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sabato 30 marzo 2019

L’Occidente è ignorante

Più che razzista l’Occidente è ignorante. Non sa niente in Europa dell’Africa, a Sud e a Nord del Sahara - e negli Stati Uniti dell’America latina, con la quale pure convive. Se ne fa la constatazione leggendo su “La Lettura” il lungo dibattito tra Veronesi e Ben Jelloun, che pure è marocchino, sull’Africa. In cui l’Africa non c’è, per nessun aspetto e in nessuna forma, neppure accidentale. È l’Africa de noantri, della nostra “buona coscienza”.
Si pensa all’Africa, a Sud e a Nord del Sahara, e se ne parla, come di una realtà sottomessa, ignorante, retrograda, da salvare. Con professioni ininterrotte di antirazzismo, ma col vecchio atteggiamento coloniale del negro malgrado tutto buono. Mentre è, come tutti, o di più forse per essere povero, agile, acuto, e sempre sveglio, informato, aggiornatissimo, questo si può testimoniare per lunga frequentazione.  Di sana e robusta costituzione fisica, sarà per la dieta povera. Più e meglio comunque del grasso lento europeo – lo stesso, s’immagina, del latino negli Usa. E si può vedere: come il giovane africano appena sbarcato a Pantelleria o altrove sa tutto delle leggi italiane e perfino del linguaggio, mentre gli italiani più informati, i cooperanti, lo pensano, non volendo certo, appena sceso dall’albero. Ma tradito dalla politica, in tutta l’Africa, senza eccezioni. Cioè dal suo porsi nella politica.
All’ignoranza – e al disprezzo intimo - si sopperisce con i buoni propositi. Che però possono essere, lo sono di fatto in molte realtà, quelle della cooperazione, dannosi. Per la condanna implicita che il paternalismo reca, il rifiuto di vedere la realtà, che è in effetti molto brutta, perfino deteriorata rispetto al colonialismo di settanta-ottant’anni fa, a Sud e a Nord del Sahara: tribale, asservita, poco applicata, dominata da oligarchie ristrette, con i favori e con la violenza. Senza più riguardo per le esigenze primarie delle popolazioni, della sopravvivenza: acqua, igiene, comunicazioni, reddito. La storia dell’Africa indipendente è uan storia di vergogne.
La cecità totale pesa sull’immigrazione, che si riduce a bega interna, italiana, tra Salvini e le anime buone. Dell’Africa cosa si può dire in breve? Che l’africano non cerca compassione ma la utilizza. Non crede all’uguaglianza ma ne sfrutta la presa sulla “buona” coscienza dell’europeo – il falso presupposto russoviano sullo stato di natura, una imbecillità avallata dall’utopia, cioè dalla cattiva coscienza.


In termini semplificati, avviene attraverso il Mediterraneo quello che avvenne a fine anni 1980 in Albania e Romania. Quando masse di albanesi e rumeni si precipitavano in Italia perché la credevano, attraverso le tv che li illuminavano, il paese dei balocchi, di lustrini e vita facile. L’africano è più avvertito e non si fa illusioni: sa che la vita e dura ovunque e si accontenta anche di poco. Ma emigra all’avventura, quasi sempre senza mestiere oltre che senza carte – l’africano che si è applicato agli studi o a un’attività, viaggia senza problemi. E si sottopone a mafie di ogni genere, tra la consorteria e il racket: bracciantato, commercio ambulante, elemosina, e attività illegali.  

La verità scomoda di Norimberga

Un buonissimo regalo. Pubblicato anonimo, ma scritto a regola d’arte da Roberto Scevola, germanista, giurista a Padova, preciso e leggibile. Un’esposizione magistrale, drammatizzata al giusto, quasi un trattamentone cinematografico, con molte “scene madri”, senza rinunciare all’esattezza giuridica, nel dettaglio. Molto per le scuole, con un glossario della terminologia nazista, una minigeografia dei luoghi del processo, una cronologia, e una bibliografia accessibile, anche delle testimonianze fuori del processo.
Nulla da eccepire alla fine sul processo. Che si impiantava su fondamenta legali innovative, rispetto alla giurisprudenza bimillenaria, ma non fu il solito processo politico, del vincitore sui vinti. Il dibattimento e le arringhe finali, della difesa e dell’accusa, 410 dieci sedute, accertarono responsabilità precise, e le sentenze le rispecchiano – anche se con incongruenze, come avviene per tutte le sentenze (quella di Göring fu lunga 250 pagine…).
Il processo di Norimberga fu poi seguito da vari processi “nazionali”, delle quattro potenze alleate nele aree da esse occupate. Nella “denazificazione” col “metodo Stalin” furono giustiziate “non meno di 43 mila persone”. Ci fu così un processo dei medici, uno dei giuristi – non di Carl Schmitt, il maggior giurista compromesso -, delle Einsatzgruppen, dei funzionari, degli industriali. Nella Germania Ovest, “nel complesso, i dodici processi secondari videro alla sbarra 177 imputati, con 144 condanne, delle quali ventisei a morte e venti all’ergastolo, mentre a novantotto imputati venne inflitta una pena detentiva inferiore a venticinque anni”.
Il finale fu di altro tipo, seppure per voler essere strettamente giuridico, ligio alle virgole: “Mentre in varie parti d’Europa manifestazioni di protesta si levano contro la presunta mitezza delle pene e nella Berlino controllata dai sovietici addirittura si sciopera, alcuni senatori americani fanno rilevare che l’impiccagione è contraria ai principi della legislazione statunitense”. Dibattito segue – ma si seguirà il “modo inglese”, seppure con boia Americano. Era stato comunque un processo politico, spettacolare. Rita Hayworth si fece vedere, e altre celebrità. Fiorello La Guardia, “il sindaco italo-americano di New York di origine ebrea per parte di madre, la cui sorella Gertrude era stata
internata a Mauthausen”, volle gli autografi degli accusati. Göring, istrionico per tutto il processo, si sottrasse con destrezza alla vergogna della corda, avvelenandosi col cianuro - era riuscito a contrabbandarlo malgrado i controlli, in un vasetto di crema per le mani, del cui recupero tra gli effetti personali incarica in articulo mortis un tenente americano, che gli fa consegnare la crema dal dottore tedesco all’ultima visita.
Dietro il processo, però, il tema è greve, la responsabilità collettiva, seppure politica e non giudiziaria. Di una guerra per molti aspetti criminale, che non si può ritenere colpa di una dozzina di persone. Ma rimane fuori da Norimberga. La verità della denazificazione finisce per essere quindi questa, detta in breve alla fine – ed è il contrario di quello che Scevola è venuto rappresentando: “Già dal 1944, ma in particolare dopo la fine della guerra, nella zona d’occupazione americana Eisenhower in persona aveva promosso la «campagna di colpa collettiva» come primo atto di denazificazione: oltre alla propaganda e al controllo dei mezzi di comunicazione, si puntò su visite ai lager, allo scopo di inculcare l’idea che il nazismo non fosse un’entità separata dal popolo tedesco e di scoraggiare teorie «autoassolutorie»”. Singolare divieto, quello di celebrare la Resistenza. Che però la Repubblica Fedarale, la nuova Germania, farà proprio: nessun ricordo, nessuna festa, nessun riconoscimento, a un’opposizione al nazifascismo che fu la più vasta e radicale in Europa. Nonché la colpa collettiva, la Germania rifiuta – non lo dice ma agisce come se – la colpa della guerra, e al fondo ritiene gli oppositori dei traditori. Ha eseguito le condanne di Norimberga, ma fino all’amnistia di Adenauer nel 1951, sulla falsariga di quella di Togliatti cinque anni prima – ma diverse erano le imputazioni in Italia e in Germania - e nel quadro della politica di scontro con Mosca, con un altro nemico esterno. Mentre era sollecita pagatrice delle pensioni a tutti gli aguzzini espatriati in Sud America e altrove. E si adoperava per la liberazione di criminali di guerra riconosciuti e condannati in altre giurisdizioni, come Kappler in Italia.
Norimberga, Corriere della sera, pp. 165, suppl. Gratuito al giornale

