Cerca nel blog

sabato 16 ottobre 2010

L'adulterio all'epoca del lavoro, di lui

L’amore continua a essere una storia tra lei e l’amante, l’adulterio. Dei tempi felici in cui l’uomo era ancora in diritto di avere un’amante, adulterina. E di tradirla. Ma poi lui deve lavorare, e la storia finisce male. D’altra parte l’autrice aveva solo 23 anni, e due lingue diverse con cui confrontarsi. Benché già con tre vite dietro.
Irène Némirovsky all’esordio non è ancora turbata dall’esilio. Né dalla cittadinanza negata. Ma ha già il complesso dell’ebraismo.
Irène Némirovsky, Il malinteso, Adelphi, pp.190, € 12

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (71)

Giuseppe Leuzzi

Pasquale Villari due delle sue “Lettere meridionali” seconda serie, al direttore dell’”Opinione” di Firenze Alessandro Dina, intitola nel 1875 “La camorra” e “La mafia”. La prima è insuperata ancora oggi. Lo storico napoletano pone l’origine della camorra nell’abolizione del feudalesimo e nell’unificazione dell’Italia. Nell’uso spregiudicato dei camorristi come gestori dell’ordine e del commercio da parte di Liborio Romano, il ministro borbonico dell’Interno passato con Garibaldi, e dei nuovi amministratori. E nell’abbandono a se stessa della plebe da parte dello stato unitario. Mentre in antico la Corte, le grandi famiglie e i conventi davano di che vivere alle masse. C’era un equilibrio, seppure non produttivo. “Un primo colpo” questo equilibrio “lo ebbe dall’abolizione del feudalismo. Le grandi fortune si divisero, incominciò la piccola proprietà, e, per le mutate leggi, una serie di interminabili litigi innanzi ai tribunali. Molto se ne avvantaggiarono il ceto degli avvocati e la borghesia; ma la plebe si trovò come abbandonata, perché le scemate fortune non potevano facilmente aiutarla, e le nuove industrie non sorgevano”. Più tardi Villari osserva: “La legge suppone che il camorrista non faccia altro che guadagnare indebitamente sul lavoro altrui. Invece esso minaccia e intimidisce, e sempre per solo guadagno; impone tasse; prende l’altrui senza pagare; ma ancora impone ad altri il commettere delitti, ne commette egli stesso, obbligando altri a dichiararsene colpevole; protegge i colpevoli contro la giustizia… L’organizzazione più perfetta della camorra trovasi nelle carceri, dove il camorrista regna. E così, spesso si crede di punirlo, quando gli si dà solo il modo di continuare meglio la sua opera”.

Della mafia molto c’è di nuovo. Ma sulle origini è Villari ancora il migliore interprete: la mafia fa capo ai paesi vicini a Palermo, segnalava nel 1875, ai Monreale e Partinico, e cioè alla Conca d’Oro e al il Golfo di Castellammare, dove non esiste grande proprietà, e la piccola proprietà è dominante. La piccola proprietà che recinge la città, chiusa tra le sue grandi famiglie, domina il paese, in accordo con gabelloti, campieri e commercianti di grano, con l’usura e la violenza. La mafia nasce nella Sicilia orientale “dalle condizioni speciali della sua agricoltura”.

La mafia e il brigantaggio sono la conseguenza di una crisi sociale acuta: è tesi della Destra liberale, anticipata da Pasquale Villari in una delle sue “Lettere meridionali” del 1875, prima che della sinistra.

“L’unità d’Italia è stata per il Mezzogiorno un disastro”: Gaetano Salvemini.

Il magistrato scrittore De Cataldo pubblica un romanzo sui traditori del Risorgimento, e nell’occasione dice a “Repubblica”, a Curzio Maltese: “(Quello con le mafie) è il patto fondante di ogni potere. Il Sud e la Sicilia in particolare sono il laboratorio del compromesso, ieri come oggi e, tempo, domani”. Prima aveva detto, a proposito del terrorismo: “Nell’attentato bombarolo di orsini a Napoleone III, che non uccise il tiranno ma provocò otto morti e centoquaranta feriti, Mazzini non c’entra nulla. Si sospetta invece che c’entrasse molto il futuro presidente del consiglio Grancesco Crispi e si sa che Cavour diede soldi a Orsini e al suo gruppo”.

“Su una tratta di quell’enorme cantiere (la Salerno-Reggio Calabria, n.d.r.) ci sono stati 120 attentati”, denuncia il ministro dell’Economia Tremonti. Non ci sono i carabinieri?

