette anni, di seguito, nell’arco di sette anni. Non siamo esenti dal tempo, la quarta dimensione è un fatto, non siamo gli stessi la mattina e la sera: gli inglesi sanno che alle cinque è l’ora dei cocktail e non del tè, a quell’ora l’alcol è tonico. Senza l’esserci l’essere non è. E dunque l’esserci è - se io non sono, chi sono? e chi sono in questa o quell’ora del giorno o della notte?

Verità - Il senso della vita sta nella dissoluzione del problema del senso della vita, in altro modo Wittgenstein lo spiega. O il vescovo Berkeley, quale secoli prima il poeta Rumi ha predetto: “Sono colui che tende la rete e sono l’uccello, sono l’immagine e lo specchio, il grido e l’eco”. E Schopenhauer, con la vaghezza che lo caratterizza: “Un solo essere sono il torturatore e il torturato”. Il che è diverso, essendoci un atto, spesso doloroso e talora mortale, di uno solo dei due. Ma ci si riunisce fuori dal sogno, tornando alla casella base, al punto dell’origine del mondo. Che Dio sicuro non ha creato, non poteva farlo per cattiveria, poiché è buono, né per bontà, giacché nel mondo c’è il male. Il che non vuol dire che Dio non esiste: il mondo lo invidia appunto perché è altra cosa.

zeulig@antiit.eu

Autarchico nel Delta, al “freschin” delle secche

Clinton è il vino, poco alcolico, denso, della vite americana, “madre di tutti i vitigni europei” dopo la fillossera che li aveva decimati, da cui è inattaccabile. Nel Quarnaro nascono tutti i venti dell’Adriatico, le bore gelide, le levantare di fuoco. La notte cala la smara, “uno dei pochi termini astratti veneti”, il “terrore dell’ignoto”. E ovunque vegeta il salice di fosso, “il salgàro in veneto” – come ovunque altrove in campagna e ora è scomparso. È già scomparso invece lo storione, “e così quello stupendo caviale piccante che usavano gli ebrei di Ferrara”. In un mondo remoto, degli “Etruschi scomparsi da Spina”, forse. In un romanzo anch’esso remoto, del 1974, e tuttavia vivo, nella lingua, nel plot, nel senso.
Il protagonista narratore si chiama Sandro, Italia è la sua donna di gomma, un’epifania e una marionetta, ma la vicenda non è una volgare allegoria. Sì, c’è anche quello, l’esercizio onanistico con la bambola, benché plastica e morbida, “nata a Hong Kong, educata in Olanda”, ma nel senso della solitudine. Il delta in realtà è quello del fiume, il racconto è del Polesine, un microcosmo scandagliato in minuto dettaglio, con linguaggio sontuoso senza essere eccessivo. E appropriato: marittimo, ittico, vegetale, idrico, allora e oggi inconsuetamente naturalistico. André Pieyre de Mandiargues, che lo presenta, lo approssima al nouveau roman allora in voga, e al divagatore Huysmans, non a quello decadente di “A ritroso” ma al naturista di “Alla deriva” e “In rada”. Anche a De Chrico, all’“Ebdomeros”, altro testo dimenticato, per la precisione onirica del dettaglio. È un romanzo dimenticato, uno dei pochi del Novecento che si fa rileggere.
Zanotto, poeta in veneto e in lingua di cui si sono perse le tracce, è uomo d’acqua - anche nel successivo “Adone”, pubblicato senza fortuna da Vallecchi. È una peculiarità, ma non dirimente. Che il vezzo del romanzo erotico rischia di bilanciare negativamente: erano gli anni della sessualità in vista, Moravia, Buzzati, Berto, il veneto di Calabria, Bevilacqua e molti altri vi si esercitavano. Una modesta autarchia che Nanni Moretti stava per stroncare. Qui esteso fino al sacrilegio, caso raro in letteratura, del fantoccio Italia in veste di santa Maria Goretti. Né mancano la droga (l’amanita muscaria) e il blando spiritismo da “Mattino dei maghi” (Sandro menziona il suo autore Sandro Zanotto, nella sua piccola biblioteca, quale collaboratore della rivista “Pianeta”, di Louis Pauwels e Jacques Bergier), a intorbidare il finale. Datati pure, dell’oltranzismo artificioso (manierista) anni Settanta, i fondi musicali di Bach, come nei film violenti di Pasolini. Ma per Zanotto sono un falso scopo. Il suo alter ego vaga per il delta, l’immenso acquitrino del Po alla foce, in una barca di “colore nero e la forma a feretro”, del tetro nome “Galioto”, come un entomologo, facendosi leggere a ogni pagina, a ogni riga, con la matita in mano – cosa che Voltare trovava positiva, per il libro. Evocando alla partenza Antonio Delfini, dettaglista di una sola città, la sua Modena, di una realtà che era la sua, piena di meraviglie benché limitata.
Un viaggio in solitario - quando Sandro incontra qualcuno gli viene da vomitare - essendo arrivato alla conclusione che “il più completo erotismo si realizza nel distacco”. Autarchico soprattutto nel linguaggio, in lingua ma ben “regionale”. (nella seconda menzione del suo autore Zanotto, Sandro lo dice collaboratore di riviste di storia e glottologia locale). Nel Delta come in una tebaide, eremita volontario. Tra acque stagnanti maleodoranti e i rifiuti, delle concerie, delle cave di sabbia, dei turisti, dei poveri, i veleni, le plastiche, le lattine, gli animali morti, i legni marciti, con i chiodi arrugginiti, e il lezzo delle secche, “il caratteristico freschin veneto”.
Sandro Zanotto, Il Delta di Venere