venerdì 29 marzo 2019

Problemi di base meridionali - 479

spock

Produce più mafia don Ciotti o il Sud unito?

Cinque anni ormai senza mafia a Milano, com’è possibile, la Procura dorme?

Si ruba più al Sud o più al Nord’

Più al Nord perché è molto più ricco, ma pro quota del reddito?

Ci sono più delitti contro la persona e la proprietà al Nord o al Sud – in rapporto agli abitanti, certo?

C’è sempre un Nord e un Sud, non c’è più un Est e un Ovest: i punti cardinali sono variabili?

C’è un Nord che non vuole il Sud, perché non c’è un Sud che non vuole il Nord – si potrebbe eliminare la questione meridionale?  

Perché il Sud sarebbe profondo?

spock@antiit.eu

Gadda diverte il gentile pubblico

Tre racconti incompiuti che Garzanti pubblicò nel 1971, sulla base di documenti (i quaderni su cui li aveva scritti, a penna e a matita) conseganti direttamente da Gadda. Abbozzi giovanili su cui non voleva ritornare e che lasciava a future memoria. Subito pubblicati dalla Garzanti di Piero Gelli, per sfruttare la gaddomania. In realtà compiuti e, se non rivisti, non rifiutati. Preceduti nel quaderno da un proponimento, in cui Gadda, accingendosi quarantenne a fare lo scrittore, si vuole “romanzesco” e “conandolyano” - romanzesco ragionato – per “divertire il pubblico”. Una pubblicazione non più ripresa da allora, eppure vale la lettura.
I tre racconti sono aperti da un “Argomento”, a proposito di un processo per matricidio. Dove subito s’impone ossessivo il sesso. Femminile - “la punta di Bellagio”, la villa Serbelloni” - e maschile, “tra le gambe ciò un fagotto,\ che mi va di qua e di là”. Che poi traboccherà in “Eros e Priapo” e nel “Pasticciaccio”.
“Novella seconda” è il “tipico” racconto milanese di Gadda, di piccola borghesia, giudiziosa e non. Anch’esso subito dominato da un altro tic gaddiano, il sarcasmo antisocialista, “antirivoluzionario parolaio”, di “sorvegliati dalla polizia, poi abbandonati anche da quella”: “Chi era avvocato, chi geometra, chi bocciato alla terza tecnica, ma tutti saputi, tutti zazzeruti, tutti cravattati, tutti parolai, tutti roboanti, e sopratutto tutti italiani”. Con l’impossibilità però di secernere bene e male, tra “i reati e i fatti che non costituiscono reato” – un’impossibilità metafisica, non personale: “Queste due classi di fatti sono disgraziatamente contigue, come dicono i matematici. Vale a dire che è sempre possibile trovare un termine della classe pi (reati) e uno della classe cu (non reati) tali che la loro differenza sia una quantità evanescente”.
Un fondo critico ineliminabile, da social scientist, che qui esercita anche sulla violenza italiana, il terrorismo di cui gli italiani si sono fatti periodicamente protagonisti, nel primo Ottocento come Carbonari, nel secondo come anarchici, nel primo Novecento come fascisti e nel secondo, qualche anno dopo la pubblicazione della “Novella”, come brigatisti. Del terrorismo come impotenza: “Il carattere peculiare di questi delitti italiani a differenza di altri delitti politici storicamente celebrati nei trattai di magniloquenza è la loro inutilità. E il fatto che la ferocia incanaglisse contro una ira fittizia, contro un’inesistente tirannide: ora quando si fa del male inutile a sé, si dimostra agli uomini e a Dio una sola cosa: di essere degli impotenti”.
Il terzo racconto, “La casa”, germoglierà amaro nella “Cognizione del dolore”, la casa afflittiva. Qui invece lo spirito è allegro. In una farsa, o autosatira, dell’insediamento del Dott. Ing. Gadda a Roma. Dove condurrà esistenza sfarzosa, col titolo di “Altissima Serenità Principe dell’Analisi e Duca della Buona Cognizione” – l’analisi è matematica, la cognizione sarà del dolore – incurante del malanimo di parenti e conoscenti, essendo diventato improvvisamente ricco, nonché abile. Capace insieme di tenere lontani i postulanti della sua nuova ricchezza, disinnescare la vertenza legale della petulante marchesa confinante, costruirsi la bella casa secondo principi di stabilità e comodità, contro il progetto dell’architetto “razionalista” Basletta. Gli umori ci sono. Compresi i problemi del tipo “I tramezzi degli alberghi”: i tramezzi uniscono più che dividere, con elenco rabelaisiano dei vari tipi di “rumori” compartecipati  - nell’attesa che qualcuno “de’ più quotati mobilieri di Lissone, Seregno, Meda e Cantù… inventi e fabbrichi il letto non cigolante”.
Nel mezzo “Notte di luna”. Quella in cui Carletto, qui socialista, contro “i signori, i militari, i preti”, partecipa a una sorta i linciaggio di un automobilista, e dei suoi ospiti nell’automobile, con la quale ha investito un gruppo di operai. Ma più volentieri partecipa alla baruffa perché tra gli automobilisti ha un rivale in amore.  
Carlo Emilio Gadda, Novella seconda

giovedì 28 marzo 2019

Letture - 379

letterautore


Americanismo – James Ellroy è Tolstòj. Anzi no, è Dostoevskij. E perché non tutt’e due? Non ha parole sufficienti Gianni Santucci l’altra domenica su su “La lettura”. Che ci dedica quattro illustratissime pagine, un caso senza precedenti.

