Cerca nel blog

sabato 17 agosto 2013

Il mondo com'è (145)

astolfo

Avola – Oggi prospera, innovatrice nell’agroindustria, è stata a lungo sinonimo di povertà, per  essere stata teatro dell’ultima esercitazione militare dello Stato italiano contro i poveri. Nel 1968, alla fine dell’anno, della lunga stagione libertaria che rivoluzionò l’Italia. Con tiro a raffica. Non di notte, nella confusione, tra le ombre, ma alle due del pomeriggio. Il giorno di santa Bibiana, un lunedì, dopo la prima domenica dell’Avvento. Contro una manifestazione non diversa dalle altre, sulla S.S. 115, la strada per la marina, d’inverno, partecipi le mogli e i figli. Per il contratto dei braccianti. Il tempo di drizzare le orecchie, nella confusa protesta, e una trentina di villani erano a terra con molti proiettili, alcuni già morti – due per l’esattezza, ma alcuni dei 48 feriti furono ricoverati in condizioni gravi. La polizia usò il moschetto 91, le Beretta 9 e 7,65, il mitra Mab.
Al comando delle operazioni c’era il commendator D’Urso, un prefetto. Il commendatore, pio, lasciò passare la domenica dell’Avvento, che apre l’attesa del Natale, e lunedì, fatta indossare al vicequestore Camparini, nominato “comandante dell’operazione”, la fascia tricolore, e dati i tre squilli di tromba, fece tirare a volontà contro la plebaglia. “Il blocco deve sparire”, intimò il commendatore, che aveva esperienza di braccianti, già tre anni prima li aveva fatti sparare a Lentini, e ad Avola avrebbe voluto pure l’esercito.
Il giorno dopo la mattanza, la vertenza fu chiusa con piena soddisfazione dei braccianti di Avola: giornata di sette ore e cinquemila lire di aumento. I socialisti, tornati da poco al governo, vi radicheranno lo Statuto dei lavoratori, senza eccessive obiezioni, esattamente un anno dopo. Non una manovra politica, dunque, al governo c’era il centro-sinistra. Era il modo d’essere dello Stato, e di più della Repubblica.
Avola s’identifica per essere prossima a Cassibile, il luogo dove il 3 settembre 1943 il generale Castellano firmò la resa dell’Italia agli Alleati, annunciandola l’8 settembre. Data d’inizio della nuova Italia dopo il fascismo. Cassibile prende il nome da un breve corso d’acqua, il Kalyparis degli antichi greci, presso il quale il generale Demostene, con seimila ateniesi che si ritiravano lungo la via Elorina, dovette arrendersi nel 413 ai siracusani. Di onorata storia, testimoniata dall’antico borgo, manomesso dal terremoto del 1693, e dai palazzi ricostruiti con le chiese nel Settecento, ricca di colture per il combinato di acqua e sole in quella zona della Sicilia, tra Siracusa e Pachino, che si pensa corrosa dalla siccità, e di mieli di lunga vita profumati.
Braccianti e agrumari erano molti sulla terra ferace, trentaduemila nel territorio di Siracusa, ed erano  poveri, sporchi, analfabeti i più, incapaci di esprimersi, se non nella loro lingua contratta, in cui ogni suono, ogni mossa sottintende millenni di soggezione, malgrado l’importanza della loro funzione di coltivatori di primizie. La Sicilia presenta ancora questa mescolanza di opulenza, anche culturale, e estrema indigenza delle articolazioni mentali e linguistiche.
Il ministro dell’Interno Restivo li conosceva, essendo siciliano, sapeva che erano molti ma non sapevano contare. Che l’indigenza era cresciuta col terremoto che aveva aperto l’anno, morale e civile più che economica. Alla vigilia un altro siciliano, l’onorevole Scelba, presidente della Dc, aveva dettato condizioni dure al ritorno dei socialisti al governo dopo quello balneare dell’onorevole Leone. Il governo dispose poi la rimozione del questore, Politi. Ma calcolato era, e resta il fonogramma del ministro al commendator D’Urso: “Lo Stato non può cedere alla violenza”.

Giustizia - Un referendum contro l’errore giudiziario sembra una prevaricazione. Nell’attuale “sistema” giudiziario sì, in una qualsiasi forma di giustizia no. L’errore giudiziario non è un errore: è prepotenza. L’errore è prodotto dall’ira, l’errore giudiziario è frutto del pregiudizio. Si concretizza in lunghi, ripetuti, noiosi anche, giorni, mesi, anni di indagini e di cattiva coscienza, contro un solido principio: prima la colpevolezza, prima le prove della colpevolezza. Ci siamo disabituati, in un ventennio di mala giustizia, la mala pianta lombarda (ma era cominciata prima, con le stragi, la sopraffazione va per il mezzo secolo), a una giustizia prevaricatrice, che fa a meno di provare la colpevolezza – o di sanzionarla quando è provata.
Non c’è in diritto, oltre che in coscienza, altro itinerario di giustizia ma in Italia basta una soffiata a un giornale. In questa Italia ambrosiana che ci distrugge, tra finti mercati e reali soprusi. E quando non si sa che prove produrre, basta la formula “non poteva non”, ancora recentemente usata, per sanzionare. Come dire che un giudice “non può non” prevaricare? No, solo dopo aver demolito la vittima designata con la cosiddetta “opinione pubblica”. Cioè con la soffiata al giornale fidato, anzi al cronista giudiziario fidato, ogni giudice ne ha uno di fiducia: questa giustizia è come la mafia, affare di amici, e amici degli amici.

Internet – Google mi divide ora la posta in primary (personale), sociale e promozionale. E non sbaglia. Senza leggerla. Fantastico. È la materializzazione della Spectre: sa tutto di noi, senza testimoni, pentiti, delatori.

Islam - L’islam è vittima di se stesso, della lettera, dell’interpretazione autentica, di una filosofia politica ormai vecchia di otto secoli, e anzi di più. Per cui si può dire che non conosce la democrazia, non ne ha la parola. Che non ha nemmeno il popolo. Che non conosce la laicità, non ne ha il concetto. Mentre invece, come tutti, ci era arrivato: per gradi, per errori, con ripensamenti.
Sarà pur vero che non c’è nell’islam distinzione tra Stato e chiesa, ma perché non c’è chiesa nell’islam. Mentre c’era, e c’è, distinzione tra secolare e religioso, benché Lewis dica di no. È stato Khomeini a restaurare questa unità vecchia di un oltre un millennio, anche se aveva qualche antecedente nell’islam duodecimano. Non c’è teocrazia nel mondo islamico, questo Lewis lo spiega bene. Ma non è vero che non ci può essere dispotismo: sotto la forma moderna e ben più ampia del totalitarismo Khomeini l’ha introdotto. Questo era il timore costante di Alessandro Bausani, il pio e dotto iranista, già nel 1978, quando il fenomeno khomeinista cominciò a manifestarsi dalla Francia, e quando Bausani è morto, nel 1988, aveva avuto tristemente ragione.
Tutto il mondo islamico, soprattutto quello non arabo, non tribale, era avanti sulla strada della democrazia: se c’era un’area dove la democrazia attecchiva, all’infuori dell’Occidente e dell’India, era il mondo islamico, in Turchia, Pakistan, Indonesia, lo stesso Iran, e germogli se ne vedevano in qualche paese arabo – in tutto il Maghreb malgrado i regimi personali. 

