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venerdì 26 ottobre 2007

Bertone diffida, cattolici in libertà

Il centralismo democratico, la marginalizzazione dei cattolici, il fondamento laicista: il Vaticano diffida del Pd di Veltroni, che domani potrebbe nascere mezzo zoppo. Sulla fiscalità e la famiglia il Vaticano è scopertamente all’attacco: il cardinale Bertone ha attaccato “Repubblica” per dare l’allarme ai cattolici. È in questo contesto che Prodi, il cattolico più veltroniano, è improvvisamente indebolito, mentre Mastella, malgrado la sovraesposizione giudiziaria, e Dini puntano a elezioni a marzo. Sicuri che il voto della Margherita è in libera uscita, sopratutto al Sud.
La platea di tremila nani e ballerine che domani incoronerà Veltroni, dopo la sfilate, i pranzi e le cene con le belle di Hollywood nella sua Festa del cinema, non è fatta per intenerire Bertone, che ci vede il coronamento di un progetto ancora togliattiano e perfino cominformista: il Candidato che la base sanziona, con entusiasmo. Il freddo del Vaticano non era ignoto a Veltroni, quale che sia il grado di centralismo democratico del suo progetto: il candidato voleva un bilanciamento 2 a 1 fra Ds e Margherita nelle regioni. Non è stato possibile, le primarie hanno visto l'afflusso soprattutto dei diessini, organizzato peraltro alla vecchia maniera. E ora sarà difficile bilanciare i due gruppi nell'esecutivo del Pd.

Salotto Santoro dei belli-e-buoni

De Magistris è figlio, nipote e bisnipote di magistrati. Ingroia e Forleo non hanno pedigree, e quindi l’ascendenza si tace. Il cattivo Saladino è invece figlio, nipote e fratello di macellai, e questo si dice. La nuova audience di Santoro, così come la base elettorale del Pd, sono i Parioli e la Balduina, quartieri molto borghesi, e questo si vede nella sua trasmissione. Con una Borromeo Agnelli-proxy improbabile giornalista d’assalto. Lusinghiere anche le inquadrature dei belli-e-buoni, a differenza del grasso e feroce Saldino, che rimane indistinto. Speciali la resa di Caterina Merante e il profilo di Tursi Prato, già in affari con Saladino e ora suoi accusatori.
Il perbenismo è la chiave del giornalismo di denuncia Rai. Per il resto impreciso - chi è Tursi Prato? e la Merante, che è comare di Saladino? - e scandalistico: Forleo, che ha denunciato la Polizia e alcuni magistrati per intimidazioni, doveva dire a proposito di che, se non chi. Debole pure la costruzione della finta sorpresa, come se Santoro reputasse i suoi ascoltatori incapaci di “leggere” la sua sceneggiatura. Per non dire dell'arcinemico di De Magistris, il suo superiore Mariano Lombardi. Su Lombardi il salottino manca perfino la sorpresa: De Magistris vuole ora Prodi massone, a San Marino, quindici anni fa Lombardi, Pm, voleva Sgarbi, la Maiolo e Giacomo Mancini mafiosi - i primi due perché, non calabresi, si erano fatti eleggere in Calabria.
Ruotolo e Santoro s’impappinano su Tursi Prato, solo ripetono qua e là che è un socialista, ma la sua storia è nota. Eccola qua. Tursi Prato è l’unico condannato di un processo partito con 160 imputati. Nel 1980 era un trentenne di grandi idee nel partito Socialista, legato a Giacomo Mancini. Divenne segretario provinciale del Psi a Cosenza, e quindi presidente dell’Usl 9 della stessa città. Accusato di concussione in un appalto della Usl, lascia il Psi e passa al Psdi. Col quale diventa consigliere regionale, e per il quale promuove nel 1993 con l’ex Pci la candidatura di Giacomo Mancini a sindaco. È il suo ultimo successo. Con Mancini sindaco Cosenza cambia pelle, e Tursi Prato riprende potere. Poi verrà il processo, e nel 2006 una candidatura senza successo sotto l’emblema del Psdi. Interviene la condanna a otto anni, e l’arresto latitante in una clinica. L’11 ottobre si dichiara pentito, invia a De Magistris un memoriale in cui fa i nomi di Saladino, Mastella e Prodi, e lo rende pubblico. Santoro ha anche le trascrizioni dell’interrogatorio di Tursi Prato.

giovedì 25 ottobre 2007

Secondi pensieri

zeulig

Anima – Si penserebbe un bene universale, visto che non costa ed è prezioso. Perché tanti ne fanno a meno?

