Cerca nel blog

sabato 18 ottobre 2014

L’Italia che se ne va

La Fondazione Migrantes della Cei ha censito un’emigrazione in forte crescita nel 2013, del 16 o qualcosa per cento, esattamente di 94.126 italiani. E ha lanciato un grido d’allarma, ma senza dire la verità.
Gli italiani scappano sempre “in cerca di lavoro” secondo i vescovi. Se non che il lavoro non c’è in Germania, Gran Bretagna, Olanda, che la Cei presume luoghi privilegiati di questa nuova migrazione. La quale invece, indagata da presso, anche se purtroppo non con l’ausilio della statistiche sociali, infangate nel pauperismo vecchia maniera, evidenzia un altro dato.
La maggior parte sono cambi di residenza ai fini fiscali. L’Inps già paga mezzo milione di pensioni all’estero. Una cifra che i pensionati delle casse autonome, ingegneri, giornalisti, medici, etc., incrementano di almeno un decimo.  Il cambio di residenza è automatico in Europa con gli accordi di Schengen, e quasi automatico in paesi viciniori quali la Svizzera e la Tunisia, o i paesi latinoamericani della doppia cittadinanza.
La residenza all’estero consente quasi ovunque una tassazione Irpef ridotta – quasi ovunque dimezzata – rispetto all’Italia. E molti benefici collaterali. La Germania, malgrado il clima, è meta ambita perché le case costano un quarto, anche un quinto, rispetto all’Italia. La Svizzera perché il costo della vita è la metà rispetto a Milano – provare per credere. I benefici sono enormi, e di ogni genere (tassazione, costo della vita, costi sanitari) in paesi come la Bulgaria o la Tunisia.
Il bisogno è cambiato. L’emigrazione anche. Solo il punto di vista è immobile, e questo è quello che accascia l’Italia, la mancanza di verità - che la sua parte non migliore (ignorante, retrograda, ipocrita) si possa pretendere la migliore: se una cosa non è male non è.
In aggiunta ai pensionati, il grosso dell’emigrazione è di tre tipi, molto moderni. Di imprenditori piccoli e piccolissimi che lavorano meglio fuori, e degli ingegneri, tecnici, consulenti, che seguono da dentro o da vicino le tantissime fabbriche italiane sparse per il mondo – l’industria italiana è la più multinazionalizzata, centinaia di aziende hanno in Italia solo la sede e le fabbriche altrove. Poi c’è l’emigrazione intellettuale, di ricercatori che l’Italia ancora forma in gran numero, a differenza di Germania, Gran Bretagna, Olanda, Svezia, che quindi volentieri se li accaparrano. E c’è ancora – ma ora sempre più controllata dai paesi di destinazione – chi emigra, specie giovani, in Olanda, Germania, Danimarca, Svezia, per i sussidi sociali, semplici e abbondanti.

La crisi è stata ed è europea

Si viene portati a pensare a una crisi mondiale, mentre essa è stata ed è europea. Il quadro d’insieme che il Fondo Monetario Internazionale prospetta nell’ultimo “World Economic Outloook” segna una contrazione dell’economia mondiale nel solo 2009, con un calo minimo, dello 0,4 per cento. Effetto della contrazione delle “Economie avanzate”, calcolata nel 3,4 per cento. Con questa eccezione, dal 2007 al 2013 l’economia mondiale è stata sempre in espansione. Le economie emergenti e i paesi in via di sviluppo hanno avuto una crescita costante, superiore mediamente al 6 per cento in tutt’e sette gli anni, compreso il 2009.
Il calo del 2009, che colpì anche i paesi dell’Europa centrale e orientale che non fanno parte dell’Ocse (economie avanzate), fu l’effetto delle recessione Usa e Giappone degli anni 2008-2009, con tassi di decrescita del pil rispettivamente dello 0,3 e del 2,8 per cento, e dell’1,0 e del 5,5 per cento. Nonché della Russia nel 2009, con un pesante , ancorché eccezionale, – 7,8.
I paesi dell’euro si muovo nei sette anni tra tassi negativi e tassi positivi contenuti. L’Italia registra quattro risultati negativi su sette (saranno cinque su otto col 2014): meno 1,2 e meno 5,5 nel 2008 e nel 2009, dopo un più 1,7 nel 2007, e meno 2,4 e meno 1,9 nel 2012 e nel 2013, dopo il ritorno alla crescita nel 2010-2011, con l’1,7 e lo 0,5 per cento. 

La mano è l'uomo

“Man Ray disegna per essere amato”: è su questa anamnesi che Éluard compone i versi poi celebri, a illustrazione delle mani che l’artista predilige. Con risultati meno gradevoli dei versi – qui in originale, se Dio vuole, esenti dalle asperità con cui il traduttore Fortini li ingrossava.
È un reperto classico del surrealismo e come tale si apprezza. Le mani di Man Ray non sono granché, anche il disegno in generale, e la composizione visiva. Lo schizzo che immortala la raccolta non ha peraltro nulla a che vedere con le mani: è il Sade petrificato nella Bastiglia, nella forma del bastione - una petrificazione che è stata poi, questo sì, è notevole, la prigione del Sade riscoperto dal secondo Novecento, per i lettori non solo, anche per i pensatori che vi si sono attardati, Klossowski, Blanchot, Foucault, Lacan, Deleuze. La mostra a villa Manin lo conferma pittore non pittore, il primo. Era un artista concettuale, e un performer, anticipatore anche in questo, e per questo si apprezza, per l’inventiva, e lo charme personale, non solo sulle donne, queste mani libere evocano poco. Se non sono una forma di feticismo. L’attrice Regina Orioli ha un noto blog d’immagini con le mani protagoniste, e non sarà la sola.
Di più invece dicono le poesiole che Éluard compose per accompagnare le mani. Lievi, la parte migliore della sua maniera – Éluard resterà famoso per aver sposato Gala, poi convolata con Dalì, e subito dopo Nusch, l’artista, fotografa e modella musa del surrealismo, nonché di Picasso in vari “ritratti” (autrice di fotomontaggi surrealisti, sarà il soggetto di un altro album celebre, “Facile”, in fotoincisione, con poesie di Éluard accompagnate da nudi di Nusch fotografati da Man Ray). L’esperimento di “Les mains libres” sarà ripetuto cinque anni dopo con esiti opposti da Breton con Joan Mirò, e anche questo confluisce sulla lettura retrospettiva di Man Ray-Éluard.
Man è in inglese l’uomo, e in neolatino la mano, main in francese. Quindi l’uomo è la mano. E Main-Ray è nella pronuncia francese uomo-re. Il nome è un’abbreviazione di Emmanuel Radmitzsky, leggibile in vari modi, anche come uomo.raggio (di luce). È sull’ambivalenza sonora man-main che Man Ray fa oggetto di culto la mano. Predecessore del dadaismo con gli assemblaggi, lo era stato proprio con la mano come soggetto. L’“Autoritratto” del 1916 recava un’impronta della mano dell’artista – sotto due campanelli rovesciati, al centro tra due forme musicali-sonore. Nello stesso 1916, in contemporanea col primo assemblaggio, aveva reiterato con un “Dipinto con impronta di mano”, firmato con l’impronta della mano – una firma che Duchamp imiterà dieci anni dopo, firmando con l’impronta di un pollice “Anemic Cinéma”. Subito prima di queste “Mains Libres” nel 937, si era prodotto in un “Main Ray” nel 1935, e lo stesso nel 1936.
Un’edizione “scolastica”, laccoppiata delle Mains libres, con la riproduzione integrale della raccolta, il saggio “Nusch Éluard et Sonia Mossé” di Man Ray, che le fotografa in copertina, una serie di contesti, una cronologia, e un lungo saggio di Henri Scepi, della Nuova Sorbona. Skira ha in catalogo una mostra ancora più ampia di Man Ray, a Milano, tre anni fa.
Paul Éluard, Man Ray, Les mains libres, folioplus, pp. 258 € 7
Guido Comis-Antonio Giusa (a cura di), Man Ray,catalogo della mostra a villa Manin di Passariano, fino all’11 gennaio, Skira, ital.-inglese, pp. 302 € 36

Ombre - 240

Ha presieduto il tribunale che ha assolto Berlusconi e poi, dopo un viaggio a Lourdes, si è dimesso dalla magistratura. Si è dimesso per “una decisone solitaria, maturata a lungo, meditata”,  a un anno dalla pensione. Maturata a lungo ma dopo la sentenza, evidentemente.
Il pio giudice poteva opporsi all’assoluzione, non l’ha fatto, ma vuole farci sapere che non era d’accordo: è evangelico, vuole lo scandalo.