L’islam è peraltro religione egualitaria, senza caste, aristocrazie, gerarchie. Ma, è vero, se rifiuta il privilegio, impone la disuguaglianza, tra padrone e schiavo, tra uomo e donna, tra mussulmano e non.

Repubblica del lavoro – Non è un pleonasmo, né il wishful thinking  che sembra: è un obbligo che la Repubblica a lungo non ha osservato. Nei suoi primi vent’anni col tiro ai lavoratori, nei secondi con le trame, nei terzi vent’anni col mercato (licenziamenti a milioni), e il mercato della giustizia.
Un conteggio dei primi vent’anni, a fine 1968, registrava 417 morti per mano di polizia e carabinieri  in servizio di ordine pubblico contro lavoratori in sciopero, o in manifestazioni per il contratto. In vent’anni ne aveva ammazzati più la Repubblica che il fascismo. La repubblica confessionale, timorata di Dio. E non aveva ucciso i nemici politici, gli oppositori, ma sudditi leali, sindacalisti, braccianti, operai.
Il paragone non è irriverente come sembra. Il fascismo era tirannico, la Repubblica no, ma questa è rispettivamente un’attenuante e un’aggravante, e non il contrario: il fascismo era il fascismo, la Repubblica invece ha ucciso i poveri. Contro la costituzione, il sindacato, i diritti dell’uomo. Nel fascismo c’era almeno una dialettica, tra regime e opposizione, padroni e lavoratori.
La vocazione autoritaria è agli albori della Repubblica. I soldati spararono, caduto Mussolini, contro chi chiedeva la pace e chi scioperava. Non i soldati di Mussolini, quelli di Badoglio e del re. In una settimana, tra il 27 luglio e il 3 agosto, fecero 76 morti, 146 feriti censiti, e mille arresti. La democrazia si è installata in Italia tornando alla tradizione antiproletaria sabauda. Mussolini non aveva mai osato tanto.

astolfo@antiit.eu

Moria sotto il vulcano

È “La peste” di Camus, qui per un morbo interno, la voglia di suicidio. Un universo chiuso per una colpa ignota. Si direbbe da racconto di Kafka, ma Evira Seminara, “giornalista e pop-artist” di Acicastello ai piedi dell’Etna, tellurica quindi, procede disinvolta: il suo racconto è molto pop, sembra la sovraesposizione della dolce morte, o eutanasia come usa chiamarla – l’“umanità” viene dalla tv sempre accesa al bar.
L’idea germoglia forse da “Anime Salve” di de Andrè che Seminara cita, l’ultimo album, in onore degli “spiriti solitari”. Una forma di eroismo – anime salve De Andrè in fin di vita spiegava etimologicamente come spiriti solitari, “una specie di elogio della solitudine”. Che la canzone dallo stesso titolo incentra sulla solitudine quando è scelta, la “scelta di libertà”. Ma l’andamento è grottesco, sul filo del noir. Con una soluzione che non è una soluzione: la scrittura crea, e perché non ucciderebbe?
Dedicato al padre, “un’isola anche lui”. L’isola ritorna, con le sue valenze plurime. Da ultimo – Hertha Müller - nella sua rappresentazione vacanziera di luogo privilegiato d’evasione, mentre è un universo concentrazionario, anch’essa, un luogo di annientamento, solitario. Non fosse che le parole vorrebbero significare ciò che dicono, più che simboleggiare – un’isola dove arrivano tanti morti di fame, anzi ci arrivano morti, ha la disperazione discutibile.
Elvira Seminara, La penultima fine del mondo, Nottetempo, pp. 154 € 11

venerdì 16 agosto 2013

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (179)

Giuseppe Leuzzi

“Non vogliamo più l’utilizzo dei fondi (europei) per eventi come il concerto di Elton John a Napoli, o l’autostrada A 3 Salerno-Reggio Calabria”, proclama martedì il commissario europeo per le Politiche regionali Johannes Hahn. Ignoranza? È possibile.
Il commissario all’Industria, nonché vice-presidente dell’esecutivo europeo, Antonio Tajani, un italiano, gli dà ragione. Damned!

Gli italiani ci sono, bisogna fare l’Italia
Sono ritornate per i centocinquant’anni dell’unità le polemiche sul brigantaggio al Sud. Se non fu un fatto politico di resistenza, e di cieca e feroce repressione. Con spiegamento di antropologie sul brigantaggio e di revisionismi storici. Mentre un fatto è chiaro, per lo storico (le antropologie lasciano il tempo che trovano): non ci sono briganti nati, ci sono briganti (mafie) quando il potere (lo Stato, il Commonwealth di Hobbes) li consente. In questo caso si diffondono anche, “controllano il territorio”, “rispondono alla domanda sociale”, e perfino alla mentalità, poveretta, eccetera. Per lo storico dell’unità il brigantaggio ha un solo rilievo, quale che fosse la sua natura, tutta cospirativa o tutta criminale, oppure mista: la durezza della repressione. Senza l’artiglieria, ma con tutto il restante armamentario di una guerra. Contro un Sud messo sotto occupazione militare, senza distinzione di buoni e di cattivi. La parallela durissima repressione dei moti democratici di Palermo nel 1862, a meno di due anni dagli entusiasmi garibaldini, con lo stato d’assedio proclamato in tutto il Sud il 20 agosto, non hann o nulla a che vedere con i briganti.
L’unità veniva subito convertita in occupazione militare. Un errore, tutto  sommato. Un disegno sbagliato – poco produttivo. Sulla base di un pregiudizio. Di interessi costituiti, interessati a liquidare il Sud. Ma di più, considerandone la persistenza, anche contro ogni convenienza. La frase famosa di D’Azeglio “l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani” è al contrario che funziona: “Gli italiani ci sono, resta da fare l’Italia”.

Il Sud non conviene
L’ultimo meridionalismo, trent’anni fa, si articolava con l’arsenale terzomondistico, della cancellazione dell’identità a fini di sfruttamento. Era una posizione resistenziale, del “razzismo antirazzista” che Sartre aveva spiegato nell’“Orfeo nero”. Ma solo in parte vera, nella cancellazione dell’identità. Quanto allo sfruttamento è sempre stato dubbio che il padrone abbia interesse ad annullare o invalidare lo schiavo. Nella vecchia economia agropastorale come in quella contemporanea dello scambio: lo schiavo serve in buona salute.
Molti degli argomenti della dipendenza a fini di sfruttamento sono veri: l’esercito del lavoro di riserva, e la forza lavoro in eccesso per comprimere il salario. Sono strumenti che sono stati utilizzati. Ma in un’ottica sbagliata – si dice di corto respiro ma è sbagliata. L’ipotesi keynesiana è sempre la più valida: l’effetto di traino salario-reddito-consumo sulla produzione e i profitti (remunerazione del capitale, investimenti, produttività).
La dipendenza c’è, e si esprime sul deprezzamento o la cancellazione dell’identità per un pregiudizio prima che per l’interesse. Per lo stesso motivo è coriacea, inattaccabile a qualsiasi argomento. Se non alla rivolta, alla cosa compiuta.
Tutto questo è stato detto, da Frantz Fanon a partire dal 1952, “Il negro e l’altro”. Il problema non è dunque di conoscenza: è la natura del pregiudizio di essere indistruttibile al ragionamento, solo a un ribaltamento. La dialettica negativa, o il razzismo antirazzista di Sartre.  