Einaudi – Non solo Primo Levi e “Il gattopardo”, Einaudi non prendeva sul serio nemmeno Calvino. Ernesto Ferrero, dal 1963 all’ufficio stampa Einaudi, lo ripete allegro a Di Dtefano sul “Corriere della sera”. Si salva Einaudi malgrado se stessa - e con l’acume di Calvino, per Sciascia, Gadda, Fenoglio, i pochi che ne illustrano il catalogo. “A Primo Levi abbiamo persino bocciato le poesie!” ricorda Ferrero: avveniva nel 1975, e Levi era già scrittore affermato, di vasto pubblico – le pubblicò Piero Gelli, da Garzanti. Per non dire che “Se questo è un uomo” apriva con una breve poema in versi liberi che si ricorda, “Shemà”:  “Voi che vivete sicuri\ nelle vostre tiepide case,\ voi che trovate tornando a sera\ il cibo caldo e visi amici:\ considerate se questo è un uomo,\ che lavora nel fango, che non conosce pace,\ che lotta per mezzo pane,\ che muore per un sì o per un no…”. Bocciato non da lettori malaccorti, evidentemente. “Erano anni di una ideologizzazione sfrenata”, concede Ferrero eufemista. Ma Feltrinelli, per esempio, il più ideologizzato di tutti, se ne smarcava, sapeva essere di libero giudizio. A Einaudi c’era il controllo del Partito – quando Ferrero entrava, Fruttero e Lucentini se ne andavano.

Erotica – È per donne? Gli Oscar unificano “Letteratura erotica e rosa” nello steso “reparto”: Sacher Masoch con Jojo Moyes – e con Sophie Kinsella.

Fantascienza – È fangosa e ripetitiva, un genere tipicamente seriale, più che creativa, o immaginativa, o passionale. Lugubre, del genere catastrofismo. Immagina solo sconquassi, e anche questi senza passione. Se non nell’ordine millenaristico delle cose: galassie, asteroidi, vuoti interstellari. Il tutto remoto, e freddo. Niente impedirebbe di immaginare mondi alieni soleggiati. Meglio ancora di eterna primavera, fioriti, profumati, lievemente. E pulsioni non meccaniche. Ma non si fa. Non si può, non funzionerebbe?

Gadda – Il “Pasticciaccio” ha ricalcato sulla figura del “don Ascanio” di Alessandro Varaldo, il giallista, anni 1930? È l’ipotesi d Camilleri, “Difesa di un colore” (in “Come la penso”, 2013, ora anche in appendice a “Km 123”): “Il suo commissario Francesco Ingravallo detto don Ciccio sembra una copia di Ascanio Bonichi, che fuma il sigaro, ha i baffi, e opera in un a Roma altrettanto sonnolenta e provinciale malgrado gli inviti” di Mussolini a “scattare!”. In un programma “conandolyano”, quello che Gadda si attribuisce mentre cincischia a scrivere il racconto che sarà “Novella seconda”, dopo averne scritto la traccia (“Argomento”). Piero Gelli, che ha curato la prima edizione, 19871, della giovanile “Novella seconda”, così descrive il quaderno che Gadda ha portato in casa editrice, alla Garzanti: “Dopo l’«Argomento seguono alcune pagine bianche o di note private, non concernenti il racconto in questione. Quindi, in data di «Sabato 24 marzo 1928» Gadda inizia la stesura della novella, a cui premette una lunga nota di osservazioni e appunti di lavoro”. Questo l’inizio: “Mio desiderio di essere romanzesco, interessante. Conandolyano: non nel senso istrionico (Ponson du Terrail) ma con fare intimo e logico”. E ancora: “Piuttosto Conan Doyle, ricostruttore logico”. Senza eccedere, “perché ormai il pubblico lo sa a memoria e non ci si diverte più”.
Seguono una serie di obiettivi. Tra cui: “1. interessare anche il grosso pubblico. E cioè arrivare al pubblico fine attraverso il grosso…. 2. il pubblico ha diritto a essere divertito”, col “romanzo romanzesco”: troppi scrittori lo annoiano senza misericordia… 3. Non è detto che la vita sia sempre semplice, piana, piatta. Talora è complicatissima, e romanzeschissima”, eccetera.

Giallo - Savinio è contro - “il giallo italiano è assurdo per ipotesi” - ma per motivi bislacchi. Perché “è un’imitazione”, e soffre “tutte le pene di questa condizione infelicissima”. Perché non abbiamo “il romanticismo criminalesco del giallo anglosassone”. E perché “le nostre città tutt’altro che tentacolari e rinettate dal sole «non fanno quadro al giallo» né può fargli ambiente la nostra brava borghesia”.  Se non che la criminalità, con e senza romanticismo, non difetta, in Sicilia, a Napoli, altrove. E anche la “condizione metropolitana”, a Milano del denaro, a Napoli della violenza, a Roma della corruzione e della violenza.

Era sovversivo per Mussolini, e fra tutti i generi letterari quello più censurato. Non poteva essere italiano l’assassino. Né l’adultera – un po’ di tolleranza c’era per l’adultero. Il colpevole andava comunque punito. Un anno dopo l’entrata in guerra, il 30 luglio 1941, furono  sequestrati tutti i gialli in magazzino di autori non dell’Asse – cioè tutti.

Guerra – Molti letterati e futuri letterati fecero la prima guerra mondiale e alcuni anche ne scrissero: Ungaretti, Montale, Rebora (Gozzano, che morirà nel 1916, l’anno prima tentò di arruolarsi), Malaparte, Gadda, Tecchi, Alvaro, Repaci, Corrado Tumiati…  Con i tanti francesi (Apollinaire, Céline..) e giovani americani (Hemingway, Dos Passos..). Qualcuno ne scrisse anche senza averla fatta - De Roberto: è stata materia di molta letteratura. 
Pochi letterati, anzi nessuno, nella seconda guerra mondiale. Con la sola testimonianza di Malaparte, da giornalista embedded. Non ne ha scritto nemmeno Berto, convinto partecipante, che fu anche a lungo prigioniero degli anglo-americani. 
Se ne è scritto moltissimo, ma solo della Resistenza, dopo il 1943. I tanti che aderirono alla Repubblica di Mussolini non ne hanno raccontato niente: Dario Fo, Buzzati, Del Boca, Albertazzi, Mastroianni, Gianni Brera et al.

Iraq – Le tre donne che hanno fatto l’Iraq”, titolava “La lettura” l’altra domenica, tre cantanti negli ani 19201-1930. Ma è vero che l’Iraq lo ha “fatto” una donna, la scrittrice e politica inglese Gertrude Bell: lo ha disegnato, ci ha messo un re, lo ha difeso.

Pound – È coniato per lui il distico del suo grande estimatore William Carlos Williams, “I frutti puri d’America\ impazziscono”? No, Williams lo scrisse in una lunga poesia del 192o, quando non conosceva Pound. Ma dà l’idea – impazziva l’America come la majonese, l’inverso del melting pot benefico, un frullato di troppe cose: “I frutti puri d’America\ impazziscono\ – gente di montagna del Kentucky\ o del frastagliato limite nord del Jersey\ con i suoi laghi solitari e\ le valli, i suoi sordomuti, i ladri\ i nomi antichi\ e la promiscuità tra uomini spavaldi, nomadi della
strada ferrata\ per schietta brama di avventura\ – e giovani sciatte,\ immerse nel sudiciume\ dal lunedì al sabato\ per essere agghindate quella notte\ con fronzoli\ usciti da fantasie senza\
tradizione contadina che dia loro\ carattere”.

