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sabato 13 gennaio 2018

Ombre - 399


Naturalmente è solo un caso che due giornali di De Benedetti denuncino a tutta pagina Berlusconi per riciclaggio nella cessione del Milan nei giorni in cui lo stesso De Benedetti si deve difendere da accuse di insider trading, su informazioni riservate ricevute da Renzi presidente del consiglio. L’editore del gruppo Repubblica-Espresso è al di sopra di ogni sospetto.

Una cosa è certa nella storia del colloquio Renzi-De Benedetti sul decreto che pubblicizzava le Popolari: che è avvenuto alle 7 di mattina – lo assicura De Benedetti. Poi si dice che i politici sono poltroni.

Anzi, due cose sono sicure, sempre su assicurazione di De Benedetti: che lui non punta mai meno di 20 milioni, mentre sulle Popolari ne ha puntati solo 5. “Avevamo fatto”, cioè puntato, col broker Bolengo, in un periodo di tempo non precisato, ma di pochi mesi, “620 milioni, di cui le Popolari solo 5”. L’Ingegnere la considera un’aggravante: “Potrei perdere la reputation”. Bisogna guadagnare molto.

Il Procuratore di Roma Pignatone che assolve De Benedetti dal reato di insider è di una logica stringente: 1) l’Ingegnere si è assicurato con un “costoso derivato” per un investimento minimo, 2) il presidente del consiglio gli ha detto cose che si sapevano da un anno. Si dirà la “logica pignatoniana”.

Il ministero tedesco della Famiglia scopre che il 43 per cento dei 55.890 immigrati che hanno ottenuto lo status privilegiato di rifugiati in quanto minori sono in realtà maggiorenni. I trafficanti ne sanno di più, anche delle leggi europee.

Maiali in strada attorno ai cassonetti era l’idea 5 Stelle contro la giunta Marino a Roma. Ora  maiali in strada a Roma tra i rifiuti tornano postati da Meloni contro la giunta Raggi.  

Gucci propaganda un improbabile abbigliamento maschile, con un indossatore nero, attempato, su uno sfondo squallido, di basement. L’orrido si “vende” meglio? Ma cosa rimane?

L’articolo sulla richiesta di archiviazione dei giudici di Roma per la speculazioncella di De Benedetti sulle Popolari il “Corriere della sera” assortisce con una grande foto che vede Scalfari al centro piegato, arretrato, tra Renzi e De Benedetti. Scalfari è pensoso. Ma sembra inchinato ai due, che in primo piano sghignazzano furbi.

L’attore Marescotti, candidato alle Europee tre anni fa per l’ultrasinistra di Tsipras, annuncia: “Io, comunista, sceglierò M5S. È voto utile”. L’utile idiota in effetti è figura del vecchio Pci.

L’outing è vicendevole: Di Battista, candidato premier ancora caldo di Grillo, apre un “asse” con Grasso. L’asse sa di unto, per questo non cigola?

Arresti obbrobriosi, processi interminabili, la Procura di Milano è specializzata contro le aziende italiane di successo all’estero, Eni, Finmeccanica, Saipem. Finmeccanica e Saipem ha pure provato a farle fallire. Su denunce della concorrenza, tutte finora non circostanziate. Quasi sempre straniere, ma rappresentata da “banchieri d’affari” (mediatori) milanesi. Non è una procedura corretta ma non è mai stata sanzionata: la corruzione dei giudici è lecita?

Michael Wolff, giornalista poco stimato di New York, un po’ bandito un po’ leccone, è il beniamino dei corrispondenti del “Corriere della sera” e “la Repubblica” dagli Usa, i giornali italiani più qualificati. Fanno a gare a dirsene amici. È anche uno parecchio brutto, ma è vero che è molto conviviale.

“Hanoi Jane”, al secolo Jane Fonda nei panni dell’eroina pro Vietnam nella guerra, si presentò agli Oscar 1972 a lutto, in severa giacca nera accollata alla Ho-Chi-Min. Ora dice che, era un modello, tutto studiato, anche la giacca: Yves Saint-Laurent.

Agli stessi Oscar 1972 Jane Fonda fu miglior attrice per “Una squillo per l’ispettore Klute”. Era un film? “Hanoi Jane” ebbe quell’anno per la “Squillo” – l’unico film disponibile con l’attrice - tutti i premi, oltre l’Oscar: Golden Globe, Bafta, Critics Circle di Kansas City, Critics Circle di New York. L’America pratica poco la dissidenza.

Obama è tornato. Su Netflix, naturalmente. Allo show di David Letterman. Che prende due milioni di dollari a intervista.

Un colloquio-intervista, tra Letterman e Obama, da sfinimento - un ritrovamento tra amiconi, alla “immaturi. Da voltastomaco, considerando letà ormai matura e le esperienze dei due. È il vantaggio-handicap delle tv a pagamento: rifilare di tutto all’utente, tanto ha già pagato. 

All’origine delle proteste in Iran Nicola Pedde mette su “L’Espresso” i khomeinisti oltranzisti, per “distogliere l’attenzione dagli scandali finanziari” della presidenza Ahmadinejad. E dunque il profilo di ragazza sulla pedana che butta il velo, eretta a simbolo della rivoluzione che non c’è stata, è di una modella di Ahmadinejad?  

Si riduce sempre più “L’Espresso”, testata di riferimento di alcune generazioni. Si vende a sconto con “la Repubblica”, ha pochi servizi, si riempie con le opinioni. Tutte autoreferenziali - ho detto, ho fatto, mi ricordo. Di gente di nessun esperienza.

Domenica “la Repubblica” spaventa i lettori con Trump idiota oltre che pazzo (Zampaglione), nonché ladro (Krugman), e la California avviata alla secessione (Rampini). È la fine, o meglio: dove andremo a finire. Lunedì non succede nulla. E nemmeno gli altri giorni della settimana, fino a sabato. Trump è un idiota solo di domenica?

Folle è il film

Un film in controtendenza - anticonformista? Verdone fa da reagente, single pretastico, bigotto, ma una serie di personaggi femminili tutti eccessivi. Ancora una volta, lo fa da tempo, ma qui in maniera esclusiva. Un film, oggi, antifemminista? Ne sarebbe meravigliato - quando ha fatto il film non poteva prevedere la buriana di questi giorni: è solo una commediola.
Un ritorno felice alle caratterizzazioni. Eccessive, stravaganti, da film demenziale - da farsa. Di vescovi e cardinali, e di un campionario gustosissimo di donne, anche suore. Fuori dall’ultimo Sordi nel quale Verdone si era ultimamente calato - dal canone dolorifico (moralistico, mendicante, edificante) della commedia all’italiana, cascame del neo realismo. Fuori anche dal politicamente corretto, specie in materia di uomini e donne, dichiarandosene osservantissimo, anzi devoto, perfino bigotto.
Non tutte le gag che Verdone ha scelto di montare convincono. Sembra anzi un montaggio svelto, da produttore – ci sono figli alla prima scena, la gag che immortalerà il film, che poi scompaiono. Ma è un fim d’autore in cui si ride.
Con due omaggi a Nanni Moretti: il balletto di candide figure di “Aprile” (qui conventuali invece che in pasticceria) e la libertà in scooter.
Carlo Verdone, Benedetta follia

venerdì 12 gennaio 2018

Problemi di base macronici bis - 389

spock

I tweet di Macron vanno in gloria, quelli di Trump al manicomio – o è viceversa?

Da Trump a Macron, chi ce lo fa fare?

Non sarà un’altra marocchinata?

E da Ivanka a Brigitte?

Seguivamo Sarkozy per la bella moglie Carlà, ma Macron?

Quante basi la Francia ha schierato per proteggere l’Italia?

Macron in Cina non ha avuto tanti articoli in Francia quanti ne ha in Italia: ci vendono di tutto?