Mafia
È un delitto all’origine e prevalentemente contro la proprietà: protezione, grassazioni, espropri, estorsioni, usura, rapimenti di persone. Per questo poco contrastato, e di malavoglia. Finché non è arrivata la Lega, che protegge la proprietà.
La definizione non sembra attendibile. Non è sociologizzante, non è pauperistica, è di classe, va contro l’opinione dominante, non risolve l’intreccio mafia-politica. Ma è la più vera, aderente alla realtà. È su queste basi che si è sviluppata 50-60 anni fa la ‘ndrangheta, in precedenza una onorata società di uomini d’onore senza denti, una piccola massoneria paesana, di nessun rilievo per la società. È stata sempre questa l’attività della mafia propriamente detta e della camorra. Il contrabbando prima e la droga poi sono estensioni dello stesso “mercato”: una volta imposta l’illegalità, attraverso l’azione antiproprietaria, la droga è un investimento. Privilegiato per gli alti rendimenti a fronte di un  rischio irrisorio. Il primo settore della mafia imprenditrice di Cordova e Arlacchi. Più degli appalti, altro settore a rendimenti altissimi, per la pratica costante della corruzione, e delle “diversificazioni” (turismo, intrattenimento, ristorazione, pompe di benzina, sale giochi…) nei settori a forte scambio quotidiano di contante, per il lavaggio degli utili criminali. La politica entra nella mafia per via obliqua e ancillare: gli appalti e la “disattenzione”, tipicamente cattolica o di sinistra, dei pubblici poteri di contrasto.

Poiché i parroci hanno esautorato o sciolto in ogni paese, su direttiva antimafia dei vescovi, le procure della festa del Santo, le organizzazioni laiche che provvedevano alle luminarie, i fuochi d’artificio e i concerti della festa, con una spesa da 50 a 100 mila euro, sostituendole con procure di scout o signorine, le feste ora si fanno in ogni paese laiche e più fastose, con grandissimi nomi per i concerti, sempre gratuiti, nel nome della birra, dello stocco, della prugna, della patata, o come notte bianca. E si dice: sono imbattibili. Le mafie, s’intende. Nascono così le onnipotenze. Mentre è solo un uso esteso delle sagre. Quelle costose con i soldi dei Comuni, attraverso le Pro Loco. Talvolta, è vero, su fondi europei.

Eravamo micenei, anzi minoici

Si dà il nome di Magna Grecia convenzionalmente alle città che migranti greci hanno edificato su suolo italico a partire da Napoli, nel 721 .C., a seguito delle invasioni della Grecia da parte dei popoli del Nord – “indoeuropei”, “ariani” – e delle tirannidi. Ma in epoche più antiche vaste zone della Puglia, la Calabria, la Sicilia furono interessate agli scambi con l’Egeo e all’impianto di colonie egee, nel secondo millennio a. C.. In particolare attorno al 1500 a.C., con lo sviluppo della talassocrazia cretese. Furono quindi di civiltà minoica, e poi micenea. In parte, se non prevalentemente. Con insediamenti mirati all’utilizzo delle risorse locali, e come basi avanzate per i traffici col Mediterraneo occidentale, la costa atlantica. Le leggende  di Diomede, Ercole, Enea e la simbologia del Toro ne sono espressione e testimonianza.  

leuzzi@antiit.eu 

Come condannare un innocente – Tolstòj ad Avola

Si può dare l’ergastolo per un assassinio senza morto, e senza arma del delitto? In Italia sì: per i Carabinieri concordi, la Procura della Repubblica, il Tribunale, la Corte d’Assise e la Cassazione. Che poi, quando il morto resuscita, condannano nuovamente l’ergastolano innocente, per violenza alla persona, sempre presunta, e non il finto morto che aveva inscenato la sua propria morte. Solo gli condoneranno la pena perché l’ergastolano ha già fatto sette anni di carcere duro. Senza scandalo per nessuno, perché le sentenze, com’è noto, si rispettano e non si criticano. Regime? Stalin non pretendeva di avere pure ragione. 
E la materia di questo duro racconto, di molteplici sorprese. Di fratelli anzitutto, una rarità nelle lettere italiane. Di fratelli maschi, tutti di forte carattere, anche i deboli. Della montagna - dell’isolamento - che induce ai cattivi pensieri e alla violenza: in ogni famiglia c’è un assassino. E dell’errore giudiziario per come si produce di fatto, per l’arroganza dell’“autorità costituita”, come usava dire. Un quadro dell’Italia rurale del 1960, anche: non un altro mondo ma un’altra epoca, arcaica, seppure appena mezzo secolo fa - che stranamente latita, in tanto neo realismo. Montato come un giallo. Un noir d’Avola come il vino, con sorprese dunque a catena, e un caleidoscopio di colpevoli. Di Stefano, nato a Avola nel 1956, all’epoca dei fatti, già apprezzato autore di romanzi, è cresciuto con la storia.
Un racconto lungo, insistito, che tuttavia regge la narrazione con costanza. Di Stefano lo articola a metà tra il racconto verità e quello delle passioni della povera gente, che sa rappresentare civili: una narrazione documentaria viva. Non un apologo, come ne faceva Sciascia, seppure in forma di esumazione documentaria – Sciascia ha ancora, vuole avere e dare, della storia e della giustizia una rappresentazione ideale. Né una mascheratura, di quelle che artigliavano Pirandello: è una rappresentazione, piuttosto, nuda. Come al bordello, che anche a Avola c’era, senza scandalo.
In carcere quando dissero la verità, li scarcerarono grazie alla menzogna
Il filo è di una giustizia allora menefreghista prima che terribilista: giudici impazienti, soprattutto con gli ignoranti, avvocati di classe inevitabilmente classicisti, “filosofi”, e marescialli dei carabinieri imperativi, di potere allora indiscusso. Della stupidità malvagia – o della malvagità sotto il galantomismo, che è sempre stupida prima che feroce. Dice un vecchio pescatore: “Li misero in carcere quando dissero la verità e li scarcerarono grazie alla menzogna”. Forse per inverare il proverbio: “La fame per il povero, la giustizia per i fessi”. Un fronte compatto, compresi i principi del foro a difesa, contro i massari, i villici e i pescatori che li onorano e li mantengono, con la fatica e con le tasse, inevitabilmente mutangoli, sproloquiatori, imprudenti - senza misura.
Un’altra meraviglia è che, poiché i fatti si svolgono tra Ortigia e i monti Iblei, sicuramente siamo in Sicilia, ma non ci ingozzano di mafia. Né di omertà: a Avola si parla, eccome, anche a costo del carcere. Il blurb, di Busi, dice che “se Giallo d’Avola fosse stato pubblicato nei primi anni Sessanta e non un mese fa, non meriterebbe meno considerazione de Il fu Mattia Pascal di Pirandello e si potrebbe gridare al capolavoro”. Strana scelta pubblicitaria, forse per la parola capolavoro: non è un instant book attardato, questo “Giallo d’Avola”, è un racconto infine robusto. Per il non detto più che per il detto, di sapienza stilistica cioè. In sé è un po  “Conte di Montecristo”, di vizi privati e squallori pubblici, ma la vicenda è realissima e Di Stefano ha scelto di rappresentarla con realismo tolstòjano, nell’impianto e nella resa.
Anche la bandella travia. La “secchezza realistica” applicando all’“analfabetismo dell’anima, o della psiche, che vieta ogni coscienza di sé”. Con corredo di “lascito antropologico”, di “depressa arretratezza” e di “barbarico, feroce e precivile”. Mentre è un caso di ingiustizia, cattiva, feroce, su un mondo ben umano e civile.
Forse è il fondo a indurre Busi e gli editori in errore, che è purtroppo contemporaneo. L’errore giudiziario non è un errore: è prepotenza. L’errore è prodotto dall’ira, l’errore giudiziario è frutto del pregiudizio. Si concretizza in lunghi, ripetuti, noiosi anche, giorni, mesi, anni di indagini e di cattiva coscienza, contro un solido principio: prima la colpevolezza, prima le prove della colpevolezza. Per noia, apatia, prevenzione. Talvolta per cattiveria. La giustizia in Italia ci ha ormai acconciati, ogni resistenza è inutile, alla discrezionalità: Non si occupa di provare la colpevolezza - o di sanzionarla quando è provata. La sua prova principe è l’articolessa di un giornale – si fa giustizia attraverso la cosiddetta “opinione pubblica”, di cui Di Stefano rintraccia, nel solo passo in cui si dice narratore, questa definizione: “Una dea bendata che cammina su un filo e che vien sospinta da mille mani or in un senso or nell’altro”. Senza la bilancia della dea bendata giustizia.
Una dea bendata
Un “Mattia Pascal” vero, dunque. Il fatto è noto, il lieto fine è scontato, e tuttavia il racconto è sempre vivo. Di pigrizie, classismo, superficialità, burocrazia, Un buco della storia della giustizia infine riempito – con un rimprovero muto a Sciascia, che molto scrisse del caso piemontese Brunelli-Canera, invece che di questo a pochi passi dal paese suo. “Il processo delle presunzioni”, uno degli avvocati lo definisce: presunto il morto, presunto l’assassinio, presunti gli assassini. Presuntuosi, si dice il lettore, gli inquirenti, annoiati, boriosi, prevenuti, e i giudici costretti a occuparsene, istruttori, procuratori della Repubblica, presidenti di tribunale, accidiosi, insofferenti – l’ergastolo è pena mite per il loro personale disturbo.
La moralità è durissima. Tanto più per non essere dichiarata ma rappresentata. L’ergastolano riconosciuto innocente dopo sette anni di carcere duro viene nuovamente ricondannato a molti anni di prigione per violenza alla persona, anch’essa non provata. Non tanti anni da rimandarlo nuovamente in prigione ma abbastanza per impedirgli di chiedere i danni al fratello che aveva simulato la sua propria morte violenta. Il fratello simulatore, reo peraltro di una copiosa serie di reati in base al codice, ha una condanna a quattro mesi, che non deve scontare. Assistito sempre, nelle molteplici condanne del fratello e nella non condanna sua, dallo stesso avvocato (l’avvocato che “fa” le cause per un certo periodo, presso un certo circondario giudiziario, resta un personaggio da raccontare). I simulatori vivranno quasi cent’anni, l’innocente morirà molto presto, dei danni subiti nell’internamento.
Paolo Di Stefano, Giallo d’Avola, Sellerio, pp. 333 € 14