Il giudice Tranfa, si chiama così, la sua conversione è andato raccontarla a “Repubblica”. Un modo per aggirare l’obbligo della segretezza sulle deliberazioni in camera di consiglio. Una furbata, è in questo senso che il giudice intende l’illuminazione. Ridendo magari in cuor suo, ma confermando che Milano è la città della Controriforma. Di beghini corrotti, che queste ipocrisie vuole credibili. non una


Ma il pio giudice che fa come il papa “il gran rifiuto” è più in lite col diavolo Berlusconi o non con la Procura laico-napoletana – lui è di Ceppaloni, come Mastella? Furbata per furbata, tutto è possibile.

Il sovrintendente dell’Opera di Roma difende il licenziamento dell’orchestra e del coro, e il in mantenimento in attività di 278 dipendenti a motivo delle loro “professionalità artistiche, tecniche e artigianali di assoluta eccellenza, di primordine a livello mondiale!”. Aveva paura che la concorrenza glieli rubasse?
E che fanno queste eccellenze senza l’orchestra e il coro, cioè scnza l’Opera?

Questo sovrintendente, se non fosse esistito, era difficile inventarlo. Ma lui non è un problema, il problema è che il sindaco di Roma, il governo, i giornali gli credono. Accecati dalla fede?

Emozione e commozione in Vaticano attorno al Sinodo del buon papa Francesco, che non vede l’ora di riabilitare la gaytudine. Ma fulmini contro i sindaci di Roma e Milano che vogliono registrare i matrimoni già contrati fuori e validi nella normativa europea. I vescovi vogliono celebrarli loroo? Col velo bianco?

Quello che impressiona nei verbali della Bce su Cipro dati dalla Bundesbank al “New York Times” è che la Francia fosse anch’essa per il fallimento dell’isola. Il governatore della Banque de France per conto di Sarkozy. Un cretino così non s’era ma visto in politica, un cretino politico.

Si tiene a Torino un vertice europeo sull’occupazione. Un centinaio di manifestanti si raccolgono per protestare e si scontrano con la polizia. La notizia per il Tg 1 è questa. Saranno cattolici, ma impostori?

“Da noi le siringhe costano quattro centesimi”, spiega Luca Zaia, presidente del Veneto a “Repubblica”, “ci sono Regioni che le comprano a 26”. Sta’ a guarda’ ‘r capello?

“In Sicilia ci sono 22 mila guardie forestali, contro le 400 del Veneto”, afferma ancora Zaia a “Repubblica”. O non sarà che le Alpi hanno fatto secessione dal Veneto?

C’è un’inchiesta Ruby-ter conro Berlusconi, un terzo processo cioè, e per essa si chiede un proroga dopo due anni di indagini. In effetti, i giornali da qualche tempo languono.

Si fa il Ruby-ter anche dopo l’assoluzione di Berlusconi. Milano teme le tre giudici che lo ordinarono – ordinarono che tutti i testimoni a favore di Berlusconi, una quarantina, siano processati per falsa testimonianza. Ora bisogna trovare le pezze d’appoggio.

Ma non c’è solo Berlusconi, c’è anche Pantani, e c’è sempre il calcio, dacché al giudice Salvini hanno tolto i remake di piazza Fontana. Pantani si può prorogare in mille modi: Vallanzasca, notorio  galantuomo, la camorra, qualche amante. Anche  Mauri, del calcio-scommesse. Ora, qualcuno si divertirà con Mauri, e con Pantani morto, ma perché pagare per questo? I giudici, le Procure, le polizie.

Il professore Rezza, direttore per le malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità, esclude che gli immigrati dei barconi possano avere l’ebola per questo motivo:  “Non è che, faccio per dire, (l’immigrato)  prende l’aereo per arrivare in Libia e poi si affida agli scafisti”. Perché, come altro arriva alla costa libica, attraverso il Sahara, migliaia di km., e magari è una donna incinta  un bambino? Non s’insegna nulla a questi professori? Un po’ di geografa, per esempio.

Il professore dice pure che, comunque, dato che il virus colpisce solo tre paesi, “magari si potrebbe chiedere a tutti (gli immigrati clandestini) la nazione di provenienza”. Ebola è un dramma, ma il professore?

Platea muta da Floris mentre Crozza si esercita, con lazzi e frizzi, sui 40 anni di (non) governo Pd a Genova. Il primo applauso arriva alla fine, quando Crozza dice che Berlusconi invece che a Genova va a cena con Luxuria. Poi dce che Floris ha perso il pubblico.

Però Renzi non va bene. Ognuno dei soliti ospiti di Floris ha agio di dire il suo non-pensiero, indisturbato. Quan do Alberto Quadrio Curzio si avvia a spiegare, in breve, che la manovra – meno tasse sul lavoro etc. – si può fare, Floris gli toglie la parola. E non gliela ridà per tutta la serata.

Molte pagine di giornale per tre giorni, e molti talk-show di ore in tv, sulla bocciatura di Bruxelles alla legge finanziaria. Di una legge che non c’è. Che quindi non è stata mandata a Bruxelles. Poi dice che non si comprano più giornali.

venerdì 17 ottobre 2014

La fiducia fa – i due anni che affossarono l’Italia

C’è nell’ultimo ciclo economico, post-2007, una verità che può servire alla manovra: la fiducia nella politica – a prescindere, e anche contro, la cosiddetta opinione pubblica. Si vede con chiarezza nelle tabelle allegate all’ultimo studio annuale dell’Istat “Rapporto sull’economia italiana”, e in particolare alla tab. 1.2, al primo capitolo:

Nel 2008-2009 l’economia fu influenzata molto negativamente dal crollo degli investimenti, e della spesa delle famiglie e delle aziende (scorte), mentre esportazioni e domanda collettiva ristagnavano. Nel 2010-2011 ci fu una ripresa, benché minima, a opera dei consumi privati e industriali (ricostituzione delle scorte), e degli investimenti, contrastata dalla contrazione della spesa pubblica e delle esportazioni. Fu il rovescio del biennio precedente, seppure con oscillazioni dimezzate. Nel 2012-2013 gli investimenti sono andati letteralmente a picco, insieme con la spesa delle famiglie e delle imprese, nonché della spesa pubblica, e un risultato molto più negativo di quello registrato è stato evitato grazie alle esportazioni, in forte ripresa – esito anche degli investimenti 2010-2011.
È un andamento che corrisponde ai cicli politici. Quello di Berlusconi fondato sulla fiducia, malgrado le difficoltà istituzionali e giudiziarie, quello di Monti sulla sfiducia, malgrado il forte appoggio istituzionale e dei media.

La trappola cantata a Berlusconi

Corbi e Criscuoli,  già autori di “Berlusconate” e “Superberlsconate”, due best-seller, si superano ora col canto della fine. Si ridicolizzano ma pazienza: giornalisti parlamentari del gruppo L’Espresso, cioè giorno e notte alle Camere, sanno che Sarkozy e Merkel hanno meritoriamente irriso a Berlusconi e all’Italia, che Merkel non ha preparato Napolitano, Napolitano non ha preparato Monti, Tremonti ha fallito le finanziarie, e Berlusconi è caduto da solo - è o no un pagliaccio. Ma la parte migliore è il concerto  per la sua caduta. Non un flash-mob di musicisti in onore di Napolitano in piazza del Quirinale, come si disse, ma un evento preparato da tempo. Da Anna de Martini, de minuscola (il libro cognominizza la particella, male), pugliese, corista a Roma di don Pablo Colino, ci siamo intesi, direttrice di due cori, con Fabrizio Cardosa maestro del coro e direttore.
L’orchestra e il coro “radunati via facebook” (Rai) in realtà erano pronti da un anno. Con varie generali all’attivo - all’Aquila con le carriole, alla Notte della Democrazia, l’8 marzo delle donne, quelle cose lì. Ma è vero che Anna de Martini, per l’Alleluja a Berlusconi, aveva dovuto interrompere una vacanza a Amsterdam. Che a novembre non è il massimo, ma vi si fuma in bici sempre in pace. Anche Cardosa, professore ai conservatori di Frosinone e Pescara, e alla Scuola Popolare di Donna Olimpia a Roma, specialista dal Rinascimento al jazz e all’elettronica, è un aficionado di Amsterdam.
L’organizzatrice non ha però aspettato Corbi e Criscuoli. Si era manifestata subito, più a tutto tondo che nel libro, con un’intervista uscita su “Repubblica” il giorno dopo l’Alleluja. Molto sensibile, che di sé parlava mentre cantava al passato, nello stesso momento avendo sciolto il movimento, la resistenza era finita: “Le frasi urlate l’altra sera contro Berlusconi, come «Abbiamo un sogno nel cuore, Berlusca a San Vittore»”, è già retorica. L’altra sera cioè mentre parlava.
La buona borghesia non finisce mai di fare danni – noi i belli-e-buoni. E sempre glissa sui soldi, è sconveniente. Due cronisti d’assalto però, di cui uno figlio d’arte, benché seduti alla scrivania, non dovrebbero vergognarsene. Potrebbero farne un’altra puntata. E la prossima volta tengano conto che l’“Hallelujah” di Haendel non è Ligabue né facile da cantare, richiede intonazione, maestria e esercizio (concertazione). Nobilmente de Martini l’aveva già spiegato: “L’ideazione, l’organizzazione, la ricerca di musicisti e cantanti professionisti necessari per una resa degna delle musiche che eseguiamo richiedono tempo ed energia”.
Alessandro Corbi-Sandro Criscuoli, Il giorno dell’Alleluia Come l’Italia si è salvata dalla bancarotta, Nutrimenti, pp. 143 € 13

