Cerca nel blog

sabato 23 dicembre 2023

Ombre - 699

Oggi sabato il “Corriere della sera” ha sei pagine preoccupatissime sui “partner europei spiazzati dal voto” sul Mes. Di cui non potrebbe fregargli di meno, a leggere i loro giornali o ascoltare le loro tv. E poche righe sul Superbonus che costerà 56 miliardi nel 2023 invece dei 36 stimati a settembre, facendo saltare il già ristretto budget per il 2024. Ogni mese di Superbonus costa quanto lo stanziamento annuo per la Sanità, calcola il ministero del Tesoro. Come non detto.
 
Venerdì. “L’Italia  inaffidabile”, dopo il no della Camera al Mes, “torna a preoccupare alleati e mercati” - apre a tutta pagina “la Repubblica”. Ma lo spread, che misura la fiducia nei titoli pubblici, è sceso – ha continuato la discesa, del 21 per cento da inizio d’anno, ieri a 160, quota minima da dodici anni.
Senza peraltro dire che la maggioranza dell’opposizione si è astenuta o ha votato contro.
 
Giovedì. “la Repubblica” apre a grandi caratteri: “Patto Ue, la resa di Meloni”. Mentre sa che è il contrario. Molinari vuole alzare una palla a Meloni? E noi che compriamo il giornale, ci prende per fessi.
 
Martedì: “Accordo Ue sul nuovo patto di stabilità”. Mercoledì: “Patto di Stabilità: intesa Francia-Germania”. E questa è tutta l’Europa. Consigli, consultazioni, unanimità?
 
“L’Italia ha il doppio di autovelox della Germania”, che ha il doppio degli automezzi circolanti, “e il triplo della Francia”. Servono ai virtuosi amministratori comunali per fare cassa, non per prevenire gli incidenti. Specie in Toscana, è da aggiungere, dove Firenze ha il record nazionale degli incassi - il doppio di Milano, che ha popolazione e territorio quattro volte più grande. E nelle Marche. Eredità della “buona amministrazione” Pci, del potere come polizia.
 
Si prevengono gli eccessi di velocità con i sistemi di controllo visibili, annunciati,  a tratti ritornanti, come è nelle virtuose autostrade meridionali. A Firenze, quando era feudo Pci, gli autovelox erano nascosti dietro le curve, a ridosso immediato di un segnale di dimezzamento della velocità – a Orbetello dietro spesse siepi.
 
Si stracciano le vesti la corrottissima Fifa, e l’Uefa di Ceferin che la rincorre, nonché l’Eca del famoso sceicco parigino Khelaifi, che paga i calciatori 500, 700, o più milioni, e l’ex premier britannico Johnson, corrotto anche lui, i padrini del calcio “sport popolare”, perché non ne avranno più il monopolio – proprio ora che lo potevano vendere ai corrottissimi arabi.
Sono in dubbio i cronisti sportivi – non sanno a che carro attaccarsi?
 
Le cronache sportive della sberla ai monopolisti-corrotti si nascondono dietro i social dei romanisti – ma anche di chiunque abbia visto Siviglia-Roma sei mesi fa a Budapest. Contro l’Uefa che si era palesemente venduta la partita. Con l’arbitro Taylor “modello Collina”, il grande santo delle carriere degli arbitri internazionali (ora alla Fifa dopo una vita all’Uefa): ammonizioni subito (sei gialli ai romanisti, uno al Siviglia, benché i sivigliani abbiano commesso più falli, specie contro le “ripartenze - un fallo a giallo automatico), rigori contro inventati, rigori a favore negati, giusto per alimentare il  nervosismo.
 
Degli arbitri inglesi bisogna dire che gradiscono molto la vacanziella pagata in Spagna, come è l’uso – il famoso arbitro Oliver resta un caso esemplare. Ma di Taylor bisogna pure dire che è stato promosso per il servizio reso: il senza vergogna Ceferin, sotto l’alto patrocinio di Colina, lo ha benedetto dopo Istanbul.
 
Intransigente il prefetto di Roma Giannini: “Contrasto massimo alle violenze di genere”. Poi uno gira pagina e, a proposito di uno stupratore riconosciuto e denunciato dalle vittime, legge: da luglio “i tempi burocratici hanno permesso di spiccare nei suoi confronti l’accusa di violenza sessuale e rapina  nei confronti della seconda donna solo nei giorni scorsi”, a metà dicembre. Poi, dopo ancora qualche giorno, “è arrivata la misura cautelare in carcere”. Sembra Gogol’, ma non è da ridere.
 
Multa severa (un milione) del Garante della Concorrenza a Chiara Ferragni per pubblicità ingannevole. Cioè per una truffa: con le vendite di un panettone prometteva di finanziare un ente assistenziale, e non lo ha fatto. A parte le considerazioni morali, un fatto penale. Ma nessuna Procura si muove – se non Milano, con cautela, e dopo che altre ipotesi di reato sono emerse. Solidarietà politica?
Cane non morde cane è contraddetto ogni giorno ai giardinetti. Ma in certi ambienti è vero?

Il cinema non è una cosa seria

Il cinema del cinema, in formato grande, gigante. Di un’arte che si vuole semplice, perfino noiosa a fare - sminuzzata, ripetitiva. Ma richiede molti soldi, per un investimento a rischio elevato. E consuma chi la fa, dai produttori agli artisti e alle maestranze, tutti nevrotizzati (alcolizzati, drogati, sessuomani, ludopatici, violenti). Qui li consuma a maggior ragione, perché siamo nei secondi anni 1920, del passaggio al sonoro.  Quando cioè le stelle del muto all’improvviso divennero  ridicole o incapaci, di voce ineducata o sgradevole.E malgrado tutto arte popolare per eccellenza, di linguaggio e costo accessibile a tutti: due ore di luce, di sogno, per pochi spiccioli, anche per gli animi semplici – indeducati, poveri.
Chazelle, regista del cinema-spettacolo, di immagini, musica, danza e parole, tenta il capolavoro assoluto. Tre ore di eccessi. Aperti da un’orgia porno-alcolica-drogata-violenta nel deserto della California, espressione della ricchezza folle, stravagante, del cinema muto che si faceva con quattro soldi. A fronte del cinema come sogno del giovane messicano addetto ai servizi meniali. E su questa antinomia va avanti.
Alcune scene sono strepitose. Quelle dei titoli di testa, dell’elefante alla festa, e poi dell’orgia nel palazzo nel deserto. O della ragazza di provincia, povera e ambiziosa, che subentra per caso in un set alla star indisposta e diventa per il solo temperamento una diva - una prova strabiliante, per tutta la durata del film, di Margot Robbie. Magistrale quella dei primi ciak del sonoro. Ma un’occasione sprecata, probabilmente al montaggio – il giovane regista sembra non aver voluto rinunciare a niente di quanto aveva girato, anche se ci azzecca poco. Per un racconto che in definitiva resta sfocato, dispersivo. Se non, involontariamente, come critica dell’american way of life, soldi e alcol, di cui Hollywood sarebbe eponima – a fronte, in continuazione, di una ipotetica Europa virtuosa.
Con un tributo muto, mostrato, non detto, a Harvey Weinstein – è questo che è costato al film un qualche premio dei tanti cui è stato candidato?: un produttore compare sui ciak e alle feste dallo sguardo ragionevole, non ubriaco né “fatto”, rispettoso di attori r registi, con le fattezze del produttore condannato per violenza sessuale.
Damien Chazelle, Babylon, Sky Cinema Due, Now