mercoledì 21 dicembre 2011

Il mondo com'è - 78

astolfo

Borghesia - Marx non era contro i borghesi per i proletari. Cioè sì, ma contro la stupidità di chi vuole produrre la ricchezza a mezzo della miseria, dei proletari e sua. e lo disse subito, stabilendo nella Miseria della filosofia che cosa non andava: “Negli stessi rapporti entro i quali si produce la ricchezza si produce altresì la miseria”, a opera degli stessi: “Questi rapporti producono la ricchezza borghese, ossia la ricchezza della classe borghese, solo a patto di annientare continuamente la ricchezza dei membri che integrano questa classe, e a patto di dar vita a un proletariato sempre crescente”.

Cristiani – I cristiani sono tutti “alti ideali un minuto e feroce praticità (expediency) il minuto dopo” in “…. e poi muori”, il giallo di Michael Dibdin, l’inglese “italianato” morto quattro anni fa, sulle regole della vacanza in Versilia. Coi cattolici invece, dice l’autore al suo protagonista, “sai sempre dove sei: fino al collo in bugie, sotterfugi, misteri, doppiezze, colpi alla schiena e intrighi sottotraccia di ogni specie”. I cattolici non se la prendono e leggono il libro. In un’eventuale versione inversa, i protestanti invece non lo leggerebbero – Dibdin non l’avrebbe scritto. Perché i protestanti sono buoni, e i cattolici sono cattivi - “superior stabat lupus, inferior agnus”.

Globalizzazione – La nozione di “villaggio globale” è stata considerata a lungo dai centri sociali, i gruppi, i rocchettari sinonimo di utopia libertaria. Non sapendo che McLuhan l’aveva coniata nel 1964, “Gli strumenti del comunicare”, una sorta di ossimoro, per dire il contrario, l’uniformità controllata. Il nuovo impero, l’unità imperialista: l’abbigliamento non solo, ma i consumi, i bisogni e i linguaggi sono standardizzati. Attraverso l’elettronica, il cui sviluppo McLuhan poteva solo prevedere ma che a distanza di cinquant’anni sono perfettamente in linea con la sua previsione.

Imperialismo – Nei suoi cicli storici (Roma, islam, crociate, conquista, colonialismo, Usa) è anche curiosità intellettuale e disponibilità alla mescolanza, delle culture e delle persone. In parallelo con la dominazione e con la creazione del barbaro (il selvaggio, il predone, il cannibale, sia pure rituale).
Di questo aspetto dell’imperialismo Bernard Lewis quindici anni fa (“Culture in conflitto. Cristiani, ebrei e musulmani alle origini del mondo moderno”) ha fatto il segno distintivo dell’Occidente: “È stato solo l’Occidente a sviluppare tale curiosità nei confronti delle altre culture”. Questo non è vero, in tutti i fenomeni di espansione si riscontra sempre una misgenation, una mescolanza, i manciù in Cina, o i giapponesi in Corea. Anche le culture più rituali (peculiari) e ristrette, l’ebraismo per il limite genetico, l’islam per quello politico, non sono indenni da iniezione e interferenze.
Peculiare dell’Occidente è invece il pentimento, come Lewis ha messo in rilievo. In parallelo col pontificato di Giovanni Paolo II, che peraltro Lewis non nomina, della sua concezione “trionfante” del pentimento, rigenerante. Una novità totale, dice Lewis, in “tutta la storia”, e una peculiarità che farebbe la superiorità dell’Occidente. Il cui declino non significa l’eliminazione del male dalla storia, ma della coscienza critica, della capacità di denunciarlo.