giovedì 16 ottobre 2014

Un giornalismo piccolo piccolo

Crolla l’Europa, in Borsa e fuori, e niente. C’è il premier cinese a Roma, e niente. C’è la conferenza Ue-Asia a Milano, e niente. Poroshenko e Putin tentano a Milano un accordo, e niente. La città è sorda, e l’Italia naturalmente pure: né i giornali né i telegiornali registrano gli eventi, nonché non dirci cosa hanno prodotto.
Non è una disattenzione episodica. Quella di questi giorni si aggiunge a quella costante sull’immigrazione incontrollata, le guerre che ci fanno fare, il petrolio a 100 dollari, eccetera: l’universo mondo non esiste in Italia. L’unico sguardo al di sopra di Chiasso è che Bruxelles potrebbe bocciare la finanziaria. Su questo condizionale anzi paginate, decine, centinaia di pagine. Per una legge che ancora non esiste. Da parte di una Bruxelles che sarebbe un certo Barroso, un portoghese grasso – questa in effetti sarebbe una notizia.
Ma non è disattenzione, è non-attenzione. Incapacità di pensare il mondo com’è. Non per mancanza di curiosità o provincialismo, poiché quasi tutte le imprese italiane sono da decenni transazionali, anche le medie e molte piccole. Hanno più attività all’estero che in Italia. Sanno che il mondo esiste e sanno come starci. La non attenzione è dei media. Che sono a questo punto o irrilevanti o perversi.  

I “figli dei boschi” e la violenza dell’Italia

Un romanzo extralarge. Relegato dal film che ne è stato tratto alla Calabria di maniera, abusiva e assassina, l’originale è invece sovrabbondante: Criaco si è preso delle belle soddisfazioni. Da socialista anarcoide quale si professa - quale era possibile fino a ieri - in veste di narratore, un “altro parere” si permette a profusione sulle delinquenze, le mafie, le droghe, le Milano e i Carabinieri che ci governano. Sulle tremende energie che solo nella violenza trovano sbocco – la strage di Duisburg s’immagina all’origine, o come stimolo. E non per essere gravati dalla Montagna incombente, che invece è liberatoria – il luogo è l’Aspromonte. Meno che meno dai “vecchi piccoloborghesi del passato”, dai “piccoli padroni rurali… chiusi nei loro salotti demodé a sputare veleno e meditare vendetta”. No, dall’Italia che conta.  
Se le è prese, bisogna aggiungere, da calabrese. Con quella vena esagerata sempre e beffarda che distingue la narratività locale, il linguaggio della narrazione. Alla scuola probabilmente di Delfino e Zappone, ma senza le loro buone maniere, con impeto esplosivo non edulcorato, anche cattivo. Esagerato anche nel gusto dello sberleffo. Trasandato nella scrittura (incongruenze, errori, anche grammaticali, contraddizioni), ma senza dare fastidio, anzi, come a dare più corpo al suo vero inverosimile. Alla lettura non implausibile – anche per l’eco inevitabile di tanta genialità violenta, in prosa e in poesia, ancora vicino a noi, di Pound, Céline, Hamsun. Ma anche alla riflessione.
Una solenne presa in giro, dunque – anche se drammatica: questo sì, non si salva nessuno. A p. 61 lo scrittore di Africo, “figlio di pastori” educato a Milano, costruisce un’etologie della vacche tanto assurda quanto circostanziata, in cui fa sentire echi di Borges (il cerchio, il labirinto), Bachofen (il matriarcato), e naturalmente Lorenz (gerarchie, linguaggi): le vacche non parlano ma è come se. Altri racconti salaci (“I salatori” è uno, il capo dei capi impotente, i tanti agguati fantasiosi ai capi dei capi) dissemina qua e là. Quando non sono panzane: otto miliardi di eroina ceduti a credito dalla mafia turca, il figlio dell’ipermafioso che si ritrova capitano dei CC in carriera, il rapito che si fa amico fraterno e socio del rapitore. Ma con l’effetto di dare corpo alla ribellione dell’energia repressa, e insieme a dirne l’inanità. Con analoga improntitudine si annette le due Milano della droga, la bruna e la bianca, il desiderio di morte e il desiderio. Un azzeramento, una difesa infine in forma di aggressione. La stessa biografia, del figlio di pastori educato a Milano, è extralarge e non implausibile: questi miracoli avvenivano, e ancora avvengono, grazie alla chiesa – il mondo è vario, anche il Sud.
La storia è dell’energia giovanile, e dell’amicizia. Che implodono e esplodono in una sorta di panoptico del crimine, in forme diverse, ma come in contemporanea: i furti e le rapine, i sequestri di persona, l’eroina, la cocaina, le vendette. Il contesto è più importante. Criaco vuole un’antropologia della società pastorale certamente non fondata eppure persuasiva: di un mondo “costretto” alla violenza. La storia vera, lunga e dolorosa, riassumendo in poche righe. Di un mondo che non aggredì mai nessuno, attento solo ai suoi armenti, e sempre fu aggredito, sui lidi, sulle pendici della montagna, e fin sulla montagna stessa, dai greci ai Savoia – “solo l’esercito di Dio venne in pace con le facce di solitari e pii monaci basiliani”. Magna Grecia? No, un manipolo di “oscuri” osci, sempre perseguitati. Nota e ignota anche la storia recente: “Venne a cercarci il Borbone per imporci dazi e regole. Si inventò l’esercito dei pungiuti per piegarci dal nostro interno. Gli succedettero i civili Savoia, mantennero l’armata dei pungiuti, introdussero nuovi dazi e nuove regole…”. I pungiuti sono la ‘ndrangheta di cui si favoleggia, a opera di giudici e mestatori, con giuramenti, formule, iniziazioni, abracadabra, immaginette (sacre), processioni, per coprire un esercito di informatori, confidenti, pentiti, tragediatori, tutti irresponsabili, a immunità garantita e anzi premiata per tenere sotto bastone i “figli dei boschi”, gli uomini liberi.
Vennero poi le Camicie Nere, poi la Repubblica, sempre coi “pungiuti” al centro, infine la rivoluzione milanese. Che i “figli dei boschi” scacciò a favore di slavi, albanesi, nigeriani, sudamericani: “Milano da questa rivoluzione non ne avrebbe certo tratto vantaggi: noi non eravamo dei santi, ma a modo nostro avevamo un certa etica”. I soldi non girarono più, il valore aggiunto venendo esportato nei paesi di origine, e “la gente iniziò ad aver paura di uscire...Per le strade iniziarono a violentare, scippare, rapinare, ammazzare per nulla”. Ma Milano godeva, della disgrazia altrui: “Il popolo, serrato in casa, vedeva migliaia di figli dei boschi in manette, potentissimi politici sudare e biascicare davanti ai novelli tribuni, e godeva contento”.
Il lettore ci troverà un inno alla natura, una pastorale di forza beethoveniana, e all’amicizia.
Il sociologo della letteratura ci troverà ottimi temi – oggi non discutibili, ma a termine sì, poiché sono la realtà, non c’è chi non ne sappia la verità.
Gioacchino Criaco, Anime nere, Rubbettino, pp. 213 € 14