venerdì 22 dicembre 2023

Problemi di base bellicosi bis - 782

spock


Ma quant’è grande questa Gaza, la distruzione non finisce mai?
 
E quanti sono questi palestinesi, non finiscono mai di morire?
 
Si può mettere il veto a una tregua?
 
Perché l’antisionismo sarebbe antisemitismo?
 
Cane non morde cane – chi l’ha detto?
 
Senza la leva obbligatoria, abbiamo dimenticato la guerra?
 
spock@antiit.eu

Le bizze del capitano Gaddus, con una storia d’amore

Il primo racconto che Gadda ha scritto è l’unico di una storia d’amore fra giovani. Ed è perfino un triangolo: tra la giovane nobildonna e il contrabbandiere.giardiniere, tra il fratello di lei e lo stesso contrabbandiere-giardiniere. Costruito come un giallo – ma a soluzione aperta, ambigua.
Gadda lo scrisse da prigioniero di guerra dopo Caporetto – pubblicandolo nel 1963 su “Letteratura”, lo accompagnò da una nota: “Questo racconto fu pensato e scritto  dal 22 al 30 agosto compresi dell’anno 1918 in Celle-Lager”. Con una sorta di autoritrato in uno dei personaggi, il giovane Rinieri, il terzo escluso da ogni rapporto, presente ma invisibile. Con una fraseologia involuta, per volere essere delicata, insinuante, non apodittica.  Col problema qui evidente, molto gaddiano, come poi di Tozzi, Landolfi, Alvaro, Bontempelli, buona parte dei narratori tra le due guerre, di quale lingua usare, il vecchio problema manzoniano, l’italiano postunitario suonando vacuo, e l’unico appiglio “reale” suonando quello infantile, originario, regionalizzato, dialettale.
Il “Capitano in congedo” è Gadda, l’ingegnere. È è il secondo racconto della raccolta e “la prima bizza” è giù esaustiva: “Contro Semiramide, lo sciacquone, i cilindri zincati,l’architetto Gutierrez e il fisico Wollaston” – a complemento: “Trionfo d’una porcellana”. Puro Sterne, “Tristram Shandy gentiluomo”, quindi probabile prosa di formazione, ma pubblicato tardi, nel 1940.
Il primo racconto s’intitola “Viaggi di Gulliver – cioè del Gaddus”, e si presenta come “alcune battute per il progettato libro” - Scritto con le locuzioni del Duecento. Una lunga imprecazione, non un racconto in realtà. Un canovaccio della futura “Cognizione del dolore”, specie nel vituperio della Brianza, delle ville, degi architetti, dei costruttori.
“Il seccatore” è “un inedito del 1955”, spiega il curatore, “ripescato fra vecchie carte in un fondo di cassetto, un relitto dell’attività di Gadda redattore di programmi culturali radiofonici, sopravvissuto ai vari trasbordi di un ufficio”. Sembra anche un omaggio, sincero?, alla donna, alle donne, che mai scocciano - seccatore è solo l’uomo, solo un uomo può esserlo.
“Domingo del señorito en escasez” è Gadda tentato dal mistilinguismo, qui col castigliano, che meglio gli riusciva. È un racconto mandato a Antonio Baldini per una antologia di “Nuovi racconti italiani”, 1962-1963. Una spiritosa rielaborazione di “Cinema”. già pubblicato in volume, in “La Madonna dei Filosofi”, 1931. Il signorino spiantato è Gadda cresciuto, goloso, che vaga con ben due caramelle in bocca, “due saporini, crema Caracas y ratafià (chissà poi cos’è questo ratafià)”.
Tra i vituperi, ricorre di passaggio lo zio senatore, Giuseppe Gadda, irto sul piedistallo in piazza con un suo busto di marmo. E qualche doppio senso – “«l’uomo è cacciatore» dice uno modo da noi; e tu, che sei uomo e cacciatore lombardo, sùfola per l’augello, e così puoi augellare per il sùfolo”.
Prose minori, per amatori di Gadda. Altrimenti sono scheletri delle sue forme narrative più riuscite, “La cognizione”, il “Pasticciaccio”. Segrete (pudibonde, retrattili, autocensorie), e quindi mascherate dall’ironia. Il primissimo racconto, quello della prigionia, recuperato da 70 pagine di quaderno, molto pulite, fa eccezione.
La raccolta è postuma, di testi rimasti fuori dai volumi approntati da Gadda. Ordinata da Isella. Che l’assortisce di un prezioso “Saggio di una bibliografia gaddiana”, un primo tentativo di ordinare cronologicamente gli scritti di Gadda, di ogni tipo, narrativi, letterari, giornalistici, perfino tecnici (poi superata dai Meridiani, questa raccolta è stata approntata nel 1981).  
Carlo Emilio Gadda, Le bizze del capitano in congedo e altri racconti
, Adelphi, pp. 223 € 15

