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sabato 23 febbraio 2013

Fu Seconda Repubblica sulle ceneri della sinistra

La seconda Repubblica nasceva vent’anni fa sulla distruzione della sinistra politica:
“Ci si può anche congratulare perché Craxi e Martelli e tutti i socialisti sono stati abbattuti senza sangue. Per abbattere Berlinguer ci volle il terrorismo, e perfino il sacrificio di Alo Moro. Tutto merito della Dc, che ha saputo farsi bastare Borrelli, Di Pietro e Davigo (gli altri sono i soliti comunisti che capiscono tardi). E anche di Milano, indefettibile gattopardo: può ora rubare senza limiti.
“La Dc stravince perché è una forza politica di prim’ordine. Decisa, sotto quell’apparenza svagata, dura anzi. E determinata, mentre si mostra attendista. Ma bisogna anche dire che ha tre vantaggi, grossi, senza merito. La vanagloria di Craxi, che pensava di potersi sostituire alla Dc. I vescovi, veri potenti locali (parrocchie, circoli, centri sociali, assistenza, carità). I giudici.
“I giudici sono i veri sanfedisti d’Italia. Furbi: basti il gioco di sponda cui hanno adescato, o obbligato col ricatto, l’ex Pci alla propria distruzione. Abili: hanno messo la sordina alla corruzione Dc (banche, Enel, Irpinia…) con un po’ di Forlani e il suo fido Citaristi, ma niente Andreotti, De Mita, fondazioni bancarie, Rai, Eni, Cnr, l’editore Mediobanca, l’editore De Benedetti.
“Ridurre dieci anni di lavoro sui delitti della Pubblica Amministrazione a una gigantesca campagna contro il Psi è certo un segno di capacità politica. Ma i giudici fanno malinconia. Malinconia più che paura: loro per primi saranno servi, noi potremmo pure disinteressarci della politica, una volta che gli abbiamo pagato lo stipendio”.  

Dossetti, un prete per agnosti

“Un omaggio doveroso e affettuoso”, dice l’ex cardinal di Bologna del suo (ex) parrocchiano, poi sacerdote. È in effetti l’unico, nel centenario della nascita: Dossetti è stato celebrato da Napolitano in Parlamento, ma i suoi amici e gli altri cattolici tutti, eccetto Biffi, lo hanno dimenticato – lo avevano dimenticato in vita, giusto un altro ex comunista era andato a omaggiarlo, Walter Veltroni (mentre rifiutava la genealogia socialista).
Dossetti rappresenta un fondamentalismo che la chiesa ripudia. E che non ha giovato, non giova, alla Dc, al partito neo guelfo. A parte questo, e l’onestà personale, che tra i suoi amici è bene rarissimo, non c’è molto altro da ricordare. Il cardinale Biffi lo ricorda per l’impegno, ma da “storico fazioso” e “teologo autodidatta”, nonché per l’“ecclesiologia politica” – facendo infuriare, curiosamente, gli agnosti e ateisti del Pd.
Giacomo Biffi, Don Giuseppe Dossetti, Cantagalli, pp. 72 € 7,50

venerdì 22 febbraio 2013

Bolaño o la passione inerte, della letteratura

I cinque romanzi di “2666” messi assieme accentuano l’irrealtà: tanto dinamici riga dopo riga, quanto in surplace nell’insieme, e alla fine immemoriali. Uno solo si dice dello scrittore: “Però, che bravo!”.
Gli editori italiani di Bolaño insistono sul fatto che è morto presto e che è un autore cult. Senza più. Lo stesso che si dice, in Italia e anche fuori, di Foster Wallace. Meglio si direbbero apatridi. Anche Murakami. Scrivono di eventi e ambienti che non si sa dove situare poiché si situano dappertutto. Come in Italia fanno Marani e Baricco. E da qualche tempo Umberto Eco, con le innumerevoli pagine vuote, dall’“Isola” a “Baudolino” e “La regina Loana” – ora col “Cimitero di Praga”. Anche quando li localizzano in luoghi precisi, come fa Bolaño.
Si potrebbero dire autori globali, se non fosse derisorio – la globalizzazione non piace. Ma più che altro li caratterizza l’impersonalità: di personaggi anche a lungo e minuziosamente trattati – Bolaño, Foster Wallace, Murakami – e tuttavia freddi. A volte maniaci ma sempre impassibili. Monomaniaci, il loro soggetto-oggetto è la letteratura, ma non si può dire nemmeno un feticcio, è cosa inerte.
Si potrebbero dire autori metafisici, anche se in senso improprio: di passioni e azioni intemporali e illocali, più spesso irrelazionali. O scrittori dei non-luoghi, di città inesistenti come un aeroporto, o l’autostrada, o il centro commerciale. Non alla Ballard, che vi si esercita con rabbia, sempre dal suo buco di Shepperton, censore, crociato, ma da spaesato. Mentre è forse solo una scrittura da scuola di scrittura, brava per essere asettica.
Roberto Bolaño, 2666, Adelphi, pp. 963 € 24.