L'odio-di-sé-meridionale
Verga prima di Corrado Alvaro: l’ideologia di vinti ha disfatto il Sud, se ancora ce n’era uno. Non c’è più pathos se non vittimista. Ciò tara la gioia, e quindi la gioia di essere, di fare: il riscatto.

Dei greci della Calabria e in Terra d’Otranto, “dove si parla un dialetto, ch’è assolutamente greco”, parla lo storico Pasquale Villari in una delle sue “Lettere meridionali” nel 1861. Ma giusto perché i tedeschi ne parlano: “Il Niebuhr aveva già notato questo fatto; più tardi qualcuno dei nostri canti popolari greci fu pubblicato in Germania; e vi furono anche dei dotti i quali pretesero sostenere che quello era greco antico”. Dotti anch’essi tedeschi, questa storia non riguarda l’Italia.

Da Pasquale Villari a Rosario Romeo il Sud scompare dalla storia d’Italia. A opera soprattutto degli storici meridionali. Un’appendice, purulenta.

Alvaro è ben più dell’odio-di-sé meridionale. È lo scrittore più cosmopolita del Novecento dopo Pirandello. Cosmopolita in senso proprio, non per carrierismo culturale alla D’Annunzio, Malaparte, Calvino. E perciò poco amato: la critica, anche accademica, è singolarmente provinciale.
Il cosmopolitismo non è di per sé patente di buona scrittura. Ma è comunque un motivo d’interesse in più. Che però non ha rilievo critico, a petto dei provincialismi: regionali, dialettali, familiari, generazionali. Tutti asfittici, domestici, chiusi. Anche da parte dei cultori di Proust e dell’espressionismo tedesco.

Sicilia
Terra di vulcani e terremoti. Di magnetismo forte.

Non è mai verità. Perfino Sciascia ha vaste riserve mentali.

Sciascia è manzoniano, quindi antimeridionalista: è narratore raziocinante, costruito. Come Manzoni, è il problema del potere che lo agita, non la violenza, o la bellezza, l’amore, la natura, la morte.

Dunque il governo Lombardo ter o quater in Sicilia esiste. Che sembrerebbe impossibile e perfino inimmaginabile, eppure è stato votato. Un governo Milazzo in formato minimo, con un ex Dc poi berlusconiano screditato, incapace di una sola iniziativa di governo in due anni, indagato per mafia con qualche fondamento, che mette insieme gli scarti di quattro partitini e si fa un suo personale governicchio. I voti li porta il partito Democratico. La voglia di dissoluzione in Sicilia e al Sud degli ex comunisti non ha confini.
L'onorevole Briguglio, che segue il fondatore Fini fin dal vecchio neo fascismo, saluta incisivo il Lombardo Ter, o Quater: "La terra di Sicilia può essere il granaio di Futuro e Libertà". Lo stile, quello, non muta: è sempre quadrato, incisivo. I democratici dovranno andare a scuola di (neo?) retorica.

Cosa manca? La costanza. Fare le marmellate per un secolo e mezzo, come gli inglesi, con gli agrumi della Sicilia. Un impero Sunsweet, costruito in California sulla prugna secca, è impensabile al Sud – è faticoso già pensarci.

