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sabato 27 febbraio 2021

Ombre - 551

La dignità e la grazia della signora Zakia Seddiki, vedova dell’ambasciatore Attanasio, riportano alla memoria il mondo islamico prima del khomeinismo. Dell’islam del Vicino Oriente, dal Marocco all’Iran.
Una religione può ergersi a fattore umano negativo.
 
Nessuno che abbia visto Atalanta-Real Madrid dubita che l’arbitro, il tedesco Stieler,  non dovesse far  vincere la squadra spagnola. In questa partita, di andata, e anche al ritorno, con la semplice espulsione di Freuler  il cervello e il motore della squadra orobica. Sono alcuni anni che la cosa si ripete: al Real Madrid vanno garantite le semifinali di Champions, sono 100 milioni a semifinale, dieci di seguito, con questo 2020-21, fanno un miliardo. Naturalmente senza esborso da parte del Real.
Forse bisognerebbe far arbitrare il Real agli arbitri spagnoli invece degli inglesi e dei tedeschi: potrebbero non avere bisogno di una seconda casa o di una bella vacanza tutto compreso, se non di una seconda casa.
 
C’entra anche il presidente della Uefa Ceferin, sloveno, che è lì perché ce lo ha messo Perez, il presidente del Real Madrid. Anche qui bisogna escludere ogni esborso: Ceferin è semplicemente grato, Perez ha già dato.
 
Il presidente del Coni Malagò non c’entra nell’inchiesta sul mediatore finanziario Bocchicchio. È stato intercettato lo stesso, e le sue conversazioni sono ora passate ai giornali. Conversazioni con amici, parenti. È giustizia? È giornalismo? La Guardia di Finanza non aveva altro da fare?
 
Il governo cinese consente solo dopo un anno a un gruppo di esperti dell’Oms di analizzare in Cina le origine del virus e della sua diffusione. A esperti che avallano la tesi cinese dell’origine straniera del virus – l’ultima versione è che sia stata importata con la carne congelata.
L’Oms è un’organizzazione governata da dirigenti e esperti che un tempo si dicevano del Terzo mondo, antioccidentali. E la Cina di Xi è un “guida” dura.
 
Dario Fo e Franca Rame furono cacciati dalla  Rai, dove gestivano “Canzonissima”, nel 1962, o se ne andarono di loro iniziativa? Jacopo Fo ricorda sul “Corriere della sera” l’altro sabato che furono cacciati, per uno sketch sulla mafia. Aldo Grasso lo corregge: se ne andarono, quando fu bocciato uno sketch sulla sicurezza nei cantieri edili. E ricorda che per avere scritto distrattamente “furono cacciati” Franca Rame gli mandò “una lettera irata che minacciava querela”.
Il paradigma morale del 1962 è ben diverso da quello, semplificato, del 2021.
 
Nella difficile convivenza con genitori tanto ingombranti, Jacopo Fo si fece anche scrittore satirico e su “Tango”, supplemento satirico de “l’Unità”, scrisse del sesso femminile. “Venni pubblicamente processato”, dice nell’intervista con Emilia Costantini, “a un festiva dell’Unità e dovetti difendermi davanti a un pubblico di comunisti… erano indignati perché sul loro giornale avevo parlato di «passera», fui cacciato”.
Questo succedeva nel 1987, due ani prima della caduta del sovietismo.
 
Nel 1962, dunque, alla Rai Dario Fo e Franca Rame, quanto di più eversivo nello spettacolo, erano  i conduttori di “Canzonissima”, la trasmissione di maggiore seguito dell’emittente.  Gestita da Ettore Bernabei, democristiano e fanfaniano puro e duro. Succedeva che Fanfani era  capo del primo governo di centro-sinistra, col sostegno dei Socialisti. Il centro-sinistra che rinnovò l’Italia anche se gli storici fanno finta di no, anche ora che il Pci è morto da qualche generazione - il settarismo è l’unica sua forma di sopravvivenza.
 
Fa ridere e un po’ sorprende, l’intemperanza del professor Gozzini contro  Giorgia Meloni. C’è forse un po’ di misoginia, in  aggiunta al sinistrismo. Di sicuro c’è la follia di quelli che una volta si dicevano cattocomunisti, che farebbero strage di ogni cosa.
Il cattolicesimo oggi chiede scusa, ma ne ha fatte tante.
 
“Aridaje!”, il comico improvvisatore Grillo scende a Roma e rilancia, pensa,  la sua cocca Virginia Raggi  a rifarsi sindaco. Il che è probabile, malgrado la capitale esca stremata dalla infatuazione per la “brava ragazza” di Grillo, visto lo stato del Pd e della destra a Roma. Ma, non volendolo, il comico ha detto al verità: “aridaje” a Roma significa “di nuovo con la stessa storia?”
 
I calciatori dell’Inter non sono pagati da alcuni mesi, perché i padroni cinesi hanno problemi di bilancio e mollano il calcio, e corrono come sprinter. Anche quelli massicci, come Lukaku. I calciatori della Juventus, i più pagati, e i soli pagati sempre ogni mese (con quelli della Lazio),  stanno lì a sbadigliare, per il compitino. È proprio vero che la fame aguzza l’ingegno?
 
Degli esercizi che si sono attrezzati per la lotteria degli scontrini, una  cassiera su due entusiasta la propone, l’altra, seppure non finge di leggere il codice, lo fa di malagrazia. La politica non si esercita al seggio del voto, si esaurisce prima, in simpatie e antipatie.
 
L’insulto si direbbe una cosa di destra, è una manifestazione di odio, sia pure verbale. Invece è dominio della sinistra. Del professor Gozzini che sbraita contro Giorgia Meloni. Del sindacalista Rai Di Trapani che non vuole Barbara Palombelli a Sanremo. Palombelli che ebbe parte attiva con suo marito Rutelli sindaco di Roma – l’ultima grande sindacatura di sinistra. Ma lavora a Mediaset, e l’odio è ormai trentennale contro Berlusconi, a partire dai famigerati referendum per chiuderlo.
 
Lo stesso Di Trapani che non s’interroga, e  non ci spiega, come un Mario Benotti sia caporedattore Rai. Dopo severo concorso, naturalmente? Oltre che consulente ministeriale in conto Pd.
 
Concisa, precisa, completa, incredibile storia del populismo in Italia, da Di Pietro, il giudice semianalfabeta, a Grillo, di Stefano Cappellini su “la Repubblica”.
https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/02/19/news/scissione_m5s_dopo_la_fiducia_al_governo_draghi_da_di_pietro_a_di_pietro_il_populismo_in_fuga_torna_al_suo_fondatore-288370706/
Incredibile, nel senso di roba da non credere. Con decollo nel Mugello, ultimo bastione Pci puro e duro, dove una domenica rinunciarono alla caccia per plebiscitare Di Pietro. Passando poi per i “girotondi” di “Pancho” Pardi e Occhetto.
 
Manca a Cappellini un solo aggancio: Milano. Il leghismo. Quando Milano 1 nel 1996 votò compatta Bossi, cittadella degli affari e della cultura, le centomila persone che fanno i soldi, le banche, i giornali, i libri e il calcio per l’Italia tutta - la circoscrizione che nel 1982 aveva eletto unanime Spadolini e nel 1987 Craxi.

Del nulla

Incredibilmente noioso.
Ian McEwan, Espiazione, Einaudi, pp. 388 € 12

venerdì 26 febbraio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (450)

Giuseppe Leuzzi

Curioso contrasto nell’edizione in commercio di Carlo Levi, “Le parole sono pietre”, tra la prosa di Consolo nella presentazione, che vuole essere lirico e moltiplica gli aggettivi, e l’asciuttezza di Levi, che il mondo contadino siciliano di cui tratta sa leggere e far parlare. Il siciliano conosce la sua isola meno del piemontese.
 