Il metodo Tiberio della Dc


La dissoluzione della Dc come una rinascita era già tema vent’anni fa:
“La Dc si riconferma, dunque, nel mentre che si dissolve come partito – si dissolve per meglio confermarsi. “La Dc non ha cuore”, diceva Andreatta, e quindi non può morire. Ma è più vero l’altro sottinteso dell’ex ministro: la Dc è spietata, non indietreggia di fronte a nulla quando si tratta di difendere o affermare il suo potere. Oggi su Borrelli & co., attraverso Scalfaro, e sulla questione morale, a danno di ogni altro soggetto politico – eccetto il Pci-Pds, ma per paura o per comodità?
“Martinazzoli si dice un cattolico liberale. Ma gli sturziani sono stati poco presenti nella Dc, eccetto una o due personalità, anzi solo De Gasperi. La Dc è quella di Moro, versione morbida, ma durissima, dell’irruente fondamentalismo di Dossetti e Fanfani. Andreotti ha fatto uccidere Moro, ma è da dubitare che Moro non l’avrebbe fatto con Andreotti. È il metodo di Tiberio: esserci senza esserci, cedevolezza o indecisione apparente, briglie lente, sbadigli, e strattoni improvvisi e decisi nei momenti cruciali. Compromessi come fumo limitati alla facciata, poteri e strategie intoccabili. Nei settori infeudati, banche, Rai, energia, ricerca, e negli equilibri generali”.

giovedì 21 febbraio 2013

Secondi pensieri - 134

zeulig

Complotto - L’idea del complotto può dirsi una forma di gelosia, e la gelosia una forma di delusione, verso se stessi e quindi verso gli altri.

Culto – “Il pericolo di ogni fase tarda del culto è il sovraccarico e la conseguente incomprensibilità” – Nietzsche, “Il servizio divino dei Greci”, p.28. Del culto storico – della Costituzione, per esempio, e della Resistenza a settant’anni dall’8 settembre, come già del Risorgimento. Quello divino non soffre il sovraccarico e anzi se ne pregia. Il problema della storia nasce quando si accomuna (confonde) a Dio.

Dio – Nietzsche lo dichiara morto nell’Ottocento, mentre si sa che ha lasciato il mondo alla creazione . Ci ha tentato, non venne bene, e se ne starà per i fatti suoi.

Non è immutabile, si sa, anche se si dice il contrario. Gesù è figlio di Dio solo dal concilio di Nicea del 325, così lo volle l’imperatore Costantino, giusto per domiciliare il cristianesimo a Roma.

Ipocondria - È il meccanismo scatenante, non recondito, della rivalsa in serie, elicoidale, nella coppia che tanti lutti sta determinando. Quando non importa che l’altro abbia un problema, anzi lo si dice un atto di ostilità, un attentato alla propria felicità, dacché esiste la psicoanalisi che i nodi scioglie e ogni infelicità. E questo è già il problema – l’analisi, come il sesso e il sospetto, non bastano mai, e quindi sono da intendere coma una condanna (si veda la terribile ripetitività dei processi ai templari di Michelet, e del Malleus maleficarum).
La qualità della vita dell’ipocondriaco non è male: ha le sue gioie, le lamentele, le medicine. Fa un inferno per quelli che gli stanno attorno.

Il cittadino Muré, del Club degli Artisti Drammatici nel 1848, uno dei tanti che nella rivoluzione si creavano, Montanari, Vesuviane, Antonini, eccetera, propose di liberare  l’ipocondria con l’aria compressa: “L’aria compressa porterà aria fresca nelle case e gli opifici, colerà il bronzo, polirà il rame, segherà la legna, luciderà gli stivali, rifarà i letti, molirà il caffè e spegnerà le candele: l’aria compressa ci farà per così dire padroni delle stagioni, dandoci a volontà e gratis il calorico e il frigorifico!”