leuzzi@antiit.eu

venerdì 15 ottobre 2010

Fuoco amico sul Pd e sindrome De Martino

La chiamano, suona elegante, scalata. Ma la scena è quella di un banchetto arabo, dove l’agnello è rosolato a fuoco lento, e i convitati ne spiluzzicano brandello dopo brandello, con dita gentili, che non si vorrebbero unte. La vittima di questo non innocuo banchetto è il partito Democratico. Che in termini bellici contemporanei si direbbe vittima del fuoco amico, ma non per caso né per errore, per calcolo. Tre leader divorati in un anno, Veltroni, Franceschini e Bersani. Senza contare l’autoescluso Prodi e il Dalemone. In attesa del papa straniero, il federatore, che dovrebbe essere Fini… Ogni proposta politica, mozione, iniziativa di base o parlamentare, soffocata subito nell’insignificanza. Il gioco delle autocandidature moltiplicato a subitanei picchi di ridicolo. A opera di tutti i giornali sostenitori, che è come dire, senza ingiuria per gli esimi commentatori, dei loro padroni.
“Il Pd non ha appeal (stavo per scrivere “sex appeal”)”, Scalfari su “Repubblica”. Bersani “potrebbe essere un eccellente ministro, non è un convincente capo dell’opposizione”, Michele Serra su “Repubblica”. “Il Pd è oggi un partito senza identità. Alla mercé degli incursori esterni, da Di Pietro a Vendola”, Panebianco sul “Corriere della sera”. I più feroci antiberlusconiani, il gruppo De Benedetti, il gruppo Rcs, i conduttori della Rai, di Sky, della 7, non lasciano passare giorno senza strappare un pezzo a questo Pd. Che statisticamente è impossibile che non combini nulla di buono.
Sono attacchi giornalistici. Ma il Pd non è altro che l’opinione di questi giornali. È l’altro aspetto del problema della sinistra inconsistente – un vero partito in qualche modo si farebbe rispettare. La sindrome è quella dei socialisti di De Martino, che si consideravano i migliori, avevano buona stampa, e a ogni elezione si riducevano. Fino a considerarsi essi stessi un partito d’opinione, soddisfatti di avere qualche articolo gratificante sui giornali dei padroni. Fu su questo vuoto che emerse Craxi. Della stessa sindrome soffre il Pd. Che si accontenta delle comparsate ai talk show dei tanti conduttori amici, e delle interviste di comodo. E finge di non vederne l’opera di dissoluzione.

Proust come Gozzano, nel deserto dei sentimenti

Nel 1930, a 24 anni, mentre studia filosofia all’École Normale Supérieure, compagno di corso di Sartre e Aron, l’italianista Beckett, che sa tutto da Dante fino a De Sanctis e D’Annunzio, dà una lettura maestra di Giotto e Giorgione (il “Concerto” e la “Tempesta”), e traduce in inglese Montale e Comisso, scrive su Proust il saggio forse più interessante, certo il più solido, ancora dopo ottant’anni. Specie sul tema della memoria: La “Ricerca” è “un monumento alla gloria della memoria involontaria”, la memoria involontaria ne è il leitmotiv. Ma in una celebrazione ambigua, giocata di fatto sull’ironia.
È una sorta di animismo che Proust pratica, di totemizzazione (Beckett lo dice un féticheur): “La sorgente, l’origine di questo “atto sacro”, gli ingredienti della comunione sono forniti dal mondo tangibile e grazie a un lampo di percezione immediata e fortuita. Il procedimento attiene quasi a un animismo intellettualizzato”. Dopodiché ritiene di poter fare “la lista dei feticci”, gli oggetti che scatenano la memoria: la madeleine naturalmente, le campane di Martinville, gli odori dei gabinetti agli Champs-Elysées, i tre alberi di Balbec, il cespuglio di biancospino presso Balbec, mentre si abbassa per sbottonare gli stivaletti, il pavé nel cortile dei Guermantes, il rumore di un cucchiaio contro il piatto, mentre si asciuga la bocca con una salvietta, il rumore di una tubazione d’acqua, “François le Champi” di George Sand. Una lista che, senza le rime, richiama Gozzano, lievemente al di qua dei baci Perugina: il potere evocativo ha un orizzonte crepuscolare. Come di chi guardasse a occhi bassi, benché immodesti, golosi.
Il tutto confluisce alle “intermittenze del cuore”, di cui in “Sodoma e Gomorra”, anch’esse molto crepuscolari. Col gusto cabalistico di scartare in continuazione, cioè a folle. Nel deserto dei sentimenti. Albertine, il personaggio più indagato, “non è un essere, è una nozione”. E questo è il tratto distintivo: non c’è l’amore in Proust. Anzi ne è escluso: “L’amore più esclusivo per una persona è sempre l’amore di un’altra cosa” (“All’ombra delle fanciulle in fiore”, II). Oppure (“La prigioniera”, II). “Non si ama che ciò che non si possiede tutto intero”. Che, cabalisticamente e non, non succede mai – che vuol dire “possedere tutto intiero”? E dunque siamo condannati all’amore…E ancora (“Albertine scomparsa”): “Si desidera essere compresi perché si desidera essere amati, e si desidera essere amati perché si ama. La comprensione degli altri è indifferente, e il loro amore importuno”.
Peggio ancora per l’amicizia. Che origina in Proust, secondo Beckett, nella vigliaccheria: “L’amicizia non è soltanto priva di virtù come la conversazione, essa è per di più funesta” (“All’ombra delle fanciulle in fiore”, II). Nei “Guermantes” l’amicizia è situata tra la fatica e la noia. Ma trova Proust in quello che sarà il nucleo di Sartre tredici anni dopo, “L’essere e il nulla”: “Sono condannato a vivere sempre al di là della mia esistenza, al di là dei moventi e dei motivi del mio atto”. Che però era già Bergson, certo.
Samuel Beckett, Proust