Comunismo – Nessun comunista ha mai perso una guerra: Leinin, Stalin, Mao, Kim Il Sung, Ho Chi Min, Castro. Eccetto quella contro il comunismo.

Confessione - È una mania. Il parlare di sé a se stessi c’è da epoca antica. Con sollievo, evidentemente, come una buona seduta al gabinetto di decenza. Ma parlarne in pubblico, con voluttà, magari fustigandosi, è una novità. È l’essere borghese, l’autoaffermazione. Anche se in forme all’apparenza derisorie. San t’Ignazio cominciò parlandone con Dio, è nel suo stile – sant’Agostino, che l’ha anticipato, scriveva in lode di Dio, seppure in forma di lavacro, blando, a fini edificanti. Ma questa sega interminabile è ora invadente, a scopo terapeutico per rendersi inoppugnabile, specie tra le donne, che al solito eccedono.
L’autobiografia è autorappresentazione, un teatrino, autofinzione. Con tanti trucchi: l’invenzione della mamma, l’invenzione del bambino, l’amore a due – “il bambino è il padre dell’uomo” è Woodsworth, 1850, piena epoca borghese. La letteratura è trucco, ma quella della verità è trucco da baro, non da poeta.

L’io dev’essere una conquista, se i bambini ci arrivano dopo la terza persona. Ma è una disgrazia. È il Concilio Lateranense, 1252, la confessione obbligatoria. Da cui fuggiremmo se Freud non ce l’avesse imposta, terapeuta taumaturgo – i santi un solo vero miracolo fanno, soggiogare le coscienze, anche a fin di bene.
Prendere per buono il flusso di coscienza, come se non fosse una tecnica espressiva, e anche molto atteggiata, ma la verità, il modo di emergere della verità. Quando si sa, lo sa un bambino, chiunque ha scritto due righe lo sa, che l’associazione libera va in mille direzioni, comprese quelle in cui non va. Ogni memoria e ogni espressione essendo un sistema di equazioni a più variabili, nessuna delle quali è risolutiva, nemmeno per caso – per caso nella migliore delle ipotesi, perché più spesso la libertà d’associazione è determinata dalle situazioni, dagli interlocutori, dagli umori, dalle stesse regole del gioco. Le coscienze, per quanto libere, automatiche,m fluenti, sono c asuali e solo per se stesse significative. Come una barzelletta, un’ottava rima, un coro allo stadio. In quanto sintomo sono parziali e più volentieri fuorvianti. Ma si vede che una buona evacuazione è gratificazione grande, se Freud è santo popolare, amto.

Dio – È uno che si pone dei limiti. In quanto regolatore – il Dio dela Legge – e uomo di mondo.

Divinità – Esiste. Sia o no impersonata in un soggetto.

Filosofare - È trovare la parola giusta, una dopo l’altra. È una realtà, la realtà delle parole, si sa, che sono complicate pur facendo il pensiero. Nulla a che vedere con la verità, anche questo si sa, se non delle parole. Ma le cose sono più vere del pensiero.

Giustizia - È di gruppo: clan, tribù, nazione. E all’interno della nazione di gruppo sociale. Roma ha avuto fino a tardi giustizia separate, leggi, magistrature, tribunali, per i nobili e per la plebe.
La giustizia che libera dal peccato è petizione religiosa, soprannaturale quindi. È applicata alla politica nell’ambito dell’etica, dell’agire umano regolato. Ed è certo lo scopo della politica, che ne cura le istituzioni o presupposti (leggi, magistrati, tribunali, procedure, pene). Il giudice è un tecnico della giustizia.