giovedì 15 agosto 2013

Il business dell’immigrazione – 2

È una polemica giornalistica, tra un opinionista del “Foglio”, Roberto Volpi, e il sindaco di Acquaformosa, in provincia di Cosenza,…. abitanti, ma certifica la riduzione dell’immigrazione a business. Per le coscienze migliori, dei generosi e compassionevoli.
Acquaformosa farà il 22 un Festival delle Migrazioni. Il sindaco Giovanni Manoccio è parte, col suo piccolo comune, dello Sprar, Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Che, dice, vuole sostituirsi alla gestione attuale della prima accoglienza agli immigrati clandestini: “Chiederemo di adottare un modello di accoglienza, quello appunto della Spraer, che abolisca i Cie e i Cara e dirotti i tutti i fondi per l’accoglienza sui piccoli comuni”. Ha per questo invitato al festival la ministra Kyenge. Per chiederle “di dirottare tutti i fondi dei Pon sicurezza che vengono spesi per sistemi di videosorveglianza in interventi di ristrutturazione dei centri storici abbandonati in modo da trasformarli in luoghi di vera accoglienza”.
Cie, Cara, Pon, Spraer, Manoccio è burocratico malgrado se stesso. Ma non si nasconde: lo Spraer vuole gestire i fondi per l’accoglienza, italiani e europei. Per ristrutturazioni, refezioni, forniture varie, e soprattutto le assunzioni, sia pure di personale “volontario”. Il piccolo di un piccolo, micragnoso, business, ma pur semrpe business. Peggio se povero, e sulla spalle dei poveri. I quali, benché immigrati, senza documenti, senza personalità, non ne vogliono sapere dei piccoli centri, dei centri storici dei piccoli centri. E questo è il meno della questione.