giovedì 21 dicembre 2023

Seduti su montagne di debito

Il Fondo Monetario Internazionale calcola un debito mondiale in calo nel 2022 rispetto al picco del 2020, l’anno della pandemia, ma sempre a livelli record. Nel 2020 il debito totale, pubblico e privato, è stato pari al 258 per cento del pil mondiale. Nel 2022 è sceso, ma sempre a livello elevato, il 238 per cento del pil mondiale.
Il debito pubblico è arrivato al 100,2 per cento del pil nel 2020, per poi scendere al 92 per cento. Il debito privato ha toccato il record del 158 per cento del pil, e si è poi ridotto al147 per cento.
Stati Uniti, Ue e Cina sono le economie più indebitate, in assoluto (in ragione della loro maggiore  performatività) e in rapporto al pil. Nel quadriennio 2019-1022 il debito complessivo (pubblico e privato) degli Stati Uniti ha superato stabilmente quello dell’Unione Europea, 274 per cento del pil nel 2022 contro 254).  Fra Stati Uniti e Europa si è incuneata da ultimo la Cina, col debito al 272 per cento dei pil. La Cina quindi era la seconda economia più indebitata al mondo in rapporto al pil nel 2022, ma con un ritmo di crescita considerevole, molto più elevato che Usa e Ue – e tutto lascia presumere che sia il primo paese più indebitato già in questo 2023.

Il partito romano della (minuta) corruzione

Il consiglio comunale a Roma nicchia, Azione è contro, i 5 Stelle tremano, ma il Pd assolutamente la vuole: una delibera che liberalizza nel centro storico, dopo le jeanserie, la pizza al taglio, i panini e il kebab. Una delibera che, tutti lo sanno, ridurebbe a un cesso, più cesso di quello che è oggi, la grande città che costituisce il centro storico di Roma.
C’è un motivo di tanto impegno? Sì, favorire il piccolo commercio. Ma dopo averlo distrutto: Bersani, il Pd allora Ulivo, hanno distrutto il piccolo commercio di vicinato venticinque anni fa, liberalizzando le licenze, svuotando di valore l’avviamento, mentre facevano dilagare nel contempo, con licenze a gogò, la grande sì distribuzione e i centri commerciali. Per controllare i prezzi, dicevano furbi (sapendo cioè di favorire il consumismo, e quindi il carovita). E dopo aver mercificato, con analoga delibera, sempre su volontà dell’Ulivo- Pd, il centro di Firenze vent’anni fa, ridotto allo squallore di bancarelle e mangiatoie.
Prosegue l’offensiva per lo svuotamento di Roma avviata dalla giunta Rutelli un quarto di secolo fa ampliando le zone pedonali e riempiendole di jeanserie. O ancora più in là dal benemerito sindaco Petroselli, liberalizzando le rendite nel centro storico, cioè condannando alla chiusura le attività artigianali – Petroselli avviò la costruzione di bellissime periferie, al posto delle borgate pasoliniane, ma vi deportò, per bontà, gli artigiani.
C’è a Roma un partito della corruzione modesta ma diffusa. Dei maneggioni, gli sbrigafaccende e i procuratori di appalti, che un tempo faceva capo a Vittorio Sbardella, proconsole di Andreotti, e poi è confluito nei Popolari, nell’Ulivo, nel Pd, senza soluzione di continuità. Non per altro, per essere il Pd l’unico partito organizzato, in grado cioè di fare ciò che promette - o è l’inverso, il Pd è “organizzato” dagli ex andreottiani. Ma con ampie entrature nella parte Pd ex Pci. Insieme hanno liquidato dieci anni fa il sindaco Marino che avevano incautamente eletto, quando Marino pensò di moralizzare, un poco, il Campidoglio  - i vigili assenteisti, gli appalti, gli affitti. Una unità d’intenti cementata proprio dagli affitti, dal no al censimento dei quarantamila e passa immobili che Roma Capitale è venuta accumulando nei secoli, che non rendono niente – gli affitti sono irrisori, quando vengono pagati, raramente, ma che si può fare, sono di amici e compagni.