Per Sarkozy eravamo fessi, per “Le Monde” siamo mafiosi, e per Macron?

spock@antiit.eu

Il poeta è fortunato

È il discorso al conferimento del Nobel, il 7 dicembre 1996, che comincia con la frase del titolo – assortito della prima intervista dopo la notizia del conferimento a sorpresa del premio, al “Los Agelese Times”. Diminutiva ma witty, come nei suoi versi.
Difficile dirsi poeti. Brodskij, insignito del Nobel, che si diceva poeta, le autorità sovietiche lo classificavano un “parassita”. Anche al cinema, i poeti sono poco fotogenici, rispetto a un pittore, a un musicista, a uno scienziato. Sì, producono immagini, ma non  ne hanno l’esclusiva, chiunque può produrne.
Il poeta procede nell’ignoto, “non lo so” è la sua divisa. È un esploratore, anche dei mondi conosciuti. È un innovatore, seppure di parole. È uno di “un selezionato gruppo di beniamini della Fortuna”.
Wysława Szymborska, La prima frase è sempre la più difficile, Terre di mezzo, pp. 23 € 3

giovedì 11 gennaio 2018

Letture - 331

letterautore

Amore-morte – Zamjatin, “Noi”, 1920, ne aveva già la formula matematica: A = f (M).

Dante – Presentando la traduzione in francese di René de Ceccaty – la più originale, in ottave – Carlo Ossola censisce sul “Sole 24 Ore” una dozzina di traduzioni della “Divina Commedia” in francese, tutte in commercio contemporaneamente.

Italia – È materia letteraria per mezza Europa – e anche per gli Usa. Da sempre. Forse più che la Francia o la Spagna – è comunque la latinità materia letteraria. Senza confronto anzi con analoghe appropriazioni di nomi, personaggi, storie, luoghi, ambienti di altri paesi, quali la Francia e la Spagna – sempre, comunque, paesi latini. Da parte dei tedeschi soprattutto, da Goethe a Thomas Mann – e a Ingebrg Bachmann, Henze, Enzensberger. Degli inglesi, da Shakespeare e Milton D.H.Lawrence, con mezzo Ottocento (Byron, Keats, Shelley). Dei francesi naturalmente, Stendhal, Dumas, e molti contemporanei. Degli americani, Hawthorne, Henry James, Edith Wharton, Hemingway, Pound. Dei russi. Degli spagnoli. Oltre alla vasta produzione del Grand Tour, di letteratura di viaggio.
Curiosamente, non c’è l’analogo in Italia, un interesse di poeti e scrittori per storie e vicende di Francia o Spagna, o Germania. Per non dire l’Inghilterra o gli Stati Uniti. Benché l’Italia sia stata per un secolo e mezzo terra di emigrazione. Quando c’è “l’America”, nei romanzi recenti di Mazzucco o Gangemi, è solo un riflesso estraneo e quasi ostile. Non c’è peraltro una letteratura italiana di viaggi. Come se l’Italia, che esercita molto fascino sui non italiani, mancasse di curiosità.

Morte a Venezia – Perché non leggere il racconto come una parafrasi, in chiave omosessuale, dell’innamoramento di Thomas Mann per Katja Pringsheim, che sarebbe diventata sua moglie, madre con lui di sei figli?
In “La questione ebraica”, 1921, Mann accenna ai racconti di ambiente ebraico da lui scritti. “Sangue velsungo”, sulla famiglia della moglie, “L’eletto”. E anche a una poesia: “Un’altra volta a proposito del tema ebraico mi sono addirittura abbandonato ai versi”. Nei quali ricorre un “protetto”: “Come la prima volta a Venezia in appagamenti onirici e delizia\ Ancora una volta il cuore fluttuò dieci anni più tardi\……. Allora, mio protetto\ quando io, con giovanile desiderio di esaltazione, lasciai sulla dolce figura\ posare i miei occhi, il destino si abbatté su di te,  ti chiamò la Voce…”. Ma perché il “protetto” non sarebbe la moglie Katja? Di famiglia ebraica. Con la quale l’amore era sbocciato in un incontro a Venezia. Con “giovanile desiderio di esaltazione” , lui essendo già di trent’anni e scrittore affermato.
O è propriamente di un lui che si parla? Ma un lui ebreo? Il saggio-intervento “La questione ebraica” fu ritirato da Thomas Mann, dall’editore Fischer che lo aveva in composizione, per l’irritazione di Katja.

“Morte a Venezia” com’è noto Th. Mann aveva finito per dichiarare “pre-fascista”, un po’ al modo del post-fascismo di Pasolini in “Salò-Sade”, rovesciato: qui si tratta della distruzione dei corpi, lì della glorificazione. Il 26 gennaio 1938, mentre sta lavorando a “Fratello Hitler”, Mann annota nei “Diari” di aver conversato con Ferdinand Lion  del “nazionalsocialismo anticipato di vent’anni nella «Morte a Venezia»”. E il 30 maggio, due mesi dopo la pubblicazione di “Fratello Hitler”, scrive a Agnes E.Meyer, a proposito della tendenza di Aschenbach, quasi un autoritratto, alla semplificazione: “Erano tendenze di quell’epoca, che stavano nell’aria molto prima che circolasse la parola «fascismo» e che quasi non si riescono a riconoscere nel fenomeno politico che porta quel nome. Eppure hanno a che fare in una certa misura con esso, e sono servite alla sua preparazione morale”.

Rete – “La Rete è nata come strumento militare e le persone che la utilizzavano erano chiamate cowboy perché  si trovavano in una zona di frontiera, libera.  Ora è un grande supermercato, un’arena piena di gladiatori  convinti di potersi permettere di tutto”, Gabriele Salvatores, “Sette”.

Romanzo – La fine del romanzo o la fine della critica? La fine del romanzo è stata annunciata molte volte dopo la guerra – va con la pace? Ora, qualche dato sembra confermarla. Sull’onda dell’apocalisse annunciata dieci anni fa da Philip Roth, al momento di prendere i voti del silenzio: “Fra venticinque anni i lettori dei romanzi saranno di culto. Ci sarà sempre gente che li legge, ma in piccoli numeri. Forse un po’ di più di quanti leggono la poesia latina, ma in quell’ordine di grandezza”.
Il mercato americano sembra dargli ragione: nei cinque anni al 2017 ha visto le vendite di romanzi contrarsi del 23 per cento. Il genere va peraltro contro le abitudini di lettura che l’elettronica  dominante induce, ai messaggi brevi, o alle storie televisive, che scorrono veloci, e ogni giorno in gran numero .
Sulla “New York Review of Books”, lo scrittore anglo-bengalese Zia Haider Rahman ha un’opinione diversa, non peregrina: è la morte del critico che affetta piuttosto il romanzo letterario. Perché, riflette, il romanzo in sé è fiorente più che mai. Seppure nelle forme del film, del film-tv, del docu-film. Per le quali forme molti romanzi sono scritti, è vero, rapidi e superficiali, sceneggiature per cicli d’immagini. Ma questo non pregiudica il romanzo letterario – il fogliettone o romanzo seriale d’intrattenimento è sempre esistito, accanto a quello più propriamente “scritto”. Ciò che abbatte il romanzo-romanzo è la critica. Svanita, se non nelle forme di goodreads,  “un braccio del behemot amazon”, o allora delle classifiche di vendita dei libri – che sono in vari modi influenzate dall’industria libraria.