In viaggio da Villa a Messina nel 1952, sul traghetto “Secondo Aspromonte”,  Carlo Levi avverte navigare, “sopra il frastuono continuo” delle conversazioni, “pezzi di frase, modi logici inusitati nel linguaggio comune delle altre parti d’Italia; sento dire «con cui», «del quale», «dopo i quali»: legamenti logici di un pensiero raziocinante e naturalmente complesso, eredità popolare dell’antica chiarezza greca”.
 
Di seguito Levi legge “un cartello bellamente incorniciato” che dice: “Avviso ai passeggeri. Chi vede cadere una persona in mare deve lanciare il grido «un uomo in mare», e chi ode il grido di «uomo in mare» deve ripeterlo e deve cercare di farlo arrivare, al più presto, al ponte di comando”. La chiarezza.
 
La donna in Calabria
Il sogno gay di un’amica gravida che scompare lasciando il figlio – nel caso la figlia – Fabio Mollo fa terminare nel film “Il padre d’Italia” in Calabria sullo Stretto, tra Scilla e Cannitello, nella famiglia d’origine della ragazza. Tutta al femminile. Gli uomini ci sono, padri, zii, compari, ma la vita si svolge attorno alle donne,  alla madre della gestante. Un ruolo complesso – molto è del conflitto madre-figlia - ma non ambiguo, grazie alla presenza scenica di Anna Ferruzzo. Una forma di realismo acuto, e lieve.
Della serie “la donna del Sud”.
Lina Wertmüller, che nel 1970 inseguiva un film su una donna di famiglia mafiosa che rompe l’omertà e denuncia il malaffare, e si era rivolta in un primo momento a Sciascia (che le aveva fornito un soggetto), successivamente lo decommissiona: d’accordo con Sciascia che la mafia non è un gran soggetto, dice. Poi ci ripensa: “Diedi un’occhiata in giro. Così mi sono avvicinata alla situazione calabrese. Qui la cosa è cambiata. Mi è sembrato di trovare elementi per cui valesse la pena riproporre il problema”. C’erano donne più combattive – meno rassegnate, non succubi.
Sarà di calabresi, ragazze e madri di famiglia, tutte in pace con se stesse, a giudicare dai ritratti in copertina, il primo doculibro di donne che sfidano la mafia, anche in famiglia, “Fimmini ribelli”, un decennio fa di Lirio Abbate.
 
Memorie di Sicilia – omertose
“Nel ‘62”, Jacopo Fo ricorda sul “Corriere dela sera” sabato 20 dei genitori Dario Fo e Franca Rame, “furono cacciati da «Canzonissima», perché denunciavano l’esistenza della mafia in Sicilia. Il ministro Giovanni Malagodi, che era nella vigilanza Rai, li definì due guitti che insultavano l’onore del popolo siciliano sostenendo l’esistenza di un’organizzazione criminale chiamata mafia”.
Non è vero niente. Cioè: “Canzonissima” 1962, di cui Fo e Franca Rame erano conduttori, continuò senza di loro fino alla finale del 6 gennaio 1963, che fu condotta da Corrado. Ma perché se ne erano andati di propria iniziativa, dopo che un loro sketch sul lavoro nei cantieri edili era stato censurato dalla direzione generale Rai. Ma non c’è altro scandalo per Jacopo Fo che la Sicilia, e in Sicilia la mafia – in altro contesto si direbbe che Jacopo Fo divaga per non dire, omertoso.
Anche Giovanni Malagodi difensore dell’“onore del popolo siciliano” è fuori dalla realtà. Malagodi era un latifondista della Bassa, che probabilmente neanche sapeva dov’è la Sicilia. Era il maggiore oppositore dell’apertura a sinistra della Dc con Fanfani in quegli anni, da segretario e capogruppo alla Camera del partito Liberale, che aveva spostato a destra. Sarà dieci anni dopo il ministro del Tesoro dell’unico governo repubblicano di destra prima di Berlusconi, il primo governo Andreotti, 1971-72, e varerà le “pensioni baby”, per insegnanti quarantenni, e le “pensioni d’oro”, per i quarantenni dirigenti pubblici (Beniamino Placido, per esempio, tra essi), ipotecando d’un colpo la stabilità dell’Inps e dei conti pubblici. Sicuramete uno che non tollerava Fo e Rame in tv. Ma che c’entra la Sicilia, e la mafia?
Per Jacopo Fo, il prototipo del non-conformista, ciò di cui si deve parlare male è la Sicilia. Sul presupposto che Sicilia significa mafia, una catena indissolubile.  
Della Sicilia di Jacopo Fo si ricorda invece – ma lui evidentemente l’ha dimenticato – l’articolo semiserio del 1979 “Anche i comunisti rubano!”, sulla corruzione del Pci isolano. La traccia del suo classico, due anni dopo, “Come fare il comunismo senza farsi male”.
 
Il Sud non è antico
Nel 1955, in “Le parole sono pietre”, Carlo Levi ritrae la Sicilia con la stessa vivezza e empatia, da pittore, attento ai colori, le ombre, i segni, del “Cristo s’è fermato a Eboli”, del suo confino in Lucania vent’anni prima. Ma il Sud si è dissolto, forse già quando Levi ne scriveva dopo i suoi tre viaggi in Sicilia. Non è più quello che era e non è altro.
Concludendo la sua vasta indagine un po’ in tutta Italia, e specie al Sud, sulla persistenza di usanze e detti antichi, greci o latini, “Sud antico”, il demofilologo (studioso di etnografia e insieme di filologia classica) Emanuele Lelli spiega così il titolo: il Sud è antico rispetto al Nord. Dove “i riscontri comparativi con ‘credenze’ e ‘superstizioni’ greche e romane ammontano, grosso modo, alla metà di quelli offerti dalle regioni meridionali”.
Non è un complimento. Lo studioso è entusiasta degli esiti della ricerca, della continuità di una certa immaginazione e cultura popolare con le fonti classiche. Che però, di fatto, sono anche i segni dell’arretratezza, di usi e anche di mentalità.
Nelle foibe istriane e giuliane i titini buttavano cani neri sgozzati, perché avrebbero impedito ai morti - italiani trucidati - di lamentarsi. I titini erano croati, sloveni, più qualche serbo, tutta gente del Nord. Ma il folklore si vuole meridionale.
Ma, seppure il Sud era “antico” per Lelli, non lo è più. L’indagine e la redazione del materiale d’indagine sono degli anni 2010, ieri. Ma oggi Lelli non troverebbe più differenze, i suoi “informatori” ottanta e novantenni essendosi probabilmente estinti: anche il Sud non è più “antico”, morti i giovani anteguerra. Si può ricordare o ricostruire a fini di “risveglio culturale”, che i fondi europei a favore delle minoranze stimolano, come può essere dell’area grecanica attorno a Bova, che tanto ha entusiasmato il ricercatore.
Il Sud non antico e non è moderno, si sarebbe tentati di dire. Di fatto è moderno, modernissimo. Ma è povero, di mezzi, e anche di iniziativa. Di voglia di fare e d’impegno: non ci sono più “testardi” al Sud, “teste di calabresi”, ma figurini, disappetenti. Rifiuta anche spesso ogni radice – che non sia folklore, la tarantella, di cui non conosce e non cura le figure, o la straordinaria diversità culinaria, più spesso solo onomastica.
Si ambientano molti sceneggiati tv al Sud, la Rai li fa solo al Sud, e non s’incontra nulla di antico o di nuovo meridionale. A parte il paesaggio, che entro certi limiti è indistruttibile, o il colore del mare. E le parlate strane – salvo scoprire che quella “barese” dell’ultimo sceneggiato, “Lolita Lobosco”, è imitazione a effetto comico inventata da Lino Banfi.
La storia si direbbe indispensabile. Questa è la storia della memoria grecanica. La ristretta area dell’Aspromonte grecanico, semiabbandonata, è una miniera per lo studioso di forme antiche perché lo statuto di minoranza linguistica riconosciuto in sede europea ha ravvivato la memoria e ha reso consapevoli della tradizione, del valore di coltivarla. A uso turistico, necessariamente marginale.
  