L’automobile italiana è tedesca

Non fa notizia la Fiat che va a Wall Street, ed è la migliore casa automobilistica americana, la più in salute. Poco sulla grande informazione, giornali e telegiornali, per niente sulla stampa specializzata, “Quattroruote”, “Auto Oggi”, etc.  È uno dei tanti segni del provincialismo dei media italiani, ma di più di un fatto  cui non si pone attenzione, benché sia evidente: che l’automobile in Italia è tedesca.
Non lo è per produzione – se si eccettuano cose minime: Lamborghini, Ducati, studio Giugiaro – ma lo è per vendite e, e soprattutto per il marketing, dalla pubblicità ai test qualità, al mercato dell’usato. I dati Unrae per i primi nove mesi dell’anno registrano vendite per 283.721 autovetture di marchio italiano, e per 264.500 circa dei marchi tedeschi – comprese le Ford Focus, che si producono in Germania. Un numero di autovetture vendute con leggere prevalenza ancora italiana, ma con larga preponderanza tedesca quanto a fatturato, a valore unitario delle auto vendute. È l’auto tedesca che “fa il mercato” nella stampa specializzata, anche nei grandi quotidiani, dove i supplementi auto si fanno in service, appaltati a giornalisti o studi esterni, che sono legati all’industria tedesca, o ambiscono a legarsi.
Dei tre grandi mercati europei fuori della Germania, Gran Bretagna e Italia sono tedeschi. In Francia invece il mercato è per il 56-57 per cento di automobili francesi, del gruppo Peugeot-Citroën e del gruppo Renault-Nissan.

mercoledì 15 ottobre 2014

Letture - 188

letterautore

Amazon – Allarga o accorcia la vita del libro, lo moltiplica o lo cancella, valorizza lo scrittore o lo svilisce?  Un fatto è certo: è l’unica novità – alternativa – nel mondo dell’editoria da quando esiste. Il superagente letterario Andrew Wylie spiega al simpatetico Federico Rampini su “Repubblica” giovedì 9 che, in opposizione a Amazon, “l’industria editoriale deve poter mantenere gli scrittori di qualità”. Se non che il contrario è vero: l’industria editoriale ha sempre avuto poco a che vedere con la “scrittura di qualità”, lo “scrittore” essendo uno che doveva e deve avere un secondo mestiere. Di più negli ultimi decenni, all’insegna del mercato spudorato: l’industria editoriale ha obliterato la scrittura di qualità, e anzi le ha fatto il terreno bruciato attorno, perché nessun virgulto ne risorga. L’ha cancellata, la disprezza e la deprime -  la “scrittura” è il babau dei redattori in carriera.
Non da ora, non solo in Italia, l’industria editoriale si pone il solo obiettivo di vendere, con tutti i mezzi, compresa eventualmente la “scrittura”, purché non ci sia. Ha cessato d’investire non da ora sulla durata, vendere è per essa solo il “cotto e mangiato”, il libro che non lascia traccia, buono agli insonni e alle vacanze, nelle pause dell’iphone, e che possibilmente crei dipendenza, per gusto o per obbligo sociale, come i “Montalbano” e i “Berlusconi”, i due personaggi “letterari” massimi del venticinquennio dell’editoria di mercato – peraltro presieduta dallo stesso Berlusconi. Con tutti i corollari: il libro si vende nelle prime due settimane, cioè con presentazioni e recensioni guidate, le vendite in blocco, la visibilità riservata in libreria, e con la rapida rotazione, talvolta solo per ricopertinamenti della stessa merce camuffati da novità.
Il 90 percento del mercato librario è sempre stato di consumo, rapido, i Montalbano compresi. Ma oggi il consumo è al 99,9 per cento. Totalitario se si includono le riedizione dei classici – anche contemporanei, purché fuori diritti. Oggi, dopo l’avvento dell’editoria di mercato, il mercato stesso è però ristretto. Considerato che “un terzo dei libri che passano ogni anno da una libreria non vendono neanche una copia”, secondo le statistiche ferme di Giuliano Vigini. Amazon dunque non è un’eccezione – e a ripensarci non sarebbe nemmeno una novità, se non che è a costo zero.
A Francoforte l’evento massimo è stato un anticipo di due milioni di dollari – che se fossero di facciata, per la pubblicità, e non veri non cambia – per “The Girls” di Emma Cline, di cui la metà per il suo agente. È anche giusto, il prezzo non premia la letteratura, neanche la bassa letteratura, ma il build-up riuscito (sapiente?) del prodotto, e una quotazione che valorizza età, sesso, avvenenza dell’autrice, e i temi forse scabrosi. Lo stesso Wylie lo dice, indirettamente, a Rampini: “I romanzieri, salvo rare eccezioni, non nascono ricchi. Si mantengono grazie agli anticipi degli editori”.Che ci sono se l’intermediario – l’agente – è capace.
La disintermediazione, al limite l’autoedizione, non risolve il problema alimentare. Ma nemmeno l’editoria lo risolve. Lo scrittore solo può fare affidamento sulle alternative, poche, che ancora si propongono: giornalismo, insegnamento, consulenza, sceneggiature tv. In questo precariato ormai stabilizzato la disintermediazione può allentare il vincolo del “mercato”, aprire spiragli, se non varchi, alla creatività, sia pure inedita. O autoedita con amazon: a costo zero è più morale.

Digitale – Nell’intervista di giovedì a Rampini, Wylie censura, oltre agli “scrittori che cantano sotto la doccia”, il prodotto forse più innovativo della rivoluzione digitale dopo i cellulari, i lettori ottici: “Il libro digitale su tablet va bene per letture usa e getta, di rapido consumo. Non mi riferisco soltanto ai romanzetti-spazzatura, o ai thriller da viaggio”. Senza tenere conto cioè della versatilità del lettore ottico? Della portabilità, della ricerca testuale, della memoria assistita. Che aiutano molto i classici (i rimandi, i ritrovamenti), le ricerche scolastiche e perfino erudite, la lettura goduta, pensata. Oltre che aprire nuove frontiere alla compulsazione tecnico-scientifica: di testi di economia, di storia, di filosofia anche.

Montalbano – È il personaggio del “fascistone”. Autorevole e autoritario, aitante, bello – se non lo è lo crede, e gli altri lo confortano. Solitario e socievole. Superiore, e quindi generoso sempre. Uno senza affetti. Senza madre. Ingrato col padre, i sensi di colpa coltivando felicemente. Patrono dei bambini indifesi, delle donne, e dei “poveri”, ancorché delinquenti. Ma scorbutico. Non sposato. Pieno di donne. Insensibile con la fidanzata. E pieno di sé: cibo, minuti malesseri, età, contrarietà, mutismi. Con pareri sempre definitivi. Attaccato al padre – la madre non esiste – di cui però non si cura. Attardato sui linguaggi adolescenziali - storpiature, parole strane: all’urbigna, i cabbasisi, il catanonno. Non lo disprezza ma il contadino (Catarella) tiene per ignorante, stupido, gregario alla’autorità, di fedeltà canina.
Montalbano è per i molti il film. Dunque è Zingaretti, le vedute aeree, il mare. Gli interni “favolosi”. Le caratterizzazioni sontuose. Quello di Camilleri è il tipo meridionale del “fascistone”. Curioso che attragga tanto. Una volta fatta la tara, naturalmente, della capacità affabulatoria di Camilleri: il ciclo di Montalbano si impianta sul Bandello, sul Lasca - con più impegno arebbe perfino Boccaccio. Curioso che attragga il pubblico maschile ma anche, secondo le indagini di mercato, quello femminile. E non tanto nei paesi quanto nelle città, nella vita urbana, progredita, femminilizzata, di parte maschile e di parte femminile.

Nobel – È soprattutto nordico, anche quello della Letteratura. Il Nobel alla letteratura è anche distintamente europeo. I più premiati sono gli anglo-americani, e l’area germanica – scandinava e tedesca. Sono 28 gli anglo-americani premiati 26 i germanici (13 tedeschi, 7 svedesi, 3 danesi, 3 norvegesi), 16 i francesi, 11 gli ispanici, 6 gli italiani, 5 i russi, 4 i polacchi, 2 i cinesi, 2 i giapponesi.