Mafia a palazzo di Giustizia

“Nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio, un nucleo di polizia giudiziaria si presentò a casa di Borsellino con il mandato di perquisire lo studio del magistrato, in cerca di elementi utili alle indagini. La famiglia oppose resistenza a quella perquisizione. Alla domanda perplessa sul motivo di una così inaspettata mancanza di collaborazione, i familiari replicarono: «Perché Paolo si fidava solo dei carabinieri»”.
Un libro incredibile. Non tanto per quello che dice, i delitti dell’antimafia, quanto perché li documenta. Riesce a documentarli, malgrado riserve, segretezze e coperture su documenti che pure dovrebbero essere pubblici. I due autori, già alti ufficiali dei Carabinieri a capo del Ros di Palermo nel 1990, erano riusciti a costituire un dossier documentato sulla catena di appalti pubblici gestiti dalla mafia. Una documentazione “che vrebbe potuto cambiare l’Italia”, possono affermare nel sottotitolo. Dopo averne dato nel testo una delucidazione impressionante.
Assassinato Falcone nella strage di Capaci a fine maggio 1982, il dossier si voleva indirizzato a Borsellino. Ma la Procura di Palermo glielo tenne nascosto. Affidandolo a due sotituti Procuratori che poi avrebbero fatto eccelsa carriera, Guido Lo Forte e Roberto Spampinato (quest’ultimo, famoso per essere  teorico del “Dio mafioso”, è oggi anche senatore 5 Stelle, dopo essere stato Procuratore capo). Il 13 luglio Lo Forte e Spampinato archiviarono il dossier. Il giorno dopo, al pool antimafia riunito, non ne dissero nulla a Borsellino, che pure era intervenuto alla riunione allarmato. Il 19 luglio Borsellino saltava anche lui in aria. Una vicenda terrificante. E ai due autori manca il riferimento al diario di Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio Istruzione che aveva inventato il pool antimafia e impiantato il maxi-processo storico, 1982-83, con centinaia di arresti poi convalidati, e a luglio 1983 era stato il primo a essere eliminato in una strage con con autobomba. Nel diario Chinnici dice chiaro che non c’era da fidarsi di Lo Forte e Spampinato.
L’elenco dele malefatte è sterminato - quello che si dice “un sistema”. L’archiviazione del dossier appalti decisa da Lo Forte e Scarpinato due mesi dopo l’assassinio di Falcone, senza dirne nulla a Borsellino, fu confermata pubblicamente poche ore dopo la strage di via D’Amelio, contro lo stesso Borsellino e gli uomini della scorta: che gli interessati ne venissero con certezza a conoscenza, sapessero di non aver e nulla da temere?
Il generone democristiano
Storie non di pizzo. Storie di grandi imprese, non siciliane, che lavoravano con la mafia per assicurarsi gli appalti pubblici, “dall’ideazione dell’opera all’istituzione della gara d’appalto, dal pilotare la gara stessa,e vincerla, al gravare sull’avanzamento dei lavori con sovracosti rispetto ai preventivi, con consulenze costosissime, con forniture a prezzi gonfiati, con ritardi pilotati nelle consegne ecc. Tutto questo (e con soddisfazione di tutti) ai danni delle casse dello Stato (attraverso quelle della Regione, delle Province, dei Comuni..”)”.  Una rete criminosa di impese, politici, tecnici e mafia.
Invischiato è il “generone” democristiano della migliore specie. Il sostituto procuratore Giuseppe Pignatone, che ebbe per un periodo assegnato il dossier insieme con Lo Forte e Spampinato, ora giudice del papa Francesco, dopo avere “esportato” la mafia a Roma, quando ne diresse la Procura della Repubblica, era figlio di Francesco Pignatone, insegnante di latino, deputato Dc a 25 anni, teorico del “milazzismo”, quindi caro anche al Pci, all’epoca dei fatti  presidente dell’Espi, Ente Sicilia per la Promozione Industriale, cerniera degli appalti. I maggiori contratti vedevano protagonista la Rizzani De Eccher, la ditta del geometra De Eccher subito dominante nelle opere pubbliche nelle province bianche di Udine e di Trento – in grado di “vincere anche tre gare in un giorno”, secondo la moglie del titolare, che curava l’amministrazine. Al centro della conventicola con la mafia la società romana Tor di Valle, di Paolo Catti De Gasperi, figlio di Maria Romana De Gasperi, coniugata Catti –  un ingegnere “vicino ai servizi segreti”, lo dirà il cassiere della mafia Siino, in uno dei processi in cui testimonierà da pentito. Ma più di tutti pesa il ruolo nefasto della magistratura.
Il procuratore capo di Palermo Giammanco aveva mandato in giro il dossier, che tutti sapessero, senza che la fuga di notizie fosse imputabile alla sua Procura. Dell’archiviazione, morto Falcone, si è detto. Pignatone, Lo Forte e Scarpinato si rifiuteranno di ascoltare il rappresenante della Rizzani De Eccher, il geometra Li Pera, il vero dominus degli appalti, quando questi, arrestato, comincerà a parlare. Brusca, il feroce luogotenente del feroce Riina, sentito successivamente dai sostituti Tescaroli e Di Matteo, dira chiaramente, a verbale, che Pignatone ha fatto “uscire notizie” del dossier, e niente succede. Tescaroli è uno che a Firenze, dove ora vice Procuratore Capo, lavora intensamente a dimostrare che le bombe del 1993 le ha messe Berlusconi, Di Matteo ha montato per vent’anni il processo Stato-mafia, ora finito nel nulla: sono giudici cioè molto anti-mafiosi, ma con perimetri.
Il capellone e il corrotto
Del verbale di Brusca, come di molte sedute del Csm, le trascrizioni sono state ottenute da Mori e De Donno solo di recente, attraverso strategie procedurali complesse, nel processo Stato-mafia, nel quale erano imputati, pur senza essere secretati. Erano, cioè, testimonianze e verbali protetti. Col “ministro dei alvori pubblici di Cosa nostra” A ngelo Siino, col quale De Donno aveva stabilito un rapporto confidenziale, in vista di un “pentimento”, a un certo punto il dialogo s’interrompe: “Non posso collaborare”, sibila Siino, col quale De Donno doveva limitarsi a incontri segreti di secondi, il tempo per il “ministro” di mingere, tornando dal Tribunale, dove veniva giudicato, al carcere, “la Procura ti ha venduto. I due che stanno in aula, il capellone non capisce nente, l’altro è corrotto. Non ti puoi fidare”. Il “capellone” è  Scarpinato, l’altro è Lo Forte. Vero o falso?
Il libro è in circolazione da un mese e mezzo, ma solo Caselli ha risposto. E non al libro, alla recensione che del libro ha fatto Carlo Vulpio. La p.151 è terribile – è sempre De Donno che parla: : Siino “mi riferì che – già prima del depositodel Dossier presso la Procura di Palermo - era stato informato dell’esistenza delle indagini. A suo dire, la fonte della notizia sarebbe stato Giuseppe Pignatone, che ne aveva informato alcuni ‘canali’ di cui non mi rivelò l’identità. Mi spiegò anche che Pignatone aveva un interesse personale in relazione a quelle indagini,in virtù sia della posizione del padre sia di quella del fratello, avvocato dello Stato e consulente dell’Assessorato ai lavori pubblici del comune di Palermo. Proseguì raccontandomi che, immediatamente dopo che il Dossier era stato depositato in Procura – nel febbraio del 1991 – Lo Forte, Pignatone e Giammanco, tramite fonti di cui non mi rivelò l’identità, ne diedero notizia ad ambienti mafiosi, comunicando anche il contenuto del Rapporto, tant’è che  lui stesso ricevette specifiche indicazioni sulle ultime pagine nelle quali era sintetizzato l’elenco delle persone e delle imprese coinvolte”.
Il Procuratore, di mafia, “ci capisce poco”
Qualche anno dopo Siino decide di collaborare con la Procura di Palermo, di cui è a capo Caselli. Che però affida il pentito, invece che ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza. Caselli sarà poi all’origine del processo Stato-mafia:  convoca Mori e De Donno a Torino, alla presenza di un folto gruppo di magistrati, li chiude in due stanze separate, e li interroga “con un atteggiamento molto duro, quasi accusatorio”. La vicenda prende parechie pagine. È Mori che racconta, che pure aveva, dice, un rapporto di fiducia con Caselli, dai tempi del terrorismo. De Donno accusa Caselli di essersi rifiutato di verbalizzare l’alterco intercorso fra di loro sulla prima testimonianza di Siino, che il dossier era stato diffuso dalla Procura di Palermo. Sull’alterno non verbalizzato De Donno ha mosso un procedimento di accusa alla Procra di Caltanissetta.  Che si è poi concluso con l’archiviazione delle sue accuse, a carico di Giammanco, Lo Forte, Pignatone. Ma con la notazione che Siino certamente aveva accusato la Procura di Palermo della diffusione del dossier, “in quanto documentato dal contenuto delle fonoregistrazioni”.
Caselli non ha risposto, nemmeno lui. Ha solo lamentato, del libro, “schizzi di fango di dubbia natura”. Forse aveva ragione il suo protetto Lo Forte, che del Procuratore venuto da Torino diceva , ammiccando, che “ci capisce poco”.
In uno degli ultimi capitoli Mori spiega lungamente che i rapporti col giudice Caselli, prima di  Palermo, erano buoni: “Risalivano agli anni della nostra collaborazione nella lotta al terrorismo”. E a Caselli Mori passò la possibile collaborazione di Vito Ciancimno: “In vista del suo nuovo incarico miaveva contattato per avere da me un quadro della situazione in S icilia  e io gli dissi dei nostril contatti con Cincimino. Lui si disse interessato e si fecec promettere di essere infrmato di eventuali  sviluppi”. Caselli per Mori è colpevole anche di non aver capito, con Ingroia, l’interesse del “pentimento” che Ciancimiono gli offriva – il suo progetto di diventare “il Buscetta di Caselli”. Due anni dopo lo trattava da delinquente – trattava Mori.   
E non c’è solo Palermo. A Palermo Mori non si sente ben visto, dice. Perché veniva dalla collaborazione con Domenico Sica, romano, Alto Commissario Antimafia - al posto di Falcone. Di Falcone dà non solo l’elogio di prammatica, ripetutamente, ma di più il quadro di un’intelligenza rapida. In particolare, subito, a naso, sul dossier appalti – “ci divertiremo”. Venendo però da una diffidenza generica verso i Carabinieri. Mori recupera il rapporto grazie a Ilda Boccassini, venuta apposta da Milano, dove collaborava proficuamente da qualche mese col capitano Sergio De Caprio, trasferito a Milano per collaborare all’inchiesta Duomo Connection. De Caprio chiede a Boccassini di mediare il rapporto con Falcone, e lei si presta, un giono, “all’improvviso”, piombando a Palermo. “Falcone ascoltò senza manifestare particolari reazioni”, ma Boccassini uscì dal breve incontro contena, e il rapporto partì. A questo punto è Sica che si vendica, smantellando il gruppo di De Donno a Bagheria, da cui tutto era partito, la verità degli appalti. Con una manovra semplice, spiega Mori: facendo ricredere il loro principale pentito, Giaccone, il professore, sindaco di Baucina, il piccolo comune dove il meccanismo degli appalti era per caso emerso. Giaccone, personalmente onesto, aveva spiegato il mecanismo in dettaglio, e dato i nomi. Sica lo convinse a ritrattare. Dopodiché “c’era, a questo punto, un fascicolo aperto contro me, Falcone, e l’avvocato Milio”, che aveva assistito Giaccone – “a distanza di tempo fummo tutti assolti, ma intanto c’erano state polemiche, articoli di giornali, interventi di personaggi pubblici: uno degli episodi – tipici nel corso delle indagini di mafia – in cui la diffusion di veleni finiva per favorire gli interessi dell’organizzazione”.
Cronache mafiose
Ce n’è anche per Leoluca Orlando, sindaco molte volte di Palermo, da destra e da sinistra. Orlando nel 1982, poco prima della strage di Capaci, accusava in tv, alla Rai, da Santoro, Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le prove di delitti eccellenti, mentre custodiva personalmente in cassaforte documenti di appalti a imprese mafiose. E quando il  giudice Alberto Di Pisa trovò quei documenti in una perquisizione al Municipio e si apprestava a incriminare Orlando, fu acusato sui giornali di essere il “Corvo”, autore cioè di lettere anonime contro Falcone. Era un falso, ma bastò per togliergli l’inchiesta su Orlando – dopo quattro anni d’“inchiesta” Di Pisa sarà prosciolto, ma non diventerà mai Procuratore Capo.
Si potrebbe continuare. Ma incredibile è soprattutto il silenzio che ha accolto, ormai da un mese e mezzo, questa denuncia. Che, si sarebbe pensato, doveva fare strage nelle cronache giudiziarie. Ne ha parlato solo Carlo Vulpio - già un “giustiziere” anche lui, candidato con Di Pietro - per essere prossimo di De Donno, sul “Corriere della sera”. In una recensione che il giornale ha annegato in un pagina di cronaca nera. Il silenzio è la riprova che le cronache giudiziarie sono eterodirette – cosa che sanno tutti nei giornali.
Mario Mori-Giuseppe De Donno, La verità sul dossier mafia-appalti, Piemme, pp.pp. 237, ril. € 19,90