Guareschi – Era detto fascista, e lo sarà stato, se ne compiaceva. Ma nessuno più di lui ha fatto per il Pci, nemmeno Togliatti. Per i comunisti violenti, quelli della Bassa. La serie dei “Don Camillo”, che si ripete immarcescibile in tv, così campanilistica, arguta, gozzaniana, piena di buoni sentimenti, è quelle che ha indelebilmente reso popolare, buon italiano, buon compagno, ogni comunista trinariciuto. Dunque, ci vuole un fascista per fare un buon comnista.

Loyola - È il santo delle superbia, violenta. Il male può fare il bene.

Manzoni – Uno che non ha amato le mogli, e neppure le figlie, e forse odiava la madre – la disprezzava. Come Tolstòj, che però era appassionato, non contava le virgole.

Nulla – Il vuoto è molto più che il vuoto: un universo senza significato è pieno di significati.
Si può irridere, ma non si sfugge al senso delle cose, Dio è grande. Si può anche credere al nulla, lo psicopatico fermamente ci crede, è nichilista felice, il nulla è la sua realtà – senza la fatica di raziocinare: questa filosofia ultimativa e risolutiva è sempre e solo Epimenide cretese.

Morte – È l’ultima a morire.

Religione - È più vera, malgrado le chiese e i dogmi, di qualsiasi altra scienza umana o passione.

Stupidità - È imbattibile.

Uguaglianza - È l’ansia della complessa varietà del mondo ad alimentare l’utopia dell’uguaglianza. A immaginarsi – Engels – che lo Stato, la politica, il potere nelle sue varie forme siano superflui ed eliminabili. Ma la varietà è il bello del mondo. Si governa e non si sradica: il livellamento è una forma durissima di disuguaglianza.

zeulig@gmail.com

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (4)

Giuseppe Leuzzi 
Milano. 
La capitale morale d’Italia ha espresso e imposto Bossi, Di Pietro e Berlusconi. Con la questione morale. Mentre si prendeva tutte le banche e tutte le industrie pubbliche, a prezzo vile. 

Milano sa vendere ma non creare. Anche la moda: è milanese per il marketing. 