Notti di ferro – Momento centrale nell’avventura amorosa al centro di “Pan”, Hamsun pone le Notti di ferro. Che la traduzione di Ervino Pocar fa arrivare una settimana dopo Ferragosto, il 22 agosto. È la fine dell’estate, è ancora caldo, ma “alle nove il sole tramonta. Sopra la terra si stende un’ombra opaca, si vedono alcune stelle e, due ore dopo, appare un barlume di luna”. L’euforia del protagonista è generata non dall’amore, che non c’è, ma dall’alternarsi delle stagioni. Luce e buio, caldo e freddo sono i fattori fondamentali dei “caratteri nazionali”, mentre sono trascurati a favore della storia e delle istituzioni – che invece ne sarebbe l’esito.
Paralleli alle Notti di ferro di Hamsun sono i “santi di ghiaccio” che si incontrano ovunque al di sopra delle Alpi. E si celebrano anch’essi in tre giorni, la sesta settimana dopo l’equinozio di primavera – l’11-13 o il 12-14 maggio. Al disgelo. I più famosi sono san Pancrazio, San Mamerto, san Servazio, san Bonifacio di Tarso, santa Sophia di Roma. Sono detti santi di ghiaccio perché nei tre giorni si verificherebbe un abbassamento improvviso delle temperature, ma più probabilmente santificano l’ultimo definitivo disgelo, dopo la lunga apnea invernale.
La Svezia pone le “notti di ferro” col fenomeno dei “santi di ghiaccio”, ma spostando l’improvviso calo di temperatura primaverile di un paio di settimane, a fine maggio-primi di giugno. A seconda però delle latitudini: nella parte settentrionale del Norrland le Notti di Ferro arrivano come nella Sirilund di Hamsun, verso il 20 agosto.

letterautore@antiit.eu

Alvaro prende le misure

Cinque racconti, un abbozzo di dramma e cinquanta poesie, tratti dal fondo Lico a Vibo Valentia. Parte di una massa di poesie, racconti, lettere, fotografie del “giovane Alvaro”, dal 16 ai 21 anni, anche manoscritti, “con la sua grafia inconfondibile”, assicura il curatore Vito Teti, o dattiloscritti, “con le sue correzioni e i suoi interventi sui testi, che apportava già nelle primissime prove di scrittore”, da lui stesso affidati negli anni a Domenico Lico, un ex compagno di liceo a Catanzaro che avrebbe voluto scriverne la biografia. Le poesie, che scrisse abbondanti a partire dal 1911, sono qui riordinate e presentate da Pasquale Tuscano. Il racconto lungo del titolo, di una quarantina di pagine, farà da quinta a “Gente in Aspromonte”, sulla vita in famiglia, tra i genitori ancora giovani, e nel paese.
In copertina un bellissimo giovane, in collo alto e plastron, di raffinata eleganza. Ma da subito professionale, della serietà che sarà il suo segno, con la ricerca di affinamento costante. “Un Paese” è stato affidato da Alvaro a Lico nel 1940, ma era stato scritto nel 1916 a Livorno, dove si sottoponeva a una serie di interventi chirurgici per le ferite riportate in guerra.
Corrado Alvaro, Un Paese e altri scritti giovanili (1911-1916), Donzelli, pp. 350 € 26

martedì 14 ottobre 2014

La “linea” del petrolio a 100 dollari

È come se fossimo da quindici anni, il terzo millennio, in una storia da fantascienza: mercati inquieti e borse in calo perché il prezzo del petrolio scende, da 100 a 88 dollari il barile. Alla domanda in calo non fa seguito un taglio delle forniture e il prezzo potrebbe anche scendere a 86 euro, i mercati finanziari tremano, il mondo sta col fiato sospeso. Dove sembra di sognare, come in ogni storia di fantascienza: il problema reale è la domanda in calo, anche per effetto del prezzo alto del petrolio, e non il calo del prezzo, che resta sempre troppo alto.
Che il petrolio a 88 dollari al barile susciti allarme non è una bugia, ma l’indice di uno stato folle dell’economia, e di un’indigenza impensabile dell’informazione. Perché dire 88 dollari a barile un prezzo troppo basso è una bugia enorme. Assurda anche, benché non contestata da quasi un ventennio – e qui c’entra l’informazione. Nessun fattore economico giustifica il petrolio a 100 dollari al barile, nemmeno a 88. Nemmeno a 8.
A 75 dollari è la soglia della convenienza dello shale gas nordamericano, e questa è tutta la verità della storia. Compresa l’alleanza di fatto, ma anche di stretto vincolo politico, se non di diritto, tra gli Usa e l’Arabia Saudita. Che tanti lutti ci sta arrecando. In Africa e nel Medio Oriente, oltre che per la benzina e il riscaldamento. 
Il conto economico del barile è presto fatto – anche se le compagnie pretendono che non si possa fare, con esattezza. Le riserve si sono enormemente accresciute rispetto alla crisi di quarant’anni fa, nell’Asia al di fuori del Medio Oriente, e in Africa al di fuori del Nord Africa. Di greggio e di gas naturale. La produzione pure. Non ci sono mai state crisi di approvvigionamento nei tanti, troppi, eventi di questi venti anni che hanno ristretto l’offerta: l’embargo sul petrolio iraniano e su quello iracheno, le guerre in Iraq e in Libia, la guerriglia nell’Est della Nigeria, il crollo del nucleare. Né per l’accresciuta domanda di grandi consumatori di energia, quali la Cina, soprattutto, il Brasile e l’India. Il costo a barile è stimato in 8-10 dollari, al più, nelle zone di ricerca e produzione più difficili: l’Alaska, i giacimenti ad elevate profondità (seimila metri), e alcun zone del Mare del Nord. Va su 1-2 dollari nel Medio Oriente, eccetto alcune zone dell’Iran, e il Nord Africa.
L’economia del petrolio ha subito uno stravolgimento nell’ultimo ventennio. Il barile a 100 dollari è un artificio. Una razzia continua, a favore degli azionisti delle compagnie petrolifere (fondi pensione, fondi d’investimento, hedge fund, in Italia lo Stato, etc.). Delle finanze dei paesi produttori, in primo luogo i principati della penisola arabica, coi loro fittizi superboom - fittizi: costruiti sulla sabbia. Del settore dell’energia in Nord America, che può rendere coltivabili i costosi giacimenti di scisti bituminosi – con problemi ambientali non minori e anzi gravi, seppure non rilevati dall’opinione più avvertita, a cominciare dall’amministrazione Obama. Nonché di Putin, di cui il barile carissimo è la vera forza, anche con le sanzioni.
Un “miracolo”, se non si vuole dirlo una follia. Tenuto su restringendo l’offerta. Meglio: minacciando di restringerla. Poiché l’offerta, seppure già ristretta, è ancora eccedentaria sulla domanda. Minacciando bombardamenti, fondamentalismi, teste mozzate, guerre civili, e la dissipazione dell’ambiente.
Naturalmente non è così, naturalmente ci sono errori nella storia, ma tutto combacia a quel prezzo e sotto quel prezzo: la guerra continua nel Medio Oriente e in Nord Africa in questo millennio, avviata dagli Stati Uniti di Bush jr., l’uomo del petrolio, dei potentati arabi e del Texas, è l’unica base per il barile a 100 dollari. Tanto più tenuto conto che le forze eversive nelle stesse aree sono state e sono ispirate, finanziate e armate dagli stessi Stati Uniti e dai loro vassalli della penisola arabica.
L’assurdo bombardamento dell’Afghanistan dopo l’11 settembre, con l’occupazione dello stesso – per poi restituirlo ai talebani. La guerra all’Irak, che Saddam bene o male governava, per arsenali nucleari che non aveva, e arsenali chimici forniti dagli Usa e la Nato, per poi lasciarlo ingovernabile. La guerra alla Libia, che bene o male Gheddafi governava, in difesa dei diritti civili di bande di terroristi che da allora spadroneggiano. La guerra per la democrazia in Siria con l’Isis. Ora la guerra all’Isis. Una sola “linea” c’è, quella del barile a 100 dollari.