giovedì 14 ottobre 2010

Non governare, a colpi di riforme

L’università? L’unica speranza a questo punto, prima che le università chiudano, è che si faccia la legge. Una qualsiasi legge. E di questa legge si facciano i decreti attuativi prima che cada il governo. Non si pretendeva da Berlusconi che si occupasse dell’università. Che ha perciò confidato a due signore - e che non gli rompano le scatole, come suole dire in privato. Le due signore magari qualcosa avrebbero voluto farlo, per orgoglio, ma sono politicamente zero. Si addobbano quindi di progetti di riforma, il cui solo esito è di bloccare l’esistente, aggravando i problemi. Che per l’Università sono a questo punto di tre ordini, e insolubili: di risorse finanziarie, di didattica, e di ricerca. L’università di oggi sembra la media obbligatoria agli esordi, imbottita di supplenti: la sola differenza è che i supplenti venivano pagati come insegnanti, mentre i dottori in cattedra non sono pagati, e non accumulano punti per la carriera.
Letizia Moratti ha contingentato i ricercatori, pretendendo che non superassero i cinque anni di attività , ma ha fatto una legge che impedisce qualsiasi concorso. In questi dieci anni l’insegnamento universitario è stato svolto da cultori della materia, non necessariamente col dottorato. Un esito talmente assurdo che dirla incapacità è poco. Razionalizzando, bisognerebbe pensare le due ministre impegnate in realtà a scardinare l’università pubblica, e reintrodurre la selezione sociale attraverso le università private, dove si compra e si paga quello che si consuma. Può essere: è il loro mondo sociale è quello, la dignità è privata. La tecnocrate Moratti si è peraltro distinta nello scioglimento del più ricco e meglio governato centro di ricerca, l’Istituto Nazionale di fisica della Materia, gestito da troppo “comunisti”, dentro il vecchio Cnr della vecchia guardia Dc, compreso il presidente Maiani. Ma, poi, si vede Maria Stella Gelmini bloccare l’unico concorso che in dieci anni le università avevano approntato perché fulminata da un articolo di Giavazzi sul “Corriere della sera” che propone un nuovo modo di costituire le commissioni di esami. E non si può pensare che l’economista della Bocconi, distinto antiberlusconiano, o il “Corriere della sera” vogliano la morte dell’università. Ne vogliono, naturalmente, una migliore, “Milano” non è città illuminista?
Ma si parla dell’università come di ogni altro problema: la sanità, l’evasione fiscale, la criminalità, il lavoro, l’immigrazione. Due governi solidi di Berlusconi non hanno affrontato una sola riforma, sempre in attesa di una migliore. Prodi non si può rimproveralo alla stessa maniera, perché ha avuto maggioranze risicate e traditrici, ma anche dal suo fronte non c’è una sola riforma. Perché questi politicanti inetti, le terze file della Repubblica abbattuta da Milano, vogliono la perfezione. Le leggi infatti non si chiamano più leggi ma riforme. È il linguaggio fasullo della “rivoluzione italiana”. E le riforme non sono niente, nemmeno leggi. Se ne ricordano poche in questi quasi vent’anni di politica. Di leggi effettive, efficaci. Una di esse è la Bossi-Fini, così perniciosa per le famiglie, per gli immigrati, per le questure che non sanno gestirli (e come potrebbero? le questure si occupano dei delinquenti), per la povera Italia che induce a razzismo. Che poi era l’unico fine della legge. Magari non voluto, il che è ancora peggio. L’unica legge buona che Berlusconi può vantare è la Biagi, che regolamenta il nuovo mercato del lavoro. Legge che il suo governo si è trovato opportunisticamente ad avallare, lasciando però l’autore indifeso preda delle Br – avete mai letto di Berlusconi, o di un suo qualsiasi ministro, che promuova un convegno, intitoli una cattedra al suo nome, crei delle borse si studio Biagi?
La cultura del non fare
La “rivoluzione italiana”, o di Mani Pulite (mani pulite a Milano?), o lombarda, di Borrelli, Bossi, Berlusconi, Bazoli, Assolombarda, ha portato la politica alla non decisione in tutto, sotto pretesto della riforma. Che non si fa. Un tempo si sarebbe detto per privilegiare interessi costituiti, di questo di quel potentato, sotto le chicchiere. Può essere, ma soprattutto vige l’indifferenza. Che è incapacità. Si fanno le riforme federaliste solo per aggravare il fisco. Il ministro delle tasse Visco ha introdotto nel 1998 le addizionali Irpef, Regionali e Comunali, su tutti i redditi, con un incremento medio della tassazione dell’1,5 per cento. Un aumento analogo si propone il federalismo di Tremonti: un’addizionale dell’1,5 per cento per i redditi di 28 mila euro. Lordi. Equivalenti a un’entrata di 1.500 euro al mese. Il federalismo, alla fine di tante riforme, sarà stato un aggravio fiscale di tre punti, oltre al titolo di governatore per Formigoni e compagni.
La cultura del fare sarà ricordata per le ridicolaggini del Ponte sullo Stretto e della Tav con la Francia attraverso la valle di Susa. O del piano nucleare. Oltre alla tante Malpensa di cui Milano ha contagiato l’Italia. Il nuovo valico Firenze-Bologna, la Livorno-Civitavecchia, l’allargamento di dieci metri della Salerno-Reggio Calabria che ha già preso dodici anni e ne prenderà quindici, e forse venti. La colpa? È della mafia.