Prosa discontinua – La categoria Jonathan Lethem conia per l’amato Philip K. Dick, nell’apologia dickiana che intitola “Crazy Friend”: “Una specifica categoria di grandi scrittori”. Alla quale ascrive Dickens, Dreiser, Patricia Highsmith, oltre Dick. E Dostoevskij: “I russi vi diranno che ci rientra anche Dostoevskij, e che noi non lo sappiamo perché i traduttori da sempre gli parano il culo”.

Proust – Il suo primo lettore-ammiratore in Italia è stato Corrado Alvaro. Che nei racconti di “L’amata alla finestra”, 1929, lo imita, anzi parafrasa, a tratti potrebbe essere un calco. Lo stesso in altri racconti, per quanto concerne il “ritorno” della memoria – da Parigi estraeva in quella raccolta  anche “una rosa è una rosa” e il “presente prolungato”, o “presente assoluto”, con cui Gertrude Stein innovava negli anni 1910 e 1920 l’arte del racconto.

Stroncatura – Fabio Tamburini, pendendo la direzione del “Sole 24 re”, annunciava il ritorno nel supplemento “Domenicale” della stroncatura. Affidandola a “Mephisto” e a “Modesto Michelangelo Scrofeo”. Che però, evidentemente, mordono poco. Nell’ultimo supplemento, domenica, invece troneggia questa pagina di Claudio Giunta, italianista a Trento, in lode di Matteo Marchesini, collaboratore del supplemento, e del suo libro “Casa di carte”:
Un elogio al vetriolo.

letterautore@antiit.eu

Recessione (78)

La produzione industriale è piatta anche nel primo trimestre 2019, secondo un primo dato Confindustria. Per il terzo trimestre consecutivo: la recessione non è più soltanto “tecnica”, è reale.

Lo studio Confindustria che analizza l’andamento recessivo dell’economia da metà 2018 e per tutto il 2019 prospetta una recessione europea. Per l’indebolimento della Francia e l’arresto della crescita in Germania.

Rimane sempre elevato, sopra l’11 per cento, il tasso di disoccupazione – un tasso da economia da lungo tempo in recessione in termini reali, anche se contabilmente lo è solo da metà 2018.

Nel 2007  il prodotto interno lordo pro-capite era di poco inferiore a quello dell’area euro e superiore a quello dell’Unione a 28. Il pil pro capite è ora più basso della media europea, ed è quello che nel decennio 2008-2017 è cresciuto meno in Europa, alla pari con Grecia e Cipro.

Il pil po capite reale – al netto dell’inflazione - è diminuito tra il 2008 e il 2017 del 7,9 per cento – di un dodicesimo. È ora, nella media nazionale, con notevoli dislivelli tra regione e regione,  a 26.400 euro – era a 28.700 euro prima della crisi.

In Molise, Umbria, Lazio e Sicilia il pil pro capite è diminuito nel decennio di più del doppio.
Solo in due aree è aumentato, Bolzano (1,3 per cento) e Basilicata (3 per cento).

Il pil reale pro capite in Italia nel 2008 era pari a 28.200 euro, il 107,2 per cento rispetto alla media Ue a 28 (allora a 26.300 euro) mentre risulta pari a 26.400 euro nel 2017 con una perdita rispetto alla media Ue, ora a 27.700 euro, di quasi 12 punti (è al 95,3 per cento).

L’implosione dell’Italia è di lungo periodo: il pil pro capite registra un meno 5,4 per cento dal 2001 al 2017, contro un rialzo del 18  per cento della media Ue.
Nel 2001 era superiore del 18,8 per cento alla media Ue, nel 2017 inferiore del 4,7.

La lotta per l'umanità nel lager

La vita quotidiana in un campo di concentramento tedesco durante la guerra, dapprima a Buchenwald, poi a Gandersheim, in un campo di lavoro, per le officine aeronautiche Heinkel, infine a Dachau, incontro agli Alleati e alla liberazione. Di prigionieri politici, detenuti comuni, russi e polacchi prigionieri di guerra, e italiani e francesi al “lavoro obbligatorio”.  Con una nota sulla ricezione critica, all’uscita nel 1947 e dopo, di Alberto Cavaglion. E una nota di Hermann Langbein sui campi di concentramento hitleriani – Langbein, scrittore e giornalista austriaco, comunista, aveva passato la guerra come prigioniero politico nei lager, dal 1942 a Auschwitz - carcerato come “nemico” in Francia, dove aveva cercato rifugio dopo l’Anschluss, l’annessione dell’Austria alla Germania. 
Il racconto scontato dell’inferno, di fame, percosse, insulti. Tra i detenuti, per un po’ di spazio, una goccia di zuppa, un posto alle latrine nella ricorrente dissenteria. E per le gerarchie che vi si stabilivano con i kapò di vario ordine, tedeschi politici o criminali, polacchi per la conoscenza del tedesco, interpreti, detenuti con statuto privilegiato, esecutori volenterosi dell’organizzazione distruttiva del campo. Sotto la sorveglianza distaccata delle SS, che quell’umanità vogliono non umana, e il disprezzo e gli abusi dei civili tedeschi in fabbrica. Molti gli italiani, senza nome, pestati, sanguinanti, caduti – una delle ultime scene è di uno “studente di Bologna”, che la SS seleziona senza ragione per assassinarlo, durante l’ultimo trasferimento.
L’ultimo trasferimento, a piedi, su trattore, in treno, da Gandersheim, presso Goslar, a Halle, Dresda, Praga, Dachau (Monaco di Baviera), è un viaggio follemente ben organizzato. A  Nord, all’Est e a Sud, per andare verso l’Ovest. Prima del quale deboli e ammalati vengono uccisi, in piccolo gruppi e singolarmente – uno dei tanti trasferimenti, ora si sa, per cancellare la vergogna dei lager, nel quadro del tentativo di Himmler di farsi controparte credibile, lui e le stesse SS, degli Alleati nella sconfitta. A Praga, dove non si parla tedesco, e il tedesco di guardia “deve stare attento”, l’unico segno di umanità delle quasi quattrocento dense pagine: una donna alla stazione regala tre pacchetti di pane “e qualche sigaretta”.   
Benché scontato, il racconto mantiene però la carica che lo impose all’uscita, nel 1947: una sorta di disperata vitalità. Riflessa nell’ossessività: la lunga narrazione è il dipanarsi di un filo sottile di resistenza attraverso le stesse ripetute quotidiane aggressioni, tra personaggi alla fine di nessuno spessore, ma schierati in una sorda battaglia per l’“umanità”. Non per la sopravvivenza, o meglio per la sopravvivenza ma non individuale, personale: “Le SS che ci confondono non riusciranno mai a fare in modo che noi ci si confonda” (104);“Più si è negati dalle SS come uomini, più si accrescono le possibilità di affermarsi come tali” (114). Più di tutto pesa, e suscita odio, l’odio dei civili. Ma la “filosofia” umanitaria è indelebile (256-8): “Le SS non possono cambiare la nostra specie… Noi restiamo uomini, finiremo come uomini… Proprio perché siamo uomini come loro,  le SS in definitiva saranno impotenti davanti a noi”.
Fu il secondo contributo di conoscenza dei lager, nel 1947, dopo quello dello stesso 1945 di David Rousset, “L’universo concentrazionario”. Entrambi sui campi di lavoro, prima che emergesse la realtà dei campi di sterminio. Con Primo Levi, che pubblicava nello stesso 1947 il racconto della sua vicenda, “Se questo è un uomo”, ma nell’indifferenza, malgrado una buona recensione di Calvino – ma rifiutato dallo stesso editore di Calvino, Einaudi, a opera di Pavese e Natalia Ginzburg; altri racconti della persecuzione degli ebrei, già nel 1945, e poi nel 1946 e nello stesso 1947, erano caduti in Italia nella disattenzione. E con “I dari di Anna Frank”, pubblicati in Olanda sempre nel 1947.
Antelme, marito allora di Margherite Duras, membro di un gruppo di Resistenza organizzato da Mitterrand, era stato preso a Parigi per una delazione nel 1944. Era stato salvato in extremis a Dachau, confinato al lazzaretto dei sospetti di tifo, cioè dei moribondi, da Jean Mascolo, che era divenuto l’amante di Marguerite Duras, e dallo stesso Mitterrand. Il ritrovamento a Dachau e il ritorno sono raccontati da Duras ne “Il dolore”. Che termina con le immagini di Antelme, Duras e Gina Vittorini sul mare a Bocca d Magra. Vittorini amò molto questa testimonianza, la fece tradurre nel 1954 per i “Gettoni” – la traduzione, toscaneggiante, è della stessa Ginetta – e la presentò, scrive Cavaglion, con “uno dei suoi migliori risvolti”.
Lo stesso tema, nota Cavaglion, aveva appassionato Vittorini nella Resistenza, in “Uomini e no”, la riflessione del 1944. Si rifletteva, nella temperie politica del dopoguerra, molto schierata, molto divisiva, con occhio perspicace sulla storia, sul farsi dell’umanità. Con un occhio si direbbe ottimista, in rispetto all’obbrobrio ancora vivo con cui si confrontava, ma comunque vigile – il Millennio è di colpo un altro mondo?
Robert Antelme, La specie umana, Einaudi, pp. XIX + 343 € 14