Islam – Sembrava avere trovato una sua via alla modernità inevadibile, e invece si indirizza da un cinquantennio a rifiutarla, in Afghanistan, in Iran e ora ovunque. Anche in Arabia Saudita, che è il suo Luogo Santo per eccellenza, l’islam dà forte il senso di essere imploso, chiuso, irrancidito. Altrove può essere garbato, talvolta lezioso, sempre modesto – è difficile litigare con un mussulmano. In Arabia Saudita, dove è l’unica ragione di vita, almeno prima del petrolio, sembra invece acuirsi una sua intima schizofrenia. Che viene detta complesso d’inferiorità, con tutta l’acredine che questo comporta, nei confronti dell’Occidente dominatore, ritenuto solo più fortunato, ma la cui natura sembra diversa: è il rifiuto del mondo e insieme il desiderio di cavalcarlo, più accentuati entrambi che nel cristianesimo.
L’Occidente, da cui hanno ripreso tutto quello che avevano perduto, la poesia e una qualche gioia di vivere, il sogno, la magia, il delirio, la filosofia, è semmai parte integrante dell’islam, specie nel mondo arabo. Succede alle società tribali all’ora delle nazioni. Tanto più quando si erigono a difesa della tradizione, mentre solo coltivano l’esclusione, dell’infedele come di ogni altra tribù. Con cattiveria, con ferocia anche, il confine ravvicinato rende l’insicurezza permanente. Oppure è storico, il complesso nasce da una deriva di secoli.
Il passato resiste a ogni esorcismo, la tazza rotta che non si ricompone. Ma è talvolta proprio passato, non per casuali determinazioni sociali, o modi di produzione, ma per le mutazioni ambientali, chimiche, biologiche. E per un disegno di sopravvivenza, che porta al misoneismo, il rifiuto della novità: gli organismi viventi muoiono se non crescono, ma non subito. Così i mondi chiusi non muoiono subito, e talvolta fanno danni. Il grande corpo islamico si è fermato al 1480, quando i turchi, presa Otranto, sembravano dover prendere l’Italia, con tutto il papato. Il Magnifico radioso celebrò con una medaglia la liberazione, seppure assortita dalla decapitazione degli idruntini maschi, ottocento, che non abiurarono. Poi Maometto II morì e Alfonso di Calabria ricacciò i turchi, era passato poco più di un anno.
La minaccia turca era in realtà un’attrazione, l’utima prima dell’implosione lenta, inarrestabile. Il re di Francia cristianissimo chiamò il sultano in Europa a più riprese, perfino il papa lo chiamò – e il milanese Ludovico il Moro, che pagò i turchi perché occupassero il Friuli, ma questa è un’altra storia. L’attrazione durò ancora un secolo: i preti si sposarono, facendo la Riforma, e i re pretesero mogli plurime, da Enrico VIII a Ivan il Terribile, ripudiabili, assassinabili. Fino a Lepanto. Questa è la storia breve, non inattendibile, dell’islam dall’età moderna.
Maometto II, che morì di cinquantun’anni, aveva preso Costantinopoli, le basiliche mutando in moschee, tutti i Balcani eccetto la Croazia, e tutta l’Anatolia. Aveva chiamato Gentile Bellini a Costantinopoli, dove ospitava florida colonia di nobili e mercanti veneziani. Uno dei quali, Andrea Gritti del palazzo omonimo, guadagnò tanto da farsi doge, lui che era padre di numerosa figliolanza turca. Raccolse una celebre biblioteca. E una collezione di reliquie cristiane, in vista dello sbarco in Italia. Venezia lo pose a fissare il castello di Scutari in calle del Piovan, in bassorilievo sulla facciata della Scuola degli Albanesi. Ma non era un condottiero: tre anni dopo la presa di Costantinopoli, l’ungherese Hunyadi l’aveva messo in rotta a Belgrado, il Cavaliere Bianco – o Valacco, cioè rumeno? – padre di Mattia Corvino, la prima di molte guerre a perdere, una serie che non è finita.

Roma – Città per eccellenza di meteci. Di preti e prostitute, la trovavano nei secoli i viaggiatori. Ma di più, da sempre, di immigrati. Per la natura stessa dell’antica Roma, sia della repubblica che dell’impero, della sua idea della cittadinanza, e dell’apertura a tutte le fedi e tutti i culti, purché non intesi contro Roma (fu ciò che Nerone rimproverò al cristianesimo, e altri imperatori con più fondamento – ma già Nerone aveva capito). È così che gli ebrei di Roma possono dirsi i romani più antichi, essendosi mantenuti uniti, una comunità, per vincolo di sangue, e di fede esclusiva. Già al censimento del 1527, prima del “sacco”, risultarono romani di Roma solo uno su sette, e nemmeno, il 16 per cento: il 64 per cento veniva da tutta Italia, il 20 per cento erano stranieri.

Salotto – Ha inventato il razionalismo asettico, la società civile. Che nutre, fra dolori e amori, o semplici chiacchiere, e piccole e grandi carriere, all’ombra delle arti (carriere? arti?), fra signorine e damazze, chissà perché, brutte, cioè sterili. Lontano da tutto. I morti delle guerre, le epidemie, le mafie, e le antimafie, le fabbriche e la disoccupazione, la miseria, i briganti di strada, e la cocaina. Dibattiti su queste cose civili, tavole rotonde, cinque minuti a testa, scuole di democrazia, guai a prevaricare, neanche con l’intelligenza, peggio con lo spirito, massonerie aperte, aurea mediocritas. Siamo tutti un po’ borghesi.


astolfo@antiit.eu

Il fascino della mondanità è il discorso del potere

Proust, non sconosciuto all’abate, emerge solo quando è già celebre, avendo pubblicato a spese proprie. La mondanità non aggiunge nulla alla letteratura. Se ne appropria invece, è una forma di saprofitismo. Ai letterati piace non perché rilassi ma perché induce al pettegolezzo. Alla fatica cioè: la mondanità non riposa ma stanca.
È ambita perché dà celebrità? Ma bisogna essere celebri prima di esservi ammessi. Per promuovere le proprie opere? È possibile: la mondanità è la forma del potere quale lo concepisce un letterato, sotto forma di salotto, attorno a una donna, non (più) bella, e a cibi non (necessariamente) eccelsi. È il discorso del potere che per l’intellettuale è il potere.
Abate Mugnier, Mondanità e religione