L’uomo di Mosca? Ma era Gramsci

Il Pci è Gramsci, esordisce Canfora. Mentre è, era, si sa, di Togliatti, fino alla fine, e anche dopo – lo è tuttora, anche se il Partito non esiste più, nei suoi liquidatori, i nipotini di Berlinguer. Gramsci del resto ne fu a capo per un solo anno. Dopodiché, dopo che perse la leadership con la prigione fascista, “un invalicabile baratro” si aprì col Partito (di Togliatti). Canfora, si sa, ha fatto di più, celebrando Togliatti come difensore della libertà. Mentre, se i comunisti europei avessero fatto una colossale cistka dopo la loro scomparsa politica, la ripetizione a sinistra della Norimberga americana, Togliatti sarebbe stato uno dei più certi condannati - e questa analisi ne è un esempio: l'allegro cinismo degli intellighenti, mezzo secolo dopo la morte del Migliore.
Ma l’esordio è solo un anticipo: l’uomo di Mosca nel comunismo italiano era Gramsci, intollerante e di brutto carattere, un elitista e quindi uno staliniano. Perché Gramsci era uno staliniano. Perché convinto della bontà del socialismo in un solo paese. E perché “uno dei tratti della tradizione bolscevica che resta più saldo in Gramsci è proprio l’impronta elitista”. Tradizione? Nel pieno del mutamento? Comunque, “l’intreccio fortissimo tra elitismo e bolscevismo... è la chiave di accesso più congrua al problema della collocazione di Gramsci nel solco e nel dramma politico del comunismo europeo”.
Un libro importante del grande scrittore, dove la storia e l’arguzia si fanno serve del falso perdurante. È passato inosservato ma la colpa è proterva. Fanno collana ai tre scritti brevi su Gramsci due su Giulio Cesare, prodromi alla monografia di due anni dopo, e un esilarante, questo sì, pamphlet sul revisionismo “diffuso”, la mania decostruttiva. Salvo ridicolizzare chi fa di Gramsci un “liberista” e un socialdemocratico. Lui che lo fa uno stalinista.
Luciano Canfora, Su Gramsci, Datanews, Remainders, pp.79, € 6

martedì 12 ottobre 2010

Secondi pensieri - (54)

zeulig

Analisi – L’incapacità di analisi, l’insensibilità, rende refrattari, e quindi durissimi: nel fascino come nell’astio, e in carriera, in famiglia, in società. È la ragione il proprio dell’uomo?

Conoscenza – Per intuito si rivela a posteriori più spesso esatta che non, basta un po’ di esercizio. Poi si “riconosce razionalmente (evento) la verità”. Molta parapsicologia è questa forma di conoscenza sensitiva, istintuale, affinata. La conoscenza, logica e psicologica, è ancora agli esordi.

Coscienza – È ciò che fa di un uomo un uomo non perché è o comanda cose elevate, ma perché è la prima forma di percezione, e quindi di linguaggio, di codice.