mercoledì 27 marzo 2019

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (391)

Giuseppe Leuzzi
Si può aver vissuto vicino Reggio, leggendo uno e due giornali al giorno, la settimana in cui si prepara e si inaugura al Museo Archeologico della città la mostra “Dodonaios. L’oracolo di Zeus e la Magna Grecia”, sull’oracolo di Dodona e i legami che intratteneva con la Magna Grecia, e non saperne niente. Mostra importante, anche visivamente, che aiuta a rischiarare un lato finora ignoto, i culti misterici – di cui potrebbe essere la continuazione il culto mariano a Polsi, per molteplici punti di contatto (v. su questo sito il nostro “Polsi, il luogo di culto con più continuità”, 30 settembre 2007:

Non che la”Gazzetta del Sud” e il “Giornale di Calabria” abbiano molto altro da scrivere. Se non che il consigliere comunale X si dissocia dal sindaco Y, il vescovo esorta i fedeli,  il prefetto commissaria comuni, ospedali, scuole e quant’altro gli viene a tiro. Con i mattinali dei Carabinieri, anche se vuoti. Una mascheratura, o il vuoto?

Il mare di Omero
Si fa molto la questione del mare in Omero. Partendo dal mare “colore del vino” che in qualche traduzione (e in Sciascia) fa impressione – per il “colore” schiumoso. Ma il mare è in Omeroa anche bianchiccio: “anedu polies alòs, sorse dal mare binchiccio”. E naturalmente blu: “l’onda blu”, l’onda bku scuro”.
Omero si divertiva, licenza poetica si sarebbe detto un tempo. Ma è pure vero che il mare cambia colore: a volte è bianco, o verde, anche a occhio nudo, specie lo Jonio

Ma perché Omero si legherebbe al Sud, al Mediterraneo? Non mancano quelli che lo fanno nordico, baltico, compreso qualche italiano - piace riscrivere la storia. Perché Omero è mediterraneo, anche nella “Iliade”: è solare. Anche nella tempesta. Mediterraneo è solare? Evidentemente.
  
Il mare è terragno al Sud
Il mare è sfondo e tema ricorrente in letteratura al Sud. A opera di scrittori poco marinari, piuttosto anzi terragni. Specialmente i napoletani – con l’eccezione di La Capria, di “Ferito a morte” -  e i calabresi – senza eccezioni. Alvaro ne parla molto ma non vi si è mai immerso. Repaci pure, benché avesse casa a Palmi tra cielo a mare, e avesse posto il centro dei suoi interessi in un’altra città di mare, Viareggio.
I siciliani invece, a parte l’azzardo di Verga coi “Malavoglia”, per fare il realismo di terra e di mare, se ne tengono lontani, non lo vedono nemmeno: Capuana, De Roberto, Martoglio, Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa (i suoi cugini Piccolo, che pure avevano vista sul mare, si occupavano del giardino posteriore, il cimitero dei cani), Sciascia, Bufalino. Camilleri fa eccezione, ma giusto per il personaggio Montalbano e per “Vigata”, che gli conviene assimilare alla nativa e marittima Porto Empedocle – ma non che il mare ci sia molto nei Montalbano, a parte le nuotate igieniche, e negli ultimi film il ristorante.

La nostalgia non regge al ritorno
Il ritorno, nostos, è tipico dell’emigrato. Ma non è mai felice – forse è impossibile che lo sia: la nostalgia non si concilia con le variazioni intervenute nell’emigrato e nel luogo di origine, non necessariamente convergenti, né in armonia col passato. E del resto se uno emigra, per quanto obbligato, un motivo ci dev’essere, un contenzioso.
Il film del ritorno, “L’uomo tranquillo” di John Ford, malgrado il lieto fine allora (1952) necessario, è un film di incomprensioni. L’americano emigrato che ritorna nostalgico al paese in Irlanda non capisce la donna di cui s’innamora, e da questa, benché innamorata, non è capito, anzi è insolentito.  Estraneo anche al tema principale del film, il contenzioso necessariamente aspro tra fratello e sorella – la sua innamorata – per questioni di soldi (terreni, dote).
Il romanzo del ritorno, l’“Odissea”, dice poco del ritorno vero e proprio, giusto la parte conclusiva. Il riconoscimento (agnizione), che pure era in antico un canone narrativo di grande popolarità e uso, liquida in breve. Dopo una lungo apprendistato al rientro, di controesami, testimonianze, prove.  