È l’esercizio in confessione, una “mania di riflessione”. Hannah Arendt, a proposito di Rahel Varnhagen, finisce per dire Rousseau”il più grande esempio di mania di riflessione, poiché gli è riuscito di dominare anche il ricordo, di trasformarlo in maniera veramente geniale nel più sicuro meccanismo di protezione dal mondo esterno”. Ben oltre le tattiche del dottor Freud e della freudiana letteratura contemporanea, dai ricordi importuni: “Dalla riflessione e dalla sua hybris nasce la menzogna”, dalla prepotenza cioè, afferma Arendt. E ancora: “Quanto più immaginaria è un’esistenza, o un dolore, tanto più si è avidi di ascoltatori, di conferme”. Ma la confessione “è possibile solo in assoluta solitudine, che nessuno o nessuna forza oggettiva è in grado di rompere”: bisogna essere sfacciati. E: “Non le sensazioni, ma le sensazioni raccontate possono vincere e convincere l’ipocondriaco”, le confessioni sono ipocondria. Ma “sono racconti presto dimenticati, perché in fondo non interessano nessuno”. E a capo. “È condannato alla ripetizione” ciò che non attrae attenzione: “Si ripete perché, anche se accaduto realmente, non ha trovato nella realtà un luogo dove fermarsi”.
È come il sogno che popola l’immaginario ebraico. Che sempre  sogna, l’amante l’amata, il figlio il padre, il padre il suo proprio padre, o una nascita, una morte, un affare, un pranzo. È un altro modo di non dire il fato, l’innominabile Dio.

L’ipocondria è per il fisico Lichtenberg, insigne aforista, “la capacità d’estrarre veleno da ogni cosa”, veleno dolce. È, dal Tramonto di Spengler alla Mimesis di Auerbach, la litania del tramonto. Che dev’essere vera, anche se gli europei siamo vivi e ricchi, i più ricchi del mondo, dopo settant’anni, quasi, di pace, un record, e la maggiore creazione di ricchezza della storia.
La sconfitta è in questa vittoria? O non sarà scaramanzia, un fare le corna preventivo? Il pensieroso Lichtenberg s’innamorò a quarant’anni di Maria Dorothea Stechard, che ne aveva dodici ed era povera, vendeva fiori per strada, la volle “signorina di compagnia” a palazzo a Gottinga, e quando l’infelice coatta dopo quattro anni morì, ne fece durevole oggetto di passione necrofila. La disperazione può nascere dall’ingordigia. Escludendo la cattiveria e ogni altro progetto.

È all’origine di molte idee di complotto. Ingenera il sospetto una certa dose d’ipocondria, in due forme: l’idea costante che gli altri tradiscono e vogliono il nostro male.

Gli adulti bambini, e gli ipocondriaci che si vogliono vecchi a vent’anni, sono cannibali. Sono avidi, delle energie degli altri.

Memoria – È come la coscienza, ogni espressione essendo un sistema di equazioni a più variabili, nessuna delle quali è risolutiva, neppure per caso. L’associazione libera va in mille direzioni, quelle comprese in cui non va.
La memoria, per quanto coltivata e circostanziata, è casuale, e solo per sé stessa significativa – in quanto detta le regole del gioco, e ne è dettata. È operazione parziale e maliziosa, fuorviante.

Orgoglio - “Non esiste delitto di cui non possa immaginarmi autore” non è di Pasolini o altro masochista ma del grande borghese Goethe. Bisogna ristabilire l’orgoglio, come peccato e come arma di punta, la fierezza. Il peccato originale di sant’Agostino è l’“amor sui usque ad contemptum Dei”, che porta al disprezzo di Dio, ma non si può voler bene a chi non si vuol bene, l’amor sui è fatto di dignità. Anche nell’annientamento di sé, come vogliono i Vangeli – nel racconto dell’annientamento, alla Meister Eckhart.

Uguaglianza – “Presuppone la distruzione dell’uomo”, dice Giuseppe Berto, lo scrittore: “L’uguaglianza non esiste”, e intende in natura. Una proposizione che si può intendere reazionaria, di accettazione e difesa dell’esistente, ma non in senso politico: “Non esiste un uomo che sia uguale ad un altro, e il massimo che si può – che si deve – pretendere da un regime è che attenui e possibilmente compensi le disuguaglianze sociali” (“Modesta proposta per prevenire”, p. 66).
Non eccezionale, né originale, ma il problema dell’uguaglianza è che è così semplice.