Cristianesimo – “Non possiamo non dirci cristiani” perché abbiamo la speranza – il segno comune col giudaismo, l’attesa. Siamo progressisti, storicisti in un certo senso. E dotati – i soli – di mentalità scientifica: la ricerca è legata alla speranza.
Se c’è un imperialismo dell’Occidente, esso non è cristiano, non si può legare alla speranza. Che è impegno e perfettibilità ma non necessariamente missione. Neanche nel senso dell’esclusione – come è invece dell’ebraismo, e questa è la grande differenza.

Che sarebbe Cristo senza la chiesa? Un qualsiasi Apollonio di Tiana. La pubblicità è l’anima del commercio. E che i copy-writers siano buoni, Giovanni, Matteo, Luca, Paolo.

Dandysmo – È sofferto. È in ciò la sua diversità dallo snobismo. Il dandysmo si radica nella conoscenza, non nel rifiuto di essa, in una piega-piaga della realtà: “So, ma ritengo, o voglio, che…”.

Debole – Il “pensiero” debole è una novità piena di precedenti. Non elevati: camp in americano, kitsch in tedesco. Camp è affollato, prezioso, un po’ Ariosto e un po’ Marino, con D’Annunzio. Kitsch è scarto, ma va da tempo in positivo, ome sorpresa e trasgressione. È il bello dell’ermeneutica volgare.

Dio - È l’uomo. Imperfetto, ma è l’unico che ci pensa, è in grado di pensarci. E poi, perché Dio dovrebbe essere perfetto (ed è impossibile che qualche uomo lo sia)? Anche lui è un’alterità.

Non ha mai goduto di grande autorità. Adamo e Eva l’hanno disobbedito subito. Per una mela, il più insignificante dei frutti, non è nemmeno dolce. Peggio hanno fatto i loro figli.
È vanesio. E anche un po’ cazzone – come l’amico che sempre ritroviamo, irritabile ma bonaccione. Ha creato il mondo per ghiribizzo, non per bisogno, né per uno scopo. Lasciandogli la libertà più piena fin dall’inizio.
È un solitario, condannato a esserlo – come ne parli, ne parli male. Con un buon equilibrio, a questo punto, ma con qualche problema di suscettibilità, e quindi di giudizio.

Filosofia – Abbandonando la natura si è velocemente, perfino voluttuosamente, infognata nei paralogismi: la filosofia è poesia, no, è narrazione, o l’assenza, l'astrazione, Edipo…. Divagazioni sostitutive (consolatorie, terapeutiche) innalzate a logica.
I fisici disprezzano i logici (filosofi) non senza ragione: questa filosofia mette in scacco la natura e sconfigge la logica. La sua unica giustificazione è la ricerca: rompere le forme di conoscenza acquisite. Chissà che, scartando dalla logica nella sensazione, nell’astrale, nel carnale, nell’eccesso, nella rinuncia (suicidio), non si aprano sentieri nuovi – più veri – alla percezione. Ma è questa una novità?

Gesù – Il suo segreto è che si sentiva un uomo come gli altri. La sua sofferenza anche, poiché non dev’essere facile scoprirsi limitato come lo sono gli uomini.

Giustizia – Se non c’è in questo mondo non c’è nell’altro: la giustizia è l’ideale razionale. Da che nascono gli ideali, le cose che non esistono e che ricorrono identiche in ogni formazione umana?

Quella politica terrorizza perché è la negazione della politica. Non perché debilita la giustizia – la giustizia non è nulla di più della legge, il resto è chimera. Ma perché ne abusa per cancellare la politica. Con la forza inattaccabile della legge cancella cioè ogni speranza, ogni possibilità di convivenza civile. Usa la legge, autoritaria, insindacabile, contro la società.
L’inquisizione, lo stalinismo, il maccarthysmo, che di più autentico, convinto, a suo modo fondato, quale giustizia è più appassionata e disinteressata, e insieme più spaventosa? Del resto i suoi stessi strumenti sono vergognosi: discrezionalità, parzialità, abuso, ricatto, tortura fisica e morale – le gogne mediatiche. Nell’impunità assicurata dalla Legge.

Mistero – Comincia dall’H2O, formula semplice, troppo per spiegare la nutrizione, il corpo, i nervi, la mente, le passioni, la formazione, la tecnica, e perfino i fenomeni semplici, di pura contrazione, quale l’attrazione sessuale. O la paura, la speranza, l’impegno.