mercoledì 20 dicembre 2023

Problemi di base femministi - 781

spock

“La cultura femminista è appassionatamente coinvolta nell’universo cyber-mostruoso”, Rosi Braidotti?
 
“Il femminismo condivide pienamente, e contribuisce attivamente, al tecno-immaginario teratologico della nostra cultura, attraverso la sua enfasi sulle identità ibride e mutanti”, id.?
 
“Diciamocelo, siamo disfatti l’uno dall’altro. E se non lo siamo, ci stiamo perdendo qualcosa”, Judith Butler?


“La verità si sottrae a noi quando abbiamo a che fare con una donna”, Marguerite Yourcenar?

 
“Il diavolo è l’unico a capirci qualcosa del mistero femminile”, Oscar Wilde?
 
Dio è femmina, e Babbo Natale?


spock@antiit.eu


Il santino dei salvatori in mare

Rivisto, a quasi un anno dalla prima uscita (già essa celebrativa, nel decennale della fondazione in Spagna di Open Arms), dà una fastidiosa sensazione di apologia. Una vecchia vita di santo traslata sul cimitero del Mediterraneo. È l’apologia diventata un genere laico, di santi laici, appaltatori statali - se si è del partito giusto?
Un “santino”, incontestabile (chi può contestare il bene) e inevitabile, quasi una persecuzione. Quando le dimensioni del fenomeno migranti, delle fughe in massa, delle torture e le spoliazioni in massa, delle morti in massa, richiederebbe ben altro: una mobilitazione in massa, una crociata, una guerra. Invece, anche al cinema, un dramma così agghiacciante, così quotidiano, e  niente. Solo il film di Garrone, dopo quello di otto ani fa (snobbato) di Gianfranco Rosi.
Marcel Barrena, Open Arms - Le legge del mare, Sky Documentaries