zeulig@antiit.eu

L’ipotesi tedesca del Giuda salvatore

Giuda non tradì Gesù, se ne sentì tradito. È un’ipotesi tedesca, dice De Quincey, che però la fa propria: “Giuda Iscariota condivise la comune delusione degli apostoli circa il regno terreno che, con l’avallo e gli auspici di Cristo, essi credevano predestinato e prossimo a maturazione per il popolo ebreo”. Decise allora di provocare il Cristo all’azione, di “comprometterlo”. Come che sia, la cristianità nasce inquieta, il papa dimissionario, tedesco, non è il primo scandalo.
Come i suoi “fratelli apostoli”, Giuda era calato nel vecchio progetto biblico, del Messia liberatore politico: “Nella loro mente, come nella sua, non ei era ancora fatta strada l’intuizione della vera grandezza del messaggio cristiano”. Gesù era  il messia: “Attraeva a sé le folle”, e questo è il segno più sicuro della sovversione, ciò che più turba i poteri, quale ne sia la ragione, verità o dubbio: è “la paura del cambiamento” che “turba i monarchi”.
Per lo stesso motivo poi Giuda finì male, suicida. Non possiamo condannarlo: “Quanto più Giuda fu incline all’audacia, tanto meno può essere sospettato di ambiguità. Credeva di realizzare i più intimi propositi di Cristo”. E insieme “i desideri e le aspirazioni segrete della plebe di Gerusalemme”. Convincente – anche per presentarsi via in questa edizione in una traduzione scorrevolissima, molto quinceyana, di Laura Merletti. C’è il male che nasce dal bene.
De Quincey ne approfitta per allegare “un estratto del saggio che ho scritto tempo fa e non pubblicato” sul Cristo hakim, guaritore. Arrivato alla predicazione pubblica, ma senza i mezzi che l’antichità conosceva per la diffusione delle idee, teatro, orazioni nel foro, oracoli, Gesù “indossò la maschera” di “medico missionario” – “l’idea orientale di hakim, o Therapeuta itinerante”. Che le autorità non potevano censurare, politiche o religiose, e le folle amavano. Anche lui come poi i discepoli, che diffonderanno il cristianesimo nel mondo ellenistico presentandosi come guaritori e quindi imperseguibili – la cosa è attestata per san Luca.
Thomas De Quincey, Giuda Iscariota

mercoledì 20 febbraio 2013

La mafia è femmina

Giuttari rifà Duisburg a New York, la mattanza di chi ha sgarrato nella filiera della droga, sottraendo somme importanti: molti fili, oltre la mattanza, conducono a San Luca (qui San Piero d’Aspromonte). E crea una sposa e madre che sceglierà la “famiglia” criminale maledicendo la sua propria. Un giallo che esce dal cliché della donna vittima, e per questo il meno letto del lettissimo Giuttari?
La vendetta è sorprendente – e promette un sequel. La tela sociologica inappuntabile, Giuttari è stato dirigente di polizia: della mafia ‘ndranghetista come “famiglia”, in senso proprio, per legami di sangue o di comparaggio. Con figure femminili di spicco, sullo sfondo di fratelli amorfi. E tutto insolitamente corretto, aderente alla realtà - a parte l’uso siciliano del “vossia” (e l’appropriazione disinvolta della Madonna di Polsi, qui Madonna dell’Aspromonte, da parte dell’autore oltre che dei criminali: non sappiamo più concepire il sacro, se non come farsi tre volte il segno della croce entrando in campo alla partita).
Michele Giuttari, La donna della ‘ndrangheta, Rizzoli, pp. 341 € 21

Ombre - 166

Malagò al Coni, con tutte le piscine olimpiche disastrate, Giannino dimissionario, con tutte le lauree false, il papa pure, anche se è laureato, Travaglio raccomandato a Berlusconi, laureato controvoglia a trent’anni, e tutti campioni del nuovo e del meglio: che età è questa, in termini astrologici? È la fine del’era dei Pesci, della cristianità? siamo già nell’Acquario?
Ma la laurea non era stata abolita ai concorsi?

Per una tesi di dottorato pasticciata più di una carica istituzionale è stata perduta in Germania, più di una lunga vita politica è stata troncata. Per le lauree inventate in Italia c’è compassione, con un po’ di simpatia. Ecco dov’è lo spread.

La lista Ingroia (Rivoluzione civile?), accreditata del 4 per cento, raccoglie sei partiti, di cui cinque storici: Verdi, Prc (Rifondazione Comunista), Pcdi (comunisti), Rete (Leoluca Orlando), Idv (Di Pietro) e Arancioni. Per sanzionare un fallimento? Sei fallimenti? Ma senza vergogna.