La Calabria tropicale
In un racconto di Saverio Strati, sui suoi anni giovanili attorno al 1940, c’erano piantagioni di banane nella locride – un uomo rispettato che prende lo stesso trenino degli studenti ha piantagioni di banane. Poi abbandonate? Evidentemente sì, nella locride non ci sono più nemmeno palme da decorazione – poche sono sopravvissute al punteruolo rosso. Non concorrevano probabilmente con quelle della Somalia, che l’Italia s’impegnò a importare a titolo di riparazioni coloniali. E poi col monopolio Chiquita. Era stato Mussolini a volere le banane in Somalia, a due riprese. Per ovviare alla crisi del cotone (i rezzi si dimezzarono col crac del 1929), fece convertire le colture nel Giuba in bananeti. E poiché le banan somale non eano competitivie, crero un ammasso redditizio (per i produttori), la Regia azienda monopolio banane – il monopolio satà tenuto in vita nel dopoguerra come Azienda monopolio banane, fino allo “Scandalo delle banane” del 1963 –i concessionari, ben 124 in tutta Italia, la cosa era redditizia, sapevano dalla stessa azienda quali canoni dovevano proporre all’asta (il processo si concluse con pene veniali, a opera di Andreotti, da ministro della Difesa dei governi Moro I e II).
Allo stesso modo, negli stessi luoghi, si è abbandonato il gelsomino: l’essenza era stata sintetizzata  chimicamente, la manodopera costava, le raccoglitrici sono già materia di antropologia – “I fimmini di ghiuri” è una ricerca di Caterina Morano al corso di antropologia che Patrizia Giancotti ha avvito all’Accademia di Belle Arti di Reggio. Per lungi anni la tentazione fu forte di abbandonare anche il bergamotto. E si è abbandonata a Reggio Nord, che era un giardino di agrumi profumato, e ora è un agglomerato di palafitte su impiantiti polverosi, l’ovale calabrese o “belladonna”, un’arancia succosa tardiva,  aprile-maggio, e quindi pregiata. Nonché l‘anona, “chirimoya” in Perù, dove è apprezzatissima, per sapore e qualità organolettiche.
Rossana Panzera tenta ora con i familiari di resuscitare l’una e l’altra coltura. Per ora un impegno più che un progetto – i mercati sono lontani, da Roma in su. Con Coldiretti forse ce la fanno, che risolve la promozione, se non la distribuzione.
La Calabria è una terra feconda di varietà, dai vitigni alle erbe, mediche e commestibili, che nel mercato attuale, che le privilegia, potrebbero fare colture ricchissime.

Perché modificare i napoletani?
“Non sarà ingiuriando i Napoletani che li si modificherà… Niente stato d’assedio, niente mezzi da governi assoluti. Tutti sanno governare con lo stato d’assedio. Io governerò con la libertà, e dimostrerò quello che possono fare di quelle belle contrade dieci anni di libertà. Tra vent’anni saranno le province più ricche dell’Italia. No, niente stato d’assedio, ve lo raccomando”. Si esprimeva così, in francese, in punto di morte, delirando?, il conte di Cavour all’indomani dell’unificazione. Così perlomeno ne fa fede molti anni dopo Ernesto Artom, “Il conte di Cavour e la Questione Napoletana”, nel tardo 1901 – la questione meridionale era ancora la questione napoletana. Massimo L. Salvadori, che cita il conte nella versione Artom in esergo a “Il mito del buongoverno”, 1952, così la commenta: “I meridionalisti liberali il testamento spirituale del Cavour lo fecero proprio, e ripeterono gli stessi ammonimenti che sono in esso al mondo delal conservazione italiana. Ma mise fine alla loro protesta il lungo stato d’assedio che la borghesia italiana impose al paese”. E con questo intende il fascismo. Ma l’assedio è poi finito? Un Sud indipendente, per quanto mal governato, non potrebbe stare così male.  

leuzzi@antiit.eu

Corna assassine

Una storia di corna, qui intrecciate. Del filone “di costume” – de moeurs - che Camilleri mostra di prediligere, accanto ai Montalbano e ai romanzi storici, a giudicare dalla souplesse con cui ne sceneggia il racconto. Aggiornata: con poco letto e molta digitazione. E dialogata, di corsa, irresistibile per il lettore. Qui per di più intinta di suspense - anche se prevedibile  (ma la prevedibilità non è parte del gioco del giallo?). È la combinazione ideale? Il giallo nasce in Italia, aveva insegnato qualche tempo fa Camilleri, a opera di commediografi.
Il problema è, per chi è vittima ordinaria dell’Aurelia, che al km 123 non c’è la scarpata dove Camilleri fa morire i suoi. Siamo nell’oasi di Burano, che più piatta non si può. O la scarpata è sorniona (vendicativa) allusione alla finitima Ultima Spiaggia della (inesistente) Marina di Capalbio (dov’è il buen retiro di Camilleri in Maremma?), che tanti lutti induce ai viandanti.
Con un saggio dello stesso Camilleri sul giallo, estratto da “Come la penso”.- quello dove si spiega che il genere nasce in Italia dialogato. Saggio istruttivo, molto, e anch’esso piacevole.
Andrea Camilleri, Km 123, Il Giallo Mondadori, pp. 154 € 15

martedì 26 marzo 2019

Fusione Deutsche-Commerzbank a giugno


La fusione fra le due maggiori banche tedesche, Deutsche e Commerzbank, entrambe in difficoltà, si farà a giugno. Tutto è stato deciso, anche il timing.
La fusione va preceduta da una ricapitalizzazione. Questa, nel caso di Commerzbank, implicherebbe un “aiuto di Stato”, in quanto lo Stato ne è azionista di riferimento – dopo due interventi di salvataggio ne è azionista al 15 per cento. Entrambe le condizioni, l’obbligo di ricapitalizzazione, senza l’aiuto di Stato, sono state capisaldi della direzione Concorrenza di Bruxelles – per esempio nei riguardi di Monte dei Paschi, e delle banche italiane minori, fatte per questo fallire. E la commissaria della DgCom europea, Vestager, non se le può rimangiare. Non può nemmeno applicarle, però, perché è al suo posto su proposta di Berlino, ed è, con la Commissione Juncker, in scadenza di mandato.
La fusione si farà a giugno nel passaggio dalla Commissione Juncker alla nuova, dopo il voto europeo di fine maggio. L’aumento di capitale si farà, anche perché lo vogliono il mercato e le regole contabili, non solo la (vecchia) direzione Concorrenza. Quanto a vedere se è aiuto di Stato o meno questo rientrerà nel negoziato per la formazione della nuova Commissione.
Un esito positivo, per il governo tedesco nella fusione Commerbank-Deutsche aprirebbe la strada al Monte dei Paschi nel 2021, quando il Tesoro dovrebbe uscire dalla banca. Su questo conta anche Berlino per mutare gli orientamenti della direzione Concorrenza, se non della stesa commissaria Vestager.