Una rivendicazione del genere a tutto campo fa, come “moderna epopea della prosa”,  Thomas Mann nella lettera a Korrodi, critico letterario svizzero, e alla “Neue Zürcher Zeitung”, del 31 gennaio 1936, “nella sua spiritualità analitica, nella sua consapevolezza, nella sua innata propensione alla critica”. Una vindicatio senza riserve: “E inoltre la ricchezza dei mezzi, il muoversi libero e dinamico tra creazione e indagine, conoscenza e musica, mito e scienza, il panorama umano, l’oggettività e l’ironia fanno del romanzo quello che esso è nella nostra epoca, la più importante e rappresentativa delle creazioni letterarie”. 

letterautore@antiit.eu

A lezione di europeismo dalla Francia

Macron a Roma dà patenti di europeismo. Non propone, promuove, coordina: sancisce. È l’altro aspetto dello stress cui l’Unione Europea è sottoposta, dopo il mercantilismo dei governi Merkel: la Francia ritorna al solito, alla politica di grandeur, roba da maestro di scuola e – nel terzo millennio – da coatti.
Macron non fa altro. Vola di qua e di là, e di tutti i dossier dice di essersi impadronito, con la soluzione in tasca. È anche giovane e bello, e viene accreditato di buoni propositi. Ma non differice in nulla dai precedenti. Da Sarkozy forse sì, non ci farà un’altra guerra – o l’Italia non si presterebbe, quella del 2011 è ancora di troppo. Ma cosa propone di diverso dalla Francia che si è seduta comoda a Berlino, a curare gli affarucci, nei dieci anni della recessione? Che ha affossato la costituzione europea. Che ha impedito una politica della difesa, dalla Comunità europea di difesa in poi (ci voleva pure fuori dalla Nato…). Che è anti-europea per quasi la metà dell’elettorato. Salvo imporre granaglie e carni infette a mezza Europa, e patate cispose, il tutto condito liberamente da estrogeni, azotati, coloranti e conservanti, sotto lo scudo della politica agricola comunitaria, che noi paghiamo. E che ha affossato – ci ha provato – Finmeccanica, Saipem, Eni, fornendo carte false alla compiacente Procura milanese.
L’uomo è abile oltre che bello, con la sua politica di charme. Ma cosa ha fatto di buono?

I misteri di Napoli

La solitudine nella grande famiglia, nella città-madre – sono materni alla prima scena anche i “femminielli”. Sotto l’ombra della morte: la bambina rimasta sola per uxoricidio(ominicidio)-suicidio, fa di mestiere il medico legale, in un lurido obitorio negli scantinati, perde l’uomo del destino, subito dopo la notte d’amore, la prima e l’unica della sua vita, ai quarant’anni, perde l’amico, genio buono della napoletanità, perde pure la maga, che non le voleva male. Cesserà di sezionare cadaveri, e sposerà un brav’uomo, vedovo, con un figlio, che fa il poliziotto. Senza trasporto, come è vissuta. Ma dopo un caleidoscopio trascinante di visioni.
Un omaggio a Vittoria Mezzogiorno, che regge tutto il film, scena per scena. E a Napoli, di cui la vicenda della protagonista è paradigma. Mostrata sontuosa, in esterni e in interni. Rutilante di colori, arredamenti, conversazioni, parentele, affettuosità. Che sono la vera storia del film – amore e morte non è un  soggetto propriamente nuovo. Che Özpetek racconta da maestro del genere, fin dalle sue prime prove, “Hamam” e “Harem Suaré”.
Napoli è velata non per quello che si pensa. Ozpetek la assomiglia alla sua Istanbul, per essere insieme aperta – accogliente – e misteriosa. Ma il film è di donne e sulle donne, altrettanto misteriose e aperte. Il “velo” di Özpetek significa che per capire quel mondo, per quanto esibito, bisogna “intravedere più che sentire”. Il titolo si giustifica anche per la scena finale, una delle tante fastose che scandiscono il film, alla presenza del “Cristo velato” nella cappella Sansevero.
Lo spettatore forse intravederebbe di più di quello che sente se le parti protagoniste, soprattutto Alessandro Borghi, ma anche Mezzogiono, recitassero invece di parlarsi addosso, per di più in napoletano stretto. Le altre parti, tutte di grandi attori di teatro (Barra, Bonaiuto, Sastri, Ranieri, Calzone, etc.) fanno capire tutto, e da napoletani “più veraci”.
Fernan Özpetek, Napoli velata

mercoledì 10 gennaio 2018

Secondi pensieri - 332

zeulig

AmoreÈ presto finito nel romanzo, da Omero in poi. O è proprio materia di romanzi?
Non ci sono altre passioni così tanto romanzate.

Dio – È una “formula irrazionale”? Una prova scientifica, benché impersonale, ne dà Zamjatin nel romanzo distopia “Noi”, lo scrittore che era ingegnere di formazione e matematico per passione: “Per le formule irrazionali, per la mia radice quadrata di - 1, noi non conosciamo corpi corrispondenti, non li abbiamo mai visti… Ma sta proprio qui l’errore: questi corpi – invisibili – esistono, devono, senz’altro, ineluttabilmente esistere: perché in matematica, come su uno schermo, ci sfilano davanti le loro ombre bizzarre e pungenti, ossia le formule irrazionali; e la matematica e la morte non sbagliano mai. E se non vediamo questi corpi nel nostro mondo, in superficie, esiste – deve inevitabilmente esistere – un mondo intero, enorme, là, oltre la superficie…”

Guerra – Libera perché deresponsabilizza – la disciplina militare si coltiva per questo. “La felice esperienza dell’essere dispensati dal proprio Io, dell’essere sollevati da ogni responsabilità individuale appartiene alla guerra”, Thomas Mann, “Attenzione, Europa!”

Immaginazione – È l’immaginazione che apre la via alla ragione, non bisogna temere l’ignoto.

Maternità - Si potrà nascere senza donne, è fatale, come già senza l’uomo. Molte creature senza padre vivono, esseri che le madri non hanno concepito per amore, non del padre. E già le donne figliano senza fertilizzarsi, nel grembo altrui – è l’utopia, la riproduzione senza la produzione. Analogo artificio si troverà per gli uomini, un utero artificiale. Casanova lo presagì, che diceva: “Una delle prove dell’ateismo è che, se Dio ci fosse stato, non avrebbe creato la donna”.
La procreazione è un miracolo che si dissolve nell’indistinto.

#metoo - Al corpo liberato duemila anni fa da Cristo le donne rimettono l’armatura. Lo rinchiudono coi ragni in cantina, ogni rapporto è Sade, tutto è peccato nel corpo, anche lo sguardo. Non solo in Sicilia, c’è nel poeta Michaux: “E mentre la guarda, le fa un figlio in spirito”.
Un peccato laico, con codici quindi e tribunali. O la verità che non si può dire è che nella liberazione della donna molte vergogne emergono della libertà, limiti e pieghe oscure. Per un residuo di vezzi fisici e mentali, ruoli, psicologie, ma anche per sofismi non tanto lievi. Quelli che portano alla disintegrazione anzitutto: che libertà è quella che fa scoppiare?

Morte - Non siamo che fugaci combinazioni, dell’assoluto se si vuole ma non di necessità: solo la morte è infaticabile, lo stesso istinto a procreare si stanca.

Dio ha creato l’eternità, il tempo è degli orologiai. L’attesa, o paura, della morte è parte della storia degli orologiai.

“Nella paura della morte c’è qualcosa che fa pensare a un senso di colpa: con essa si manifesta forse la vendetta della vita non abbastanza amata. La morte è un pregiudizio” – Lou Salomé.

 “La Storia si può veramente chiamare una guerra illustre contro la Morte”, o “una guerra meravigliosa contro la Morte”, o “una guerra illustre contro il Tempo”: sono tre incipit di Manzoni, per “Fermo e Lucia” e “I promessi sposi”. Era Manzoni hegeliano, per la storia della Provvidenza, ma incerto.