Finmeccanica al gabbio, Ansaldo Energia a Siemens, Alenia-Agusta a Aérospatiale, Spazio a Thales, Difesa a Raytheon (o Bae, o Nothrop)? Che tutte pagano liberamente le tangenti.
Tutto gratis? È possibile, la politica paga e avanza. La politica dei giudici.

La “giuria popolare” a Sanremo non è la sola ipocrisia del festival. E il festival non è il solo caso di ipocrisia istituzionale in Italia. Ma osannare un’edizione grigia, in cui pure le canzoni erano brutte, con ospiti talmente speciali che non se n’è saputo neppure il nome, e modelle lussureggianti che parlavano inglese, per non dire nulla?
O vantare Siffredi in veste di cantante, sul presupposto che tutti sanno chi è: roba da “pensée”, anni 1950.

È vero però che l’Auditel inventato non può essere. E dunque un terzo degli italiani, la metà di quelli che la sera vedono la televisione, la metà più o meno degli italiani adulti, per quattro o cinque sere ha visto Sanremo. In numeri mai vista prima d’ora. È l’effetto della recessione (caduta)? Definitiva?

Toto Cutugno coi cappellacci dell’Armata Rossa, stentorei come sempre: è una presa in giro?
Un’elemosina ai reduci?

Oltre che ricco e ladro, Formigoni è ora puttaniere. Ora è completo, contro i voti che ha pronunciato di povertà, castità e ubbidienza. Davvero Milano è tedesca – i tedeschi non si fanno mai mancare un’infamia.

Alemanno riesce in un mese a essere antiberlusconiano, poi montiano, poi di nuovo berlusconiano. In due mesi, per essere esatti. Ma questi (ex) missini non hanno fondo.

Dunque, il capo delle Relazioni istituzionali Rai era anche a capo della radio Vaticana. Da non credere. Che lo fosse e non si sapesse. Si sa infatti ora perché è stato rimosso da un incarico: lo ha rimosso il Vaticano, dalla radio, dopo tre anni.
 
Susanna Camusso e il vertice della Cgil vanno a Napoli e, nella sede locale del sindacato, ricevono una delegazione dei 19 licenziati della Fiat a Pomigliano. I 19 mandano una delegazione, Camusso riceve una delegazione, cos’è, la Tass?

martedì 19 febbraio 2013

La rivoluzione italiana fa vent’anni

Si celebrava in questi termini, vent’anni fa, la “rivoluzione” italiana:
“Il “Corriere della sera” col direttore Paolo Mieli, e “La Stampa” della Fiat in singolare coincidenza, concelebrano, cioè lanciano, la “rivoluzione italiana”. È una parola d’ordine? È un’alzata d’ingegno. Ma la “rivoluzione” del vecchio e del peggio ci vuole molta sfrontatezza a proclamarla: una rivoluzione fatta da quattro giudici, in vario modo tutt’e quattro corrotti, sotto la férula della Dc e d De Benedetti, un affarista, col sostegno di Agnelli e di Berlusconi, due affaristi super, per riaffermare - annacquando le riforme politiche e istituzionali chieste da più di un referendum - il più vecchio, improduttivo e infamante assetto di potere della Repubblica, ponendosene nel contempo a sacerdote e censore (la furberia del partito di governo e d’opposizione).
“Ancora più impressionante è la facilità con cui questa forse si sono sedute sull’onda unga del cambiamento e rapidamente hanno preso a Governarla. Tutto questo non sarebbe potuto succedere se il Pds non avesse perpetuato l’equivoco togliattiano, di chi prende il governo della rivolta per meglio ridurla, disinnescarla”.