L’amore è saggio – anche all’università

Una storia d’amore infelice, e una felice. Con la vita accademica, di insegnamento, ricerca, organizzazione, entusiasmante e sordida – angiporto del potere, tanto più mefitico quanto più è angusto. Niente di eccezionale. E tuttavia un racconto vivido, per la prosa chiara – grammaticalmente semplice (la grammatica era l’“arte” dei romani, insegna il professor Stoner, della latinità). Minimalista si sarebbe detto qualche decennio dopo, ma senza pose. Con alcune scoperte, anche, non male. Del disamore legato alla maleducazione – l’educazione borghese delle ragazze, le figlie, prima della liberazione. Mentre “passione e conoscenza” si legano come meglio non possono: l’opinione contraria, l’“opinione data”, che la vita della mente è incompatibile coi sensi, non era contestabile mezzo secolo fa. O che la guerra uccide i vivi – la storia è ambientata nella prima metà del Novecento, un  susseguirsi di guerre. E della morte che è terrificante – ma questo ormai si sa – solo per i cristiani, che pure si aspettano la vita eterna. Ma senza ingegnosità, il racconto scorre modesto e saldo, come il nome del protagonista suggerisce.
Un autore di culto, riscoperto dopo la morte nel 1994, che si ripubblica con pre e postfazioni. Un racconto malinconicissimo, di uno scrittore che è stato anche lui filologo e professore come Stoner, il suo protagonista, ma che s’indovina estroso – scrittore d’invenzione. La “storia di irrealtà” che racconta è personale nel doppio senso, dell’autore ma anche del suo personaggio. Una storia scritta da Williams mentre girava l’Italia, nel 1963-64, alla ricerca di materiali e colori per “Augustus”, il romanzo del primo imperatore per il quale è famoso – con un “mamma” modesto omaggio al soggiorno italiano, e al latino di cui Stoner è cultore. 
John Williams, Stoner, Fazi, pp. 332 € 17,50

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (222)

Giuseppe Leuzzi

“I tedeschi sono molto più birichini degli italiani”, confida l’imprenditore Fabio Franceschi, Grafica Veneta, a Stefano Lorenzetto nel loro libro intervista “L’Italia che vorrei”. “Soprattutto quelli dell’Est”, aggiunge l’imprenditore: “Ci tratto dieci ore al giorno, dunque so di che parlo. Sono i magliari d’Europa, peggio di calabresi, siciliani e campani…”. Abbiamo perduto anche questo primato?
Anche: la Germania è proprio prima in tutto? 

Piove a Genova, governo ladro. Piove a Sarno, Siderno, Giampilieri no: imprevidenza, speculazione, corruzione, mafia.

“Anime nere” Gioacchino Criaco dice nel romanzo omonimo i vincenti: “Le ombre diventavano anime nere o tingiùti, tinti col carbone, a seconda se si prevedeva che uscissero vincenti o fossero considerate sicure vittime”. Nel film invece sono i perdenti: c’è un problema filologico?
La filologia dei mafiosi è fantastica. Quasi più della sociologia. .

Si scrive meglio al Sud
“Nord” quindici anni fa, il repertorio degli scrittori del Nord-Nordovest drizzato da Paolo Mauri, sottotitolo “Scrittori in Piemonte, Lombardia e Liguria”, va in prospettiva rovesciata: Paolo Mauri vi fa una difesa, come se mettesse un argine alla sovrabbondanza di buona letteratura altrove, un riparo. Difensiva è anche l’opera dell’ispiratore e mentore di Mauri, Dionisotti. Che intese argomentare una letteratura transappenninica – o meglio, dal suo punto di vista, cisappenninica: fuori dall’asse Sicilia-Roma-Firenze. Come luogo geografico, e come lingua e linguaggio. Petrarca dunque compreso, l’Ariosto, e, a suo modo, Manzoni.
Una vocazione testimoniata nel Novecento dall’immigrazione dapprima a Firenze, di Montale e Gadda, ma anche di Svevo e Saba. E poi, a Roma, di milanesi eminenti, Manganelli, Gadda, Arbasino, Nonché di Calvino, Parise, Soldati, Pasolini, e chiunque altro avesse qualcosa da dire. Senza contare Alvaro e i siciliani, il tronco forse più solido del Novecento stesso.
C’è una diversa vocazione dunque delle due Italie: quella letteraria non è indigente e dipendente, anzi è piuttosto prepotente. Sarebbe un ottimo unto di partenza, anche robusto, per un riequilibrio dell’opinione, oggi così violentemente nordista.
A Nord c’è poco, a parte Gozzano e Porta, se Mauri si deve annettere anche Malerba di Orvieto, e il toscano di Roma Ottieri, accanto ai ticinesi Ragazzoni e Filippini.

La Sicilia inglese
Sicilia-Italia sarebbe finita forse anch’essa con la vittoria dell’Italia, ma non sempre, tutte le volte di seguito, come è nella storia delle partite Italia-Malta. La Sicilia sarebbe stata anche non solo un punto strategico per Londra nel Mediterraneo, come Corfù e Malta, ma un’ottima colonia, ricca. Fu sul punto di esserlo, e non è chiaro perché non lo fu.
Perché la Sicilia ebbe la costituzione inglese solo per un periodo breve, dal 1812 al 1815, è tormento di Sciascia e dei siciliani migliori. Insomma, perché la Sicilia non ebbe né Napoleone, mai, né gli inglesi, che pure controllarono l’isola in quegli anni. Ma poi, pur vittoriosi su Napolone, la Sicilia retrocessero al re di Napoli.
In realtà la costituzione – quindici articoli in tutto, e bastarono - non era dei siciliani ma di lord Bentinck, il “sergentaccio” di Maria Carolina, la regina, e del suo ministro marchese Circello, mandato giovane e risoluto a governare l’isola contro la corte e molti dei baroni. Furono poi gli stessi siciliani a far retrocedere gli inglesi.
Nel 1811 c’erano ventimila soldati britannici di stanza a Messina - Lucy Riall, “Bronte”, 66 segg. C’erano un paio di centinaia di imprese britanniche tra Palermo, Messina e Trapani-Marsala. Che consideravano la Sicilia, come Malta, un investimento migliore che il Sudamerica. E fecero campagna costante perché il governo difendesse l’isola contro Napoleone. Con la flotta (Nelson vi fu impegnato in prima persona a lungo), e con l’esercito di terra.
Fu l’unico impegno diretto, dice anche la storica, delle truppe britanniche sul continente contro Napoleone. Questo non è vero. Dal 1806 gli inglesi impegnarono duramente per tre anni l’armata del generale Massena in Calabria. Con l’aiuto dei massisti, i ribelli alla leva obbligatoria – levée en masse. In Calabria e non altrove perché i massisti costituivano, oltre che una buona forza d’urto (una brigata con uniforme e mostrine restò inquadrata ancora per un decennio fra le truppe inglesi), una sponda sociale e un fonte di informazione.. 

L’odio-di-sé meridionale
Non è un caso isolato la “Gazzetta del Sud”, il giornale della Calabria, che in mancanza di delitti locali, fa la prima pagina su un incidente d’auto mortale a Salerno – non su altri omicidi efferati, volendo restare alla nera, scoperti  nelle stesse ore in Lombardia e in Emilia. L’odio-di-sé meridionale, una forma sociale di depressione, è specialmente acuto in Calabria. Anche a Napoli. In Sicilia Camilleri, e di più la serie tv di Montalbano, hanno allentato la morsa stretta da Sciascia, dell’universo mafioso, fino alla magistratura più impegnata.
In Calabria l’odio è più evidente a contrasto con due scrittori etnici di lingua inglese, Talese e Rotella. Entrambi americani di New York, entrambi nell’editoria, ma non legati a un pregiudizio modernista-progressista. Curiosi delle tradizioni e rispettosi della dievrsità. Anche nello sghignazzo, che può essere cattivo ma non censorio, sdegnoso, superiore.– ed è in linea col linguaggio etnico proprio (locale).
Anche Abate, il “germanese”, tale peraltro pure nella scelta di vita, insegnante nel Trentino piuttosto che in Calabria..
Bisogna stare fuori dalla realtà meridionale per poterla vivere o rivivere senza rifiuti? Se non per apprezzarla – Talese, Rotella, Abate. Standovi dentro non c’è rimedio? Entrambe le proposizioni sono dubbie. È probabile che starci dentro configuri l’insufficienza del provincialismo a contatto con la città, una forma di subordinazione – alla modernità, il progresso, la buona educazione, l’aggiornamento.