Il “muore giovane chi è caro agli dei” sarà stata la peggiore bestemmia di Leopardi, o Menandro. In un senso è vero, si muore sempre giovani. Ma la morte una qualità sempre ce l’ha: fissa le cose. Per il bene e per il male. Dà ai fatti e alle persone uno spessore, seppure nell’ambiguità tra vero e falso: l’amante morta, per esempio, è amante per sempre. E parla, eccome, ha l’eloquenza del silenzio, di “colui che parla senza dire nulla” che Chagall celebra. L’eternità sarà questo susseguirsi di baluginii.
Lo stesso Montaigne – “la morte è la sorte comune agli uomini” - potrebbe peraltro essersi chiesto “che vuol dire che in guerra il viso della morte, che lo vediamo in noi oppure in altri, ci sembra senza paragone meno spaventoso che al chiuso delle case”. Ci sono morti che danno energia, rinnovata voglia di vivere. Bisogna essere stati per poter morire, aver lasciato una traccia. La vita è piena di senso in quanto è un susseguirsi di sparizioni e superamenti. Anche la verità, per quante difese uno metta in campo per farsene scudo. Perché subentra la memoria, dove le passioni sedimentano, la scena è chiara.
Dice Beckett di Proust che “la morte guarirà molti uomini dal desiderio d’immortalità”. Non Beckett, però - né Proust, cui Beckett addebita questa filosofia. Non chi ha un amico, un familiare. Né i solitari ignoti: ognuno lascia una traccia, sia pure un grano di polvere. Ed è pure vero che si muore più volte nella vita, prima dell’ultima, certo, quando non si rinasce: si muore e si nasce a ogni istante.

Si è usata a lungo quale artificio rivoluzionario: più morti più purezza. Argomento folle. Non fosse una furbata politica, della cattiva politica.

Nazismo - Essere-per-la-morte è la parte ermetica del nazismo, la sua verità - con l’Umwälzung, la svolta, parola chiave di Heidegger e Hitler. Il nazismo ha origini misteriche, è attestato: all’inizio si simula. Spengler l’attesta già nel ‘19: “Lo spartachismo da salotto fa tutt’uno con la teosofia e l’occultismo”. Chi cerca il nulla trova il nulla, direbbe Meister Eckart. A meno che non trovi Hitler.

Ontologia - La possibilità del nazismo come Male elementare Lévinas lega all’ontologia dell’essere, “in cui si tratta del proprio Essere attorno all’Essere stesso”. Che non è mirarsi l’ombelico, ma menarselo, con clangore.
È tutta qui l’ontologia. Si può dire oggi che un’essenza che necessita l’esistenza non è proprio divina, ma questo lo diceva Kant. Il fatto è che l’essenza è l’esistenza, l’essenza umana, individuale e di specie. “L’essenza umana”, dice un conformista quale Gödel, “deve esistere, o esisterà”.
Ciò vale pure per Dio, che è il Dio degli uomini. Rozzo ma efficace, è sempre Cartesio: “L’esistenza di Dio è compresa nella sua essenza”. E il gentile Spinoza: “Causa di se stesso è un essere la cui essenza implica l’esistenza”. L’essenza di per sé implica l’esistenza. E viceversa, l’esistenza presume l’essenza, di fatto e nella logica, checché i logici ne pensino.
Senza l’esserci l’essere non è. E dunque l’esserci è - se io non sono, chi sono? e chi sono in questa o quell’ora del giorno o della notte? Il rifiuto della metafisica depaupera il linguaggio, l’essenza cioè e l’esistenza.

Rivoluzione – Non una si può dire riuscita. E quando ura si dilegua: l’ordine, come la morte, riemerge. Le rivoluzioni invece vanno come le nascite, che sono numerose e varie.
Le rivoluzioni finiscono dunque nell’ordine. O viceversa, ci vuole ordine per liberare la fantasia.

StoriaLa storia va a spirali, per cerchi sempre di 360 gradi, argomenta lo scrittore Zamjatin, lo scrittore, “Noi”, 132. Attorno allo Scoglio Zero, da destra e da sinistra – + o - zero: “Per secoli noi, come dei Cristoforo Colombo, abbiamo navigato, navigato, girato intorno alla terra”. Che è uno “Scoglio Zero”. Attorno al quale ci muoviamo verso destra, o torniamo da sinistra.

zeulig@antiit.eu

Un terremoto per i volontari

A un anno e mezzo dal terremoto di Amatrice nente è stato fatto. Nessun rimedio, a parte container e mini-case in legno. Nessun progetto di ricostruzione, tecnico, urbanistico, edilizio. Nessun piano finanziario. Le rovine non sono state rimosse. I guasti del terremoto moltiplicando nella psiche e la psicologia dei residenti. Nel senso della sfiducia e del risentimento.
Il richiamo del nome moltiplica le “visite”, di autorità a ritmo quasi quotidiano, e dei comuni cittadini per ogni evenienza, dal farsi una foto al portare doni. Specie dei cooperamti, o volontari. Tutta gente di buona volontà, che però della cooperazione fa un mestiere. E resta inutile – per lo più più -  sgradita come i tanti visitatori ufficiali.
“Settemila volontari hanno festeggiato”, è il commento che si sente nella cittadina. Non ingrato: i segni di questa invasione pacifica sono pochi e non specialmente invoglianti. 

La ‘ndrangheta degli imberbi

A 23 anni l’autore è un veterano, con un editore fra i più established: la mafia sarà come la musica, fa i bambini prodigio. E il ragazzo, così si presenta, ci dice che la mafia c’è. Indubbio. E che ha colonizzato il Nord. Questa è una concezione riduttiva del Nord. Ma poi dice che la mafia che ha colonizzato il Nord è la ‘ndrangheta, e a noi, che della ‘ndrangheta abbiamo conoscenza diretta poliennale, la cosa diventa implausibile, anzi ridicola.
La prova, dice il giovane ricercatore, viene da immaginarlo imberbe, è che quando telefona a qualcuno per parlare dei rapporti suoi personali, o di parenti o amici, con la ‘ndrangheta, o va a incontrarlo al bar, l’interlocutore chiude il telefono, oppure diserta l’appuntamento. E questo, spiega, è l’omertà. No, l’omertà è dire che la ‘ndrangheta domina il Nord. Cioè, non l’omertà, è la stupidità – ma l’omertà non è concetto molto sveglio.
A 23 anni Minari ha un mondo da imparare. Anche se qui propone gli “approfondimenti di otto anni”. A tempo perso – non vorremmo pensarne male? Si può pensare che negli “otto anni” si sia divertito, e continui a nostre spese, lui e Rizzoli. Non sarebbe male. Ma il furbo editore lo fa precedere da una prefazione del giudice Roberti, il Procuratore Nazionale Antimafia. Niente di meno: l’antimafia come gradus ad Parnassum, una scorciatoia per la carriera, il successo, l’autorità. Di piccoli e grandi furbetti.  Non mafiosi. Assolutamente.
Elia Minari, Guardare la mafia negli occhi, Rizzoli, pp. 279, ril. € 18

martedì 9 gennaio 2018

Il mondo com'è (330)

astolfo

Bistecca sintetica – Evgenij Zamjatin, lo scienziato scrittore russo di un secolo fa, aveva già la bistecca sintetica” derivata dal petrolio”. In “Noi”, il romanzo dello Stato Unico. Era il 1920 ma il suo Stato Unico Zamjatyn, comprese le proteine petrolifere, proiettava verso il Tremila. Mentre lo Stato italiano, con la chimica dei “pareri di conformità”, messa su da Andreotti negli anni 1970, e cioè con le sovvenzioni pubbliche, ci puntò con un investimento da un miliardo di euro in lire, a beneficio della Bp, la British Petroleum, e del suo socio italiano Raffaele Ursini, un uomo d’affari di Reggio Calabria che aveva rilevato la scatola vuota Liquigas-Liquichimica, con sede in Svizzera. Per la bistecca sintetica fu realizzato un porto e costruito un impianto a Saline Joniche, che non hanno mai funzionato – i 400 dipendenti dell’impianto sono andati in pensione di anzianità senza avere lavorato un solo giorno.