Il frammento, illuminante o insopportabile

Dà dignità di racconto alla letteratura del frammento. Anche perché sa dare vita alla filosofia fugace che coltiva (“illumina”, Nietzsche) il frammento. E al fiume, alla selva, agli uomini muti. È anche un racconto di Conrad, conciso e “significante”. Ed è una caricatura dell’aiuto allo sviluppo, con quella segheria portata dai finlandesi in luogo inaccessibile, e confiscata dalla mano nera locale. Gli Zusätze dicono invece quanto pretenzioso e insopportabile possa essere il frammento.
Álvaro Mutis, La Neve dell’Ammiraglio

martedì 20 dicembre 2011

Monetizzare il debito è un delitto

Uscito di scena Trichet il tema non è più in discussione, il nuovo presidente della Banca centrale europea Draghi è del tutto allineato sulla posizione tedesca. Ma merita spiegare quale è questa posizione: non si stampano euro, neppure figurativi, per coprire i debiti dei paesi membri.
La “monetizzazione del debito” è fuori discussione in Germania. È una pratica che la Bundesbank, quando vigeva il marco, non ha mai attuato. L’esclusione origina da una consolidata dottrina. La monetizzazione del debito conduce sempre all’inflazione – alla iperinflazione, l’inflazione in Germania è sempre iper. E alla fine porta all’esproprio forzoso del valore del risparmio e al totalitarismo.
Diverso è invece l’eurobond, l’emissione di titoli europei del debito. Che Tremonti e van Rompuy hanno proposto per alleviare le pressioni dei mercati sula moneta europea. Su questo l’opinione è articolata in Germania. E la decisione di non avallarli è politica: il partito della cancelliera Merkel, cristiano-democratico, potrebbe accettarli, i liberal-conservatori, suoi partner nella maggioranza di governo, sono contro.

Mafiosa per Mori la Procura di Palermo

Si può dire una guerra aperta, quella fra il generale Mario Mori, ex capo dei Ros, e i Procuratori di Palermo, ora impersonati da Ingroia ma comprendenti anche Lo Forte e Schiacchitano (“Dio è mafioso”). In cui cioè ogni parte spara ad alzo zero contro la parte avversa. Che le due parti in conflitto qui siano i Carabinieri (una parte dei CC) e i giudici, questo non scandalizza più nessuno, non a Palermo né fuori. Ma alcune bruttissime cose che Mori riconfida in prima persona in questa sorta di autobiografia sono vere.
Mori è sotto processo a Palermo per aver tenuto contatti con Ciancimino senza tenerne informata la Procura, e per non aver volutamente arrestare Provenzano dopo l’arresto di Riina. Il processo è in corso e di questo Mori non parla. In un altro processo, sempre intentatogli dalla Procura di Palermo, che lo accusava, unitamente al “capitano Ultimo”, Sergio De Caprio, di aver ritardato colpevolmente l’irruzione e la perquisizione in massa del rifugio di Riina, Mori è stato assolto, e l’accusa non ha presentato appello. Qui Mori dice, ribadisce, che dei colloqui con Ciancimino non informò la Procura perché convinto che “non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra”.
Parliamo di vent’anni fa, quando la Procura era retta da Caselli, nominativamente, e gestita dai sostituti. Che persero dieci anni col processo a Andreotti – e probabilmente anche con quello a Contrada. Gli stessi sostituti di cui il Procuratore Capo Rocco Chinnici, fatto saltare con tutto l’autista, non si fidava e lo mise per iscritto. Un anno fa gli stessi dubbi sono stati ribaditi in pubblico da Michele Costa, avvocato, figlio del Procuratore Capo Gaetano anch’egli ucciso dalla mafia. Michele Costa accusò Sciacchitano e Lo Forte della divulgazione agli avvocati dei mafiosi dei risultati delle indagini che suo padre Gaetano aveva condotto. Della divulgazione delle dichiarazioni del pentito Marino Mannoia in merito all’omicidio dello stesso Costa. Della pronta liberazione di Tommaso Buscetta, che l’assassinio del procuratore Costa s’era prestato a declassare a “bravata”.
Mori aggiunge anche che nel 2006, quando aveva lasciato i Carabinieri e dirigeva il Sisde, era riuscito ad “agganciare” Matteo Messina Denaro, il principe dei latitanti. Tramite un doppiogiochista. Che la Procura di Palermo però mise sotto accusa, accusandolo di falso, prima ancora che la cattura fosse tentata.
Resta da aggiungere che la stessa Procura sta processando Mori sulla base di un testimone d’accusa che è un ex colonnello dei Carabinieri, Michele Riccio. Il quale invece ha avuto vari processi a Genova per traffico di stupefacenti da una dozzina d’anni, ed è ora condannato in via definitiva a quattro anni e dieci mesi di carcere (il maresciallo suo più stretto collaboratore a 24 anni).
Mario Mori, Giovanni Fasanella, Ad alto rischio, Mondadori, pp. 149 € 17,50

Problemi di base - 84

spock

Se i ricordi ringiovaniscono con la vecchiaia, è per questo che ci sono solo ricordi?