Cronache dell’altro mondo 29


Si elimina in America il dolore con analgesici a base di oppio. Legali, anzi raccomandati dalla Food and Drug Administration, secondo la quale non provocano dipendenza. Diventando così tossicodipendenti, in massa.
Ellroy non ha mai letto Tolstòj, dice a “La lettura”. Né Dostoevskij. Ma si proclama superiore. All’ignoto? Però è vero che l’industria editoriale americana produce ottimi best-seller.
Si sposano gli americani, e le americane, a cinquant’anni.
Si conclude un’inchiesta di due anni sui legami di Trump con Putin senza un nulla di fatto. Ma i media non ci credono, non credono che l’inflessibile procuratore speciale Mueller abbia fatto bene il suo lavoro. Doveva comprovare quanto una ex spia inglese aveva scritto in un libro che poi, invece di pubblicarlo, ha venduto alla Cia. Una “ex” spia? Inglese.
Un americano su dieci muore di alcol.
La contea dove si fabbrica il Jack Daniel’s, il whisky bourbon più diffuso, è dry: non si può bere nei bar e ristoranti, solo a casa, comprando birre e quant’altro fuori contea, e trasportandolo a casa ben chiuso in una confezione anonima, senza marchio, e dentro il bagagliaio, che non si veda.

L’anticlericalismo su Rai 1


C’è una ragione curiosa, tra le tante che possono aver determinato il flop della serie tv “Il nome della rosa” su Rai 1 – gli spettatori dell’ultima puntata ieri si sono quasi dimezzati rispetto a quelli della prima: l’anticlericalismo. L’anticlericalismo vecchia maniera, di monaci e monasteri depravati, sodomiti, sempre vecchia maniera, assassini, corrotti, corruttori, ladri, eccetera. Su Rai 1, che tutto uno si spetterebbe meno che fosse anticlericale.
Lo scarso seguito dell’ambiziosa serie ha probabilmente varie cause. Avrà deluso qualcuno, se c’è ancora, che ha letto il romanzo di Umberto Eco, il cui Medio Evo non è quello tetro e demolitore della serie – l’abbazia di Fossanova come un tetro fortino, un Bernando Gui assassino, eccetera. Più avrà deluso i cultori del genere, l’ex gotico, ora – dopo “Il trono di spade” – fantasy, a metà tra horror-splatter e catastrofico. Che è una ricetta semplice, ma attorno a una partizione netta tra bene e male. Mentre i fedeli di Rai I, di “Don Matteo”, “Che Dio ci aiuti” e altri programmi edificanti, si saranno trovati spaesati. Di fronte a una serie sceneggiata e programmata per l’eterno Kulturkampf antiromano anglosassone e teutonico – mai una gioia…
Si capisce che Turturro, Guglielmo di Baskerville e co-produttore e co-sceneggiatore, abbia tentato di vivacizzare lo stracco copione facendo lo Sherlock Holmes, brillante e veloce. Ma col passare delle puntate anche lui è sembrato stanco: guardava fuori dall’inquadratura, incerto.
Giacomo Battiato, Il nome della rosa, Rai 1

lunedì 25 marzo 2019

Anche Mps ha diritto ai danni Ue


Possono chiedere i danni anche gli azionisti del Monte dei Paschi? È la strada aperta oggi su “L’Economia” da Falciai, l’imprenditore toscano che da presidente traghettò la banca nel 2016-2017 fuori dall’insolvenza. Mps fu torchiata senza motivo non soltanto dalla Vigilanza della Bce, come si sapeva, ma anche dalla Direzione Concorrenza di Bruxelles, la DcComp che la Corte Europea ha condannato l’altra settimana. Indirettamente, spiega Falciaa, e direttamente.
Indirettamente per il motivo già noto: il no della DcComp all’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi, “strumento italiano, privato, finanziato dal sistema bancario (e non dallo Stato, sottinteso, n.d.r.),” sicuramente ha creato problemi” a tutti. Quanto al Monte dei Paschi, spiega lungamente Falciai, “pur essendo già in un piano di ristrutturazione sotto l’egida Bce e DgComp, ci imposero di sottostare agli stress test.  Fu come far correre la maratona a un convalescente”.
Fu una misura iugulatoria, spiega ancora Falciai. Sulla base di un dato e una considerazione. Mps superò gli stress test, “tranne che nello scenario estremo. Fu obbligata a pubblicare il risultato e ciò ne minò la credibilità. Con una banca tedesca non sarebbe successo” – cioè la banca tedesca non sarebbe stata costretta a pubblicare lo scenario estremo (non furono nemmeno sottoposte a stress test, benché semi-insolventi).

Radio Tirana a Radio 3


La lettura dei giornali a Radio Rai 3 la mattina fino alle 8.45 ha registrato questi giorni una singolare difesa del “povero” senegalese che voleva bruciare i ragazzi di Crema. Con la tratta degli schiavi, il colonialismo, il razzismo e Salvini: la panoplia delle anime buone, che si vogliono motivate politicamente e anzi giuridicamente. Il fatto non c’entra.
È una curiosa platea, quella di radio Rai 3, ascoltata oggi, nel 2019, con Salvini e Di Maio capi del governo. Sembra radio Tirana di cinquant’anni fa, salda e statica, fuori dai fatti. Anche il linguaggio è stereotipo. Curiosa perché si penserebbe meglio movimentata, contrastata, se non altro per aumentare gli ascolti, alla selezione dei redattori centralinisti. O non telefona più nessuno, solo quelli che si vogliono buoni e bravi?

Ombre - 456

“Battisti in Italia potrebbe rivelare sorprese”, scriveva questo sito due mesi fa,
E non c’è voluto molto: Battisti si confessa colpevole dei quattro omicidi per i quali è all’ergastolo, e di numerosi altri crimini. Considerando il numero e la qualità delle persone in buona fede che ha coinvolto nella sua difesa in Francia, sulla base di un sempre più discutibile “lodo Mitterrand”, c’è da rivalutare la giustizia italiana. O da riscoprire il fondo vigliacco del terrorismo, di chi non combatte a viso aperto.

La solitudine di Kean. All’angolo destro in Italia-Finlandia, fuori ruolo, e mai cercato, da nessuno. Non un passaggio, nemmeno per caso. Eccetto quello che ha messo in porta, trovandosi per caso nel ruolo suo. Complimentato, benché debuttante e giovanissimo, e autore di un gol decisivo, solo da un paio di compagni della Juventus, la sua squadra – non da Bonucci. Davvero l’Italia deve fare molta strada per l’integrazione dell’“uomo nero”. A fronte di Francia, Belgio, Germania, Inghilterra, Svezia, della stessa destrorsa Olanda, che hanno squadre multietniche.