La mafia è nota, la repressione non si sa

Resta lo studio migliore, più diretto e affinato insieme, delle mafie siculo-calabresi. Pubblicato nel 2000 e tuttavia al passo con l’attualità. Non per caso assortito di una bibliografia sterminata. Letizia Paoli, specialista di Criminologia al Max Planck Institut, consulente vent’anni fa della Dia e del ministero dell’Interno, sociologa formatasi a Firenze e alla Georgetown, l’università gesuita di Washington, ha pure il pregio di mitizzare poco e stare ai fatti. E tuttavia un’altra realtà fa emergere, anche se la sua ricerca è conoscitiva e non un programma d’intervento.
Sia la ‘ndrangheta una mafia tribale, anzi familiare in senso stretto, di consanguinei, come Letizia Paoli bene argomenta. Per questo quindi impenetrabile, anche nel pentitismo: i manovali a cottimo sono pochi, e sanno poco. E per questi stessi fatti più pericolosa, come vuole la studiosa. Ma anche il contrario è vero – o dovrebbe esserlo. La ‘ndrangheta non è una rete, un’organizzazione a maglie larghe, variabile. È identificabile, Paoli la quantifica in una novantina di “famiglie”. Ma per ciò stesso agevolmente punibile: su un gruppo ristretto e noto, l’investigazione e la repressione dovrebbero essere agevoli.
L’osservazione diretta lo conferma: le famiglie mafiose calabresi sono circoscritte e conosciute per esserlo. Perfino nei singoli elementi familiari che non lo sono, che si vogliono estranei al malaffare -  è possibile. Ma sono talmente note che riesce incomprensibile ai più - questo è il punto - che non siano perseguite o stroncate. Se non dopo decenni di attività criminosa, e per lasciare spazio ad altra famiglie mafiose.
Nel corso di tre generazioni, ciò è avvenuto per il contrabbando di sigarette, le banconote false, le guardianie, i taglieggiamenti, i terreni, gli immobili, gli appalti, i sequestri di persona, la droga  - la coltivazione (marijuana), il commercio all’ingrosso (trasporto, distribuzione) – e le attività finanziarie (banche, credito al consumo). Senza che il crimine fosse bloccato e nemmeno contrastato.
Lo stesso per l’espansione delle stesse famiglie fuori dai paesi di origine. Dapprima in Canada e Australia, attraverso l’emigrazione di figli e nipoti. Da qualche tempo in Germania, in Lombardia e a Roma, attraverso gli investimenti e la distribuzione della droga. Il fatto era noto ai carabinieri, che nelle decadi 1970-1980, quando i controlli a rete (intercettazioni e movimenti bancari) erano limitati in Italia, potevano compilare dettagliati dossier, con vere e proprie genealogie e tavole sinottiche che identificavano di ogni famiglia le più risposte articolazioni, generi e nuore comprese, e compari, grazie alle informazioni ottenute via Interpol dalle polizie canadese e australiana.
Letizia Paoli, Fratelli di mafia. Cosa Nostra e ‘ndrangheta

lunedì 18 febbraio 2013

A Sud del Sud – l’Italia vista da sotto (162)

Giuseppe Leuzzi

Il Sud di Grass, strano
Nel pacchettino per il viaggio di ritorno che la sua fiamma di Palermo, Aurora Varvaro, gli ha preparato – era il 1947, o 1948, tempo non di scialo – Günter Grass è sorpreso di trovare, “accanto a biscotti e fichi secchi”, anche “una mezza dozzina di uova sode”. Il solido tedesco è sorpreso dal realismo dell’innamorata giovanissima – 17 anni contro i venti-ventuno del futuro scrittore. Il ricordo è ripescato in “Sbucciando la cipolla”, il libro di memorie di Grass.
Ad Aurora lo scrittore premio Nobel si dirà legato ancora per cinquant’anni (ora sono sessanta), “il mio amore non vissuto ma sopravvissuto”. Senza più – senza rimpianto né emozioni. Aurora non è neanche scomparsa nel nulla. È pittrice e ceramista, vive alle Eolie e ha fatto molte mostre.
A Palermo, dove è arrivato con mezzi di fortuna in un lungo viaggio per l’Italia dopo una delusione amorosa, Grass è ammesso alla scuola di scultura dell’Accademia di Belle Arti. Senza le fisime burocratiche che avevano reso difficile la sua accettazione all’Accademia di Düsseldorf - Grass all’epoca si voleva pittore e scultore. Ma Grass non ha un apprezzamento per questo.
Aurora Varvaro, seppure di padre palermitano, è nata a Udine, da madre friulana. Sarà stata dunque la madre friulana a preparare le uova.

L’uomo d’onore si vuole violento
In “La donna della ‘ndrangheta”, giallo di vendette calabresi ambientato a New York (tradotto in americano “Death in Calabria”), Michele Giuttari dà le etimolgie di ‘ndrina e ‘ndrangheta. Entrambe di derivazione greca, legate a “andreios”, virile, maschio. Ne rintraccia anche una connotazione positiva in san Tommaso d’Aquino, “Summa Theologica”: “L’andragathia è la virtù dell’uomo che sa sperimentare gli espedienti che occorrono nelle opere vantaggiose”. E insiste, facendola spiegare dal suo alter ego Ferrara all’Fbi e alla polizia di New York come “la virtù di chi sa trarre vantaggio dagli eventi”, e “un raggruppamento di uomini valorosi”. Senonché, se la ‘ndrangheta è questo, Giuttari, che è anche un poliziotto, dovrebbe sapere perché: è una società, o famiglia, che ha saputo trarre vantaggio soprattutto dalla polizia, dalla sua incapacità o trascuratezza.
Ma tutto ciò non è niente di quello che i mafiosi calabresi pensano di se stessi. Essi – tutti e ognuno di essi, visti uno per uno nel loro ambiente, nella Locride o nella Piana - pensano di essere non più abili ma sufficientemente violenti da essere temuti. La virilità, nei paesi di ‘ndrangheta  (e anche di mafia – forse non di camorra, a occhio e croce, guardando la tv), non è legata alla violenza, che sempre è foriera di disgrazia, ma all’endurance, alla costanza (la vecchia testardaggine dei calabresi). Di cui lo  ‘ndranghetista è sicuramente privo. La recente campagna dei parroci, da una decina d’anni, sulle donne di mafia le ha trovate per questo subito consenzienti, sulla dissociazione e il perdono reciproco, se non sulla denuncia (pentitismo).