Un altro mondo
Allontanandosi dalla Sicilia, nel viaggio che vi fece nel 1952, Carlo Levi così ne scrisse in “Contadini di Calabria”, il racconto di viaggio pubblicato sui nn. 5 e 6 del 1953, di maggio e giugno, de “L’Illustrazione Italiana”, rimasto fuori per ragioni editoriali da “Le parole sono pietre”, il racconto dei suoi tre viaggi in Sicilia, come lui steso spiega nell’introduzione, e mai più ripreso: “Lasciavo alle mie spalle la Sicilia, e Messina, e l’intrico di poggi e montagne grigie e nere e violette, il disordine tellurico dei valloncelli velati di nebbie mosse da un vento bizzarro, e, lontano, il triangolo azzurro e bianco dell’Etna, nel cielo. Avevo ancora la mente e gli occhi a quel mondo riboccante di vita, a quei pescatori e contadini della costa, pieni di colorata eleganza nei loro cenci e di grazia negli atti, a quegli altri, delle terre dell’interno, dai visi tetri e feroci di represse ingiustizie, neri in viso sotto i loro berretti neri: ai braccianti di Bronte, nell’attesa secolare di una terra che è lì, davanti ai loro occhi, intoccabile, di una riforma sempre promessa; a quegli altri che vivono come bestie  nelle capannucce di paglia dei monti della Ducea; a quelli che non sanno come pagare il debito forzato delle terre mal comperate; a tutto quel mondo in fermento e in movimento, pieno, a volta a volta, di speranza e di disperazione, e per il quale la terra, ancora più che possesso e pane, significa vita di uomini, significa, letteralmente, esistenza”.
Non c’è altra Sicilia migliore, più sentita, in altre scritture.
 
Milano
Bergamo ha avuto il record dei morti nella prima ondata del virus. Con immagini anche indelebili. Ma questo non impedisce la folla fuori dallo stadio per Atalanta-Real Madrid – a nessun effetto, giusto urlarsi il tifo in faccia, urtarsi, senza mascherina. Lo stesso è successo domenica a Milano, davanti allo stadio, per Milan-Inter.
L’epidemia dilagò a Bergamo un anno fa, con gli spettatori in tribuna, per Atalanta-Valencia. I lombardi si vogliono ordinati. Allora è stupidità?
 
Dopo gli operatori sanitari Milano non vaccina contro il covid le classi di età a rischio, ma chi lavora. Non è un delitto, ma è una chiara maniera di essere.
Gli inuit deportano gli anziani, a morire soli di stenti – così risparmiano, accudimento, alimentazione e sepoltura. A Milano non si può, perché ancora ci sono l’Inps e qualche ospedale pubblico. 
 
“Strana città”, dice di New York un personaggio losangelino-hollywoodiano di Eve Babitz, “Sex and Rage”, “dove le persone vivono per lavorare”. Si potrebbe dire di Milano.
 
Si pubblica una ricerca europea sulla morbilità causata dalle polveri sottili in cui si vedono, tra le venti città con la mortalità più elevata per questa concausa quattordici città padane. Una non notizia – se non ne parliamo, la cosa non esiste.
Le provincie di Torino e di Milano figurano nei prim cinque posti per mortalità associata col diossido di azoto.
 
La Lombardia ha mandato “dati sbagliati” sulla pandemia all’Istituto Superiore di Sanità per 54 volte. Ogni volta gli errori venivano segnalati, ma la Lombardia non rimediava. Milano über alles, non sente ragioni.
 
A causa degli sbagli degli uffici sanitari lombardi, gli operatori economici, dai bar a molti artigiani, hanno avuto problemi grossi. Ma non se la prendono con Milano, se la prendono con Roma. È il principio del leghiamo: autoassolversi. M è una forza o una debolezza? 
 
Si scopre, sporadicamente, quando una Procura denuncia un’azienda che prospera inquinando, la Caffaro di Brescia, che la Lombardia è da tempo nel mirino dei Verdi d’Europa come l’area più inquinata del continente. Ma si perseguono reati puntuali, su un fatto preciso, il garantismo qui è d’obbligo. E poi, la Caffaro mica è stata condannata? Quando sarà condannata…
 
Che la Lombardia avesse raccolto gli sversamenti velenosi tedeschi, svizzeri e anche austriaci lo diceva Günther Depas a Milano nel 1974 o 1975, corrispondente amabile per l’economia del quotidiano “Die Welt” (come si è già raccontato su questo sito dieci mesi fa, 22 aprile 2020), e lo scriveva anche, sul suo giornale. A nessun effetto.

leuzzi@antiit.eu.

Cronache dell’altro mondo virali (95)

“Dare priorità alle prime dosi, così da vaccinare più persone il prima possibile”, Mario Draghi propone a Bruxelles al vertice a distanza sul virus. È la ricetta degli aborriti Johnson e Trump,  First Doses First, con la quale la Gran Bretagna della Brexit e gli Stati Uniti sopravanzano di due mesi la Ue nella lotta ai contagi.
La Commissione di Bruxelles, cioè la Germania, ha frenato subito, con i sorrisi di circostanza -  la Commissione, che non ha un’idea migliore, non manca di dire che non si può fare, non ci sono i vaccini, gli accordi non lo permettono… Ma non è questo il problema - del funzionamento della Ue – qui: gli Stati Uniti stanno vaccinando molte più persone, in rapporto alla popolazione, e molto più velocemente di qualsiasi paese della Ue. Benché i paesi europei abbiano sistemi sanitari che si classificano più efficienti di quello americano. I media americani ne deducono che il privato – la “libertà” – è meglio del pubblico: le aziende americane che producono i vaccini Pfizer e Moderna hanno risposto alla domanda, con la sperimentazione e la produzione,  molto più rapidamente e con più affidabilità dei produttori europei o cinesi.
Gli Stati Uniti condividono con Israele, che conta su un sistema elettronico nazionale di controllo sanitario, e con Abu Dhabi, che utilizza il vaccino cinese, il maggior numero di vaccinati in rapporto alla popolazione: 16 su 100 – 5 su 100 in Germania, 4 su 100 in Francia, 2,3 in Italia (4,41 la prima dose).
Trump ha assicurato la disponibilità senza restrizioni dei vaccini su cui gli Stati Uniti hanno puntato, Pfizer e Moderna, attraverso un’apposita agenzia di velocizzazione pubblico-privata, Operation Warp Speed. L’agenzia americana del farmaco, Federal Drug Administration, ha analizzato i vaccini appena pronti - non dopo un mese come ha fatto l’Ema, l’agenzia europea. La commissione pubblico-privata ha acquistato i vaccini al prezzo che ha giudicato giusto, e non ha perso mesi sulla clausola di responsabilità delle aziende produttrici – va da sé che se i vaccini non rispondono ai criteri dichiarati il fabbricante è responsabile.
Gli Stati Uniti hanno ordinato 600 milioni di dosi del vaccino Pfizer a luglio, la Ue ne ha ordinato la metà, per una popolazione superiore del 50 per cento a quella americana, quattro mesi dopo.
Malgrado il sentiment  libertario, e anzi anarcoide, dell’ideologia americana, un americano su due (il 48 per cento) si dichiara “fortemente convinto” che i vaccini sono sicuri - contro un terzo, il 36 per cento, degli europei (peggio in Francia: solo due su cinque si vaccineranno, e uno su tre è convinto che il vaccino fa male).