Emigrazione politica. Divide le opposizioni invece di unirle. I singoli come le forze politiche. C’è poca solidarietà fra gli emigrati politici. E c’è concorrenza tra le forze politiche spinte all’esilio, che l’inattività acuisce. Tra gli émigrés della rivoluzione francese. E tra le forze Bianche che combatterono l’Armata Rossa. Tra i mazziniani della Giovane Italia, in Francia e in Svizzera. I cileni in Italia, dopo il golpe di Pinochet nel 1973, restarono divisi tra comunisti e democristiani. Gli emigrati politici brasiliani a Parigi a cavaliere del 1970 si caratterizzavano per le lotte intestine. Lo stesso per gli italiani in Francia tra le due guerre, diversi e divisi per partito o gruppo.
Sul piano individuale la divisione fu molto visibile tra i tedeschi negli anni di Hitler, tra emigrati tedeschi ed ebrei, tra gli ebrei tedeschi tra di loro, tra i tedeschi tra di loro. Thomas Mann non riceveva Schönberg a Pacific Palisades, ma non parlava nemmeno con Brecht. Difficile trovare contatti, peraltro, anche tra gli italiani esuli in Usa, tra Fermi per esempio e Prezzolini.

Germania-Italia – La “latinità” ritorna periodicamente in Germania – anche come “mediterraneità”, in un’accezione più larga, più degna di disprezzo – come rifiuto, per un ritorno alla “germanicità”. Parte della “questione ebraica”.
I due mondi, il germanico e il latino, sono compenetrati, lo sono sempre stati nella storia, il tedesco delal selva è preistoria, ma non nell’inconscio tedesco. Nell’opinione media o comune che la Germania si fa di se stessa, da quando si è riunificata un secolo e mezzo fa in un’ottica di potenza, quella della casa reale di Prussia.  
Ma il germe del disprezzo viene da più lontano, o da profondità oscure, in un groviglio inestricabile di impulsi. Di cui Thomas Mann, che pure aveva una formazione e una proiezione cosmopolite,  rilevava nel 1937, nella conferenza “Il problema dell’antisemitismo”, il nodo forse più corposo in questi termini: “La Chiesa Cattolica, signore e signori, ha forse ben ragione quando, per affrontare certe idiozie e rozzezze anticristiane, oggi spiega: solo con l’adozione del cristianesimo i tedeschi sono entrati nel novero dei popoli culturalmente dominanti, Non lo si può negare. Ma col cristianesimo è entrato nella germanicità un elemento mediterraneo-orientale, e il fatto che i tedeschi tentino periodicamente di rinnegarlo, comporta ogni volta un ritorno alla barbarie, al preistorico non-ancora-tedesco ma di ceppo esclusivamente germanico”. Per “Chiesa cattolica” Thomas Mann intende un personaggio specifico, il cardinale Michael Faulhaber, che aveva celebrato il Capodanno del 1933 con questa predica: “I Germani sono divenuti un popolo di cultura nel vero senso della parola solo attraverso il cristianesimo”.  
Di questo risentimento – antimediterraneo, antilatino – è fatto l’antisemitismo, continuava Mann: “A voler ben vedere, l’elemento mediterraneo-europeo-orientale, ovvero l’elemento umano e universale, è indissolubilmente legato a tutta la germanicità storica maggiore, a tutta la cultura tedesca, e lo sarebbe anche se in Germania non vi fosse neppure un ebreo. Ma gli ebrei rappresentano fisicamente questo elemento spirituale nella realtà tedesca, lo rappresentano nel sangue e nella razza, direi quasi nella persona”. Ragionamenti che sembrano frescacce, e lo sono, ma non in Germania evidentemente. Continua Mann, a proposito di ebrei e “mediterranei”: “Quella che viene chiamata la loro componente «internazionale» non è altro che la componente europea e mediterranea, elemento inalienabile della cultura e della civiltà tedesca”. Inalienabile ma subordinato: “L’odio che di tanto in tanto esplode fra i tedeschi nei confronti degli ebrei non è rivolto, dal punto di vista spirituale, agli ebrei stessi, o perlomeno non solo a loro: è il tentativo impossibile di espellere dall’essenza della cultura tedesca un elemento che vogliamo ritenere oscuro ed estraneo, anche se è proprio quello che illumina, plasma, quello umano, ovvero l’elemento mediterraneo, i cui rappresentanti di sangue in Germania sono gli ebrei”.

Questione ebraica – C’era una “questione ebraica” in Germania ben prima di Hitler. Questo è noto e rilevato. Non si dice invece che In Germania gli ebrei sono sempre stati un problema. Non c’è nella letteratura italiana – né francese, o inglese, o spagnola – niente di comparabile alle invettive e alla trattatistica antiebraica tedesca. Da Lutero all’illuminismo tedesco (ne è vittima Heine), al romanticismo fino a Wagner, e all’ondata senza riserva della prima metà del Novecento, i trentatré anni prima di Hitler compresi. Il fatto non si rileva nella storiografia dell’antisemitismo, ma ne è il dato più evidente.
Nel 1921, dopo il putsch fallito di Hitler in birreria a Monaco, Thomas Mann sosteneva che “la bestialità della svastica è una goffa espressione popolare”, frutto del  “clima culturale reazionario in cui ci troviamo”. Ma non era diverso nel 1911, e nel 1901, e prima. Nello stesso 1921 gli studenti a Monaco e in altre città oltraggiarono “l’ebreo Einstein” in quanto premiato col Nobel.
In parallelo c’è un saprofitismo incontenibile degli ebrei nel germanesimo. In più gran numero, senza confronto con altri mondi, sono accorsi nelle terre tedesche dell’Est – in parte ora polonizzate ma tedesche storicamente – e tuttora accorrono nella Germania riunificata. Anzi, non un saprofitismo, un’identificazione orgogliosa. Fino a farsi una lingua parallela mutuata dal tedesco  - la seconda lingua in Israele dalla guerra del Kippur in poi, in precedenza la prima. In Italia abbiamo – avevamo – l’ebraico romanesco, ma non come linguaggio ghettizzato, parte del  dialettismo corrente.

Tribù - “Gli ebrei erano anzitutto una tribù”: lo sosteneva Aharon Appelfeld, come lo ricorda “The New Yorker” nel numero di sabato. Appelfeld, che il 3 gennaio è morto di 86 anni, professore emerito di Letteratura all’università Ben Gurion, era arrivato in Israele sul finire della guerra adolescente.  Solo, avendo perso in guerra e nei lager i genitori e i nonni, ma a suo agio in un paese animato dal sionismo, con un’anima socialista, nei kibbutz e fuori.  E a sedici anni fece la guerra del 1948, per la creazione dello stato di Israele.
La rivista ripubblica un articolo di Philip Gourevich di dieci anni fa, che richiamava una conversazione con lo scrittore una ventina d’anni prima. Israele in quegli anni era secolare, agraria, collettivista. “Era molto socialista-realista”, ricordava Appelfeld: “Era un elemento spirituale, ma poi sparì. Poi fu denaro e denaro, sempre di più, nessuna meraviglia che la gente si sia trincerata nella religione. È parte della ricerca di un’identità ebraica. Il sionismo da solo non lo offre più, il senso di un progetto”. Ed emerge il fatto.
“Gli ebrei erano anzitutto una tribù”, argomenta Appelfeld: “’Nazionalità’ è una parola che non era mai usata dagli ebrei. Eri ebreo oppure non lo eri. La parola la introdusse il sionismo. Il sionismo lavorava per la normalità. Diventiamo come i francesi o gli inglesi. Il sionismo creò una visione limitata dell’ebreo, come qualcosa che è solo qui – la nuova nazione, il nuovo ebreo. Per cui non si capisce più la diaspora – il sionismo non la concepiva – e questo è sbagliato. Perché la storia ebraica è una  storia di diaspora, e questa è una nazione di immigrati. Separarsi intenzionalmente e internazionalmente dagli altri ebrei è una stupidaggine”.
Ma, poi, Israele ha perso il senso di quell’identità, argomentava lo scrittore. Due generazioni sono cresciute nel vuoto, perché i genitori non volevano assolutamente avere un passato. Giusto un nome, ma non una provenienza, un’appartenenza, una memoria, sia pure di rigetto o denuncia dei campi nazisti. Quel vuoto è stato riempito dall’ortodossia religiosa. Che, Appelfeld non lo dice, ma è il nuovo mastice tribale, sotto forma di clericalismo.