Perché in “Pinocchio” i carabinieri cacciano gli innocenti in prigione?

In questo calcio scommesse manca la Juventus, che scandalo è? Non c’è nemmeno Buffon

Che fine ha fatto l’avvocato Lucibello? (ha fatto “liberare” Fabrizio Corona)

Perché non si dice che in Corea del Nord si è realizzato il regno del comunismo in terra?

Anche Castro, recordman degli attentati, non sarà un dio in terra?

Se il corpo è il riflesso dell’anima, perché ci sono belli tanto brutti?

O non è l’anima un riflesso del corpo?

Se non c’è anima senza corpo, non sarà il corpo il posto dell’anima?

spock@antiit.eu

Alda rifà il Porta in lingua

Sono poesie della preistoria, gli anni non lontani 1980, quando nessuno voleva la Merini, poi la più pubblicata – le strapperanno i versi di bocca. Il primo gruppo di composizioni è una ripresa dopo quasi vent’anni di malattia e silenzio, nei quali, dice la poetessa in nota, il “dono immenso” , al principio, di poetare è diventato “immensa fatica” – la fatica di essere, “di provare la mia esistenza”. Nell’introduzione al quadernetto, dattiloscritto in più copie, Teresio Zaninetti spiega: “Alda Merini vorrebbe guardare in faccia al mondo. Ma il mondo volta la sua faccia e le mostra il culo”. Zaninetti (1947-2007) Giuseppe Zaccaria, che cura questa edizione, dice una “anticonformistica figura di giornalista e scrittore. Poi Alda sarà riscoperta da Maria Corti e la sua storia cambia, ma non la sua poesia: le tre raccolte qui comprese ne fissano le tematiche e il linguaggio: l’emarginazione, la miseria anche, di un’umanità vista nel suo aspetto animale, attorno ai navigli di Ripa Ticinese, la solitudine, la fede, la pesantezza del corpo. E l’ombra che mai la abbandona dei dieci anni di manicomio, tra “i malati di obbrobrio”.
Nelle “Satire”, alla maniera di Orazio, Alda posa al Porta in lingua. È una traccia nuova, qui in perspicuo rilievo, della sua poesia.
Alda Merini, Poesie e satire, Einaudi, pp. 101 €12

lunedì 19 dicembre 2011

L’asta boomerang delle frequenze

Potrebbe essere una freccia avvelenata a Monti l’ordine del giorno di Fini e Casini che impegna il governo a indire una gara per le frequenze tv del digitale terrestre. Lanciata per colpire Berlusconi, potrebbe invece mettere in difficoltà il governo. Gli operatori interessati non l’hanno infatti presa bene, poiché si traduce in un ennesimo rinvio, dopo tre anni. In contrasto con il principio di affidamento. Ed è palesemente incompatibile con le condizioni di mercato. Difficilmente La 7, cioè Telecom, in deficit e in debito, e Sky, in perdita rapida di abbonamenti, potranno competere. Mentre H3G ha già lamentato l’azzeramento delle procedure e la ripartenza con nuove regole.
Nel recente passato, peraltro, sia H3G che Telecom avevano protestato inutilmente contro la diversa procedura di assegnazione delle frequenze, onerosa per la telefonia, gratuita per la tv – cioè per la Rai e Mediaset. Solo tre mesi fa si era chiusa l’asta onerosa delle frequenze tlc, che aveva visto i quattro operatori nazionali sborsare poco meno di quattro miliardi per le licenze G4. Il precedente sarebbe poco promettente perché l’asta G4 è partita in altra epoca. È cioè il completamento del passaggio alla banda larga, partito nel 2002 con l’assegnazione delle frequenze G3. Una gara che allora aveva portato a un incasso di 14 miliardi. H3G potrebbe anzi disinvestire e\o uscire dal mercato, il maggiore investimento straniero in Italia nella storia della Repubblica.