L’alfabeto dell’eros impossibile

Una sorta di libro d’ore: 24 brevi testi, in prosa raffinata, “poetica”, nei quali ogni frammento corrisponde a una lettera dell’alfabeto, in ordine: A è il sonno, B il risveglio, fino alla Z, zenit. Senza la K e la W. Con una J, “Je”, io, una doppia O, “Ora, ci fu per qualche tempo”, e “Si (On in francese) tace”, e una doppia T.
Un poema in prosa che Valéry elaborato con cura, centellinato negli anni in cui fu legato sentimentalmente a Catherine Pozzi, conosciuta nel 1920, e che non considerava finito. Ma impossibile da finire, stando ai canoni che si era dato. Sul presupposto che la prosa è troppo facile e va regolata, come la poesia. All’insegna di quello che nei “Quaderni” chiama C.E.M., “Mon Corps, Mon Esprit, Mon Monde”, una sorta di insularità nel macroscosmo, di soggettività riconosciuta. Riconoscibile, nella razionalità. Di fatto però leggibilissima e significante. Per la seconda metà di fatto narrativa.
Un poema d’amore, nei limiti di Valéry: l’alfabeto è di fatto dell’eros, pur misterioso. Di brillantezza, sorriso, indiscrezione anche. E eccezionalmente intimo, personale. Delle due “T”, la seconda è una  dichiarazione: “Tu se bella come una pietra”. Che non sembra un complimento, ma a seguire sì: “E la tua forma si chiude così perfettamente che chiama le due mani a sposarla e seguirla…” Le due lettere “O” erano state la constatazione dell’unione possibile di due anime e non possibile: “Si tace. In silenzio…”
Lui parla e io parlo, e le nostre parole non si scambiano, Valéry fa dire alla Lust, la passione, del “Mio Faust”. Qui, in questo alfabeto dell’eros, vede alla lettera O “una figura ordinata e odorante di giardino”, scossa da “un abisso mobile, in marcia, errante”, in cui “due anime diverse si muovono separatamente verso la loro somiglianza”. Se non che ognuno “si tormenta a causa dell’allontanamento interiore del suo altro sé”, e la somiglianza “se la crea, se la ricrea in sé indefinitamente come supplizio, facendosela ora troppo cattiva, ora troppo amabile”. Così, “ora troppo odiato, ora troppo amato, l’amore inquieto compone e lacera l’immagine”.
Una volta, fuori di poesia, il coniugio era necessariamente incesto - ancora Zeus genera Persefone con la madre Rea, e con la figlia Persefone genera Dioniso. Ci fu un tempo, che Frazer ha esplorato in quattro volumi, in cui l’uomo sposava solo donne della sua tribù. Per non dire dei faraoni, che sposavano le sorelle. Oppure non sposava, eros è un tormento.
Paul Valéry, Alphabet, Livre de Poche, pp. 156, ill.  € 7

giovedì 25 febbraio 2021

Cronache dell’altro mondo bellicose (94)

Come primo atto della sue gestione dell’economia internazionale, Biden confronta la Cina con misure più unilaterali e più radicali di Trump. Rovesciando l’approccio liberista che aveva tenuto con la presidenza Obama, di cui era il vice. Vuole la riduzione delle “catene di valore” (le forniture) che fanno capo alla Cina di prodotti sensibili, dal punto di vista economico e da quello della sicurezza,  e di grande impatto commerciale: semiconduttori, “terre rare” (17 metalli), farmaci, auto, elettrodomestici. In cento giorni, per decreto.
All’Unione Europea Biden ha per prima cosa proposto al suo primo G 7 (a distanza) un fronte comune contro l’aggressività della Russia e della Cina. Come secondo atto della sua presidenza, dopo lo schieramento dei bombardieri a largo raggio B-1 in Norvegia, il presidente pacifista Biden ha inviato le cannoniere nel Mare della Cina meridionale, a difesa di Taiwan. Il bellicoso Trump aveva esordito con un approccio al dittatore nuclearista nordcoreano.

Il narratore a caccia del personaggio

Un racconto pirandelliano, “chi è chi?”, senza saperlo, che va veloce come un giallo. Come l’autore stesso mette sull’avviso prima di cominciare, naturalmente negandolo – il giallo, non Pirandello, di cui non c’è menzione. Chi è Smurov, che pure è un personaggio d’autore? Un agente provocatore, una spia di Lenin, un imbroglione, un profittatore di amori ancillari, un “mancino sessuale” (omosessuale represso), un cleptomane? Di tutto e di più: i personaggi devono essere memorabili, ma a volte, riflette lo stesso loro creatore, “tutta la loro esistenza non è stata altro per me che sfarfallio su uno schermo”. Per un autore epico, o tragico, un nodo, più inestricabile che di Nordio, per Nabokov, specialista di lepidotteri, uno sfarfallio.
Un suicidio fallito fa del narratore lo spettatore di se stesso. E gli apre la porta del possibile, al gioco delle sliding doors, del “che cosa sarebbe successo se…”. “L’occhio” è del narratore, che tutto vede naturalmente, benché sfuocato. Innamorato della donna di cui è innamorato il personaggio di cui racconta. Sia lui che lei essendo “in tutto  per tutto una mia creazione”, si consola a un certo punto il narratore. E sarà un trionfo dell’amore, la storia deve pure concludersi. La storia di un amore, allora, “l’amaro dell’amore travagliato”, Nabokov conclude beffardo la sua presentazione.
Ma non è finita. “Scoprire all’improvviso che la vita reale è un sogno è terrorizzante, ma quanto più è terrorizzante è il momento in cui ciò che si credeva un sogno  - fluido e irresponsabile – comincia all’improvviso ad aggrumarsi in realtà!”. Insomma, un distillato di Pirandello: il narratore  diventato personaggio tra i personaggi della sua narrazione: non si può dire il “colpevole”, ma si sa chi è.
Vladimir Nabokov, L’occhio, Adelphi, pp. 101 € 10

mercoledì 24 febbraio 2021

La messa dei mentecattocomunisti

Era domenica trent’anni fa come oggi, nel delirio anti-Usa per la guerra del Golfo, e questo era lo stato dell’Italia, nel diario del 24 febbraio 1991:
“Il Tg 3 “Telekabul”, con il Tg 1, ha fatto un’edizione straordinaria per il messaggio domenicale del papa a piazza San Pietro. Il papa ne ha approfittato per fare l’apologia della dottrina sociale della chiesa, che oltre un secolo fa con Leone XIII riconosceva il diritto al sindacato, etc.. I comunisti si aspettavano parole di fuoco contro gli Stati Uniti, o contro l’Occidente, che ha osato attaccare l’Irak, dopo l’invasione irachena del Kuwait.
“Forse non c’è stata malizia nel papa, nell’approfittare del collegamento straordinario per far sapere quanto sollecita è la chiesa con i lavoratori. Ma i mentecattocomunisti se lo sarebbero più che meritato, ridotti come si sono allo stato vegetale, anzi larvale, per voler navigare sempre nello stesso inchiostro.
“Cos’è l’antioccidentalsimo, da parte di occidentali a tutto tondo come i comunisti, se non un riflesso condizionato? Del sovietismo?  Comunisti, poi, che si aggrappano alle sottane di Giovanni Paolo II, il papa che li ha denudati e esposti al ludibrio. Da essi denunciato tredici anni fa come il papa della Cia…”