Non possiamo non essere traditori

L’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza in un paese comunista, la Romania di Ceauşescu – “il re che s’inchina e uccide” (la raccolta è la seconda parte di “Der König verneigt sich und tötet”, 2003, di cui la prima parte è già uscita in italiano col titolo tedesco, “Il re s’inchina e uccide”). Hertha Müller rischia la ripetizione, ma non ne abbiamo altre storie né ricordi, benché il comunismo sia finito da venticinque anni – le memorie dei dissidenti sono vecchie, le poche storie sono dello stalinismo: come dire un passato sigillato, cioè rimosso. L’entusiasmo dell’indottrinamento, il sospetto di ogni altra espressione, con la persecuzione costante, senza la possibilità di rifiatare, sono un mondo ancora da scoprire, più sinistro della vecchia propaganda. Il primo portavoce del dittatore, modello della “parola” del regime, è ignorante, afono, dislessico. Il dittatore abbraccia i bambini in tv, dopo una quarantena degli stessi per evitare i microbi. L’ultimo killer mandato dai servizi rumeni a Berlino, fine anni 1980, per puntare su Hertha Müller era dieci anni dopo un rispettato e ricco industriale dei succhi di frutta a Timişoara. E “la fame d’amore” così diffusa in Romania? Leggere a p. 104: un paese dove l’isola non è evasione e liberazione, dalla routine, dalle costrizioni, dalla “terra”, ma isolamento.
Nelle memorie qui raccolte Hertha Müller dà corpo a questa inverosimile Europa di fine Novecento. Evocando i silenzi domestici (il regime sopravveniva agli entusiasmi hitleriani), la loquacità della natura, fiori, prati, piante, l’aggressione urbana. E il tradimento, delle amicizie più intime, degli affetti. L’ignobiltà del regime si misura col tradimento che impone: “Anche quando si lascia perché si deve, non si rimane senza sensi di colpa”. Il tradimento distrugge tutto: “Chi ama e abbandona
\ Dio deve punirlo”, la verità è in questo (raro) riferimento a “uno dei bei canti popolari rumeni”. “La testa rasata di una madre”, conclude il primo saggio, “l’alcolismo di un padre, la bara da fisarmonica di una nonna”, del figlio morto per la guerra di Hitler, “i blocchetti di ricevute di un nonno”, quelle delle merci che il regime anticapitalista gli ha confiscato, “i volti di una dalia, il tradimento di un’amica, la bellezza a doppio taglio dell’erba di un cimitero potrebbero forse essere sostituiti da altri esempi quando si parla della vita. Ma anche con questi altri esempi ci sarebbero cose che hanno conosciuto il «lato notturno della gola» e anche per quelle varrebbe la frase: «Se stiamo in silenzio, diventiamo sgradevoli – se parliamo diventiamo ridicoli»”, che dà il titolo al saggio.
Il “Magazine Littéraire” ritraccia “le grandi vite da infedeli”, a se stessi (Genet, Sartre, Michaux) e agli amici (Max Brod). Oltre che le figure classiche di Caino, Giuda e Ganellone (il traditore di Carlo Magno a Roncisvalle, Gano di Maganza nella “Divina Commedia” e nell’opera dei pupi). Hertha Müller il tradimento l’ha subito doppio, dai genitori nazisti non pentiti e dal dittatore comunista. Emigrata a sua volta per non dover tradire.
Quello della Nobel tedesca è anche il racconto di un isolamento. Non tanto - non più - politico, ma linguistico e personale: in Romania per essere tedesca, in Germania per essere tedesca di Romania. Con un prima, però, e un dopo. Tra le tante cose che hanno conosciuto il “lato notturno” c’è, non detto, in piccolo anche se non in proprio, un suo piccolo tradimento, da tedesca di Romania: la misconoscenza di un paese, una lingua e una cultura che l’ha nutrita, bene o male, e l’ha ospitata - dopo avere ospitato per otto secoli i suoi svevi, per qualche merito evidentemente. “L’isola è dentro – il confine fuori”, un breve scritto di questa raccolta, registra infine “l’ideologia banato-sveva” del “«Noi» tedeschi migliori di tutti gli altri”. E la rifiuta, ma non la condanna. Crredamdola con la solita chiamata di correo: “I rumen con Antonescu erano stati, anche loro, alleato di Hitler”.
La scrittura è sempre irta. Ma le traduzioni dell’editore trentino, il primo di H.Müller in italiano, la rendono anche gradevole.
Herta Müller,Il fiore rosso e il bastone, Keller, pp. 143 € 13
La trahison, “Magazine Littéraire” luglio-agosto 2013, pp.98 € 6

mercoledì 14 agosto 2013

Opera

L’aria del baule
Si fece sorbetto
Uscendo dal sonno
Quella di bravura
Divenne di sortita
Per un’aria di guerra
Oppure di caccia
Mentre l’aria di lamento
Si ritrovò in catene

Dove ha fallito Berlusconi, nella tv

Berlusconi è il soggetto di centinaia, forse migliaia, di libri contro. Solo da qualche anno i banchi Feltrinelli dell’attualità politica non sono più ingombri di libri contro, da cinquanta a cento titoli attendevano a ogni stagione. Più una serie di saggi di eminenti storici e sociopolitici, anch’essi però da talkshow: niente resta di Gibelli (autoritarismo), Cordero (illegalità), Santomassimo (fascismo), o degli storici di partito, Ginsborg, Gotor e altri minori. Una pubblicistica più inutile, nella migliore delle ipotesi, di quella antimafia, che è tutto dire – che magnifica cioè, sotto sotto, la mafia.
Le polemiche del resto sono scontate: Berlusconi è corrotto, corruttore, mafioso, mercante di droga, di armi, tiranno, amico di tiranni - manca stranamente il Berlusconi magnaccia, che invece gli ha valso una condanna, si vede che il soggetto non tira più. Tutte giocate, alla fine, sul Berlusconi monopolista della televisione. Mentre ognuno sa che la televisione è la Rai, è la Rai che fa il linguaggio. E che lui personalmente è improponibile in tv. Non solo non “buca” lo schermo, non fa presa, ma respinge, sempre inamidato, ingessato, straparlante, monotono. I suoi telegiornali e talkshow, con tutta la buona volontà e la finezza tecnica, non riescono a farlo digerire.
Orsina tenta un’altra strada, il radicamento di Berlusconi nella tradizione italiana. Per uno storico non ideologo (ma abbiamo solo storici di partito, o di giornale) è l’unica strada percorribile. Con gli strumenti del minimalismo popperiano. Che alla “domanda «platonica»”, di chi “debba governare”, per nascita, diritto o saggezza, sostituisce quella comune alle democrazie occidentali, “su come chi governa possa, all’occorrenza, essere sostituito pacificamente”. Orsina articola la ricerca su un lungo excursus storico, che a tratti fa perdere il filo, ma il succo è chiaro: l’Italia politica è un muro, un blocco di potere, più o meno immutabile, che si chiami liberale, nazionale, fascista, cattolico, compromissorio, che ogni cambiamento vuole assimilare sotto controllo, per accomodamenti e slittamenti, sempre in ritardo, sempre conservatore.
Questo blocco non è solo italiano, sembra dire Orsina. Che si fa soccorrere da John Stuart Mill: si ha vera libertà quando si è “capaci di migliorare attraverso la discussione libera e tra eguali”, prima non c’è altro che “l’obbedienza assoluta a un Aqbar o a un Carlomagno”, se si riesce a trovarne uno.  Ma non è chi non veda che solo in Italia il blocco è inamovibile, col Muro e senza il Muro, da ultimo con Mani Pulite, una “rivoluzione reazionaria” se mai ce ne fu una, benché – o perché – milanese.
Berlusconi – peraltro anch’egli molto milanese – è quello che con più abilità e successo ha scalfito quel blocco. Per il messaggio, che questo sito ha definito dell’ottimismo, o del riconoscimento che l’Italia è un paese ricco. E per la capacità di veicolarlo. Ma ha fallito, pure lui.
Il linguaggio è la Rai, povero
Anche Orsina usa le categorie fumose del populismo mediatico – che si poteva risparmiare: l’Italia, ricca e povera, non è scema. Berlusconi semmai è un maestro della “vecchia” politica: il comizio, le folle, il governo dei suoi. Da venditore eccellente quale è. Ma è vero che ha fallito. In un senso è vero che è il magnate della tv, nel senso che sfida il linguaggio Rai, del pauperismo, la lamentale, la furbizia (eh sì, anche la furbizia). Ma anche lui sbatte contro un muro inscalfibile.
In filigrana, va osservato che Orsina misura il berlusconismo con J.S.Mill e Karl Popper. Cioè con la sinistra libertaria che si rifiuta, che l’Italia – il blocco, il muro – rifiuta. Più che una critica del berlusconismo, un’imputazione di fallimento, la sua ricerca ne fa “oggettivamente” l’esito di un’insufficienza della sinistra. Di una sinistra che si vuole immutabile per non riconoscersi decrepita, ipocrita, faziosa – “sovietica” (fascista?).  
Giovanni Orsina, Il berlusconismo nella storia d’Italia, Marsilio, pp. 239 € 19,50

martedì 13 agosto 2013

Ombre - 186

Donatella Stasio, capo servizio giudiziario del “Sole 24 Ore”, spiega oggi a Berlusconi come evitare l’improponibilità politica – “per allontanare lo spettro della decadenza da senatore e della successiva incandidabilità”. Un itinerario dettagliatissimo, nelle proposizioni principali e nelle subordinate. Di una giornalista, sembra di capire, non berlusconiana. Il percorso è peraltro della Procura di Milano. Perché affidarlo a un giornale, sia pure rispettabile?