Passera, il vecchio che avanza

Moine, occhietti, allusioni, era Passera ma sembrava Pomicino ieri sera da Fazio. Con lo stesso dire e non dire, la stessa voglia di superiore furbizia, e il non fare, dell’indimenticabile napoletano. In particolare le pause, le occhiatine e i sorrisetti sono stati atteggiati, con pose di tre quarti ricercate, come suggerito dalla publicist?, non si vedono le pieghe, alla menzione delle liberalizzazioni e le frequenze tv. Sapendo di parlare a una platea democratica, il democratico(cristiano) Passera ha elogiato i “precedenti governi”, cioè Bersani, in tema di liberalizzazioni, che però si guarda dal fare – giusto, inarcando il sopracciglio da vecchia zia, nei confronti dei bottegai. E in tema di frequenze ha “fatto capire” al pubblico e al Fazio entusiasti che Berlusconi le pagherà care. Mentre sa che gliele compreranno, forse, poche e a poco prezzo, le compagnie telefoniche. Ammesso che duri il boom del telefonino tutto immagini.
Una sceneggiata squallida, di un signore pure aitante e giovanile. Specie fra i vecchietti veri che lo attorniano nel governo, i NN.HH. che si pensavano tramontati da tempo: Moavero, Terzi, Staffan de Mistura, Riccardi, Rossi Doria, Patroni Griffi, Malinconico, Ornaghi... Il sopracciglio del superministro fa il paio con le lacrime della freddissima Elsa Fornero. E con lo stesso Passera che, mal consigliato dalla publicist?, si è presentato alla defatigante fiera del libro con la bambina in braccio – a Roma, dove subito l’hanno appaiato alle zingare che chiedono l’elemosina col poppante addormentato. Il “vecchio che avanza” è il titolo di un fortunato saggio sulla letteratura del Duemila, ma ben si attaglia al superbanchiere superministro. Con un pizzico di frigor wertherinus ambrosiano, quella voglia frigida di essere speciali e migliori. Facendosi dire dal compare Fazio che, sì, forse, perché no, avvierà una nuova carriera e farà il presidente del consiglio. Proprio come il nemico Berlusconi. Che è dunque il meglio di Milano.

domenica 18 dicembre 2011

I professori non si dimettono

Ha preso il massimo dell’aspettativa il ministro della Pubblica Istruzione, diciotto mesi: Profumo non vuole lasciare la presidenza del Cnr. Ha fatto nominare una vice-presidente, Maria Cristina Messa, che insegna radiologia a Milano Bicocca. Che è come dire che intende continuare a governare il Cnr anche dal ministero. Riservandosi di riprendere la presidenza anche formalmente quando si aprirà la campagna elettorale nel 2013. Profumo, che prima della nomina al Cnr intendeva candidarsi a sindaco di Torino col Pd, ha anche vari incarichi in Unicredit, ed è consigliere di Telecom, Pirelli e Fidia..
Non si è dimesso Grilli dalla direzione generale del ministero dell’Economia. Cumulandola con la carica di vice-ministro. Non si è dimesso Giarda dagli incarichi nel Banco Popolare. Piero Gnudi, il ministro più anziano titolare di Sport e Giovani, è consigliere in molti gruppi, tra i principali Unicredit, Sole 24 Ore e Astaldi. L’unica a lasciare gli incarichi negli affari (la vicepresidenza del consiglio di sorveglianza di Banca Intesa, e il consiglio Buzzi Unicem) è stata Fornero.
Più complessa la sostituzione di Corrado Passera, dal 2002 amministratore delegato di Banca Intesa. In un certo senso ha preso l’aspettativa anche lui, dato che l’incarico di amministratore delegato a Enrico Tomaso Cucchiani, Allianza-Unicredit, è stato assegnato ad interim. Passera rappresenta Intesa anche nel patto di sindacato Rcs Mediagroup (Rizzoli Corriere della sera), che governa il gruppo editoriale, e nel consiglio direttivo dell’Abi.

Letture - 80

letterautore

Confessione – Il ricordo ringiovanisce con la vecchiaia.
È per questo che domina la contemporaneità (si è quello che si è stati)?

Su uno stock di 280 mila libri in inglese a prezzi dimezzati, una libreria online ha 70 mila titoli di biografie e autobiografie. Il genere dunque più venduto, dopo il religioso: i padri pellegrini amano confessarsi.
La confessione dilaga peraltro nella postmodernità digitale: blog, chat, forum.
Il diario è un genere editoriale, e per questo è un fatto, qualcosa che c’è, c’è sempre stato, e non si discute. Ma è ultimamente prolifico, e questo merita qualche considerazione. La confessione, diceva il cardinale Passionei nella causa di beatificazione del cardinale Bellarmino, che a 71 anni si era scritta l’autobiografia, è egoismo e alterigia. Diversa è la confessione di chi lo fa per una mercede.

Nelle “Memorie” Voltaire ricorda in più punti che il vescovo di Beaumont qualche anno prima aveva inventato i “buoni di confessione”, “biglietti di banca per l’altro mondo”.

Conscientia mille testes. La coscienza vale mille testimoni. Quintiliano la riporta come esempio di gnome diffusa a livello popolare ma di incerto autore. (5,11,41). La traduzione della massima di Quintiliano è diffusa come proverbio in tutte le lingue europee.