Il Sud al tempo di Columella

Se si tagliano i capelli in luna calante non ricrescono. Lo starnuto è propizio, beneaugurante. Si direbbe il contrario, ma così vuole la sapienza antica. Al Sud. Il canto della civetta è segno di prossima morte, anche a Roma e sulle Alpi. Ma il folklore si vuole meridionale. Con esiti in effetti impressionanti: questo “Sud antico” è l’esito di una serie di ricerche sul campo nella Calabria grecanica ai piedi dell’Aspromonte e sui Nebrodi, e più rapidamente in Val d’Agri, nella Grecìa salentina, le Murge, la Daunia, il Matese, gli Aurunci, tra Cassino e Venafro, la Sardegna sopra Olbia.
Lelli trova riscontri testimoniali e pratici, e spiegazioni, di usi, detti, formulari, credenze, pratiche, gesti, oggetti antichi, greci o latini. E spesso la spiegazione di problemi filologici ardui, di lettura e interpretazione dei testi antichi. Decine, centinaia di problemi filologici, di lettura significante di formule e pratiche controverse, dei testi letterari e filosofici e di quelli tecnici (Columella, Apostolio, Diogeniano, Artemidoro, Festo, Igino, Prisciano, Mauele Fileta, Strabone, Zenobio et al.) che Lelli può sciogliere con le sue rapide incursioni sul campo.
Tutto inizia con una fortunata ricerca (vacanza?) del demofilologo all’agriturismo  “Il Bergamotto” a Condofuri, area grecanica a sud di Reggio Calabria. Una serie fortunata di riscontri di antichi riti e credenze lo porta ad allargare l’indagine in altri siti. È una vendemmia ricca: “Dopo quasi cinquecento interviste, dirette e indirette, su questionari che tematizzano elementi di civiltà greca e romana – credenze e superstizioni, canti popolari, favole e leggende, proverbi – ho potuto riscontrare che la quasi totalità delle notizie antiche è ancora presente, nella memoria ‘folklorica’ di uomini e donne nati nella prima metà del Novecento, in numerosissime aree del Meridione”. Lelli ne ricava anche una linea di sviluppo della demofilologia: un invito “a rileggere tutta la produzione letteraria greca e latina sub specie folkloris”. Specie nei punti controversi, di difficile comprensione. In questo senso una ricerca indubbiamente feconda.
Perché Sud antico? Una rivendicazione? Un risarcimento? Il Sud Lelli trova “antico” rispetto al Nord. Dove, spiega, “i riscontri comparativi con ‘credenze’ e ‘superstizioni’ greche e romane ammontano, grosso modo, alla metà di quelli offerti dalle regioni meridionali”.
Emanuele Lelli, Sud antico, Bompiani, pp. 431, ril. € 19.

martedì 23 febbraio 2021

Secondi pensieri - 443

zeulig


Apotropaismo
– È una forma primitiva e primaria di difesa  salvaguardia del sé. Della persona, della famiglia (la casa, i beni, la carriera), del clan p tribù – si esercita con  gesti e oggetti ma anche secondo riti. Una forma istintuale. Che ha durato però nei secoli, e si rilancia in epoca postmoderna – del disbelief, anche cinico: nei gerghi, i tatuaggi, la socialità frammentata. 
 
Comico
– Eco ne fissa il canone (i canoni? tutti, alcuni?), più che nell’inseguimento del trattato aristotelico perduto sulla commedia,  in un breve scritto giornalistico su “L’Espresso” nel 1992 (ora in “La Bustina di Mnerva.1990-2000”), intervenendo su un polemica giornalistica a proposito di Chaplin e di Totò, “chi è il più grande”.  Chaplin è un artista, Totò un comico, stabilisce, un “fenomeno di comicità istintiva, un fatto di natura, come un uragano o un  tramonto”. Questa è la differenza maggiore, e quella che fa, consente, il comico, la naturalezza: “Ci si può beare ogni sera del tramonto, anche se si sa come va a finire, mentre non si può passare la vita a guardare la Vittoria di Samotracia”, o ascoltare la “Quinta” di Beethoven “tutte le mattine al risveglio”. Corollario di questa distinzione tra arte e natura: l’arte è universale, la comicità specifica. “La grande opera, anche quando racconta una storia qualsiasi, induce il destinatario a proiettarvi se stesso e i problemi dell’umanità tutta”, mentre “Totò rimane un partenopeo marginale sulla cui animalità ridiamo senza ritegno perché ci sentiamo superiori a lui”.
Una seconda differenza, continua Eco, è “la coerenza  testuale”. Chaplin non si puo’ spezzettare, non può mangiarsi la scarpa in “Tempi moderni”: “Ogni sua gag «fa corpo» col resto dell’opera”. Mentre ogni scena di Totò è intercambiabile: “La scena del vagone letto è sublime (come il cielo stellato sopra di noi), ma potrebbe essere inserita in qualsiasi film di Totò”.
Terzo elemento è l’“economia”, l’arte essendo “risultato di un calcolo con squadra, compasso e misurino”: Chaplin disturba quando ripete “senza ragione certe “mossette o sorrisini imbarazzati, e cade quando non sa misurare i suoi tic”, mentre Totò viaggia impune in una “economia della dismisura”: “L’economia di costruzione è quella che permette di non rileggere o rivedere troppo sovente la grande opera d’arte”, mentre “la comicità naturale va consumata con ingordigia, perché non si purifica nella memoria, ma rimette in gioco ogni volta i nervi e le trippe”.
Il fatto è però che Totò era un riflessivo - l’analisi di Eco confligge con quanto si da del “partenopeo (non) marginale” Totò: la sua comicità “strabordante” si mostra istintiva per calcolo, sapiente dosaggio. Non era rifinito, ma era progettuale: quella tra comico “naturale” e comico “artistico” è la differenza fra l’artigiano, per quanto curato, e l’artista. Tra due forme, in realtà, di arte – anche dall’artigiano si vuole sapienza e misura,  nelle forme, nei tempi, nei limiti. In termini banali, c’è chi sa raccontare le barzellette e chi no, chi sa far ridere anche con barzellette stupide, e chi annoia con le più puntute.
 
Ebraismo – In Heidegger non è connotato nel senso dell’antisemitismo, di qualunque specie, ma della lettura hegeliana dell’ebraismo, del primissimo Hegel, “La positività della religione cristiana”, 1796: “L’ebraismo, legato al formalismo farisaico, è negato all’etica cristiana, spirituale”. Anzi, “ne provoca l’involuzione in religione positiva”, dei dogmi, e della gerarchia necessaria ad amministrarli. Una spiritualità legata alla Rivelazione, e a una chiesa gerarchica. Una comunità autoritaria. E per questo separata. Di un’eccezionalità – elezione - che è anche annullamento di sé.
Hegel oppone la morale superiore di Gesù non solo all’ebraismo ma anche a Kant, nel successivo “Lo spirito del cristianesimo e il suo destino”:  Cristo predica non il rispetto della legge ma l’amore, il suo imperativo morale è “superiore” alla legge kantiana del dovere, che Hegel assume come un’etica ebraica interiorizzata, più che scolpita nelle tavole mosaiche.
Ma quanto di Hegel e Kant c’è in Heidegger?
 
Incubatio – La credenza, da Epimenide in poi, che dormendo in un luogo o su un oggetto consacrato, in grado di emanare fluidi benigni, il fedele ne ricaverà influssi benefici (sogni o segni veraci, positivi) comune a tutti i repertori pratico-religiosi conosciuti, è di fatto perpetuata  - se non ne è ispirata – dall’atto sessuale, dall’accoppiamento. In senso esplicito anche in pratiche e repertori alchemico-spiritistici. Il “Malleus Maleficarum”, martello delle streghe, fa ampio e dettagliato caso delle succubi e degli incubi, ai fini della raccolta e della propagazione del seme della fertilità.    
 