martedì 19 dicembre 2023

La Cina costa caro – o l’ideologia dell’aiuto allo sviluppo

Si fanno i conti della Via della Seta, il grande programma di “cooperazione internazionale” della Cina (da cui l’Italia si è ora sfilata), e si vede che non è diverso dal vecchio schema imperialista: dare poco per prendere molto. In Italia, dopo l’adesione  alla Via della Seta, il deficit commerciale con la Cina è improvvisamente raddoppiato, dai 16-20 miliardi di dollari l’anno a quasi 40 nel 2022. Mentre gli investimenti cinesi, oggi calcolati attorno ai 30 miliardi, si distingono per essere più finanziari che produttivi -  quando non sono veicoli per finanziare a buon rendimento le attività acquisite (nel caso dell’Inter all’8 per cento, in quello Pirelli e delle tantissime altre aziende a quota o proprietà cinese non si sa).
Molto di più la Via della Seta ha pesato e pesa sull’ex Terzo mondo, in Asia e in Africa. Dove gli investimenti si sono dimezzati negli ultimi cinque anni (con l’eccezione del 2022), da 36-37 miliardi di dollari l’anno a 16-17. Mentre gli interessi riscossi sono raddoppiati dall’anno scorso, da da 15-16 a 33-34 miliardi di dollari.
La Via della Seta si può dire una riedizione in area comunista della vecchia ideologia occidentale dello sviluppo. Quando si puntava, prima della globalizzazione (decentramento e liberalizzazione della produzione e degli scambi, di cui la Cina prima e più di tutti ha beneficiato), sull’aiuto allo sviluppo: ti finanzio per guadagnare di più – perpetuando lo “scambio ineguale”. Una dottrina in voga negli anni 1960, e durata per un altro paio di decenni. Benché già nelle sue prime applicazioni fose dimostrato (da P.T.Bauer alla London School of Economics, sulla base delle bilance dei pagamenti) che si donava per guadagnare di più.
Un’ideologia pervicace, quella dell’“aiuto allo sviluppo”, o della cooperazione, una sorta di missione laica. In Italia i calcoli di Bauer furono liquidati da Federico Caffè, che si reputava l’economista più aggiornato, come “elucubrazioni reazionarie” – benché le partite correnti parlassero chiaro, e Bauer fosse più socialista, radicale, di Caffè. E si aprì la strada al voto unanime del Parlamento nel 1983, alla proposta radicale (l’unica legge proposta da Marco Pannella mai approvata), di un fondo annale per lo sviluppo dell’ammontare allora ragguardevole di duemila miliardi di lire.  

La crescita si fa in Borsa

Sono quasi due mesi che Unicredit ha annunciato , in una con 10 miliardi di capitale in eccesso, l’intenzione di utilizzarlo per acquisizioni, oppure per “restituire valore agli azionisti”, anche col riacquisto di azioni proprie. Nel mentre che acquistava il 9 per cento, la maggiore quota singola,  della quarta banca greca, Alpha Bank. Iniziativa lodevole, che aveva meritato anche l’elogio della presidente della Bce Lagarde – “è il segno del risanamento del settore finanziario in Grecia”. E creava in Romania, raggrupando le filiali già aperte, la terza banca del paese. Confermando l’identità di banca cross-border che il gruppo si è data vent’anni fa.
Ieri, con separate interviste ai due maggiori giornali tedeschi, “Frankfurter Allgemeine Zeitung” e “Süddedutsche Zeitung”, il ceo del gruppo Orcel e il presidente Padoan hanno prospettato una nuova ondata di acquisizioni, “soprattutto nell’Europa centrale e orientale”. Dove le valutazioni sono attraenti. Mentre si escludono  Germania, Austria e Italia, dove il gruppo è già forte, perché “i prezzi sono troppo altri”. E fin qui è la norma. Poi Orcel alla “Faz” ha detto di più: “Un’acquisizione potrebbe aiutarci a far sì che il mercato riconosca il nostro pieno valore, cosa che oggi non avviene”. Oggi, dopo che la capitalizzazione (valore) in Borsa è quasi raddoppiata in un anno, o poco più. E se il gruppo non troverà “buone occasioni”, continuerà a “riacquistare azioni proprie”, nell’interesse dei suoi azionisti.
Non basta gestire bene il credito, bisogna gestire bene il titolo.

Eduardo liberato

La guerra dei poveri. Tra poveri: sotto i bombardamenti c’è chi fa la fame e chi s’arricchisce sulla fame degli altri con la borsa nera – facendo incetta di ogni sorta di bene, alimentare e non, per rivenderlo a prezzi da usura. Questo taglio che Eduardo De Filippo ha dato del dramma della guerra, di un autore che poi sarà molto impegnato politicamente, è la sorpresa che a ogni rappresentazione si rinnova: il popolo può essere malvagio. L’unico gesto buono sotto le bombe, disinteressato, il salvataggio della bambina con la penicillina introvabile, un episodio che Miniero fa durare a lungo, viene dalla coppia borghese che la trafficante arricchita ha ridotto in miseria. La povertà è brutta – la povertà vista quale è, senza l’obbligo di “andare verso il popolo”.
Una scommessa riuscita della Rai. Ogni anno sotto Natale la Rai propone una commedia di Eduardo, “Il sindaco del Rione Sanità”, con Gallo, “Natale in casa Cupiello con Castellitto padre, e ora, di nuovo con Gallo, “Napoli milionaria” in forma non teatrale ma cinematografica, affidata a Luca Miniero. Con qualche difficoltà, ma con successo infine di pubblico, uno su cinque in prima serata.
La difficoltà con Eduardo è duplice. Una è che lo si vuole rappresentare come “classico”, come mostro sacro, e si finisce spesso per perdere la comicità che sottintende le sue commedia, le battute, le situazioni, sotto il velo della malinconia. Quasi che bisognasse fare i compiti, celebrare il monumento. L’altro è che, restando ancora viva per i molti la presenza fisica di Eduardo sulla scena, i Gallo e i Castellitto, devono mimarlo, “riprodurlo”, con la stessa maschera, la stessa mimica, gli stessi tempi, perfino gli stessi giri e toni di frase. Mentre le commedie di Eduardo si reggono da sole,  e probabilmente ne acquisterebbero ad affrancarsi. A essere proposte per come sono scritte. Come in questo adattamento, da film-per-la-tv – o nella famosa rappresentazione di “Filumena Marturano” a Londra e a Broadway, nel 1977 e nel 1979, da parte dei mattatori Laurence Olivier e Joan Plowright.
Luca Miniero, Napoli milionaria, Rai 1, Raiplay