Freud – Lite furibonda, per due o lunghe pagine nel numero dell’8 dicembre della “New York Review of Books”, che la rivista intitola “L’affare Freud” (“The Freud Question”), tra freudiani e antipatizzanti, sul significato di gefüttert, participio passato di füttern, che Freud usa in una lettera alla moglie: lo intendeva in senso di pascere, come delle bestie, o di imboccare, nutrire?
Il participio era stato usato da Frederick Crews, nel numero del 13 ottobre, nella seconda parte di un saggio intitolato “Medico, cura te stesso” (Physician, Heal Thyself”). A proposito di una lettera del giovane Freud alla fidanzata: “Sarai pasciuta (gefüttert) di cocaina, e dovrai darmi un bacio a ogni angolino… “. Una serie di professori, emeriti e ancora in cattedra, tra i quali Lisa Appignanesi, del museo Freud di Londra, hanno protestato contro l’uso che Crews fa del verbo. Ma più, in realtà, sull’uso non scandaloso della cocaina da parte di Freud, costante per tutta la vita, in non modiche quantità. Uno solo dei freudiani, Dietrich Rueschenmeyer, emerito della Brown University, ricorda che füttern si usa anche per imboccare i bambini, i malati, gli accuditi - e a Rueschenmeyer Crews dà ragione, pur volendo lo slittamento insignificante rispetto “al suo argomento principale”, l’insicurezza sessuale di Freud, “che fantasticava di estorcere baci riempiendo (feeding) di cocaina la sua passiva fidanzata”.
Riempiendo, nutrendo, pascendo, per füttern e feeding, freudianamente, come bisogna leggerli? A parte la cocaina, certo, irrilevante.

Romanzo – È inflazionato, dopo la morte del romanzo una quarantina d’anni fa. Oggi anche i saggi critici o storici ambiscono a dirsi romanzi, e perfino delle opere di poesia. “I romanzi sono fatti per essere divorati”, argomentava Walter Benjamin, lettore vorace (“Piccoli indirizzi”, In “Denkbilder”, Images de Pensée, p. 252), benché fine critico. Benjamin li voleva divorati in senso proprio: “Leggerli è una voluttà d’incorporazione”: il romanzo voleva un pasto cotto e servito. Il “tutto è romanzo” ha prodotto disappetenza invece che ingordigia.
Si può pensarlo degradato, per lo slittamento alla fiction - che ha nel Roget’s significati più negativi che positivi: prodotto, falsità, untruth, idea, racconto. La quale a sua volta slitta fino al reality, il grande Fratello, Maria De Filippi, lo stesso Santoro, nelle sue drammatizzazioni a guapperia. Ma questo in realtà c’è sempre stato. Già nel Settecento c’era il romanzo popolare degli ambulanti, i cantastorie e i portafortuna, fatto di ripetizioni e divagazioni. Come recentemente c’è stato il fotoromanzo, harmony, la serie rosa, il fantasy, l’avventura, il western. No, la disappetenza è nell’arte del narrare, diffusa e stantia, ripetitiva, senza qualità. “Non ci sono più romanzi”, in mezzo a tutta questa abbondanza, può solo significare: non ci sono più romanzi di qualità, che impregnino e si ricordino, e magari “facciano un’epoca”.

Rousseau - Non ha mai avuto pause, cadute d’interesse, è sempre stato presente, per un verso o per un altro (lo documenta il “Magazine Littéraire”, che gli dedica il numero di fine anno), nei due secoli e mezzo dal “Discorso sull’ineguaglianza”, nei tre secoli, si può dire, dalla nascita, che si celebrano nel 2012. Pur non essendo un esempio, in nessuna delle sue manifestazioni di vita. Per questo accusato, anche da Voltaire e da Madame d’Épinay, e spesso vilipeso. Perseguitato ovunque, come uomo e come scrittore (le “Confessioni” e le “Passeggiate” si poterono pubblicare solo postume). Tanto da finire in un ripetuto delirio di persecuzione - si deve a Rousseau anche il complotto universale: ne scrisse al “conte” Sangermano (Saint-Germain), un altro Cagliostro. Per la forza delle idee e, più, per la capacità di esprimerle, se non di farle valere. Per la scrittura, si direbbe, che si legge dopo tre secoli sempre misurata.
L’attualità è nella scrittura – come per Galileo, l’altro scienziato scrittore di cui si è finito di celebrare il centenario: misurata, evocativa, piena. Soprattutto negli scritti fittivi, comprese le “Confessioni”, sempre legate al senso del mondo: il potere narrativo (evocativo) sempre legato a quello critico (storico).

Rousseau fu un monumento già in vita, per lo scandalismo che lo circondò ma anche per le idee. Oggi se ne può apprezzare il distacco critico rispetto ai furori intellettuali del progresso lineare. O la critica agli eccessi (rischi) di un empirismo “sistematico”. Fu il miglior illuminista in quanto critico dell’illuminismo, e anzi eversore dei suoi due piedistalli, innovativi ma deperibili – l’illuminista anti-illuminista. E tuttavia, benché totale rivoluzionario, sempre equilibrato nel mezzo delle continue tempeste, erborista, musicista. Impersona la certezza della “verità”, la sicurezza di sé, del giudizio che nasce da basi salde.

Il limite dell’empirismo è incontestato sulle origini delle idee. Non è metafisica, è un fatto che non è empirica l’idea di Dio, di uno spirito immateriale. Né l’idea di ordine generale, che sia di misura e di ispirazione (sostegno) rispetto alle forze del male che agitano il mondo.