Intellettuale – Intermittente, anzi a tempo perso, lo vuole Umberto Eco: nel (poco) tempo in cui è creativo. “O è colui che non fa una professione esclusivamente manuale, e allora la questione è puramente sindacale; oppure, come credo, è uno che in certi momenti svolge una funzione creativa”, U. Eco, “Cosa pensava Leopardi delle ragazze di Recanati?” (in “La Bustina di Minerva. 1990-2000). La funzione non sempre può essere creativa, argomenta Eco, non di Einstein nell’assemblea di condominio: “La funzione intellettuale si svolge in certi momenti, e per il resto si è cittadino paziente”, nella varie incombenze quotidiane.
 
Nella stessa raccolta, in un intervento del 1997, “Il primo dovere degli intellettuali. Stare zitti quando non servono a nulla”, lo stesso Eco ne fa una condizione utilitaria, servile. Di fatto, poi, il tema svolgendo al contrario: “Gli intellettuali, per mestiere, le crisi le creano, non le risolvono”, e “Questo hanno fatto gli intellettuali che abbiamo studiato a scuola, si chiamassero Parmenide, Einstein, Kant, Darwin, Machiavelli o Joyce”. Non sono risolutori, non nei tempi ristretti, degli accadimenti: “Lavorano nei tempi lunghi”, cioè “svolgono la loro funzione  prima e dopo, mai durante gli eventi” – “quando la casa brucia, l’intellettuale può solo cercare di comportarsi da persona normale e di buon senso, come tutti”. Con l’eccezione di “quando sta accadendo qualcosa di grave e nessuno se ne accorge. Solo in quei casi un suo appello può servire come allarme”.
Casi? Eco porta solo quello di Zola, del “j’accuse”. Ma la storia di Zola e del “j’accuse” direbbe piuttosto il contrario - benché l’“Aurore” ne avesse fatto un manifesto, di grande evidenza grafica.
 
Malocchio – Il timore che un apprezzamento nasconda o induca un maleficio, e necessiti quindi di scongiuri, baskanìa in greco, fascinum in latino, viene da lontano. Da una probabile origine comune dei due termini, indoeuropea. Sottesa comunque ai riti divinatori e propiziatori.
Storicamente, ne fa caso Socrate nel “Fedone”, avendo ricevuto da Cebete un elogio: “Amico mio, non dirlo forte, che un qualche malocchio non ci faccia tornare indietro nel ragionamento”. Cloazio Verro, dell’età di Augusto,  registra i due termini, greco e latino, anche nel senso di “jettatura”, di occhio cattivo – “guardare male qualcuno o qualcosa”, dice il grammatico. L’occhio peraltro è sempre stato diffuso, anche in antico, in immagini e in oggetti di devozione, come segno divino, quindi diabolico.
Nel senso più generico di invidia qualche secolo prima di Verro registrava il malocchio nel prologo degli “Aitia” il poeta Callimaco, che i suoi nemici dice “razza spregevole del Malocchio”. Lo stesso farà Catullo al carme 7, quando sfida i curiosi a contare i baci con Lesbia, e a “lanciare il malocchio con mala lingua”, nec mala fascinare lingua. Plutarco dedica alla “fascinazione” il capitolo 7 del libro quinto delle “Questioni simposiali”.
Il demofilologo Lelli ha una vasta serie d riferimenti classici al malocchio in nota al suo “Sud antico”, pp.289-29: “Il «malocchio», το κακό ματι o semplicemente το ματι (diminutivo di όμμάτιον) è ancora oggi in Grecia uno degli elementi di foklore più diffusi e radicati”.
 
Totalitarismo – “Cosa è nuovo nel totalitarismo è che le sue dottrine sono non soltanto insindacabili ma anche instabili”. Volubili. Orwell fa il caso degli intellettuali comunisti in Europa portati a credere nel 1939 che il patto russo-tedesco difendeva la pace. L’instabilità è tale, argomenta ancora Orwell nel saggio “The Prevention of Literature”, 1946, che “il totalitarismo non promette tanto un’età di fede quanto un’età di schizofrenia. Una società diventa totalitaria quando la sua struttura diventa scopertamente artificiale: cioè quando il suo ceto dirigente ha perso la sua funzione ma riesce a tenersi al potere con la forza o la frode. Una tale società, non importa quanto a lungo persista, non può mi permettersi di diventare tollerante o stabile intellettualmente”.


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L’amore di Pavese divorante

Un piccolo canzoniere, “poesia d’amore” è il sottotitolo. Tanto voglioso quanto disperato, fin dall’inizio. Gia da ragazzo, come alla fine. Forte di un sentimentalismo che lo blocca, e lo distruggerà, qui antologizzati: tutto quanto si rilegge alla luce del suicidio, ma in questo caso, su questo terreno, quasi esplicito.
Il primo componimento, 1923, quindici anni, è in –ure, ma è lieve e delicato, non è facile. Il secondo è già di scuola, sulla “Beata Beatrice”, ma non  male – è la la Beata Beatrix un po’ estatica in punto di morte, dal prognato forte, non proprio suadente, di Dante Gabriel Rossetti. L’ultimo, il celeberrimo  “The cats will know”, 10 aprile 1950, “i gatti lo sapranno”, dalla raccolta postuma “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, è epicedio, un dei tanti, per l’ultimo amore impossibile, con l’attrice Constance Dowling, reduce da una notte di bagordi, e di letto?, con altri: sono gli ultimi versi prima del suicidio ma senza acrimonia, “sotto la pioggia leggere”, “nell’alba color giacinto”, il disamore è ora nell’ordine delle cose.
Una raccolta “bruciante”, di un bisogno di amare, di essere amato, mai soddisfatto, da nessun partner, in nessuna situazione, da ragazzo e da adulto. Presago peraltro immediato, aprile 1924, di fronte alla Beatrix rossettiana, che “l’amore\ del pauroso giovane non sente. Succeduto nella dedica, dicembre dello stesso anno. “Per un’attrice di cinematgrafo giovanissima, straniera, lontana”. Presto, diciottenne nel 1926, “convinto io stesso che il mio sogno è stupido”,  O, ancora prima: “Senza una donna da serrarmi al cuore!\ Mai l’ebbi, e mai l’avrò. Solo, stremato\ da desideri immensi di passione\ e pensieri incessanti, senza meta”.
Un diario, una testimonianza. Una silloge si sogni, impossibilità, addii, prima di cominciare. Versi molto adolescenziali, nell’adolescenza – i versi fino a vent’anni prendono i tre quarti della raccolta – e negli ultimi mesi di vita – il restante quarto. Ballerine nude, ragazze bionde, e solitudine, già a vent’anni: “Solo, senza neanche più me stesso”.
Un canto continuo  alla porta chiusa: “Tu sarai per me per sempre\ la mia anima più vera\ che mai conoscerò,\ perché racchiudi in te\ l’ansia della mia vita,\ la limpidezza azzurra delle origini,\ il gran sogno sereno,\ che si travaglia dentro l’esistenza\ e si trasforma nella febbre atroce\ che mi rigetta e affascina”. Un’impossibilità quasi costruita.
Riscoprire Pavese
Scadendo i diritti, le riedizioni si moltiplicano, nelle forme più strane: questa raccolta, che non dichiara le origini né le fonti, è tuttavia la più nuova. Propone, impone, un Pavese diverso. I versi coetanei, un paio anche di questo sentito, amoroso, erano già antologizzati in “Pavese giovane”, ma nessuno di questi componimenti.
Per troppi aspetti Pavese è da riscoprire. Fuori dalla “Einaudi”, l’universo intellettuale e politico dentro cui è stato finora imbozzolato. Pavese era molto altro, e anzi era altro. Walt Whitman. L’impegno politico controvoglia. Gli innamoramenti infelici. I “Dialoghi con Leucò”, sua riflessione preferita. Un figura solitaria, pur nella Torino aperta sul mondo e informata malgrado il regime, libera, entro cui si è formato e ha vissuto, da Augusto Monti e Pietro Chiodi a Calvino. Un outsider, sotto tutti gli aspetti. Compreso l’autodidattismo, la fortissima componente formativa da isolato. Nell’apprendimento (padroneggiamento) dell’inglese. Nello studio del tedesco. Nella folle storia con il cinema e la Dowling.
Struggenti, è la parola giusta, gli ultimi componimenti, già noti in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, quasi una maledizione – a questa volta estroversa. Si comincia dalla confidenza, “From C. to C.”, da Cesare a Constance, in inglese – ma già con una riserva: il dampled smile e il glowing laughter sono su un piano di ghiaccio, tomorrow is frozen down in the plain. E si comincia presto con le ansie. Sui ritorni di lei all’alba, in the morning you always come back, e non si capisce se è al risveglio oppure di ritorno da una note di bagordi. L’estasi è di pochi giorno, dall’11 al 21 marzo. Seguiti da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” – “sarà come smettere un vizio”, dell’amore divorante. E dai settenari inflessibili di “You, wind of March”, una macia funebre: “Il tuo peso leggero\ ha riaperto il dolore”.  
Cesare Pavese,
Il desiderio mi brucia, Garzanti, pp. 92 €4,90