Usa-Israele – La “dichiarazione Trump” il 6 dicembre, di riconoscimento formale di Gerusalemme quale capitale d’Israele non è la prima intromissione unilaterale degli Stati Uniti nella breve storia dello Stato ebraico. Il 19 marzo 1948, in piena guerra per la creazione della nuova entità, presidente Truman, segretario di Stato Marshall, gli Stati Uniti tolsero d’improvviso l’appoggio alla creazione di Israele. Un comunicato del Dipartimento di Stato misconobbe il riconoscimento del piano di suddivisione della Palestina in due Stati, uno arabo e uno ebraico. Successivamente, il fatto fu riconosciuto.
Nell’estate del 1956 fu la volta del generale Esisenhower, da presidente degli Stati Uniti, che rovesciò l’esito della guerra di Suez. Al colonello Nasser, uomo forte dell’Egitto postmonarchico, che aveva nazionalizzato il canale di Suez, Israele rispose, col sostegno di Francia e Gran Bretagna, occupando militarmente il Canale. Il generale Eisenhower costrinse l’alleanza israeliana al ritiro..

astolfo@antiit.eu 

Problemi di base di affari - 388

spock

Eni, Saipem, Finmeccanica, chi inquisisce gli inquirenti milanesi?

Chi denuncia le pratiche corruttive delle aziende italiane, e per conto di chi?

Chi raccoglie queste denunce senza prove e senza pezze d’appoggio, e perché?

La liquidazione coatta dei crediti deteriorati imposta dalla Bce alle banche italiane ha favorito i mediatori degli stessi: è una coincidenza?

Chi controlla i controllori a Bruxelles e Francoforte, o la corruzione è libera ai vertici Ue?

Dobbiamo abbattere l’euro per non dispiacere a Soros, ma gratis?

Hedge Fund, fondo margini, o fondo copertura: di quale ‘ndrangheta?

spock@antiit.eu

Le masse a 5 Stelle

Il saggio di Ortega y Gasset si applicava al fascismo, allora (1929) limitato peraltro all’Italia, ma sembra un tema di oggi. Continua nel Millennio la deriva dall’Ottocento, “quest’epoca grandiosa nella sua produttività”, Th. Mann (“Attenzione, Europa!”), che ha caratterizzato il Novecento – tutto il Novecento, anche la seconda parte, dell’idoelogia dominnte comunista. L’emergere e l’affermarsi dell’uomo-massa è caratteristicamente della rete. Non per come è nata forse (era una rete militare) ma per come si è assestata e viene gestita.
La rete ha questo di nuovo come connotato politico – al di là cioè del balzo tecnologico che comportano l’elettronica e la fotonica, dalla comunicazione alla sanità: è un incubatore dell’uomo-massa. Che molcisce e polisce come Personalità Autorevole, in dosi millesimali, placebo. La chiave è la deriva ultima – l’esito migliore – del movimento 5 Stelle: calpesta la democrazia politica (liberale), o meglio la sfrutta per distruggerla.
Il riferimento è inevitabile, scorrendo questo saggio di novant’anni fa. La perplessità su un  movimento che si presenta come l’utopia della democrazia ma di fatto è autoritario. Frantuma per meglio dividere e controllare, non per fecondare. Un’utopia democratica singolarmente improduttiva, di idee, azioni, proposizioni. Di fatto un’articolazione pulviscolare di facciata, per un’ossatura autoritaria, per il culto del capo, la comunicazione verticale, le scomuniche senza legge.
Ortega y Gasset, La ribellione delle masse

lunedì 8 gennaio 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (350)

Giuseppe Leuzzi

Eugenio Scalfari elogia senza riserve Minniti nel suo sermone dell’ultimo dell’anno su “la Repubblica”. Per tantissimi motivi, tutti molto lusinghieri:
Tanti, eccetto il più importante: che Minniti è calabrese, quale al fondo l’affettuoso Barbapapà si sente, per i ricordi d’infanzia e gioventù, nella memoria del padre.

C’è più liquidità al Sud che al Nord. Al Sud che ha un reddito medio pro capite dimezzato rispetto a quello di Milano? Si fanno di queste statistiche strane, ma non contraddittorie. La liquidità è maggiore non sul reddito medio ma su quello dei lavoratori dipendenti. Che al Sud hanno più risparmi. Il costo della vita è minore. Più nelle aree non urbane, essendo le società meridionali più prossime all’economia di sussistenza: produzione\consumo, assistenza familiare (madri, sorelle), casa di famiglia. Quest’ultima, l’abitazione gratuita, è il cespite primo del risparmio, sia pure a costo per molti di ore di pendolarismo quotidiano, da e per i centri di impiego. Un impiegato a Milano conta i centesimi, a Reggio Calabria è abbiente.

Mori i martiri di Milano
Vittore, Nabore, Felice, i primi pii Mediolani Martyres, dice sant’Ambrogio nell’inno che loro dedica, erano solo ospites, Mauri genus, “di stirpe mora, nel nostro territorio ospiti”, “e nella nostra patria stranieri”, terrisque nostris advenae. Potrebbero ora autorizzargli una moschea. Una vera, non un garage.
Anche sant’Agostino, altro immigrato da giovane, dev’essere satto un po’ moro.
Sant’Ambrogio già peraltro sapeva, nello stesso inno ai martiri, che “per l’uomo la fede è uno scudo\ e morte il trionfo”. Vescovo democratico, scelto dal popolo, già ne conosceva gli umori leghisti?

L’etnicità limita
Tornano a proposito di Philip Roth, che entra nei “Meridiani”, e dell’ultimo Auster, “4 3 2 1”, della letteratura ebraica sugli ebrei, i romanzi, il teatro, gli stessi film, i dubbi sulla sua valenza. Non letteraria o estetica – questa è scontata, poiché se ne parla. Ma di opportunità, e anche di scelta di vita.
“Piccolo mondo ebraico” titola “Il Sole 24 Ore” la presentazione che Luigi Sampietro fa di Philip Roth, massimo rappresentante attuale di quella letteratura – della sua consacrazione nei Meridiani. Uno che per cinquant’anni ha riscritto lo stesso libro. Da “genio della scrittura che porta a spasso i lettori al guinzaglio”. Ma sempre sul “sogno di ripudiare e allo stesso tempo rimanere attaccato all’universo ebraico e provinciale nel quale era cresciuto”. Uno che mette in piazza, a suo dire, “segreti tribali”.
Non un rifiuto ma una rivolta, contro una condizione opprimente: il dover essere ebreo in ogni piega. In un nodo di relazioni segnate dall’ebraismo come in un ghetto aperto. Volontario ma astringente: psicologico, mentale. Una sorta di tribalismo. Non necessitato, al punto che P.Roth può esercitarvisi con l’umorismo, e anche col sarcasmo – i suoi romanzi sono un ginnastica vertiginosa attorno a un punching-ball di totem e tabù familiari, etnici.
La letteratura etnica non è quella delle origini, o della differenza – rispetto al mainstream, in termini americani, al linguaggio dominante. Alla maniera, per dire, degli americani italiani, Talese, Fante, Di Donato, lo stesso Puzo malgrado le semplificazioni a effetto del “Padrino” – o Frank Sinatra, o Frank Capra, Coppola padre, Scorsese. È una letteratura chiusa in sé e specifica, di tematiche ebraiche – gli interdetti alimentari, l’ortodossia e il conservatorismo (due correnti revivalistiche), la figura del Cristo, la chiusura etnica (tribale). Che ora va, ha un mercato, ma si configura circoscritta, perfino singolare.
Aiuta a mettere il caso a fuoco lo stesso Philip Roth con la raccolta di racconti “Goodbye, Columbus”, che a 28 anni lo consacrò grande letterato.  Tutti su questo suo rifiuto-inclusione che lo caratterizzerà, eccetto uno. Il racconto non ebraico, “Non si può giudicare un uomo dalle canzoni che canta”, è sugli italiani della scuola, due ragazzi del riformatorio e un professore comunista: è il racconto di un altro mondo. Non nel senso della separatezza, della diversità. Ma di una diversità senza complessi: sono italiani, parlano, pensano, agiscono, ma non se lo dicono, non lo sanno, non stanno a compitarlo. 
Come tutto certo, il troppo stroppia: il tribalismo fa male come lo sradicamento – per esempio la letteratura di Baricco e i suoi epigoni, senza luoghi, senza persone, senza anime.