lunedì 18 dicembre 2023

Come governa Meloni? Come non detto

“Il governo ha una forza politica interna che altri governi oggi non hanno” – sottinteso: in Germania, Francia, Spagna, Olanda, etc.: “È uno scenario quasi inedito questo: dà una leva internazionale all’Italia, che è molto utile”. È l’opinione dell’ex direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera.
Rivera non è un meloniano. Al contrario. È stato licenziato dal governo Meloni un anno fa, uno dei primi atti di governo dopo l’insediamento, e ora, dopo un anno di passaggio di consegne, ha lasciato il Tesoro. Ma è vecchia scuola Funzione Pubblica, cioè ha giudizio, e lo esercita.
È un commento interessante. Non tanto per l’elogio indiretto al governo, quanto per la prospettiva che propone nell’analisi dei fatti politici. La reputazione pesa molto nei mercati - può ridurre lo spread di 40 punti, pur in presenza di un bilancio ristretto, e mentre il debito cresce di un centinaio di miliardi o poco meno. Ma di più la notazione di Rivera sorprende per un concezione intelligente, oltre che rasserenante (fattiva) della politica. Ma è un’eccezione, rarissima, alla politica gossip che ci perseguita dai giornali, ogni giorno, per sei, otto, dieci pagine, su liti, sgarbi, sgambetti (Meloni-Schlein, le vajasse?, Renzi-Calenda, Conte-De Luca, Meloni-Salvini…. ) . I lettori protestano non comprando i giornali. E niente: l’intervista a Rivera di Fubini, che pure del giornale è editorialista, col titolo di vice-direttore, il “Corriere della sera” relega alle pagine interne, senza alcun richiamo, di un supplemento del lunedì.   

Il Monte dei Paschi non c’è stato

Con le ultime assoluzioni si conclude la crisi del Monte dei Paschi, dopo dodici anni di presunte indagini e presunti accertamenti di colpa, ma si conclude in modo strano: non è colpa di nessuno, anche se le colpe sono evidenti. La Fondazione non ha colpe, i manager nemmeno, le operazioni azzardate restano appese nell’aria, i sottoscrittori di aumenti di capitale a cascata finiti nel nulla hanno avuto quello che si meritavano, brutti speculatori.
Un furto di risparmio mai visto. Poiché gli amministratori degli aumenti, dopo la chiusura del 2011 con quasi cinque miliardi di perdite, Profumo presidente e Viola amministratore delegato, sapevano che la banca doveva andare in amministrazione straordinaria, non poteva reggersi sui mezzi propri - una gestione amministrativa che disponesse con criteri oggettivi di debiti e crediti, per appianare la gestione ordinaria. Si è invece fatto finta di nulla. Cioè si è coperto il disastro, con la complicità evidente, per quanto impensabile, della Banca d’Italia. E forse in obbedienza alla vecchia politica locale, compromissoria - giudici evidentemente compresi.
Per diluire il danno si sono rubati otto miliardi, a 40 o 50 mila risparmiatori. Impensabile, ma è avvenuto. Quando si sapeva che la banca era materialmente fallita. Ben due aumenti di capitale, per otto miliardi di euro, in appena un anno, da giugno 2014 a giugno 2015, accompagnati dal trionfale rimborso dei prestiti del Tesoro e da report lusinghieri, finiti nel nulla. Più un terzo tentato nel 2016 e fortunatamente fallito.
Di chi la colpa? Di nessuno. In dodici ani di inchieste e processi niente sugli azzardi che portarono il banco – forse quello meglio radicato (più produttivamente) in tutta Italia - al collasso. Noti peraltro ai più (se ne trova la sintesi in
http://www.antiit.com/2022/10/quando-scalfari-avvio-la-fine-del-monte.html).
La giustizia italiana è politica, e quindi era impensabile che un qualsiasi tribunale condannasse manager e politici protetti dall’ombrello Pd. Ma senza considerazione per il mercato, oltre che per la giustizia: di chi ci si potrà fidare, se chi ha distrutto decine di miliardi, per finalità ignote, non ha colpa?

C’è ancora tempo

L’ultimo “almanacco” residuo, probabilmente – la testatina promette: “Un anno di felicità. Dal 1762”…. Forse per questo già patrimonio UNESCO.  Sempre per mano della famiglia Campi, di Perugia (non era di Foligno?).
Gli almanacchi, appuntamento rituale di fine anno, sono improvvisamene scomparsi, “Barbanera” no. Eccezione doppia, perché, oltre che consigliere o assistente personale, si vuole un metronomo del tempo naturale, del fluire dei mesi, delle stagioni. Con le fasi della luna, che tanto pesano sugli umori, della terra e delle persone. Con i richiami e i minuti consigli di sempre, sulle colture, i raccolti, le verdure e la frutta di stagione, con le loro proprietà (vitamine, acidi, fibre), la cucina, il riassetto della casa, le grandi pulizie, gli svaghi stagionali, la salute. Aggiornati, al detox, al relax, al riciclo.
Una pubblicazione per definizione rassicurante, su quello che è, e su come si può migliorarlo, coi mezzi propri.  Un’idea editoriale vecchia di un millennio, se il primo almanacco di cui si ha notizia concreta risale al 1088. Improvvisamente scomparsa, sorpassata dalla rete, dove si sa tutto, in teoria, di tutto, all’istante. Ma la carta, le illustrazioni, le didascalie, l’approntamento da tempo, per un percorso di almeno un anno, danno ancora un’idea di durata. Che è rassicurante.
Il pensiero si vuole critico e quindi all’erta, allarmista, ma anch’esso probabilmente ha bisogno di prevedersi, di programmarsi - nell’arco breve, certo, dei mesi, le settimane, i giorni. La luna, per esempio, non va di fretta, e si aggiorna ma con juicio.
Almanacco Barbanera,
Editoriale Campi, pp. 256, a colori, €9,90

domenica 17 dicembre 2023

Ombre - 698

“La Ue a Israele: basta finanziare i coloni violenti”. Oh, perbacco!
Ingenuità non è (la stupidità esiste). Ma: ci sono coloni non violenti?
 
A fine 2011 Obama e Sarkozy fecero la guerra alla Libia per “liberarla”. Dopo d’allora, dalla Libia liberata, sono stati fatti fuori masse di migranti africani, 28 mila in mare e un numero imprecisato in terra. La prossima giaculatoria sarà: “Dall’Occidente liberatore, liberaci!”? Dalle anime “candide” dell’Occidente.
 