La Procura di Milano, dunque, che ha voluto strenuamente, con una ventina di processi, Berlusconi criminale, lo vuole ora salvo alla politica. Per imbordellire la politica. Per goliardia o per gli interessi che tutti sappiamo? 

Questa Chaouqui che imbarazza il Vaticano è una del circolo “Vedrò” dei Letta, zio e nipote. Dunque il generone romano è tornato, insieme con la Dc al potere.
Chaouqui è anche informatrice di Dagospia, il sito gossip di Roberto D’Agostino subentrato alla defunta Maria Angiolillo quale confidente del generone – sornione. Anche questo è uguale come a prima, Roma immutabile. 

La gola profonda del Vaticano è dunque una ragazza, giovane, senza mestiere, volentieri loquace. È vero che i preti non cessano di stupire, da duemila anni.

Si può dire Francesca Chaouqui una velina vaticana – o ambrosiana, di che rito è? Non sa fare nulla ma è sempre in prima pagina. Invece che con i calciatori spopolando con i cardinali, e perfino col papa, che l’ha fatta sua consulente.

La cosa potrebbe essere infetta, preferire i cardinali ai calciatori. Ma la velina del papa non è male.

O è Roma che è infetta: è tempo di una nuova Avignone?

Due giovani in una Smart a Posillipo vengono derubati di notte. Dopodiché due moto li inseguono per derubarli di nuovo. Finché una delle due moto non tampona la Smart e i due ladri che la cavalcavano muoiono. Subito la Procura di Napoli incrimina l’autista della Smart di omicidio colposo. Poi si dice che Napoli non è efficiente, ma dov’è la violenza?

Valeria Straneo, quasi quarantenne, reduce da una grave malattia, conduce dall’inizio alla fine in testa, con grave distacco sulle altre, la maratona mondiale di Mosca. Fino agli ultimi dodici metri, quando Edna Kiplagast, che si è limitata a seguirla per la seconda metà della gara, la supera e vince. In ogni altro contesto Valeria avrebbe vinto. Ma Edna Kiplagast è africana: è un’altra sensibilità.
L’interculturalismo non l’appiattisce.

Sabato “Repubblica” ha un titolo su Mediaset che perde il 2 per cento, “per la condanna di Berlusconi”. Martedì “Repubblica” non dice che Mediaset ha guadagnato il 4 per cento – una settimana fa. Che nell’ultimo mese è salita del 20 per cento. Che la Deutsche Bank la vuole a € 4,50 – da 3,20. Informazione? Eppure ci sarebbe materia: perché sale tanto un’azienda di un settore in crisi?

A Roma ogni pochi giorni fiumane vengono riversate di dimostranti, in piazza e in corteo. Una ogni cinque giorni, togliendo le feste, Natale, Capodanno, Pasqua, Ferragosto eccetera. Per una volta chela manifestazione era di destra, e in un’area limitata, senza danni per la città, il sindaco Marino la denuncia alla Procura della Repubblica e si fa pagare i danni al suolo pubblico, 4 mila euro.
Non è stupidità, come dice la destra, è arroganza – anche se l’arroganza è stupida: i siciliani sanno eroicizzare i nemici, è la loro specialità.

Sicuramente il partito della manifestazione accusata da Marino sarà inquisito e condannato. Alla Procura della Repubblica comanda un altro siciliano, Pignatone. 

Pisapia fa le ronde, “unità mobili sociali”, dopo aver trattato con freddezza la ministra Kyenge. Mentre attacca da extraparlamentare Dolce & Gabbana – extra di destra o di sinistra? destra e sinistra non fanno differenza a Milano.

Lo “scrittore scritto”, da un altro mondo

Più di tutto attira il titolo: perché “laggiù”? Uno potrebbe dire della Calabria “lassù”, stando a Lampedusa per esempio. E invece non potrebbe, il Sud è uno stato d’animo, condizione esistenziale. Grisi, che non ha complessi e se l’è goduta per quasi ottant’anni, benché calabrese, in queste “dieci memorie” della sua Cutro d’origine, “un paese terribile e romantico”, ne fa una via d’uscita. Verso sogni, follie e fantasmi. Col nonno saggio, la mamma pazza, la nonna evanescente, il barone geloso, l’ammiraglio rinnegato, il trasvolatore dello Stretto sul mantello. “Tutto risorge nel sognato,\ La memoria è futuro”. Anche lo scrittore scritto non è male.  
Francesco Grisi, Laggiù in Calabria

lunedì 12 agosto 2013

Dante sta bene all’inferno senza filologia

È l’originale latino, con la traduzione, del testo voluto nel secondo Duecento da Alfonso X di Castiglia, “il Savio”, di una redazione del racconto tradizionale mussulmano del miraj, l’ascesa del Profeta a Dio. Col saggio di Maria Corti, uno degli ultimi della filologa che per tanti aspetti si può dire una dantista (“la ragazza che s’innamorò di Dante” titolava il necrologio Cesare Segre: hanno molto Dante le sue due ultime raccolte di saggi), la quale voleva riportare la “Divina Commedia”, e Ulisse, con le colonne d’Ercole, e a ben leggere la Scolastica, insomma mezzo Occidente, alla tradizione islamica - lei direbbe alla comunanza di vite mediterranea, che ora si è persa, ma è lislam che la affascina, il suo Mediterraneo cominciava e finiva a Otranto.
Ora che è in lettura per tutti si vede che “La Scala” non ha nulla a che vedere con la “Divina Commedia”: Dante non ha copiato né plagiato, tanta filologia per nulla. L’avrà magari letto, più probabilmente ne ha sentito parlare, del viaggio ultraterreno all’inferno con ascesa al paradiso, non una grande novità – né un’esclusiva. E con ciò?
Libro della Scala di Maometto, Bur, pp. LXXIX + 365 € 13

Il debito è della seconda Repubblica

È il prezzo della corruzione diffusa. È il prezzo della cosiddetta seconda Repubblica, l’antipolitica che ha “liberato” la corruzione abolendo i partiti. Al coperto di una scienza politica indigente, che non ha ancora capito che la funzione dei partiti non è il potere ma la selezione e il controllo del personale politico - il controllo reciproco fra gli aderenti, che è il più efficace. Sotto le insegne, beffarda, della giustizia o della questione morale, che in Italia sono gli incubatori veri della corruzione: impunita, e anzi protetta.
Il fatto è che il debito pubblico era nel 1991 di 840 miliardi di euro. Dopo aver modernizzato l’Italia, superato gli shock petroliferi con l’inflazione al 20 per cento del 1973-74 e del 1979-1980, e combattuto una guerra civile, contro il terrorismo e la mafia di Riina. La “seconda Repubblica” ha acceso nuovo debito per 1.200 miliardi. Pur avendo venduto (privatizzato, liberalizzato) beni pubblici per 160 miliardi. Non incoraggiando e anzi scoraggiando l’economia, che da vent’anni ristana ed è comparativamente in contrazione: senza investimenti (produttività) e senza più reddito. Avendo dilapidato la propensione al risparmio, che era la più alta al mondo. Pur avendo beneficiato per un decennio dei bassi tassi d’interesse euro.