L’architetto Berdini, il primo assessore di Virginia Raggi all’Urbanistica, riprende fiato e finalmente spiega che fu licenziato perché si opponeva alla variante al Piano Regolatore a favore dei costruttori del progetto “stadio Roma”, un progetto di molti milioni di mc. Variante che la giunta 5 Stelle vota oggi, malgrado gli arresti. Sotto ricatto?

Si accredita sempre più l’immagine di Raggi Vispa Teresa. Benché sia una con un pelo sullo stomaco all’evidenza molto alto. Con gli sgambetti alle primarie. Una che ha messo a posto tipe toste come Lombardi e Paola Taverna. E ben diedi o dodici assessori. E non un solo collaboratore che non sia finito in manette.
Ma, poi, Vispa Teresa, cioè cretina?

Ora la sindaca tira fuori dal cilindro l’avvocato Sammarco, nel cui studio è stata tirocinante. Un altro avvocato d’affari, dopo Lanzalone e Mezzacapo. Un po’ più prestigioso. Ma in attesa di quello “vero”, l’intermediario dell’affare stadio?

Perfino il bel giovane viso pulito Frongia, l’ultimo stretto collaboratore di Virginia Raggi, è noto nell’ambiente – lo sport capitolino non professionale di cui è l’assessore – per la bulimia.

Grandi lamentele europee per gli accordi tra Italia e Cina. Da parte di Angela Merkel, che è stata in Cina ben undici volte in tredici anni di gverno, con grandi delegazioni. Di Macron, che ci è stato almeno una volta, ma in tenuta regale, come suole, anzi imperiale, annunciando assi privilegiati Parigi-Pechino.


Ma forse non ci sono proteste o allarmi europei per gli accordi italo-cinesi. Sono i media italiani che immiseriscono l’Italia: non ne sanno parlare in altro modo. 
I media sono provinciali, volgari. Oppure no? Certo, stupidi non sono.
E allora: quale è il messaggio, se l’Italia firma accordi con la Cina per due miliardi e mezzo e Macron, che “rimprovera l’Italia” secondo i media, ne firma per quaranta?


Macron? Ce lo mettono sempre tra le palle. Ma chi è Macron, perché è tanto “popolare” in Italia – più che in Francia?

Si sente e si vede infine Steve Bannon, di cui per anni si è solo saputo che è il diavolo. Invece è un consulente politico, di uomini e partiti. Occhio malandrino, ma preciso nelle a
nalisi e tagliente nelle proposte. Su Trump, il rapporto Mueller, Salvini e Di Maio, Macron, “uno del 24 per cento”, i gilets jaunes. Sull’accordo con la Cina: appaltatori italiani per le opere finanziate da Pechino. Sul mercato schiavista del lavoro immigrato. Sulla Russia: “Ha un’economia grande quanto quella dello stato di New York, corrotta e inefficiente, sopravvive col gas e il petrolio”.

Bannon, una primizia per l’Italia, compare su Rai 2 all’una di notte, in una trasmissione intitolata “Povera Patria”. Come dire per nessuno – si fa informazione ma non diciamolo, giusto per gli atti.

Confrontano Bannon due giornalisti palesemente in difficoltà, anche se uno è Cazzullo, la colonna del “Corriere della sera” – le uniche domande-interferenze a tono, per tempestività, misura e qualità, sono di Bruschi, la conduttrice, forse perché ha studiato a Londra. Il conservatore professo Bannon sa tutto pure della sinistra: si può classificarla negativamente come Realpolitik, ma la cultura politica non vuole pregiudizi, anzitutto bisogna sapere le cose.

Meglio di tutti Bannon si confronta col caso che lo precede sullo schermo, quello della nave “Mare Jonio” addetta al trasbordo degli immigrati dalla Libia. Un quarto d’ora della solita profusione di buona volontà ma confusa, tra aiuto umanitario, codice della navigazione e disobbedienza civile.

Di Ousseinou Sy tutti a congratularsi, giudici e inquirenti, che non è legato al fondamentalismo islamico, che è un lupo solitario. Non è peggio? Uno che voleva bruciare 51 ragazzi, e due-tre altre persone.

Sy è nazionalizzato italiano, ha avuto una moglie italiana, che ha dovuto abbandonarlo, ed era autista di una grande azienda di trasporto pubblico in Lombardia e Emilia, da 150 milioni di fatturato, mille dipendenti. Aveva un posto per il quale non manca la coda, anche tra gli sfaccendati bamboccioni. E una casa tutta per sé. In Italia si direbbe un privilegiato.

Sy era un autista di fiducia, non gli chiedevano nemmeno i documenti. Forse pensandolo, nella grande empatia lombardo-romagnola, razzista ma buona, il “bovero africano”, innocente perché appena sceso dall’albero.   

Ora si farà valere per Sy l’attenuante dello stato mentale, dello shock se non della seminfermità. Tutti quando commettono un delitto, se non sono killer di professione, non sono se stessi.

Più di tutto resta impressa, di “Max Fox”, l’ultima opera dello storico Luzzatto, la “lettera aperta” della madre del mariuolo Max, che è stata Pci e sindacalista, e una sola spiegazione ha delle imprese del figlio: Berlusconi. È Berlusconi che ha portato il figlio alla truffa. Poteva essere la cleptomania – ha trafugato ben tremila libri dalle biblioteche, di cui 2.500 da quella da lui diretta. O le cattive compagnie. O chissà che. No, la colpa è di Berlusconi. Si capisce che la sinistra sia finita male. Ma che sinistra era?

Platini , squalificato dalla Fifa con accuse infamanti, che i tribunali in Svizzera hanno giudicato infondate, spiega a Guido De Carolis a lungo sul “Corriere della sera”, non contraddetto, che tutto è stato fatto per ridurre il calcio a un business: un Mondiale a 48 nazionali (!), un Mondiale per club e una Champions per i club più ricchi. È quello che si vede, in effetti.

Il ministro 5 Stelle Toninelli si fa fotografare su un’auto elettrica. Mentre confida a una giornalista amica: “Per mia moglie abbiamo appena comprati un Suv diesel”. Il diesel che i 5 Stelle anatemizzano. Ma con l’indennità generosa del Parlamento non c’è problema, anche due Suv. Il problema è: uno come Toninelli ministro?

Non si fanno sbarchi, tuona Salvini. Ma, dice il sindaco di Lampedusa, nel 2018 ne abbiamo avuti trecento, per oltre tremila persone. Certo la Lega è proprio un’altra, se fa pure ammuìna.

Si privatizza e si riducono le società pubbliche di comuni, province e regioni, ma negli ultimi dieci ani “il numero delle società partecipate dalle Amministrazioni pubbliche è salito da 6.470 a 9.184”, Ricardo Gallo, “L’Economia”. La moltiplicazione dei posti e dei favori, a un costo più che raddoppiato.

Cosa c’è di nuovo rispetto a questo vecchio costume? “Lega e 5 Stelle hanno occupato i consigli d’amministrazione perfino delle società controllata della Cassa Depositi e Prestiti” (id.), benché la Corte costituzionale le abbia dichiarate di diritto privato.