L’etichetta “uomo d’onore” che i mafiosi si danno non implica le connotazioni del concetto di onore, ma la reciproca lealtà. Finché dura, e a danno anche degli altri uomini d’onore. La morfologia invadente delle cosche come di partiti in Parlamento, sotto coalizioni di governo chiamate cupole, è più sbagliata che utile – e quindi è dannosa: ogni capocosca ha una veduta corta, cortissima, degli scopi della consorteria: il suo piccolo potere dev’essere incondizionato, feroce.
Si fa strada anche in Calabria la sindrome sciasciana del mafioso giusto. Perché amico d’infanzia, o perché “vecchio mafioso” come distinto dal - e avverso al – nuovo. Quello buono-e-bravo, questo violento. Ma non c’è mafioso-‘ndranghetista che non si reputi, e non sia reputato, violento. Soprattutto, se non esclusivamente – all’inizio fanno sempre una proposta, cioè un invito, ma perentorio.

Il debito è di Auctoritas
Palmi in Calabria era celebrata per le bellezze. Dai viaggiatori del Sette-Ottocento. Dai suoi scrittori, Répaci, Zappone. Dalle memorie anche personali. Suffragate dalle cartoline illustrate - non tanto remote, ancora degli anni 1970. Con la montagna a picco sul mare, il colle Sant’Elia. E una spiaggia omerica, di alti costoni boscosi e spiagge amplissime. Su cui i pescatori del borgo marino della Tonnara tiravano le barche in secco e mettevano le rati ad asciugare e rammendare. Anzi, due spiagge, una, la Marinella, cara a Répaci, tutta di scoglio. Con un porticciolo poco profondo ma bastante per i pescatori contro le mareggiate e le poche barche da turismo.
Ora ha un porto da turismo profondo e con alti moli, senza barche. La spiaggia ha coperto di cemento, in forma di parcheggi e lungomari per il mese di agosto. Senza nessun’altra attrattiva di turismo stanziale, che prolunghi la stagione per tre-quattro mesi (qui ne sarebbero possibili cinque: i bagni di mare sono possibili per tutto ottobre, l’acqua non è fredda), come si fa nelle spiagge anche meno dotate. La Marinella è da decenni impraticabile, dal mare e da terra. Il San’Elia pure, è una discarica – non propriamente, ma effettualmente.
Cos’è accaduto? C’è stata la Repubblica. Ex sottoprefettura, sede di Tribunale e di diocesi, la cittadina è passata in amministrazione dai burocrati ai ceti produttivi. Ma se ha perduto in Auctoritas non ha guadagnato in iniziativa, giacché questi ceti produttivi non sanno evidentemente andare più in là del (piccolo) guadagno immediato. L’Auctoritas aveva delle virtù che la democrazia di necesstà tarscura, ma senza la quale essa stessa non può darsi un futuro – il concetto di Auctoritas, perduto nella contemporaneità italiana, è centrale nella sua tradizione di pensiero politico, da Machiavelli a Gaetano Mosca e Alessandro Passerin d’Entrèves – da cui Hannah Arendt l’ha mutuato, introducendolo nella filosofia politica anglosassone. È il problema che Mosca direbbe – e Veblen e Max Weber dopo di lui – della classe dirigente.