Shakespeare – Uno romano e cattolico mancava e Pietro Lanzara ha colmato la laguna sul “Corriere della sera-Roma” il 14 dicembre. Con tutti gli ingredienti del caso:
http://archiviostorico.corriere.it/2011/dicembre/14/Shakespeare_una_pergamena_segreto_dei_co_10_111214030.shtml
Alcune firme pseudonime sono riconducibili a Shakespeare. Specie degli anni, 1585-1592, di cui del tutto si erano perdute le tracce nei vari tentativi di biografia. Tutto convincente. A partire dal finale: “Nelle 37 opere teatrali Roma è citata 290 volte rispetto alle 60 di Londra”.
Lo Shakespeare romano è perfino persuasivo, rispetto agli altri Shakespeare. Il conte di Oxford Edward de Vere, Marlowe, Lord Bacon. O i tanti Shakespeare donna, a partire dalla regina Elisabetta. Per non dire gay, che oggi non sarebbe politicamente corretto, a partire dalla sua “lei” che sarebbe il conte di Southampton Henry Wriothesley. Pierre Louÿs, discreto filologo, sostenne una vita che le commedie di Molière le aveva scritte Corneille.
Particolarmente ingegnoso, dettagliato, lo Shakespeare-Florio, un italiano di Londra, prima di quello romano. Lo Shakespeare Florio più accreditato è di Bagnara in Calabria, dove pescano il pescespada, un posto un tempo governato dalle donne. Prese il nome della madre Guglielma Crollalanza: William Shake, scrolla, Spear, lancia. È uguale nel ritratto a suo cugino Giovanni Florio, l’italianista londinese di fine Cinquecento, dalle cui opere trasse i proverbi delle commedie - entrambi portano l’orecchino. Guglielmo e Giovanni erano figli di due fratelli Florio, protestanti di Bagnara costretti all’esilio. Il padre di Shakespeare, di nome Giovanni, è citato in una lista di recusants, quelli che rifiutavano i culti anglicani, tali i valdesi di Bagnara, riformati di Calvino. L’altro fratello Florio, Michelangelo, padre del Giovanni cugino, era un frate francescano riformato. I Florio riemergeranno a Palermo due secoli dopo, con gli agenti britannici camuffati da produttori di marsala, per fare l’Italia unita.
Una tradizione più recente lo vuole invece Florio di Firenze. Shakespeare, Shagsper o Saxber che sia, è bene John Florio, ma allora è di Firenze e non di Bagnara, è stato recentemente sostenuto da un interprete – un interprete linguistico.
Anche Shakespeare è stato reazionario, realista, repubblicano, rivoluzionario, massone, rosacroce, prima che cattolico e romano.

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La fine è romantica del socialismo

Storia mestissima, chiude il Novecento sanzionando il fallimento del socialismo, senza volerlo, dandone la chiave. Quando già si sapeva da tempo che il socialismo ha fallito per colpa propria, perché il capitalismo ha dato malgrado tutto più libertà, anche più mezzi di sussistenza. Non regge il confronto vinto col fascismo. Perché: 1) il capitalismo ha eretto il fascismo in reazione alla violenza socialista, esso stesso lo ritiene pericoloso; 2) il socialismo è un sistema della vita e non un’arma di difesa (attacco), ed è al capitalismo che si confronta, prima e più che al fascismo. È sul terreno proprio che il socialismo si è sconfitto. Loach ne mostra l’inconsistenza, mentre intende celebrarlo – per il romanticismo di cui lo ammanta.
Romantico è chi cerca la sconfitta. Per questo può essere anche crudele. Il capitale, che vuole vincere, è crudele strumentalmente.
Ken Loach, Terra e libertà

Morfologia e politica del “bagno” in Versilia

Una nuova geografia in un giallo. È sorprendente il ritratto dei “bagni” in Versilia, e del provincialismo italiano (più acuto in Toscana), in questo che pure non è uno migliori gialli di Dibdin.
L’“italianato” scrittore inglese, morto quattro anni fa a sessant’anni, sarà stato il miglior ritrattista dell’Italia anni Ottanta-Novanta con la serie di storie concepite attorno a Aurelio Zen, “dottore” (commissario di polizia) di Venezia, in giro per la penisola, fino alla Sicilia e alla Sardegna. Qui con un’istruttiva diversione in Islanda. E con alcune intuizioni di solito fondamento antropologico. Una è la “diversa natura” dei non-luoghi, nel caso la “rete autostradale”: un mondo a sé, coi proprie regole, codici, orari, schemi organizzativi, luci anche, disposizione degli spazi, assortimenti. L’altro è il provincialismo, che per esempio (a parte la geometria e la logica dell’ombrellone nel bagno Mario, o Piero) divide Lucca da Pisa – Dibdin pensa erroneamente ma azzeccandoci. In piazza a Lucca una rivista insulta i pisani: “Una scoperta medica rivela perché i pisani nascono – il rimedio non c’è”. Dibdin la spiega come la diffidenza della città “industriosa, mercantile” verso “la città di mare, con la sua inaffidabile ciurma di briganti e avventurieri”. Mentre la rivista è chiaramente “il Vernacoliere”, pensato, scritto e pubblicato a Livorno. Che quindi opera al contrario: è la ciurma di briganti e avventurieri che insulta la paciosa, torpida, città di terra che Pisa nel frattempo è diventata. Ma l’odio non è diminuito.
Michael Dibdin, … e poi muori