Milano capitale dell’editoria non crea gli autori, Calvino, Gadda, Sciascia, Pasolini, nemmeno quelli che più vendono come Camilleri o Carofiglio. Camilleri ha dovuto farsi Camilleri, con un trentennio di fatica, e poi Milano se l’è preso, per venderlo meglio. Fino al Manzoni, altri tempi, erano violenti anche i milanesi, rozzi, arretrati. Dopo, all’incirca nel 1860, un solo cattivo subentra nelle letteratura italiana, quella meridionale compresa: il Sud. Solo il Sud è da allora rozzo, violento, avido, corrotto. Bisogna pagare a Roma, e anche in Toscana, per avere l’allaccio di tutto, l’acqua, la luce, il gas, il telefono, se se ne ha bisogno, ora, non fra un anno. Come a Reggio Calabria. Ma a Roma non si dice, figurarsi in Toscana. Le murene e le anguille migliori venivano dal mare tra Reggio e Messina. Così si legge nel “Logistoricon” e “lo dice con assoluta certezza Orchestrato di Gela”: Lia Del Corno, “A tavola con Omero”, p.48. La Sicilia è uno dei posti più gradevoli dove abitare, in Italia e quindi al mondo. Per la natura, la storia, le arti, i sapori, i colori. Per la capacità artigiana, il gusto urbanistico, lo spirito rapido. Tutta la Sicilia. Ma con qualsiasi siciliano si parli, in Sicilia e fuori, da Sciascia in giù, la Sicilia è sporca, è corrotta, è mafiosa, è ladra. Tutta la Sicilia. Magari con le assurde distinzioni che qualche bello spirito s’è inventato – sembra roba di caserma – tra mafiosi buoni vent’anni fa e cattivi oggi. Tra i grandi nobili, magari depravati, del Sei-Setecento, e anche dell’Ottocento, e quelli debosciati di oggi. Tra i democristiani onesti di dieci, venti e trent’anni fa e quelli corrotti di oggi. Il giudizio è più aspro delle persone più condannabili. Tomasi, che ha stabilito il criterio della demolizione universale, è uno che non ha saputo governare una casa, innamorare una donna, coltivare un amico, solo a suo agio coi tre cugini Piccolo, altrettanto misantropi – lo snobismo è misantropia, feroce anche. Anche Sciascia ha vissuto la Sicilia come un incubo, lui che pure aveva la grande passione della ragione. Chi ha vissuto fuori – chi ha saputo cioè costruirsi – è invece sereno: Verga, Pirandello, Brancati, Cuccia, i musicisti. Ippolito Nievo, che sarebbe stato il nostro Stendhal, scomparso anche lui come Majorana giovane sul malefico vapore per Napoli, dice tutto ben prima di Bossi, in un modesto diario che infine si pubblica come “Impressioni di Sicilia”, e nelle lettere alla cugina amata. I Mille, che erano ottocento, sarebbero stati “la seconda edizione aumentata e ingrandita di Pisacane e di Capri”, se i napoletani non se la fossero squagliata, che poi erano austriaci e bavaresi. C’erano i soliti figuranti: “un barone di Marsala a cavallo di un asino”, “un frate guerriero da Castelvetrano a cavallo, col Cristo in una mano e la spada nell’altra”, e due compagnie di picciotti, sì, ma agli ordini dei parrini, due frati di Partitico. Nessuna ribellione, in nessun posto. “I palermitani sono occupatissimi a ripararsi dalle bombe”, e i picciotti “amano la guerra, ma senza pregiudizio dell’integrità personale”. E tutti chiedono posti e pensioni, benché misere: “Principi e principesse, duchi e duchesse a palate agognano venti ducati al mese di salario”. Tomasi è massimo illusionista che fa credere al mondo, siciliani compresi, che l’isola ha fatto l’unità d’Italia, seppure al contrario. L’isola era stremata, e ancora scappa, piegandosi col cappello in mano: “I siciliani sono tutti femmine, hanno la passione del tumulto e della comparsa”, la rivoluzione è opera di “briganti emeriti che fanno la guerra al governo per poterla fare ai proprietari”. Il profittatore Depretis dava ogni sera da mangiare ai nobili a Palazzo Reale: “Il voltafaccia di tutta questa gentaglia mi stomaca, ne pronostico del male, la servilità non dà speranza di eroismo e neppure di costanza”. Al plebiscito i no all’Italia furono venti su 32 mila votanti. 

Sudismi\sadismi. 18 gennaio 2007. 
Si fa una conferenza stampa a Rossano, con gli inquirenti al completo, magistrati, poliziotti, carabinieri, per denunciare il testimone che ha fatto arrestare due assassini. Non per denunciarlo, bisogna essere precisi, ma per proteggerlo. Anzi per farne un eroe. Dandone nome, cognome e coordinate – è parroco a Longobucco, don Antonio Oliverio. Forse per farne un martire. Dell’antimafia. Don Antonio, saputo dalla sorella, testimone oculare, l’identità dei killer di un imprenditore, lo ha fatto sapere agli inquirenti. Che prontamente lo hanno portato alla ribalta. Ma perché Amato denuncia i testimoni? Don Antonio, che sa come vanno le cose, si era cautelato, la confidenza l’ha fatta anonimamente per telefono. Ma gli inquirenti hanno prontamente indagato e l’hanno scoperto. In questo non si può non fare un plauso alle forze dell’ordine: degli assassini non si sono occupati ma del prete subito e con ottimi esiti, non si può dire che non siano bravi inquirenti. Maria Rosaria Oliverio invece, la sorella, sta zitta. È incolpata di reati gravi ma ancora adesso preferisce non collaborare con gli inquirenti. Forse per dare ragione alla sociologia da caserma dell’omertà, della solidarietà del Sud con i violenti e i mafiosi. Oppure avrà pensato: meglio vittima dello Stato che della mafia. Ma in questo sicuramente sbaglia.