Aggredisce le persone e anche la natura, e provoca la cultura. Si può ipotizzare uno stato di quiete prima, o al di là, delle inquietudine della cultura (opera, ricerca). Ma nei fatti questo non succede perché il mistero sempre si ripresenta, nelle forme della paura, della fobia, della reazione nervosa irriflessa.

Morte – Solo la morte è infaticabile. L’istinto a procreare (sesso) spesso si stanca.
È più continuista dello stimolo vitalòe (sessuale).

Realtà – Se non ci fosse alcuna realtà ne mondo fisico, dice bene Russell nell’“Abc della relatività”, ci sarebbero solo sogni sognati dalle diverse persone. E quindi senza nessun significato, neppure quello minimo della comunicazione – che è già un codice. Un tempo si sarebbe detto vegetare, oggi anche vegetare implica un minimo di coscienza – un codice.

Scetticismo – È razionale. È il vero razionalismo, che non è finalistico, pratico.

Sesso - È certamente un fatto materiale, organico, uno stimolo concreto. Non è spirituale. Ma cosa sarebbe lo spirito (conoscenza, comunicazione) senza lo stimolo sessuale? È l’argomento dell’anima che è il corpo.

Etimologicamente è taglio – da sectare. Discernere o discettare è dunque l’orgasmo del ragionamento. Ma non è anche l’impossibilità del ragionamento? Della sua inconclusività, l’eterna divisione, l’impossibile ricomposizione? Ma l’orgasmo non è un’impossibilità: una cosa è una cosa. Insensata è allora la genealogia delle parole, l’etimologia?

Società – Corrompe la natura, dice Rousseau, perché ci allontana dall’egualitarismo. La corrompe, dice Nietzsche, perché ci porta all’egualitarismo. Entrambi sono misfits, disadattati al fatto sociale, e si abbrancano a una natura che non ha nulla d’ingenuo né di beatifico, non ha misura.

Tempo – La favole danno sempre un anno e un giorno di tempo. E l’eroe provvede all’ultimo minuto. Per la regola del suspense, certo. E per l’elasticità del tempo, che solo nel messianismo (Bergson, Proust) diventa un agente, e un reagente.

Tolleranza – Porta all’indifferenza, e all’inerzia. Non sarà la madre della depressione, morbo dilagante in un’epoca di benessere e sicurezza?

zeulig@antiit.eu

Carmine Abate libera il Sud

Una storia d’amore che si rincorre. Gli “anni veloci” sono quelli della prima giovinezza del protagonista che vince i 100 piani, avvicinandosi ai 10 netti. E anche - con qualche confusione di riferimenti, tra l’Olimpiade di Monaco, il rapimento di Moro e l’Olimpiade di Los Angeles (è l’effetto degli interventi redazionali?) - degli anni post-Sessantotto. Cullato dai versi e le musiche di Battisti e Rino Gaetano, che è un amico e quasi un fratello. Ma non ha tempo per il suo amore. Con echi d’autore, il quadrilatero goethiano di “Le affinità elettive”, le sicule “geometrie di sguardi”, il kafkiano lasciarsi fare negli eventi. E con una baldanzosa, benvenuta infine, padronanza dei proprio luoghi, le luci, i sapori, inconsueta nella cerebrale narrativa italiana. Sorprendente per un calabrese di Crotone.
Abate ristabilisce qui, con la stessa scioltezza con cui il suo protagonista corre i 100, cos’è Meridione. In letteratura è solitamente unidimensionale: dolorista, cupo per quanto impegnato, senza gioia nella narrazione. Senza donne, sesso, passioni, risate, ironia. Senza anche la violenza dei poveri, di beni e di spirito, l’animalismo, la superstizione, l’irresponsabilità. Abate ristabilisce allegro cosa è più Meridione: la filosofia, l’erotismo, la golosità.
Carmine Abate, Gli anni veloci, Mondadori, pp. 243, € 9