Non si saprebbe fare la somma delle infezioni della “seconda Repubblica”. La giustizia infetta. La funzione pubblica punitiva. La formazione (scuola, università) inutile. E, al meglio, i salvatori alla Monti, che curano il debito con le tasse  

Fisco, appalti, abusi – 34

Wind ha lanciato la pennetta internet a 9 euro al mese per 50 ore di connessione, due ore al giorno, più che sufficiente.
Ora vuole 3 euro al giorno, per una connessione di 24 ore ma anche di 24 secondi: da 9 a 90.

Nel solo 2012, calcola l’Autorità per l’energia, gli utenti del mercato libero hanno pagato il kWh più caro di un 12,5 per cento rispetto a quelli del mercato di “maggior tutela”. Una beffa, detto dall’Autorità che consente gli abusi con una composizione tariffaria astrusa. Tacendo dell’Enel che da cinque anni butta fuori dalla “maggior tutela”, con ogni artificio, ogni utenza non conveniente – non “molto” conveniente.

Ogni bolletta consta di cinque-sei pagine. Illeggibili in ogni voce: consumi (a conguaglio, stimati, calcolati, mai letti), tariffe (sia per il gas che per la luce e per i cellulari la tariffa si scompone in una diecina di voci incomprensibili), scadenze, modalità di pagamento. Per rispettare, è l’obiezione, i regolamenti delle Autorità di settore. Costosissimi organismi che i contribuenti mantengono per fare gli interessi delle compagnie?

Si moltiplicano ogni giorno per il telefono e per l’elettricità le offerte concorrenti dei gestori. Diecine di milioni di contatti. Che nessuno prende più in considerazione. Ma non costano nulla, giusto pochi centesimi per i (rari) contratti strappati. Sfruttando il tempo e le aspettative di casalinghe a tempo perso, e delle donne albanesi, rumene, ceche, colte, linguiste. Si depreca giustamente la schiavitù, nella quale però il padrone aveva degli obblighi verso gli schiavi, e questo sfruttamento senza obblighi? Questo mercato è peggio di un mercato degli schiavi.

Due contratti con Eni Energia, per il gas e per l’elettricità, hanno richiesto diciotto mesi di comunicazioni varie, e ancora non sono stati avviati – uno sì, così sembra, l’altro no. Lettere, e-mail, raccomandate, telefonate registrate. Un contratto scritto richiedeva un tempo pochi minuti. La liberalizzazione si fa all’insegna dell’inefficienza. Che gli utenti devono pagare.

Quanto è costato – costa – l’outsoucing? Un popolo di schiavi da vent’anni nei call center, per paghe irrisorie, che li tengono fuori del mercato e del consumo. A un costo comunque oneroso, a fronte dei servizi (non) resi? Un mercato dell’aria fritta?

Il primo treno della linea B della metro di Roma si ferma una mattina sul ponte San Paolo sul Tevere perché  i cavi di rame sono stati rubati nella notte. Fa già caldo, i passeggeri sono costretti a scendere e avviarsi a piedi lungo il binario. Il furto non è opera di ignoti, ci sono depositi visibili di rame rubato, presso incettatori conosciuti, con acquirenti rispettabili. Ma i furti in tutta Italia sono quotidiani ormai da un paio di decenni, col rincaro del rame per via delle guerre umanitarie. È così che tutti i discendenti di rame sono stati razziati e molte condotte elettriche.

Rubare il rame non è un delitto? Rientra nei protocolli per la protezione dei rom?

domenica 11 agosto 2013

Il business infame dell’immigrazione

Muoiono gli africani e gli asiatici “come mosche” sulle coste di Sicilia e di Calabria. Ma senza fatalità, per un business. Che dire infame è dire poco, il business dei deportati.
I migranti, come ipocritamente vengono definiti con furbo neologismo, sono tutta gente che deve vendere a poco il poco che ha, e spesso indebitarsi, per venire in Europa. Per venire a morire – si sopravvive per caso. S’indebita talvolta con gli stessi corrieri. Che sono malfattori ma non sono soli. Hanno complici in Italia nel malaffare. Non si spiega altrimenti come dai porti di Turchia e di Siria si arrivi sempre a Crotone – non è facile,  specie ai barchini o le carrette del mare. E hanno complici, anche se non volenti, le organizzazioni cosiddette umanitarie che si moltiplicano per l’“accoglienza” – accoglienza è parola chiave.
Cosiddette perché non hanno nulla di volontario, se non l’impegno non retribuito dei molti: sono associazioni e organizzazioni nate per “gestire” i fondi europei per l’accoglienza. Mettendo a frutto vecchi casolari e alberghi fatiscenti, e fornendo ranci acidi, a fronte del contributo europeo per l’“accoglienza”.
Il “dramma” dell’immigrazione è un business. Che dà il segno dell’imbarbarimento dell’Europa. E dell’ipocrisia dei vescovi, della chiesa, che il business copre con le buone parole. Una vera “accoglienza” comincerebbe a casa dei deportandi, con l’informazione, con la regolazione dei flussi, con le campagne annuali di visti legali, con trasporti non esosi.

Berlusconi martire ottimista - 11

Presa sul serio, la sentenza del giudice Esposito è grave: espone il Parlamento allo svuotamento totale, anche formale. Finora ha vivacchiato facendo finta di legiferare, al riparo del “porcellum”, la legge elettorale che consente finte maggioranze. Alle prossime elezioni sarà un sinedrio di teste vuote: i governi, la politica e le decisioni si faranno fuori, dove Berlusconi avrà ancora il diritto di risiedere, seppure ai lavori socialmente utili – lavori, utili: che disprezzo, anche del linguaggio. Anche se, in realtà, non cambia nulla: la sentenza telefonata, una carnevalata anche nei contorni, del solito napoletano sicofante ambrosiano, conferma che Milano ci governava e ci governa a piacere (anche attraverso Berlusconi).
Ma, se questa è la vera dimensione della storia, una comica, a essa conviene anche acconciarsi. Non si può pretendere una revolución, non contro Milano. Non avremmo neanche i soggetti per chiamarla, oltre che gli strumenti. Il nostro miglior capataz, Asor Rosa, un vegliardo voluttuosamente incontinente, scrittore di apologhi fiabeschi dopo essere stato teorico del materialismo letterario, o della lotta di classe in letteratura, uno che si è goduto tutto, compreso spaccare la facoltà di Lettere dell’università La Sapienza per creare una cattedra  alla sua compagna, voleva Berlusconi peggio di Mussolini a Ferragosto del 2008. Salvo poi prospettare un golpe invece della revolución, chiamando nominativamente carabinieri e polizia alla sedizione, aprile del 2011 - non era nemmeno il primo aprile.
Abbiamo combattenti della libertà attenti a camuffare il business, per piccolo che sia. Della stessa stoffa di Berlusconi, insomma. Che ora si pone nelle vesti di martire. Della casa, dell’impresa, della giustizia, e naturalmente della libertà. Un monumento gli hanno eretto questi giudici alla Esposito, che lui si incaricherà di sfruttare in ogni piega. Chi non è vittima dell’ingiustizia? Nemmeno Asor Rosa difende Esposito - non si dice, ma si sa, che volentieri il giudice si è conformato allo ukase milanese, per riparare il torto che i berlusconiani hanno inflitto a suo fratello Vitaliano, ex Procuratore Generale della Cassazione, cassandogli la prebenda di 200 mila euro, annui, quale Garante della protezione ambientale a Taranto..