lunedì 22 ottobre 2007

La Roma Calcio, un affare da liquidare

Tra gli affari dubbi che ha ereditato con Capitalia-Banca di Roma e da dismettere, Profumo ha già segnalato la Roma As, la squadra di calcio della famiglia Sensi, e la stessa Italpetroli, la società dei depositi costieri con cui Franco Sensi aveva costruito la sua fortuna. Tutte le attività insomma dei Sensi, che l’ex patron di Capitalia aveva salvato quattro anni prendendone in pratica la guida. Ora le partecipazioni di Capitalia, che formalmente si fermano al 49 per cento ma nella sostanza danno alla banca la gestione, devono essere dismesse. Manifestazioni d’interesse sono state sollecitate a (e da) banche d’affari sia per la Roma calcio che per Italpetroli.

domenica 21 ottobre 2007

"Le mosche d'autunno": tutto, tardi, per Irène

Una memoria familiare, l'ennesima, mette in scena (secondo i biografi Philipponnat e Lienhardt, seppure pudicamente, l'inspiegato suicidio della governante francese, la vice mamma di Irène, nella Nevà, qui la Senna, l'evento più duro della vita della scrittrice. Sullo sfondo, ancora una volta, della superficialità e il feroce egoismo della madre Anna. Ma da eventi noti, e perfino triti, piccoli eventi familiari, Irène Némirovsky riesce a estrarre racconti densi, magnetici. Fin dall'esordio: "Come le mosche d’autunno" è la sua prima novella pubblicata, nel 1924, a ventun anni, molto abbreviata, sul “Matin”, di cui Colette dirigeva la sezione letteraria - poi ripresa, nella sua attuale redazione, prima dell’edizione commerciale, in un’edizione di lusso per i sottoscrittori dell’editore Simon Kra, le signore di Neuilly e Passy, emigrate malate di nostalgia.
Non manca la grande storia, di cui ogni fase della vita della scrittrice, compreso il suo "ripescaggio" oggi, è del resto emblematico. Vittima dell'antisemitismo russo, e del cosmpolitismo ebraico, poi di Lenin, infine di Hitler, e successivamente della guerra fredda, il destino incredibile d’Irène Némirovsky in nemmeno quarant’anni di vita resta il paradigma più calzante, nella sua assurdità, del Novecento. Il risarcimento si prolunga fino a questo “Come le mosche d’autunno”, che non racconta nulla se non se ne compartisce l’incomunicabile nostalgia, e anche questo, il “dovere della memoria”, è forse un ultimo guizzo di Novecento.
Ma è da dire che i suoi libri finiscono nel 1947 e riprendono sessant’anni dopo: il disgelo è molto più lento in Francia, e in Italia, che all’Est. Con questo racconto Feltrinelli aveva tentato il ripescaggio d’Irène subito, nel 1989, ma non era aria.
Iréne Némirovsky, Come le mosche d’autunno, Adelphi, pp.99, euro 9

Giudici pieni di sé, Mastella più furbo

Mille commenti alla sentenza di Cogne e nessuno che dica l’evidenza: che il giudice ha condannato nel dubbio: “Non è impossibile”, dice la sentenza. Tutto è possibile in effetti, ma ci sono leggi.
L’irresponsabilità e la fascistizzazione della magistratura, sempre autorevole e autoritaria, la cosiddetta autoreferenzialità, è ordinamento perché è mentalità. È il leguleismo, si dice. No, la legge assolve nel dubbio, in questo è chiara. È il protagonismo, le toghe sono e si vogliono eccellenti.
Si finisce così per congratularsi che De Magistris, così superbo, sia stato fregato da Mastella sul suo proprio terreno, dell’indiscrezione giornalistica (l’anticipazione di un avviso di reato che diventa impedimento alla prosecuzione dell’inchiesta). Si dice smart in inglese, è solo furbo in italiano, e si è qui a tifare per chi è più furbo.