L’antimafia delle prefetture
Si sciolgono sempre più consigli comunali per mafia. Lasciando per diciotto mesi campo libero alle mafie. Vere o presunte, ma più indisturbate. Ma questo è stato già detto.
Da dire è che questo è quasi un business delle prefetture. Che volentieri fanno perno su una qualche nota di servizio di un maresciallo dei Carabinieri – per i quali tutto è mafia – e sciolgono il Comune che decidono. Dove per un anno e mezzo fanno i sindaci, prendono una diaria in aggiunta allo stipendio, e hanno anche l’autista.
In tutti i paesi personalmente conosciuti in cui il sindaco sia stato azzerato per mafia, non c’è un miglioramento e anzi un peggioramento dell’amministrazione. La raccolta dei rifiuti, i poveri, i lavori pubblici. Compresi gli appalti minimi, che non devono andare a gara, per le scuole (banchi, refezione, servizi igienici), o gli interventi coi lavoratori socialmente utili (tombini intasati, condutture scoppiate, mura crollate o da puntellare). E anche quelli per i quali la gara è prescritta. Il sindaco sta attento perché si sente sorvegliato, il commissario si fa forte dell’autorità indiscussa in materia di norme e regolamenti e se ne frega – e non è escluso che ne ricavi beneficio.

leuzzi@antiit.eu 

lunedì 13 ottobre 2014

Problemi di base - 200

spock

Draghi intima:Assumere, non licenziare!”. Ma tutti alla Banca centrale europea?

Nessuno ci ha avvertiti”: nessuno li ha avvertiti, a Genova, che pioveva?

“«Mi chiedo spesso che me lo fa fare», il giorno lungo del indaco aristocratico”: a fare l’aristocratico, o il sindaco?

Dopo Monti Visco: ma sono banchieri o stregoni?

Uscire dalla depressione col “vincolo esterno”: che ne dice il neurologo?

Si santifica Berlusconi per non fare le riforme - strapparlo a Renzi?

Adesso che non possiamo criticarli come gay, non ci sarà alcunché d’incestuoso tra Berlusconi e Renzi?

Diminuiscono le copie di giornale vendute, aumentano gli utili degli editori: è la lettura che fa male ai profitti? 

spock@antiit.eu

I briganti a teatro, con l’odio-di-sé

Con i drammi di Padula, e dei suoi coetanei e compagni, nasce il terribilismo del Sud. I drammi del brigantaggio. Non ancora “rivestito dei fattori sociali”, rileva Marco Dondero - che cura la raccolta con un’introduzione che fa testo da sola: non come oggi, s’intende, quindi storicamente e anche penalmente più attendibile. Ma nelle forme più oltraggiose immaginabili, una sorta di prova generale dell’odio-di-sé meridionale che col Novecento avrebbe esondato. Di cui Padula fa partecipe lo stesso “Antonello”, il più famoso dei suoi briganti.
Giulio Ferroni dice queste opere in una breve nota “drammi «veristici» prima del verismo”. Un’evoluzione, si può aggiungere, del romanticismo di fondo di cui Padula e i suoi compagni erano pregni. Compagni di Padula s’intendono gli altri scrittori, giovani con lui a studio a Napoli, che De Sanctis qualificherà di “gruppo calabrese”, dal “romanticismo naturale” – seppure in senso riduttivo. Che i loro soggetti vogliono legare alla grande tradizione europea, di Schiller, Byron, Walter Scott, e per questo credono di dover sacrificare la loro stessa realtà.
In tema di briganti calabresi Paul-Louis Courier, il pamphlettista francese, fa soprattutto ridere, e ride anche lui. Benché all’epoca, in quanto ufficiale napoleonico, ne fosse ilnemico dichiarato.
Vincenzo Padula, Teatro, Laterza, pp. 268 € 22

domenica 12 ottobre 2014

Ci furono una volta le riforme, col centro-sinistra

Una rara storia del vero centro-sinistra, che rinnovò l’Italia - rimosso totalmente dalle storie canoniche della Repubblica, di Ginsborg, Ridolfi et al. Anche questa riduttiva, specie nelle “riflessioni sul caso italiano” di Marchi, “Centro-sinistra” e storia nazionale”. Ma, se non altro, un bilancio se ne propone, e non la semplice cancellazione.
Le riforme sono possibili in Italia, poiché furono fatte. Radicali anche, smontavano interessi solidi. Nel primo centro-sinistra, benché avversato con asprezza, fino a un progetto di colpo di Stato, e tuttavia politicamente accettate. In una stagione in cui la politica non era ancora plebiscitaria, degli uomini della provvidenza, e nemmeno giornalistica, con gli equivoci interessi proprietari dell’editoria - era quella un’epoca in cui l’opinione pubblica si formava nel dibattito e non nello scandalismo, era articolata e non confusa. Non costretta. Senza cioè la minaccia costante della crisi, necessaria oggi per ogni legge, sia pure quella sul diametro dell’uovo, o del “vincolo esterno”. I partiti erano in grado di elaborare e attuare la politica. All’epoca, negli anni 1960, non era ancora invalso il potere di nuocere degli interessi costituiti. Attraverso i poteri enormi poi attribuiti alle commissioni, dove tutto si può ri-governare o insabbiare. E in aula attraverso l’ostruzionismo. 
Moro chiede il permesso ai vescovi
Marchi fa indossare il centro-sinistra a Aldo Moro, fra il congresso Dc di Firenze dell’autunno 1959 e quello di Napoli di fine gennaio-inizio febbraio 1962. Cancella Fanfani, che vi ebbe un ruolo decisivo. Cancella i socialisti, salvo registrane la divisione nel 1963. Dichiara morto il centro-sinistra nel 1964, mentre durò ancora otto anni, col varo infine del Sistema Sanitario Nazionale, dello Statuto dei Lavoratori, e del nuovo diritto di famiglia – che i due referendum sul divorzio e l’aborto sanciranno definitivamente. Strano modo di fare la storia politica. Col santino di Moro: “Moro è un attento osservatore di ciò che accade nel mondo comunista ed è consapevole della criticità di un centro sinistra che a priori escluda l’ipotesi di qualsiasi genere di collaborazione con il Pci”. Nel 1962? Ma, se non altro, Marchi accetta che il centro-sinistra sia esistito. E individua nella storia della Repubblica un punto di svolta: l’esaurirsi della “supplenza delle gerarchie ecclesiastiche” su cui avevano infine puntato gli angloamericani, essendosi dimostrato inconsistente il vecchio ceto liberale, per stabilizzare l’Italia dopo Mussolini, la sconfitta e la guerra civile.
La stagione delle riforme era partita prima, nel 1958, a opera di Fanfani. Con una serie di novità dirompenti: la scuola media unificata, il piano Verde (finanziamento della piccola proprietà e i nuovi patti agrari, il piano Casa (edilizia popolare), le Regioni, la nazionalizzazione dell’industria elettrica, la programmazione dell’economia, la normativa urbanistica. Nel 1964 Moro aveva fatto già molto per annacquarla. Fece anche una crisi di governo – nel mentre che Segni teneva le forza armate in allerta per un possibile golpe, cosa di cui Moro era a conoscenza - per dare fondi alle scuole cattoliche. Ma era comunque, sconfitto Fanfani, finalmente il suo governo, e leggi importanti dovette avallare. Tra le tante una curiosità: il grandissimo parco dell’Appio-Tuscolano a Roma, decretato da Giacomo Mancini, ministro socialista dei Lavorii pubblici, di cui oggi si discutte se realizzarlo o no... (ma intanto nell’area non si è costruito).
La timida apertura a sinistra di Fanfani nel 1958 col bicolore Dc-Saragat suscitò una forte reazione della destra Dc, capeggiata da Segni. Fanfani dovette cedere il posto allo stesso Segni, cui succedette  Tambroni – che questo fascicolo dimentica. L’avventatezza di Tambroni portò all’autosconfitta della destra. Ma bisognò aspettare fine 1962 per il primo governo sostenuto in Parlamento dal Psi, a guida Fanfani. Dopo un monocolore Fanfani di decantamento, centrista, con l’astensione del Psi. Erano gli anni di Giovani XXIII, ma Moro interpellò nel 1962 i vescovi a uno a uno, il futuro papa Montini si disse molto preoccupato. Moro aveva proposto già al congresso Dc del 1959, 24-29 ottobre, un accordo in prospettiva con i socialisti, ma senza crederci, in chiave antifanfaniana. E senza recidere i suoi rapporti con l’area moderata che lo esprimeva. Dopo il congresso di Napoli che sancì l’apertura, fece eleggere Segni presidente della Repubblica.
L’Europa si adegua
Sul piano internazionale altre novità sono da registrare. Che il fascicolo contestualizza in numerosi saggi di storici europei. Giovanni Bernardini, “Il primo centro-sinistra italiano nell’epoca del «riformismo» europeo”, collega la riforma politica italiana a quella britannica e a quella tedesca. Avrebbe potuto fare di più, dopo aver rimarcato “il diradarsi del clima plumbeo della Guerra Fredda”.  È in Italia, a opera di Fanfani e Nenni, che si rimuove la pregiudiziale antisocialista, o\e i timori americani, mettendo a frutto dal 1961 anche l’apertura di credito, per quanto cauta, dell’amministrazione Kennedy. È dopo l’esperienza italiana che  il laburismo andò al governo a Londra nel 1964 con Harold Wilson, e nel 1966 si formò a Bonn la prima Grande Coalizione, con Brandt vice-cancelliere. Quello italiano fu un forte, malgrado la neghittosità di Aldo Moro, e importante riformismo, del diritto familiare e civile, del diritto al lavoro, alla salute, alla retribuzione, all’ambiente, alle pari opportunità. Nonché di rilancio del boom, con la linea Carli-Lombardi – prima che Carli non si spostasse anch’egli a destra, diviso tra Colombo e Andreotti, per una politica di deflazione..
Ad agosto del 1971 Rumor deve cedere il posto a Colombo, con una maggioranza di centro-sinistra, ma con la linea Carli-Colombo accentuata. A fine 1971 Andreotti fa eleggere Leone al Quirinale. Che scioglie le Camere. Alle elezioni vince la destra. Andreotti governa dapprima con la destra scissionista del Msi. Poi col compromesso storico, cui imporrà la grande bonaccia. Ci saranno ancora delle novità con Craxi, 1983-87. Con “i meravigliosi anni Ottanta” (Dario Di Vico, “Piccoli”, pp. 160-161), segnati da innovazione e mobilità sociale, “quando non era reato confrontare Milano con Londra”. E la Dc passa dal “tintinnar di sciabole” (Segni, 1963) al “tintinnar di manette” (Scalfaro, 1992).
C’è una vasta rimozione, determinata, nella storia della Repubblica, e riguarda una formula e una politica, il Centro-sinistra. Che è tornata sui giornali ma per dire tutt’altra cosa. Storicamente non si potrà fare che il Centro-sinistra non sia quello del 1958. Per almeno tre motivi: 1) ha rinnovato la politica italiana, 2) ha rinnovato l’Italia, 3) è l’ultimo (l’unico) periodo di riforme in Italia, malgrado tutto. Malgrado i dorotei di Segni e Moro, cioè, malgrado Gronchi, Tambroni e Andreotti, le bombe e, infine, il terrorismo. C’è molto da contestualizzare.
Giovanni Bernardini-Michele Marchi (a cura di), A cinquant’anni dal primo centro-sinistra: un bilancio nel contesto internazionale, “Ricerche di storia politica”, 2\2014, Il Mulino, pp. 131-290 € 26,50