Rifiuti tossici
Mercoledì brucia una vecchia fabbrica-discarica di plastiche e “rifiuti vari di difficile definizione compattati e steccati lì da tempo”, nei pressi di Pavia, a Corteolona e Genzone.  Le scuole vengono chiuse per una settimana, a Corteolona e Genzone e in altri comuni limitrofi, i vigili del fuoco sanno che si tratta di rifiuti tossici, c’è un’inchiesta giudiziaria. Ma la cosa non fa notizia sul “Corriere della sera” giovedì. Nemmeno una breve. Né i giorni successivi.
Dopo le discariche di rifiuti tossici in Toscana, a Massa e a Livorno, nemmeno la diossina a Pavia fa notizia. A meno che non c’entri un domani, magari solo per indizio, anche in posizione ancillare, un mafioso, un meridionale qualunque, anche di seconda generazione, di terza.
C’è corruzione, abuso e violenza dappertutto in Italia ma sui giornali e in libreria solo al Sud. A opera di scrittori meridionali, prevalentemente. C’è caporalato anche al Nord, ma per i sociologi, specie i meridionali, solo al Sud. C’è mafia, bastino la droga, la prostituzione, il lavoro immigrato, ovunque in Italia, anche a Belluno per dire, o a Rovigo, ma per i meridionali intelligenti solo al Sud.  Bisognerebbe aprire al Sud le porte del Nord? No, c’è libertà di circolazione da sempre, e perfino di residenza. No, è l’esercito dei raccoglitori d’immondizia per i caporali dell’editoria del Nord.

Dalla chiesa alla ‘ndrangheta
Il cordax o cordace, danza che wikipedia apparenta alla tarantella, Umberto Eco fa ballare in “Baudolino” a una prostituta, in chiesa. Un prestito, dirà dopo (nella raccolta che ora si pubblica di conferenze “Sulle spalle dei giganti”), da Dmitrij Merežkovskij  il profeta del simbolismo in Russia prima della rivoluzione di Ottobre, autore di romanzi filosofici di immenso successo ai primi del Novecento, anche in Francia, a Londra e in Italia fino alla guerra. Un prestito da un romanzo da lui letto da ragazzo, “Giuliano l’Apostata”. Ma in chiesa si balla, si ballava fino a ieri – fino al 2015, a Polsi, come nell’antica Grecia, si ballava nel recinto del tempio

Merežkovskij lo fa ballare nel cap. VI, sull’uscita notturna di Gallo, il fratello maggiore di Giuliano, travestito da vecchio Agamennone per le vie di Seleucia in Siria – un episodio ispirato al “Satyricon” di Petronio. In un night-club fa seguire al giocoliere una ballerina nubiana slanciata, flessuosa, “una fanciulla quindicenne, per eseguire un cordax, una danza famosissima molto amata dal popolo”.  Benché condannata dalle “autorità ecclesiastiche” e proibita dalle “leggi romane” – Merežkovskij non dice perché: perché ritenuta “liberatoria”, degli umori e quindi degli istinti. La ragazza crotalistria, suonatrice di  crotali, o nacchere, è “agile, sottile, velocissima come un serpentello”. Danza prima svogliatamente, poi sempre più rapida, fino a un’acme, seguita da un improvviso silenzio, dei crotali e delle lire. Poi non disdegna di accompagnarsi a Gallo.
È il cordax – che usa anche al femminile, la cordace - il progenitore della tarantella? Non si può sapere, non si sa nulla, o quasi, della musica greca. Del cordax si sa giusto che è il ballo che intervalla le commedie greche. La giornalista Maria Barresi fa derivare la tarantella dal cordax nella sua tesi di laurea, ma fa anche della tarantella, chissà perché, il ballo della mafia, “Il Kordax dalla Grecia alla mafia”.
Con più probabilità la tarantella deriva dal sikinnis, il ballo dei satiri, anch’esso come il cordax inteso a propiziare la Fertilità. Il cordax, un ballo mascherato, è detto dai testi antichi “lascivo”, “sguaiato”, “osceno”, mentre il sikinnis, detto “vivace”, “rapido”, “vigoroso”, al più “sapido”, risponde meglio alla tarantella aspromontana, che si balla in coppia, variamente assortita da un maestro di ballo tra i partecipanti disposti in circolo – “quando c’è ruota c’è festa”, dice il maestro Battaglia, dell’Associazione dei Suonatori di Cardeto.

leuzzi@antiit.eu

I turbamenti del giovane Musil

La storia di un amore di testa. Dell’autore ventenne in villeggiatura in Stiria. Per la bella del luogo. Una storia non vissuta, e nemmeno scritta.
La bella è esistita, ha un nome, Valerie Hilpert, e una identità: già di ventotto anni e ancora nubile, poi sposata insegnante di pianoforte a Monaco, dove vivrà fino al 1949, dell’autunno 1900 a Schladming conservando un album di ricordi, nel quale Musil figura avere vergato una frase lusinghiera tratta da Nietzsche. Darà il nome ai “pensieri Valerie” dei “Diari” e al fondo dell’“Uomo senza qualità”. Ma non ebbe altri contatti col futuro scrittore. Che nel 1900 aveva 19 anni, e se ne stava rintanato in albergo, affascinato da Nietzsche. Poi si figurò un romanzo d’amore e lo propose a vari editori, da Cotta in giù. Ma senza scriverlo. Se non per “pensieri veloci”. Appunti sparsi. Ma in qualche modo ordinati, filanti. Pregni. Già “professionali”, niente di adolescenziali. Poi dispersi e ritrovati solo di recente.
La pubblicazione, con originale a fronte, si giustifica con la scoperta. Ma anche, bisogna dire da lettori, per la impressionante maestria della narrazione, per quanto immatura o acerba la materia possa presentarsi al filologo. Specie nelle due “sezioni” del progetto che sono già formate: “Monsieur le Vivisecteur” e “Dal secolo stilizzato”. Racconti brevi, da sceneggiatura filmica, che sostanziano però situazioni, figure e personaggi di straordinario effetto, a tutto tondo, non visivamente piatti. Di cui “L’uomo senza qualità” perpetuerà gli echi.
La storia è anche la storia della pubblicazione. Sono scene, immagini, riflessioni, lettere non inviate, neppure scritte se non per “oggetto” e poco più. Che nascevano dal bisogno, scriverà Musil altrove, di salvarsi da un innamoramento risentito come la “morte dell’anima”. Come poi nel Grande Romanzo – anch’esso incompiuto. Da Grande Amante, dirà in altra nota, quali “Cristo, Budda, Goethe – e io stesso, in quei giorni d’autunno nei quali amavo Valerie”, più Nietzsche e Peter Altenberg, aggiunti alla lista in altro appunto. I Grandi Amanti “non cercano la verità, ma sentono che qualcosa in loro si salda in un insieme”. Con altre prose suggestive a seguire: “È qualcosa di puramente umano – un processo naturale. E costoro possono confrontare e soppesare le intuizioni, perché il nuovo che cresce in loro è esigente fin dalla radice”.
Ma è di Nietzsche che si parla, citandolo, parafrasandolo – Musil è Nietzsche, dice De Angelis, più Peter Altenberg. Il Vivisecteur - parola e personaggio – ricalca da Nietzsche. Ed è già, sarà, l’uomo senza qualità, Musil stesso musiliano: ”Monsieur le vivisecteur – Io! La mia vita: le avventure e i vagabondaggi di un vivisettore di anime all’inizio del ventesimo secolo!” (81). Un chiaroveggente, uno che “in tutte le cose guarda oltre la forma in cui si mostrano vestite e fiuta i misteriosi processi di un’esistenza nascosta” (93).
Meglio il volume si legge per le prime 50 pagine, l’ampia introduzione di Enrico De Angelis, che rintraccia Valerie nei lavori preparatori dell’“Uomo senza qualità”, poi sdoppiata nel Grande Romanzo in Bonadea, l’“amante sentimentale”, e nella Moglie del maggiore. Il romanzo del non romanzo - la filologia sarà oggi la sola forma narrativa residua di qualche interesse.