Serio e reale
Dobbiamo però prendere Berlusconi sul serio. Non solo perché è reale: uno che lo mandano in prigione non può essere di plastica. Non solo perché è il primo politico condannato della Repubblica perché “non poteva non sapere” - dopo Craxi: due milanesi, per caso? Non solo perché ha rappresentato e rappresenta mezza Italia: noi non facciamo compromessi, questa Italia la cancelliamo, come Hitler, anzi come Stalin, sporchi reazionari e socialfascisti. Ma perché ha fiducia, in se stesso e negli altri. Si circonda di gente inetta ma gli vuole bene, e sempre li remunera: gli porta voti e potere.
I nostri migliori storici non sono riusciti a scalfirlo – Asor Rosa viene in coda a una lista lunghissima di grandi, comunque lunghe, e inefficaci riflessioni, di Cordero, Ginsborg, Gotor, etc. Che non ne capiscono la vera natura, per questo non lo appendono per i piedi come vorrebbero. La vera natura del berlusconismo, si capisce ora nella disgrazia, è la fiducia: la voglia di fare con la pretesa di saperlo fare. Anche, nel caso dei suoi governi, con l’imperizia. Questo si vede con un accorgimento semplice, facendo un passo indietro dal proscenio.
Si dice Berlusconi un monopolista della televisione. Mentre la tv è la Rai: è la Rai che fa il linguaggio.
Berlusconi è improponibile in tv. Non solo non “buca” lo schermo, non fa presa, ma respinge, sempre inamidato, ingessato, straparlante, monotono. Semmai è un maestro della “vecchia” politica: il comizio, le folle, il governo dei suoi. Quindi nemmeno un innovatore, ulteriore debolezza n aggiunta all’impresentabilità. In un senso, però, è vero che è il magnate della tv: nel senso che sfida il linguaggio Rai, del pauperismo, la lamentela, la furbizia (- eh sì, anche la furbizia) del bisogno. Berlusconi è ottimista. 
La povera Italia è ricca
Si spiega solo così il miracolo che mezza Italia lo abbia votato. L’attrazione per il povero-e-debole, seppure del tipo apotropaico (scongiuro), il lamento, la Rai per intenderci, tengono l’Italia a freno. Triste, lagnosa. Berlusconi è il contrario. Non è una differenza da poco. Si può dire anzi che è per questo che lo puniscono: la fiducia e l’ottimismo significano la libertà, e il Raiume non li tollera, il pretume. Berlusconi viene infatti condannato come Craxi, l’altro politico che aveva tentato di dire ricchi i ricchi, e dagli stessi ambienti confessionali, della curia ambrosiana così profondamente infetta.
L’esito pratico dell’ottimismo sarà alla fine non diverso né migliore di quello del pessimismo, ma non bisogna disperare, è già un buon passo. Intanto ripaga Berlusconi, quindi inefficace non è. Ma è anche – sarebbe, dovrebbe essere – un atto di onestà: riconoscersi ricchi è infine non più camuffarsi (evadere il fisco, professarsi solidali incassando pensioni da centomila euro pagate dalla collettività, e fare l’elemosina, raramente), stare nel proprio ruolo. Una borghesia che si accetta e non si nega, e non pretende sconti. Non si camuffa più, come è quella milanese che pretende di governarci, che è ladrona e si pretende onesta, è furba e si pretende ingenua, è malvagia e si pretende buona. Bensì si riconosce e dice per quello che è, come avviene in Europa, Spagna compresa, e negli Usa, e si prende infine le sue responsabilità di società ricca.
Noi che siamo antiborghesi invece ci lasciamo fregare dai borghesi che si negano. Berlusconi stesso ne è un esempio, involontario?, in famiglia: con una moglie vendicativa, che si fa scrivere le lettere di denuncia da un giornalista nemico, e con la quale ha cresciuto figli senza senno, bellamente torvi. Il “fare” porta a trascurare, ha questo handicap. Ma di lui si deve dirlo: non ha dato il Milan all’erede incapace che lo pretendeva, come altri magnati milanesi antiborghesi
Il riconoscimento di se stessi non è niente di rivoluzionario, ma può essere la chiave di un successo. Che l’Italia è uno dei paesi più complessi e meglio organizzati al mondo, anche se peggio governati da qualche tempo, più ricchi anche. Che ha un dovere di amministrarsi e non di disperdere il patrimonio dei secoli e millenni. Senza nascondersi dietro al democrazia: la democrazia vuole impegno, per sé e per gli altri.

La pelle nuova del poeta impegnato a cantare

“Pueti senza mpegnu, vi salutu”. Pasolini, entusiasta, dice Buttitta “un buon poeta”. Contini, freddo, se ne senti trasportato come con Jacopone “nel magma del suo incendio”. L’antologia critica del poeta, morto quasi centenario nel 1997, è molto nutrita e entusiasta. Salvo le riserve: l’impegno politico prevalente, la cantabilità, la facilità di metrica e di rima del cantastorie, qual era stato e si professava. Da narratore in piazza, seppure non di cavalieri e amori ma di questioni sociali. Per Pasolini Buttitta era l’immagine del poeta, anche fisica, nella figura, la dizione, la gesticolazione – che forse lui non apprezzava.
Questa riproposta fa invece intravedere un poeta diverso. Siciliano certamente come vogliono i suoi curatori, è nato e vissuto in Sicilia, si esprime in dialetto. Ma non più di tanto, che altro vuol dire “siciliano”? Buttitta non ha temi folkloristici né tradizionalisti, o gingoisti. “La peddi nova” è la sua prima raccolta dopo l’incontro col Partito: con Pasolini, Répaci, Zavattini, Vittorini, Guttuso, Quasimodo. Ma è anche la sua “Vita nova”. Qui abbandona le stanze e la cantabilità, per una serie di immagini ancora feconde, seppure rincorrendo apologeticamente i temi politici e sociali del momento. Altre amicizie ne tenevano desta la lingua e la fantasia, con Mario Soldati, Cocchiara, Carlo Levi, Debenedetti - e col solito Bassani cui si deve il meglio del secondo Novecento, che la raccolta pubblicò cinquant'anni fa da Feltrinelli. Senza perdere il gusto degli “Straffetti e canzuni”, molti dei quali riesuma. Compreso l’inno a “Sariddu lu Bassanu”, fascista e italiano, al ritmo di Gano di Maganza – o di Magonza. In effetti Ignazio Buttitta era uno spirito forte, molto teatrale, ma non strafatto né superficiale, spontaneista ma capace di lavorare l’espressione. Il libro, senza l’ombra sua grande, ne fa fede.
Ignazio Buttitta, La peddi nova, Sellerio, pp. 216 € 14