lunedì 22 febbraio 2021

Letture - 449

letterautore

A quel paese – La cantata di Sordi al Sanremo di quarant’anni fa, ripresa da Ficarra e Picone, più digeribili di Grillo, è esercizio intramontabile, insieme vago ma chiaro, fin da Omero. Che al canto 6 del’ “Iliade” ha Elena sconfortata dalla guerra a lamentarsi di non essere stata gettata prima da una tempesta “su un monte o sull’onda del mare risonante”. L’auspicio Plutarco riprenderà in positivo nell’opuscolo “Come distinguere l’adulatore dall’amico”: il vero amico è uno che ci correggerà, magari con un invito, a mandare il malfatto o malpensato “al monte, all’onda del mare risonante”.
Erasmo da Rotterdam negli “Adagia”, al proverbio 3367,  ne fa grande caso, di Omero e di Plutarco – e anche di Orazio e di Teognide, che il sentito, se non il verso, di Omero avrebbero ripreso. Dando allo sconforto di Elena la funzione di invito, a modo di scongiuro, apotropaico. Lo riprende a proposito dell’espressione “cacciar via lontano”: “Quando vorremmo ammonire che bisogna cacciar lontano qualche male o difetto sarà ben adatto quel verso, se non erro, omerico, mandare «al monte o alle onde del mare risonante»”.
 
Cinema
– “Fatica senza faticare”, lo diceva Giacomo Debenedetti, che s’immagina cultore arcigno della forma letteraria, mentre lavorò molto per il cinema, soggettista e sceneggiatore, e gli piaceva farlo.
 
Critiche
– Quelle letterarie erano scomparse già nell’ultimo del Novecento. Già dagli anni 1980, arguisce Umberto Eco nel 1999 nella sua rubrica su “L’Espresso”, sotto il titolo “Trionfo e tramonto della stroncatura” (ora in “La Bustina di Minerva 1990-2000”). Giudici critici sospesi o omessi, la recensione si pubblica solo in positivo: “Sospetto che i critici italiani si siano accorti a un certo punto che, a stroncare sempre, non venivano mai citati dalla pubblicità editoriale”. Che è visibile, colorata e a grossi caratteri, e dà autorevolezza e fama - la sola “ascesa al Parnaso” ora possibile. La gara, diceva Eco, ora è al blurb, alla citazione pubblicitaria, sulle copertine dei libri, quindi a futura memoria, e negli annunci pubblicitari, a grandi caratteri, a colori di richiamo: “Essere blurbista è segno di prestigio, e non è indispensabile leggere”, c’è “un’arte consumata dell’elogio generico”. Il top del top.
La pratica non è morale\immorale, spiegava Eco scherzoso – ma serio dal punto di vista editoriale: “La pratica è molto morale, perché anche i lettori sanno benissimo che un blurb è sempre e per definizione positivo… e si regolano di conseguenza”. Con effetto comunque positivo: “Si è istintivamente portati a stimare un autore per cui tante persone illustri sono disposte a mentire”.
Molto mora le? Semplicemente, non c’è più l’arte del critico.

Solo un inconveniente nel trionfalismo (ironico?) di Eco: quando il blurb cita il giornale e non il critico. Il giornale fa più colpo, più autorevole. E non contesterà l’esattezza dell’attribuzione – è pur sempre pubblicità. Di un romanzo noioso si può leggere in copertina: “Un romanzo meraviglioso” – “The New York Times”; “Il miglior romanzo del miglior scrittore della sua generazione” – “The Guardian”; “Soltanto il geometrico, cristallino XY poteva trascinarci con tanta sapienza in tale vertiginoso labirinto” – “la Repubblica”.
Del critico non c’è bisogno. Anche perché non ci sono più critici di nome, autorevoli. 

 
Famiglie
– Inutili alle arti? Lord Keynes, l’economista, in una delle sue divagazioni stimava che un esordio letterario non è complicato, potendo contare sulla sottoscrizione di amici, estimatori e familiari – una base di 400 copie, calcolava, che avrebbe garantito l’editore della spesa. La nipote di Cesare Pavese, Maria Luisa Sini, novantaduenne che è stata insegnante di Lettere, ha ricordato invece con Maurizio Crosetti sul “Venerdì d Repubblica” che lo zio non era molto quotato in famiglia, ancorché scrittore famoso, e appena premiato con lo Strega, alla vigilia del suicidio – e ancora, per qualche tempo, dopo il suicidio, e il grande rumore mediatico. Nessuno ne conosceva o ne leggeva i libri, ne sapeva l’esistenza. Si sapeva che scriveva, ma come di un tipo originale. Lei sessa, allora 22nne, e in procinto di laurearsi in lettere, lo scoprì alla morte, dedicandogli la tesi.
 
Islamofobia
– In un catalogo di rarità, di una libreria parigina, Intersigne, “Cabinet de curiosités, II”, Umberto Eco trovava nel 1993 , accanto alle “analisi sulla follia di Rousseau e E.T.A. Hoffmann”, un “Maometto considerato come alienato”, cioè come pazzo, del 1842. Ma non ne dice di più.
 
Missile
– Da “missus”, participio passato di “mitto”, latino per mandare, inviare. Missile in inglese è – era – il messaggio.
 
Montalbano
- Non se ne faranno di nuovi perché è morto Camilleri o perché è morto Sironi, il creatore del Montalbano al cinema? Il Montalbano di Camilleri è sempre lì, nei libri. Quello del boom tv è opera di Sironi, nelle riprese e al montaggio (la sceneggiatura definitiva). Tutto, eccetto che nei dialoghi: i colori, le luci, i luoghi. Esterni e interni, questi soprattutto, magici, favolosi, anche quando sono una casupola in lamiera. E i personaggi caratterizzati, i ritmi – specie le pause. Il linguaggio dei “Montalbano” è quello dei film.
 