Robert Musil, Parafrasi, Bur, pp. 159 € 9

domenica 7 gennaio 2018

Problemi di base dimaieutici - 387

spock

Di Maio dopo Di Pietro, le disgrazie italiane sono genitive?

Di Maio dopo Di Pietro, il genio italiano è satirico?

È disfattista, castrante?

Di Maio dopo Di Pietro, la tv (Rai) è afflizione?

Di Maio dopo Di Pietro, o dell’inutilità delle scuole?

È la democrazia un gioco di demolizione?

È l’Italia nichilista, che sempre si tuffa e razzola nel nulla?

spock@antiit.eu

Thomas Mann ebreo

Una raccolta per thomasmanniani, degli scritti e interventi su Hitler. Dapprima perplessi, poi via via più critici. Anche per impulso dei figli, e per effetto della decadenza dalla cittadinanza tedesca che il regime gli impose nel 1936. Sotto il titolo del più importante di questi interventi, quello che rifiutava Hitler ma non si assolveva, non assolveva i tedeschi.
Una lettura scontata, non fosse perché documenta l’esistenza di una “questione ebraica” in Germania ben prima di Hitler. Di una testimonianza scialba. Se non come selfie, riconoscimento autobiografico, e più di fatto, nella semplice esposizione e critica degli eventi, che come professione di fede, sempre debole . “Ho prestato servizio al mio tempo” è il Th. Mann che Anna Ruchat, critica, pone in epigrafe alle sue proprie considerazioni. In tanti prestarono servizio al tempo, inevitabile. Ma non tutti da nazionalisti bruti. Specialmente bruti se cosmopoliti di formazione. Per esempio, Heinrich Mann, fratello di Thomas. Specialmente se, come Th. Mann, dice Ruchat, “profondamente consapevole fin dai suoi esordi del ruolo di rappresentanza che vuole interpretare nel panorama della letteratura tedesca” – “l’intento di imitare, a volte addirittura di incarnare, il grande Goethe… Un impegno di donchisciottesca attorialità”. Che culmina nell’ambiguo, volutamente ambiguo, “Fratello Hitler”.
Con molte pointes illuminate e illuminanti. “Il tipico è il mitico”, a proposito del suo Giuseppe. O l’arte come esercizio “magico-lunare”. Del tipo spiegato da Bachofen nello studio degli antichi, che il “magico astro” consideravano “sacro per la sua ambivalenza”, la luna concependo “come elemento femminile in rapporto al sole, ma elemento generatore maschile rispetto alla terra” – “il più impuro dei corpi celesti ma il più puro, il più «casto» di quelli terreni”. Giuseppe, che ha avuto lo spirito del cielo e quello della terra, è “l’artista”: “L’arte esercita una intermediazione magico-lunare”. 
Anche qui Thomas Mann avoca l’ironia quale suprema forma di espressione: “Quell’ironia nella quale ho individuato da tempo l’elemento originario di ogni arte e di ogni creazione spirituale”. Ma per scusarsi senza scusarsi. Per Hitler professando “una certa disperata ammirazione”. Riconoscendolo “fratello” per “la singolare bellezza di quest’uomo isterico di grande effetto”. 
Senza attenuanti. Nel 1938, dopo Monaco, scrive della “cosiddetta «annessione» dell’Austria al Deutsches Reich”. Con la scusa che riconoscersi è “migliore, più sincero, più onesto, e più produttivo dell’odio”. Mentre non ha rispetto per Wagner, “artistico incantatore dell’Europa, che ncora Gottfried Keller chiamava «barbiere e ciarlatano»”.
Ancora nel settembre 1942, parlando alla Bbc dello sterminio degli ebrei, apre una nota di credito alla Germania hitleriana: “All’inizio c’era ancora una parvenza di misura e di senno”. Anche se erano stati aperti centinaia di campi di concentramento per i politici degli altri partiti, e si era decretato il licenziamento dei dipendenti non appartenenti al partito nazista e dei “non ariani”.
Sul tema specifico, è commoso e commovente nel ricordo dei compagni ebrei alle elementari. Ma non molto di più. L’autore dei “Buddenbrook”, della “Montagna magica”, del “Dr. Faustus”, è fuori contesto? Lo è. Ma è ben tedesco. Ben dentro la “questione ebraica”. Che è tedesca da almeno sei secoli. Da lui agitata in “L’eletto”, “Sangue velsungo” e altri scritti – seppure con l’ironia, certo.
L’interesse della raccolta è là dove Thomas Mann deve spiegare che lui stesso non è ebreo, e lo fa con veemenza, l’indicazione essendo un’accusa evidentemente grave.
Negli anni 1910, quando il giovane Thomas Mann era divenuto d’improvviso una celebrità col successo dei “Buddenbrok”, e poi negli ani 1920. Il successo scatenò il saprofitismo dei molti che sempre si agganciano ai fortunati e felici. Che contro Th. Mann non trovarono altro che dirlo un ebreo – camuffato, mezzo, un terzo, un quarto, etc.. Accusa evidentemente insidiosa se Th.Mann, ecco la curiosità del libro, per la metà di esso deve spiegare e giurare che non lo è. Reiteratamente. Che una bisnonna lo era per un quarto – forse. Che la moglie nasce in una famglia ebrea ma battezzata da due generazioni. Che “Giuseppe e i suoi fratelli” non è un’epopea “ebraica”. Etc. In più punti litiga feroce con Theodor Lessing, un pubblicista ebreo non così sgradevole come lo vuole Thomas Mann.

Succedeva a Thomas Mann quello che diceva schietto negli stessi anni Joseph Roth, in “Autodafé dello spirito”: “Dal 1872 in poi i tedeschi non ebrei sono stati perlopiù marescialli, viaggiatori, poeti dela zolla, dilettanti, generali che perdono le guerre, nel caso migliore ingegneri abili”. Da allora, continuava, sono stati ebrei tedeschi a tenere alto l’onore della Germania: “Da sessant’anni gli ebrei tedeschi rappresentano il nome tedesco nel mondo”. Questo è tanto vero, continua, “che in ogni talento non ebreo s’iniziò a fiutare un «ebreo». Si fiutarono «ebrei» nei fratelli Mann, in Eckener, nel regista Piscator, e persino in Goebbels”.
Un documento storico difficilmente contestabile. Anna Ruchat nell’introduzione, e i curatori dell’edizione originale tedesca nelle note, ne sono essi stessi infastiditi. Anche per dover sottolineare i ritardi e i troppi giri di parole dello scrittore. Che pure era già, bisogna aggiungere, premio Nobel.

Thomas Mann, Fratello Hitler, Oscar, pp. 142 € 7,50