Il giudice Pignatone, quello che aveva tentato di esportare la mafia a Roma, condanna l’ex cardinale Becciu su input, dicono le cronache, di Francesca Immacolata Chaouqui. Di cui non si riesce a capire i poteri – era stata addetta, poco più che ventenne e sconosciuta impiegata di Ernst&Young, alle finanze vaticane dal papa Francesco, una delle sue prime nomine. Chaouqui è di Cosenza, ma la ‘ndrangheta pare esclusa. Potere femminile (un tempo si sarebbe detto: è figlia del papa)? Questione di massonerie?
 
Bastano pochi mesi di vendita di un farmaco riuscito anti-obesità e la società che lo produce, Novo Nordisk, 30 miliardi di dollari di fatturato, “vale” in Borsa 435 miliardi di dollari, più del doppio di prima del farmaco, più del pil della Danimarca, dove ha sede legale, secondo gruppo farmaceutico al mondo in Borsa. Perché, con tanto parlare di crisi, viviamo un’epoca di obesità – di eccessi, dai cibi alle automobili, alle abitazioni (consumo del territorio).

Si sa di tre giovani inermi uccisi a Gaza dall’esercito israeliano a colpo singolo perché erano tre giovani israeliani, ostaggi che si erano liberati o erano stati liberati. Altrimenti, è normale uccidere dei giovani disarmati che agitano la camicia bianca?

Due commissari dell’Alitalia in amministrazione straordinaria nel 2017, un professore e un avvocato, Paleari e Discepolo, vogliono e ottengono dai giudici una liquidazione milionaria,7 milioni l’uno, 3 milioni l’altro. Per non aver fatto nulla. Due commissari nominati da Calenda ministro, in un governo di sinistra. Senza vergogna.
 
“Da tempo, già dalla presidenza Obama, gli americani hanno cominciato a guardare con interesse ai sauditi”: è la copertina di “7”, settimanale del “Corriere della sera”. Ma l’Arabia Saudita è nata con gli americani: è l’America che ha creato la dinastia, appoggiando il capotribù Abdelaziz al Saud contro gli inglesi, per il controllo del petrolio. L’Aramco, la società del petrolio saudita, è stata americana fino a recente. Abdelaziz ha vinto, per ultimo l’Heggiaz un secolo fa, con i soldi del petrolio. E con matrimoni a raffica nelle grandi famiglie tribali, più importanti quelli col clan dei Sudeiri: tutti figli suoi i re che si sono succeduti, fino all’attuale. La storia farebbe più notizia - perché Berlinguer l’ha abolita, il ministro?
 
Il tg 5 di Mimun fa una grande servizio su una mostra fotografica modesta che i reduci del Pci a Roma hanno messo su su Berlinguer. A cui attribuisce la paternità di tutto il buono che la Repubblica ha fatto, il diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, lo statuto dei lavoratori, il sistema sanitario nazionale, e altro. Mentre Berlinguer non ha fatto nulla di questo quando è stato al governo, e semmai ha sugli stessi problemi frenato. Di suo ha solo proclamato meglio l’Italia democristiana che la sinistra al governo – e a morte socialisti, radicali, repubblicani, socialdemocratici e ogni altro alternativo.
 

Però: il santino Berlinguer dei non credenti, dei non-reduci, non sarà un omaggio al democristianesimo imperituro che ci governa, tra l’Ulivo, Berlusconi, il Pd bianco degli anni 2010, e ora la destra? 
 
Paginate su Meloni a Bruxelles con l’ungherese Orban, da lei ammansito sull’Ucraina nella Ue. Ma è curioso di Orban, che tra l’altra fa parte dei Popolari europei, si dicano tante cose ma non l’essenziale. Che è a capo di un paese che da sempre, e a maggior ragione oggi, in epoca “identitaria” (nazionalistica), lamenta la deprivazione nelle paci del 1919-1920, come perdente nella Grande Guerra, di una buona metà del territorio e della popolazione in favore dei vicini, in particolare della Romania, della Slovacchia, della Ucraina allora Russia.
 
Si ascolta in alcune estratti della conferenza stampa di Putin la domanda della corrispondente da Mosca di “la Repubblica”, Castelletti, che pensa di mettere il capo russo in difficoltà con la mancanza di uova a Mosca. Non la mancanza, l’aumentato prezzo delle uova. Una domanda che sa di antico, di Mosca sovietica. Sovietizzanti una volta, sovietizzanti per sempre.
 
Alcolici, grigliate e dj set nei licei romani occupati. Un “calendario intenso”: mercatino dell’usato al Mamiani, e partita Roma-Fiorentina sui muri dell’istituto, braciolata di würstel con panini e birre al Virgilio, e partita Roma-Fiorentina, al Manara pranzo sociale con menù “popolare”, e partita. La Roma è molto gettonata nelle occupazioni.
 
“La sostenibilità, la reputazione, il know how, il marchio: negli anni Ottanta valevano poco. Oggi sono quasi tutto il business” – “L’Economia”. È un bene? Di qualcosa che è solo immagine si direbbe che è vuota.

Viaggio nelle storie della Sardegna

C’è tutto nella premessa: la guida è ai “racconti” della Sardegna. Sì, c’è tutto l’indispenabile: l’artigianato, le colture, il carbone, le raffinerie e l’industria che non c’è più, il turismo debordante, ma di suo questa è una guida alle storie: “Oltre l’isola delle cartoline e dei villaggi all inclusive  c’è un’isola delle storie che va visitata”. Storie che sono comunque “vere”: “C’è una Sardegna come questa,  davanti ai camini si racconta che ci sia, che poi è la stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto più parlato, le parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e generano mondi”. Anche perché in Sardegna “esiste tutto ciò che viene raccontato”.
Un progetto ambizioso ma non si può dire eccessivo. È svolto con mezzi normali, un linguaggio piano, molto giornalistico, resocontistico, di tipo socio-economico anche, che tuttavia dà il senso ad una realtà.
Con alcune foto - non granché. E con due cartine premesse - queste originali e interessanti: una delle regioni storiche (il frazionamento dell’isola come lo percepiscono gli isolani),e quella istituzionale o amministrativa, delle otto province attuali.
Michela Murgia, Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, Einaudi, pp. 200, ill.  € 12