Secondi pensieri - 191

zeulig

Dio - È la differenza tra pensare e non pensare.
Riconoscerlo è atto d’orgoglio, e dunque peccato? La raccomandazione è che non ne parliamo tanto.

Funerale – Sono “un rito contro”, dice Marino Niola delle cerimonie imbastite a Napoli e dintorni dai coetanei attorno alla morte, in luoghi e circostanze diverse, di tre giovani, tra coreografie, slogan, striscioni, felpe, tee-shirt, palloncini. Sono anche l’esternazione visiva del legame intimo tra il rito e la politica, l’agire per uno scopo. Che le mafie confermano, essendosi impossessate in almeno due dei casi di Napoli, e in altri casi noti in Calabria, di tutto o parte del rituale per loro fini di vendetta o di confermazione.
I gesuiti furono a lungo maestri, secondo la denuncia documentata di Gioberti, dell’arte di impossessarsi del morto, anche se nemico, a fini di confermazione – pratica poi sovietica, e del Pci, di Togliatti e di Berlinguer. È il rito che più scopertamente si lega al potere, come rappresentazione-comunicazione: un messaggio e non un atto di dolore, di elaborazione del lutto.  

Natura - Non c’è il “ritorno alla terra”, è un mito. Destina all’isolamento, di fronte alla stessa natura, mai complice. Alla follia – la natura non risponde. O alle seconde case. Anche in forma di garçonnière, castelletto, buen retiro, capanno sull’albero. Incrementatore della felicità (soddisfazione) personale, dell’uomo-costruttore di case – in appartamento non si può, l’umo vi sta cole il cane, in gabbia. E del reddito locale – della riconoscenza. Ma sempre urbano, con aria condizionata e flit

Morale - È l’ordine, una forma di. Cioè la quiete, cioè lo stato fisico della morte. Ed esclusione.
Non c’è ordine senza vittime – esclusi – ma quella della morale è un’esclusione totale:  la legge tempra la pena, legandola a stadi del delitto.
Quant’è morale la morale?

Norma - È sfuggente (alterabile, contingente) perché è conservativa: non ciò che dovrà essere ma ciò che è stato. Quella innovativa è la tradizione recente, la tendenza. La sua razionalità interna è statistica, e storica. E vuole un esame-riesame costante della storia. Con ponderazioni peraltro variabili.
È debole perché non ha altro potere se non esterno. E nel caso della norma giuridica (Kelsen) solo la violenza.

Opinione pubblica – Nell’allegoria marina del potere politico, “La Repubblica”, libro sesto, V, Platone argomenta che “senza genuina e valida filosofia” nel governo degli Stati non ci sarà mai “una tregua di mali”. Ma anche che “non è naturale che sia il pilota a chiedere ai marinai di essere governati da lui” - pilota è il filosofo al potere, i marinai il popolo. L’opinione si vuole d’élite, “formata” cioè, e non pubblica.

La prima opinione è in Parmenide, ed è la non-verità: è il non-essere, “notte oscura d’aspetto denso e pesante”. Protagora, diatribico incontinente, ne farà il modo di esprimersi del soggettivismo, per cui tutto è ugualmente vero e ugualmente falso. Un sofisma, ma Protagora ha echi ricorrenti, anche se distratti, fra i massimi operatori dell’opinione pubblica. Parmenide aveva però messo un paletto: di fronte all’inconveniente di una cosa – l’opinione – la cui essenza fosse il non essere, aveva detto che l’opinione è “una forma” della verità. Non riducibile – e qui presagisce l’opinione pubblica – al tronco immutabile dell’essere-verità: è uno scarto del giudizio (sarà il dissenso), che, passando attraverso il fluttuare delle sensazioni e delle opinioni contingenti, sedimenta in un ammasso che supera l’interesse dei singoli e l’utile immediato.

È un fatto psicologico, quindi con sedimentazioni profonde, intrecciate, poco esplorabili. È però passibile di riscontro quantitativo se ridotta alla sua manifestarne politica. La rappresentazione della politica, o la politica secondo i media, è – dovrebbe essere – la politica: dal voto ai valori e le aspettative collettive. Se ogni fenomeno può venire ridotto senza residui pesanti alla sua rappresentazione, la politica è il fenomeno che maggiormente si identifica con la sua apparenza.

Max Weber sosteneva che l’opinione pubblica è la stampa (“Per una sociologia della stampa quotidiana”), e la stampa è il mondo moderno: “Cancellate la stampa dalla vostra memoria e pensate a ciò che la vita moderna sarebbe senza il tipo di pubblica opinione creato dalla stampa”. E ora?

Santità – Sante e streghe si somigliano, le loro esperienze per molti aspetti affini. Male e bene in esse si equivalgono, se non per circostanze esterne e minori, soprattutto l’ignoranza e la povertà - le sante nate in famiglie povere sono recenti, a meno che non fossero “semplici”, cioè matte. Ciò per non vale per i santi, per i quali il male è il male, e il bene, tutto sommato, il bene.
La differenza sta probabilmente nel fatto che la santità maschile si realizza nel mondo, con le opere, mentre quella femminile è psicologica, introiettiva (visioni, macerazioni, rifiuti). Ma tanto più, allora, per essere il quesito così assolutizzato: c’è un’indifferenza femminile tra dio e demonio? Indifferenza storica, naturalmente, non genetica.

zeulig@antiit.eu