Ombra
– Cara a Borges, Conrad, Hofmannstahl, Tanizaki, Aessandro Spina, è già in Pindaro: già l’uomo di Pindaro è “l’ombra di un sogno” - “Ottava pitica”, 5.
Molta ombra è della Bibbia. Come dirà Origene, commento al “Levitico”: “La Scrittura è costituita, in un certo senso, da un corpo visibile, da un’anima che si può conoscere attraverso il corpo, e da uno spirito che è l’esempio e l’ombra dei beni celesti”.
La Bibbia si compone di visioni e profezie, maledizioni, invocazioni, atrocità, storie d’amore fedele e d’amore infedele e anzi assassino, eroismi, sublimi o banalmente quotidiani, tradimenti – beneficiando dell’ombra della luce, dice Clemente d’Alessandria: “L’ombra della luce non è tenebra, ma illuminazione”. Ma è ben artefatta. La stessa Palestina era, è, un’ombra - come la stessa Scrittura.
 
Sinistra – “Non sono gli italiani che vanno verso la sinistra, è la sinistra che va verso gli italiani… Essi faranno la sinistra a loro immagine e somiglianza. Cioè, molto elegante”, Ennio Flaiano, “La solitudine del satiro”, 1972”.
 
Suicidi – Via internet erano già materia di una “Bustina di Minerva” di Umberto Eco del Primo Maggio 1997, su “L’Espresso” (ripresa nella compilazione “La Bustina di Minerva, 1990-2000”). Sono coevi di internet.

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Lolita-Ranieri perduta nella bella Bari Vecchia

Lanciata da una promettente, pressante, campagna promozionale, su tutti i canali Rai a tutte le ore, la miniserie esordisce con percentuali camilleriane. Ma con poca soddisfazione.
Notevole anche l’impegno, di marketing nemmeno tanto sottile ma comunque di effetto, su serie con protagoniste donne, donne moderne, non principesse innamorate, capitane, commissarie, imprenditrici, giudici, eccetera. Le pluriserie di Vanessa Incontrada, “Non dirlo al mio capo”, “Il capitano Maria”, “Come una madre”, Anna Valle di “Sorelle”, Elena Sofia Ricci di “Vivi e lascia vivere”, Vanessa Scalera tornado eroicomico  di “Imma Tataranni”, Serena Rossi di “Mina Settembre”, la stessa Ranieri di “La vita promessa”. Tutte girate al Sud, con un po’ di Toscana, e di New York. Per lucrare sugli incentivi regionali ma pure, lodevolmente, per liberare il Sud.
Ottimi proponimenti, insomma – e anche ottimi risultati. Ma Miniero gestisce senza entusiasmo alla prima puntata due storie vecchie-nuove, della vecchia pubblicistica pruriginosa: di demi-vierges, di corna, e di mésalliances. Quella impossibile tra la famiglia alto borghese e la famiglia del contrabbandiere, e quella lussuriosa tra alta borghesia e malavita, cattiva e anche un po’ tarata. Le attrici ce la mettono tutta, Luisa Ranieri, Bianca Nappi, Lunetta Savino, Camilla Diana, Giulia Fiume. Gli attori fanno le pose da contratto -prima ci spicciamo meglio è. Bari è abbellita molto, Bari Vecchia (troppo per i non baresi, troppo colore – cibi, contrabbando, furti – e forse anche per i baresi), ma non basta.
Luca Miniero, Le indagini di Lolita Lobosco, Rai 1

domenica 21 febbraio 2021

Problemi di base divini - 623

spock

“Voglio uccidere i nemici in stato di purezza davanti a Dio”, Ahmed al-Qaliuby?
 
“Il mistero è nostro padre, gli dei sono nostri figli”, Fosco Maraini?
 
“La colpa del mondo ricade comunque su Dio”, Schopenhauer?
 
Che dunque esiste?
 
“Gesù ha essenzialmente insegnato l’imperativo categorico kantiano”, Hegel?
 
Cristo è in contrapposizione al kantismo, predicando l’amore più che il rispetto della legge – Hegel?
 
“Oh, un Dio è l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette”. Hölderlin – quando riflette l’uomo oppure Dio?

spock@antiit.eu

Appalti, fisco, abusi (196)

Si compri un telefono da tavolo di primaria ditta – l’unica che li commercia. Il libretto delle istruzioni è in italiano incerto – più confuso che chiaro. Si provi con la versione inglese: idem. Dove l’apparecchio è stato fabbricato non si può sapere, ma la sintassi, sia italiana che inglese, è asiatica, pre-baconiana. Anche i suoni, di chiamata e alla digitazione, sono strani, di un altro ceppo linguistico. Sarà conveniente fabbricare gli apparecchi in Asia piuttosto che in Piemonte, ma i prezzi aumentano e non diminuiscono.
 
Bisogna riempire dodici fogli per il vaccino anti-covid. Di cui la metà inutili. È il leguleismo imperante di origine americana, che vorrebbe prevenire eventuali effetti negativi con una “liberatoria” – quando tutti sanno che un danno va accertato in sede giudiziaria. Come se un produttore di medicinali fosse esentato da colpa per avere elencato tutte le controindicazioni immaginabili nello sterminato “bugiardino” – sempre le stesse per ogni medicinale. E tutte quelle carte, dove vanno a confluire?
L’unico effetto è di raddoppiare o triplicare i tempi della somministrazione, rallentando la vaccinazione di massa.
 

Analogamente in banca e all’assicurazione, si è sottoposti a innumerevoli verifiche e prove di identificazione, con sms, app, whatsapp, numeri che bisogna leggere a voce forte, numeri che si digitano. In aggiunta alle molteplici firme per una dozzina almeno di fogli di “presa visione” e di “liberatoria”. Del tutto inutili – e comunque di archiviazione impossibile, non identificabile.
Poi, però, le banche possono far pagare nuovi costi di gestione – e lamentare un eccesso di personale.
 
C’è la lotteria degli scontrini ma due esercizi su tre non si sono attrezzati per praticarla. E l’esercizio che si è attrezzato accetta solo Visa e Mastercard, i circuiti che usano le banche. È una lotteria pro-banche, per l’utilizzo delle carte bancarie.


Vita eduardiana di Eduardo

Raccontato da chi ci ha convissuto o ci ha lavorato, da Carolina Rosi, la nuora, dai figli di Luca, Matteo, Tomaso e Luisella, che firmano il memoir in collettivo, da Isa Danieli, da studiose di teatro, da collaboratori e collaboratrici ancora in vita. Con foto, filmati, interviste e altri materiali di archivio, a partire dagli anni 1920, e i ricordi a suo tempo di Luca. Con le memorie della terza moglie, Isabella Quarantotti. E con la corrispondenza sempre affettuosa e perspicace, in italiano perfetto, della prima moglie, l’americana Dorothy Pennington - lasciata dopo vent’anni per Thea Prandi, che darà a Eduardo gli agognati figli: bastardo di Scarpetta, come i fratelli Titina e Peppino, Eduardo proclama in un’allocuzione qui ripresa un amore e una riconoscenza fortissmi per il padre, e un solo rimpianto dirà nel suo ultimo intervento pubblico, a Taormina, un mese prima della morte, quello di non avere dedicato più tempo ai suoi bambini.
La vita di un grande commediografo e artista, e di un grande uomo. Una vita piena. Cinquantuno commedie, una anche con Pirandello, “L’abito nuovo”, e tanti successi, al teatro e al cinema, in Italia e nel mondo. Partendo dall’infanzia, di famiglia spuria ma non abbandonata. Nel ricordo semre vivo della figlioletta Luisella adorata, morta a dieci anni, al Terminillo, mentre lui recitava a Roma. Un dramma eudardiano, questo, nel racconto. Con scene di follia prima del funerale, un ultimo tête-à-tête con la bambina nella bara, la scrittura improvvisa di una lettera che infila nella cassa, e il ritratto di Luisella da cui non dovrà separarsi in ogni spostamento nei venticinque anni di vita successivi. 
Il nostro Eduardo, Sky Arte