lunedì 11 ottobre 2010

L'Italia, breve storia

Quando sta bene, nel senso della ricchezza, è malvagia: nell’antica Roma a partire dai Giulii e dalla trasformazione in impero, nel Rinascimento, con la Repubblica. Nel Sei-Sette-Ottocento pugnali e veneficii diminuirono grandemente . Nell’Alto e Basso Medio Evo si moriva, ma combattendo, per cause identificabili. Per essere buona (normale) dev’essere povera?
Storicamente vive di fantasmi, per effetto della tradizione retorica:
fantasmi del fascismo,
fantasmi dell’antifascismo,
fantasmi della guerra fredda,
fantasmi della Dc,
fantasmi del comunismo, la famosa Cosa, mai nata. C’è però nella gente un realismo che riduce questo storicismo posticcio a pettegolezzo. Di cui si gode, certo, ma lasciandolo fuori dalla porta.
Ha adescato all’“insabbiamento”, per la forza d’attrazione, molti straneri di qualità fino alla guerra. Poi più niente, con una o due eccezioni, peraltro disamorate, Gore Vidal, Anthony Burgess. È caduto l’interesse, storco, psicologico, culturale, proprio mentre l’Italia diventava moderna: bottegai arricchiti in viaggio per le Maldive si trovano dappertutto.
Ha realizzato ciò che sembrava impossibile, dal punto di vista teorico e pratico, la democrazia economica. Ma alla democrazia politica non riesce nemmeno ad avvicinarsi. C’è un baluardo di privilegi, o di aree di rispetto, e di inefficienza: si vuole non dover fare alcunché. Che dai gruppi tradizionalmente protetti, giudici, funzionari, banchieri, politici, giornalisti, preti, si è allargato al paese intiero. L’Italia è un residuato sovietico di tipo brezneviano. Ognuno prende qualcosa e non dà, non deve dare, in cambio nulla. Tutti però sono superattivi nel privato, in famiglia, fuori orario, il week-end. La Repubblica berlusconiana ne è la personificazione. Persone stimabili nel loro perimetro di attività che diventano inefficienti, anzi incapaci, la disfunzione è fisiologica, in quello pubblico.
È il Caf – il centrosinistra stinto di Andreotti – il peggio, o non è stato il meglio dell’Italia? Il meglio del peggio che è l’Italia, nel senso che ha governato la corruzione. Oggi è la corruzione che governa: giudici, affaristi, “compagni” protetti. Anche il personale non è granché: è mediocre a vista, sudaticcio.
Paese senza verità. Non storica né sociologica (il paese reale è muto, o meglio non ha facoltà di parlare), giudiziaria, letteraria, filosofica, ideologica. Questo non da sempre, dall’Ottocento. Causa, come si pretende, la mancata Rivoluzione? O non perché, al contrario, è l’unico paese che, senza rivoluzionarsi, è stato governato dalla borghesia? Specialmente turpe quella, vastissima e “unitaria”, a Nord e a Sud, della manomorta - grimaldello incontestabile della democrazia economica. L’Italia è vittima dei “gesuiti”, specie dei nemici dei gesuiti. Per questo diffida. E si nasconde: da cui il detto che è difficile capirla, che è invece la sua verità.

La Rossa che fu miglior spirito del Settecento

Senza religiosità nulla societas. Lo dirà anche il laicissimo Quinet, e a suo modo Robespierre. Per prima lo dice qui da Neûchatel Isabelle de Charrière, beccando Diderot. All’interlocutore ateo, che si stupisce “come una donna con un po’ d’istruzione e d’esperienza di mondo osi ancora parlare dei dieci comandamenti”, arguendo che “senza la religione la morale non verrebbe meno”, Isabelle, lo spirito più libero del Settecento, risponde: “Per verificarlo ci vorrebbero tre o quattro generazioni e un intero popolo di atei. Diderot, se è un gentiluomo, lo deve forse a una religione che, in buona fede, lui ha sostenuto fosse falsa”.
“Belle” Van Zuylen, rossa olandese sposata de Charrière a Neûchatel, fu corrispondente e amica di Constant d’Hermenches e, dopo ventisette anni, del di lui nipote Benjamin Constant, senza castrarli. “Si parla tanto delle illusioni dell’amor proprio”, diceva, “ma è ben raro, quando si è amati, che si sappia quanto”. Forse per questo Madame de Staël ha eletto Isabelle a modello di “Corinne”, il romanzo dell’Italia, quando ancora se ne pensava bene. Isabelle che a lungo ha inseguito l’opera italiana, alla Mozart, Paisiello, Cimarosa, da ultimo perfezionandosi con Nicola Zingarelli, e sarebbe stata la prima donna operista, anzi l’unica, ma sempre fu respinta dai teatri. Madame de Staël lamentava con “Belle” che i suoi romanzi non avessero finale. Ma c’è qui anche il romanzo della non necessità per una donna di sposarsi. E per un uomo.
Isabelle de Charrière, Lettere da Losanna e altri romanzi epistolari