Se l’identità è l’insicurezza
A Villa San Giovanni, all’imbarco per la Sicilia, s’incontra sempre una famiglia siciliana in ansia. Di cui un componente, solitamente la moglie o una figlia, corre a presidiare la biglietteria, mentre il guidatore va a posizionare la macchina ai primi posti in coda per la prima traghetto in partenza. Da cui poi corre alla biglietteria per pagare, ritirare il biglietto e presidiare sulla propria macchina il posto conquistato.
Come se la donna non potesse pagare e ritirare il biglietto lei.
Come se ci fosse una coda, e una qualche attesa, oltre i tempi tecnici per svuotare e riempire il roll on-roll off – i piazzali d’imbarco sono semideserti undici mesi e mezzo l’anno.
È gente che viene dal Nord – il trasbordo locale è minimo. Da soggiorni anche lunghi al Nord, o in Germania, Svizzera, chissà dove. Dove in qualche modo si sarà integrata, ma senza perdere la sfiducia.
Parlano tra di loro in dialetto stretto, di paese e forse di quartiere. È il baluardo della loro identità, ma come diversità. Che evidentemente li condanna all’insicurezza.

leuzzi@antiit.com 

Il deserto vivente di Moravia

Ha anche lui il “lucus a non lucendo” caposaldo di Heidegger, ma come “detto latino sulla foresta”. Della quale protagonista non è l’albero, ma la liana. Moravia, che “si viaggia nel tempo”, dice, “non nello spazio, ogni viaggio è un’epoca”, è sempre esploratore freddo: la sorpresa vuole ovvia. E quindi è autore da scoprire, malgrado tutto? Come scrittore onesto.
Il deserto è luogo metafisico. Il deserto è morte – si può viaggiare dunque nella morte e tornarne. Le nostre città sono miraggi, mortuari. Il miraggio è la morte che si tramuta in vita. Il deserto è il luogo privilegiato dell’immaginazione e dello spirito”. Non si sa non seguire Moravia, anche se come compagno di viaggio non dev’essere stato divertente. La pista nel deserto è una metafora della vita umana. L’erosione lavora con un’intenzione caricaturale. La caricatura della creazione divina della terra, come la Genesi la presenta, con quel mondo vivo, bello e completo che emerge dal nulla.
In Africa tutto è possibile, e Moravia non si fa mancare nulla. Invitato dal sultano di Agades, aspetta un’ora in anticamera, tra africani insolitamente muti, per poi scoprire che il sultano non c’è. O gli abitanti del lago che sono pastori. Il gusto lascia amaro che non abbia osato: parco e ovvio per essere disilluso. Anche un po’ cinico.
Alberto Moravia, Lettere dal Sahara

domenica 17 febbraio 2013

Il papa pasoliniano

Il cardinale Ravasi predicherà da oggi gli Esercizi Spirituali a papa Ratzinger con Celestino V, prima di Ignazio di Loyola. Il papa “vile” di Dante, poi santo della chiesa, seguirà dunque Benedetto XVI per sette giorni. L’accostamento incombeva, è stato il primo pensiero di tutti all’annuncio lunedì della dimissioni del papa. Ma era anche previsto da Pasolini, si può aggiungere, antevisone aggiungendo ad antevisione.
Un Pasolini straordinariamente eversivo, pur nella sua polemica anti-contestazione, scriveva su “Tempo Illustrato”, il 28 settembre 1968, un peana in onore di papa Paolo VI, che proponeva scismatico, oppure dimissionario – non da vile, da fautore della verità, o della rivoluzione. A motivo di un articolo del suo segretario di Stato, cardinale Cicognani, che chiedeva l’ammodernamento della Costituzione, “per seguire il ritmo della società in profonda e accelerata trasformazione”. Su questo presupposto: “In Italia la democrazia è solo formale”.
Il poeta (il lungo articolo è nella raccolta “I dialoghi”, pp. 491-5) ci vedeva “una sovversione”, ancorché legale, e prefigurava anzi uno scisma. Comunque, Paolo VI si sarebbe staccato dalla chiesa: “O compiere il gran rifiuto, e lasciare il papato come Celestino V che è stato forse il più grande dei papi (ma certamente il più santo); oppure scatenare lo scisma, distinguendo, con sé, dal clerico-fascismo la Chiesa Cattolica”.
Il papa eretico si leggeva finora come un trovata giornalistica, da column settimanale, il genere “provocazione” che Malaparte aveva creato coi “Battibecchi”. Ma era evidentemente una profezia. 

Il giallo omaggio

Un giallo stiracchiato con tante banalità era impensabile – la stessa Petra Delicado è svogliata. Succede con gli omaggi al gentile pubblico – quello italiano è per Alicia il più gentile dopo lo spagnolo. O è Roma che li castiga? ferma a De Sica, Audery Hepburn e Fellini.
Alicia Giménez Bartlett, Gli onori di casa, Sellerio, pp. 211 € 15